Magistratura democratica
cinema e letteratura

Cinque buoni motivi per amare
"La grande bellezza"

di Donatella Salari
Giudice Tribunale di Roma
“..Non si dà vita vera nella falsa” T. Adorno, Minima Moralia
Cinque buoni motivi per amare<BR>"La grande bellezza"

Capisco che il compito è molto impegnativo, ma vorrei provare a darvi almeno cinque motivi per amare il film “La grande bellezza”, anzi, direi, che è obbligatorio innamorarsi del film, almeno per qualche minuto.

Nella vita rovesciata di Jep- scrittore di successo che ha smesso di scrivere- scorre un tempo apocalittico distruttivo e crudele simile al botulino inoculato con perfidia nella carne stanca di una Serena Grandi devastata (e coraggiosa nel farsi riprendere senza pietà dalla macchina da presa).

Lo sguardo del protagonista opera con inesorabile distacco la dissezione metodica di ogni umanità nei corpi deformati dei personaggi gregari agitati dalla cocaina e più simili, nella loro deformità inconsapevole, a un quadro di Bacon.

Jep Gambardella percepisce, con lo sguardo purgato da ogni illusione, che lui stesso e i suoi compagni stanno viaggiando verso un disordine sgangherato che è molto simile alla morte.

Non sembra che vi sia una via d’uscita, eppure in almeno cinque momenti fondamentali Sorrentino ci suggerisce, in un flusso perturbante percepito come possibile e impossibile nello stesso tempo, che invece una via di scampo esiste, ma dov’è?

Forse la risposta sta nei cinque motivi per i quali possiamo amare questo film, magari vedendolo una seconda volta se ci ha lasciato inizialmente perplessi.

Il primo è quello della non delegabilità di una scelta individuale che il racconto ci propone, ossia la possibilità che ciascuno di noi possiede di ritrovare la propria verità mentre tutti fingono o sono preda di un’allucinazione collettiva che li fa mentire anche a loro stessi: come la giraffa alle Terme di Caracalla che appare e scompare nella notte romana o come la scrittrice “impegnata” la cui fama si basa sul nulla e sulla negazione pervicace della realtà. Ma è un trucco ! dice l’illusionista perché tutto può essere un sogno o un'illusione se non saremo capaci di vivere semplicemente come persone nello sforzo più grande che è quello di essere noi stessi.

Come sottrarsi al tempo apocalittico della fine di tutte le cose?

Jep lo intuisce e questo è il secondo motivo. O con l’arte o con la scrittura e dunque riprendere a scrivere.

Con la spiritualità? Jep interroga ironico ed amaro il religioso mondano e querulo, terzo motivo.

Con l’amore (Ramona) o forse con tutte queste cose insieme nelle quali forse Jep troverà un riscatto individuale se non collettivo, quarto motivo.

Dice Foucault che dobbiamo capire che con i nostri desideri, attraverso i nostri desideri, si creano nuove forme di relazione, nuove forme d’amore, nuove forme di creazione perché il sesso non è una fatalità; è possibilità di una vita creativa.

Pensiamo allora che il film scandisca il tempo messianico del ritorno di Jep alle sue origini e al faro sul mare della sua giovinezza nella speranza, sia pure opaca e indistinta, di ritrovare nella scrittura il soffio vitale dell’esistenza come dice Borges.

L’Io di Jep, uomo di successo, ma fragile nel naufragio di un’intelligenza che si è mortificata nella volgarità triviale del suo tempo si racconta nello sgretolamento della propria identità, ma la sua voce nel racconto non è mai incrinata, almeno fino a metà del film quando, dopo avere descritto con estremo distacco a Ramona (Sabrina Ferilli) i riti dei funerali eleganti scoppia a piangere per davvero davanti alla morte di una vittima senza peccato come il figlio allucinato di Viola (Pamela Villoresi).

Ramona lo osserva e non sa a cosa credere.

La verità di Ramona- che vedeva il mare- poteva essere una risposta alla rinascita morale di Jep ma lei se ne va silenziosamente così come in silenzio è apparsa nel racconto.

Il quinto motivo per amare questo film è che il racconto ci mette soprattutto in guardia contro il nostro vero nemico che è l'apparenza delle immagini e la loro distanza dalla realtà di un mondo che ne è saturo, come l’immagine della spogliarellista che vanamente si agita dietro ad un vetro e che nessuno guarda o come i selfie di Isabella Ferrari piantata in asso da un Jep disincantato ed annoiato.

Per questo Jep riparte dalla scrittura ossia dal punto nel quale si è fermato perdendo se stesso perché ha smarrito le proprie radici come quelle che la Santa usa mangiare in un rinnovato rapporto con una natura benigna dove, ad un suo solo soffio, i fenicotteri si alzano in volo.

Ed allora se il protagonista non sa a chi rivolgerle le proprie domande sulla vita e sul futuro, molti sono i segni disseminati nel film che ci dicono che dei momenti di riscatto possono ancora esistere seguendo il filo degli affetti.

E’ proprio l’affetto che ha guidato il padre dell'artista a fotografare il proprio figlio ogni giorno ed il figlio oggi fotografa, a sua volta, se stesso, ogni giorno, dando sostanza e continuità al loro legame in migliaia di scatti lontane di galassie dalle immagini narcisistiche ed inutili di Isabella Ferrari.

Forse per questo non ci disturba la durezza del protagonista nei confronti di personaggi improbabili vittime della loro stessa notorietà, ma anche della loro mancanza di talento perché dentro di noi sappiamo che Jep dice la verità. Per esempio la dice sulle carriere di alcova di chi non scrittore, ma scrivente, celebra la propria quotidiana assenza nella vera scrittura e nel privato.

Il valzer riparatore tra Gepp e la pretesa scrittrice non offusca quella verità, la vela solo di un po’ di umanità empatica alle note di Lauzi.

Del resto, la totale assenza di spiritualità cozza violentemente contro l’apparizione della Santa che ci trasmette la trasparenza luminosa dell'essenziale ed il suo tacere diventa silenzio rivelatore.

La platea inguardabile che incalza il tentativo di Jep di sottrarsi al degrado diventa una sola maschera ferma e vuota ed anche la carnalità di una coppia che si esibisce in amplessi artistici e compiaciuti può apparire, per la mancanza di una verità, simile ad una cartilagine di insetti morti in un amalgama senescente di una società perduta in obsolete ed attempate liturgie di festa, veri e truci guardiani di una decadenza sociale dove tutto appare in decomposizione tranne una cosa: Roma e la sua arte, l’aura e la maraviglia antica perché le risposte che cerchiamo saranno sempre nell'Arte intrecciata alla Bellezza.

Tutti sappiamo che a Roma neanche il tempo brutto riesce a svilire la Grande Bellezza, ma il paradosso dell’io separato da ciascun individuo fa sì, come l’immagine di apertura del film suggerisce, che solo un'orientale possa oggi svenire colto dalla stessa sindrome di Stendhal davanti alla cappella Niccolini in Santa Croce, non certo l'autista del pullman turistico che, indifferente a tanta bellezza, appare solo impegnato in un ordinario turpiloquio telefonico.

Jep sa anche che per ricominciare occorre liberare l'emozione di un ricordo che ritorna e che lo incalza e che continuamente lo mette in contatto con se stesso e con quella parte della sua vita solo apparentemente rimossa.

Ma per ritornare indietro non bastano le perplessità disincantate del protagonista, ma occorre una spinta emozionale forte che può venire solo dall'arte e dal dono di sé attraverso il sacrificio della propria vita in favore degli altri, come sembra suggerire la figura della Santa che letteralmente occupa, quasi fosse lì precipitata – come in quadro votivo per grazia ricevuta - la stanza di Jep.

Scrivere o perire sembra dirsi il protagonista incalzato dal colossale fagotto di sciocchezze e banalità che lo accerchia, come le ricette di cucina del prelato esorcista che non comprende le parole inconsapevoli di un'urgenza di spiritualità che il protagonista gli rivolge e che benedice credendolo indemoniato, oppure l’improbabile performance autolesionista dell’artista che prende la rincorsa contro il muro di un antico acquedotto romano, in un’approssimata ed incolta espressione di arte senza opera.

Il film si chiude con un colpo di teatro come l’arresto del vicino di casa di Jep, mafioso e latitante elegantissimo.

E che il disimpegno e l'indifferenza nei confronti degli altri non riguardi soltanto la nostra responsabilità individuale, ma un’intera società in caduta libera si esprime nell’urgenza di una frase che il latitante appena ammanettato rivolge a Jep e che c’impegna tutti: “Mentre lei si divertiva io mandavo avanti il paese”.

 

22/03/2014
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