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Giurisprudenza e documenti

Come interpretare la disciplina “di risulta” dell’art. 73 dpr 309/90 dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014?

di Fabrizio Filice
Giudice del Tribunale di Novara
L'autore affronta gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità, tra cui la "sopravvivenza" dell'art. 73, comma 5, DPR 309/90, e della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità
Come interpretare la disciplina “di risulta” dell’art. 73 dpr 309/90 dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014?

La recentissima sentenza  della Corte Costituzionale  n. 32/2014 del  12.2.2014 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, che regola la procedura di conversione dei decreti-legge – degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, così rimuovendo le modifiche apportate con le norme dichiarate illegittime agli articoli 73, 13 e 14 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla disciplina sanzionatoria dei delitti concernenti gli stupefacenti.

L’effetto della declaratoria di incostituzionalità, come noto, è quello di determinare la «reviviscenza» delle previgenti fattispecie delittuose  e delle relative tabelle che – nel sistema vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 49 del 2006 – prevedeva un diverso trattamento sanzionatorio per le condotte illecite aventi ad oggetto le c.d. «droghe pesanti» (art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309/1990 e “reviviscenti” tabelle I e III dell’art. 14) e le c.d. «droghe leggere» (art. 73, comma 4, D.P.R. n. 309/1990 e “reviviscenti” tabelle II e IV dell’art. 14).

La sentenza della Consulta avrà effetti che debbono essere differenziati, in relazione al tipo di sostanza che costituisce oggetto materiale della condotta illecita.

Le questioni sono, poi, ulteriormente complicate dall’entrata in vigore del d.l. n. 146 del 2013 (convertito con legge n. 10 del 2014), che introduce – quale fattispecie autonoma di reato – una nuova ipotesi di reato di «spaccio» di lieve entità, che, però, a differenza di quanto avviene per i «fatti non lievi» non contempla la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti.

Occorre allora tentare di procedere con ordine, analizzando quali possano essere gli effetti della sentenza della Consulta, in relazione ad alcuni tra i molti problemi che si pongono.

 

DROGHE PESANTI

La “reviviscente” disciplina sanzionatoria comporta l’aumento del minimo edittale per i casi “di non lieve entità”, previsti dall’art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309/1990, tornandosi alla cornice edittale da 8 a 20 anni di reclusione e da  euro 25.822 a euro 258.228 di multa.

Con riguardo, invece, ai fatti di lieve entità previsti dal comma 5 dell’arto 73 D.P.R. n. 309/1990, la disciplina “reviviscente” va coordinata con la riforma dell’art. 73 co. 5 portata dal decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito – in parte qua senza modifiche – dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, che prevede il ridisegno della fattispecie come fattispecie autonoma di reato, punito con cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione (più favorevole della disciplina “reviviscente”,  che prevedeva la cornice edittale da uno a sei anni di reclusione).

Quindi, per quanto riguarda  i fatti previsti dal comma 5 aventi ad oggetto “droghe pesanti” la nuova disciplina risultante dalla lettura coordinata degli effetti demolitori della pronuncia costituzionale e della nuova formulazione della fattispecie, porta ad attestare che si tratta di una fattispecie autonoma di reato con cornice edittale da 1 a 5 anni di reclusionee multa da euro 3.000 a euro 26.000.

 

DROGHE LEGGERE

Con riferimento agli stupefacenti  catalogabili, secondo le “reviviscenti” tabelle II e IV dell’art. 14 come  “droghe leggere”, i ragionamenti da espletare sono diversi e, per molti versi, più complessi.

Anzi tutto la disciplina sanzionatoria  per i casi “di non lieve entità” previsti dal reviviscente art. 73, comma 4, D.P.R. n. 309/1990, comporta il ritorno alla cornice edittale da 2 a 6 anni di reclusione e da euro 5.164 a euro 77.468 di multa.

Con riguardo, invece, ai fatti di lieve entità aventi ad oggetto “droghe leggere” sanzionati dal comma 5 dell’art. 73, la “reviviscente” disciplina sanzionatoria ante novella del 2006 deve essere coordinata  con la riforma dell’art. 73 co. 5 portata dal decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito – in parte qua senza modifiche – dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, che prevede il ridisegno della fattispecie come fattispecie autonoma di reato, punito con cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione, e che prevede, dunque, una cornice edittale più grave delle pene “reviviscenti” (da sei mesi a quattro anni di  reclusione;  come tale, peraltro,  sopravvenuta insuscettibile di applicazione della custodia in carcere, ex art. 280, co. 2, c.p.p.,  come riformato dal D.L. 78 del 1° luglio 2013, conv. Da L. 9 agosto 2013, n. 94).

 

Tale coordinamento può essere orientato secondo due linee interpretative, antagoniste ed equiprobabili.

La prima è quella di ritenere che la riformulazione dell’art. 73/5, di fatto prevedendo una nuova figura di reato, in sostituzione della precedente circostanza attenuante, abbia sostituito l’enunciato che, giusta la pronuncia della Corte, andrebbe a “reviviscenza”;  sì che, sul punto, la pronuncia della Corte sarebbe tam quam non esset e, anche per quanto riguarda le “droghe leggere”, i fatti del co. 5 ricadrebbero ora sotto la nuova fattispecie autonoma di reato, con cornice edittale reclusione da 1 a 5 anni  e multa da euro 3.000 a euro 26.000.

La seconda  parte invece dal presupposto che la Corte ha espressamente inteso abrogare ogni processo di “riunificazione” delle discipline di droghe leggere e pesanti, in quanto la legge di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, Legge 21 febbraio 2006, n. 49, ha violato l’art. 77, secondo comma, Cost. sotto il profilo del difetto del requisito di omogeneità e  del nesso di interrelazione funzionale richiesto dalla citata disposizione costituzionale. Sì che è giocoforza ritenere che  il successivo  decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito – in parte qua senza modifiche – dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, in quanto poggiava sulla già avvenuta riunificazione sotto unica  categoria  delle discipline di droghe leggere e pesanti, abbia reiterato, “a catena”,  lo stesso vizio, ma non già sotto il profilo del ridisegno della fattispecie come fattispecie autonoma di reato, bensì sotto quello dalla mancata previsione di due cornici edittali diverse, una per le droghe pesanti e una per le droghe leggere. Onde, la soluzione in via interpretativa – e in attesa di un opportuno coordinamento del Legislatore, che ha perso, “in corsa”, l’occasione della legge di conversione – non potrebbe  che essere quella di ritenere l’attuale previsione del comma 5 nella sua odierna formulazione, anche per le “droghe leggere”, una fattispecie autonoma di reato, ma assistita  dalla  cornice edittale “ reviviscente” da 6 mesi a 4 anni di reclusione e da euro 1.032 a euro 10.329 di multa.

 

ANALISI E CONCLUSIONI

- Nell’orientarsi tra le due scelte interpretative, va considerato che, a favore della seconda, milita la considerazione, di ordine logico, che, ove si mantenesse, - per i fatti “di non lieve entità” (art. 73, commi 1 e 4) una disciplina che distingue tra droghe pesanti e leggere,  a fronte di un co. 5° che incrimina con sanzione indifferenziata le condotte illecite, si introdurrebbe nel diritto positivo una nota tutt’affatto antinomica per cui la distinzione tra droghe leggere e pesanti si avrebbe per i fatti “non lievi” e si perderebbe “per i fatti lievi” previsti dal comma 5 dell’art. 73 – dandosi,  così,  due fattispecie di reato omogenee sotto il profilo del “ bene giuridico” tutelato, che però rispondono, nella stessa identica azione “a tutela del bene”, a due canoni sanzionatori distinti: il primo,  quello della distinzione tra droghe leggere e pesanti;  e il secondo,  quello della unificazione delle due discipline. 

- Ciò nondimeno, a un’attenta analisi del fenomeno di diritto intertemporale in scrutinio, pare potersi ritenere che la conversione in legge dell'art. 73/5 nuova formulazione imponga di considerare la norma "reviviscente" (73/5 vecchia formulazione) “implicitamente abrogata”[1] dopo la pronuncia costituzionale, e sostituita dal nuovo 73/5 con pena unica.

- Appare, invece, più ostica la via dell'applicare la nuova norma solo con riferimento al precetto - che involge, oggi, un reato autonomo e non più un'aggravante - ma con la cornice edittale vecchia formulazione (da 6 mesi a 4 anni di reclusione, oltre alla multa), in quanto questa operazione integrerebbe, de factola collazione di una  "tertia lex" di creazione pretoria;

- Aggiungasi che, sul piano formale,  il “nuovo” art. 73 comma 5 D.P.R. n. 309/1990 non può ritenersi travolto “ a cascata” dalla pronuncia costituzionale ex art. 27 L.87/53, anzi tutto perché mancherebbe comunque l'esplicita dichiarazione della Corte in tal senso;  e, in secondo luogo, perché,  effettivamente,  il vizio che ha condotto alla declaratoria di incostituzionalità non è di merito (il che avrebbe imposto alla Corte una presa di posizione su una questione decisamente controversa, anche a livello di dibattito politico), ma è “solo” un vizio di natura procedurale attinente all’iter di formazione delle leggi, in conseguenza di che  il nuovo decreto legge (il d.l. n. 146/2013, poi convertito) non presenta lo stesso vizio,  sì da ricadere sotto l'effetto “a cascata" della pronuncia.

Peraltro – e il rilievo appare decisivo - la Corte Costituzionale prende espressamente posizione sul punto e afferma che "rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, oggetto della presente decisione". Restringendo, dunque,  il campo di indagine all'art. 73 t.u. stup., ci pare che il problema concerna due disposizioni: il co. 5, relativo ai fatti di lieve entità, modificato dal legislatore con il d.l.78/2013, conv. con modif. in l. 94/2013; e il co. 5 ter, introdotto con il d.l. 146/2013, conv. con modif. in l. 10/2014.  Ora, come si diceva, con riferimento  all'art. 73 co. 5 nella formulazione modificata dal d.l. 146/2013, il dubbio che tale disposizione sia stata anch'essa travolta dalla sentenza della Corte potrebbe, sì, astrattamente fondarsi sulla considerazione della sua 'disomogeneità' rispetto alle condotte previste nei commi precedenti: mentre infatti queste si articolano sulla distinzione tra droghe 'leggere' e droghe 'pesanti' e prevedono un trattamento sanzionatorio fortemente differenziato sulla base di questo presupposto, il nuovo co. 5 ignora tale distinzione, uniformando il trattamento sanzionatorio per tutte le condotte. Ma la lettura delle motivazioni della sentenza consente di fugare ogni dubbio, e impone di concludere per la sopravvivenza di tale disposizione. Secondo la Corte, infatti, le norme successive alla Fini-Giovanardi destinate a cadere per effetto della dichiarazione di illegittimità sono solo quelle che siano "divenute prive del loro oggetto, in quanto rinviano a disposizioni caducate". Ebbene, il comma 5 dell’art. 73 non risulta affatto essere stata privato del proprio oggetto dalla caducazione degli altri commi dell'articolo: per effetto della riviviscenza della previgente disciplina, infatti, continuano ad essere puniti - anche se con un trattamento sanzionatorio diverso - gli stessi "fatti" ai quali il comma 5 si riferisce. Dunque manca, nel caso del comma 5, quel carattere di 'dipendenza' dalla norma dichiarata incostituzionale, che la Corte pone a base dell'effetto di caducazione a cascata: ciò viene affermato espressamente dalla Corte - e questo è, a ben vedere, l'argomento dirimente - laddove si sottolinea (cfr. par. 3 delle considerazioni in diritto della sentenza) che "gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest'ultima". Dopodiché, sarà naturalmente possibile dubitare della legittimità costituzionale del co. 5, rispetto in particolare al parametro della ragionevolezza ex art. 3 Cost., in ragione della distonia della previsione di un unico quadro edittale per i fatti di lievi entità nel contesto di una norma che ripristina una netta distinzione sanzionatoria tra droghe ‘pesanti’ e ‘leggere’: ma in tanto potrà dubitarsi della legittimità costituzionale del nuovo comma 5, in quanto si riconosca – appunto – che tale disposizione sia tuttora in vigore, nonostante l’intervento ablativo ora compiuto dalla Corte.

- In conclusione, dunque, è da ritenere che il “necessario ripristino della coerenza” - che, di per sé, militerebbe per la seconda  tesi interpretativa - debba necessariamente passare attraverso una nuova questione di legittimità costituzionale; questa volta, però, sollevata sotto il profilo, di merito, del vizio di irragionevolezza (recte “arbitrarietà” della legge), e portando, a tertium comparationis, il 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990 vecchia formulazione.

- Con un esito che, di primo acchito, non sembra poi nemmeno del tutto scontato, anche perché vi sono contro argomenti assolutamente degni: ad esempio il sostenere che il nuovo co. 5 integri una fattispecie autonoma di reato diversa dal co. 1,  in cui possono ricadere tutti i  fatti, di droghe pesanti o leggere, ritenuti dal Giudice - con l’esercizio di una discrezionalità non meramente “classificatoria” ma proprio di tipo “ordinale” -  “lievi”,  sulla base di parametri fra cui anche, ma  non solo, il dato qualitativo.

- Inoltre, potrebbero divisarsi difficoltà motivazionali nel sostenere la rilevanza concreta della nuova questione, quantomeno in fase di giudizio: il Giudice dovrebbe, infatti, argomentare che, nel caso specifico, sarebbe equa una pena al di sotto dell’anno (eventualmente già diminuito a 8 mesi in forza delle attenuanti generiche), il che, per un fatto di cessione di stupefacenti, per quanto lieve, appare quantomeno controvertibile; o, al contrario, dovrebbe argomentare che intende irrogare la pena massima, ma che il massimo è troppo elevato, in quanto anziché comminare, ad esempio, 5 anni di reclusione, vorrebbe comminarne 4; al che la Corte potrebbe rispondere che, se così è, il Giudice può comminare 4 anni comunque; e dichiarare così l’infondatezza della questione, degradandola mera petitio principii affetta da difetto di rilevanza.

Probabilmente, sotto quest’ultimo profilo, la questione sarebbe più agevolmente sollevabile dal GIP in fase cautelare, in quanto, al di sotto dei 5 anni, non ci sarebbe più titolo custodiale: il GIP potrebbe trovarsi, vale a dire, di fronte a una situazione in cui solo la custodia in carcere appaia adeguata o praticabile e appaiano, invece, inadeguate, o non praticabili, le non detentive (sempre in punto rilevanza della questione); in questo caso si potrebbe sollevare la questione sotto il profilo della “ragionevolezza” della pena unica: in quanto, in caso di distinzione, basterebbe far scendere il massimo edittale anche al di sotto di un solo giorno dei 5 anni e la custodia sarebbe inibita.

In conclusione, allo stato, e salvo nuove prospettive de jure condendo, l’interpretazione più sicura e solida appare la seguente: l’art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990 (“vecchia formulazione reviviscente”, con annesse tabelle ministeriali di allora); comma 5 dell’art. 73 “nuova formulazione” con pena unica (reclusione da 1 a 5 anni  e multa da euro 3.000 a euro 26.000).

 

I COMMI 5 BIS E 5 TER

L'altra norma successiva a quelle dichiarate incostituzionali sulla cui sopravvivenza occorre interrogarsi è il co. 5 ter dell'art. 73 D.P.R. n. 309/1990, introdotto dal d.l. 78/2013, conv., con modif., in l. 94/2013 (pubblicato su www.penalecontemporaneo.it, nota di A. Della Bella, Convertito in legge il 'decreto carceri' 78/2013: un primo timido passo per sconfiggere il sovraffollamento). Tale disposizione estende l'ambito applicativo della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, già previsto dal co. 5 bis per il tossicodipendente che abbia commesso uno dei fatti di cui all'art. 73 co. 5, anche a reati diversi (con l'eccezione dei delitti di cui all'art. 407 co. 2 lett. a c.p.p. e dei reati contro la persona), purché si tratti di reati commessi "in relazione" alla condizione di tossicodipendenza e purché la pena detentiva applicata sia inferiore ad un anno.

Il punto di partenza è rappresentato dalla caducazione del co. 5 bis, nell'art. 73 proprio dall'art. 4 bis d.l. 272/2005 conv. con legge n. 49/2006.

Su tale caducazione - purtroppo - non è possibile nutrire dubbi, stante l'affermazione perentoria della Corte secondo cui "la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per intero le due disposizioni impugnate" (ossia gli artt. 4 bis e 4 vicies ter).

Si può qui semmai discutere sulla condivisibilità di tale conclusione della Corte, dal momento che rispetto al co. 5 bis non sussistevano verosimilmente le ragioni di contrasto con l'art. 77 co. 2 Cost. poste a base della pronuncia.

La censura, mossa al legislatore, di aver introdotto in sede di conversione una disciplina del tutto estranea all'oggetto del decreto legge, e di avere in questo modo abusato della speciale procedura prevista dalla Costituzione per la legge di conversione, è convincente in relazione alle modifiche apportate alla disciplina e al trattamento sanzionatorio dei reati previsti dall'art. 73; ma lo è molto meno quando si consideri il co. 5 bis.

Deve infatti osservarsi che già tra le norme contenute nel decreto legge originario ve ne erano alcune finalizzate ad incentivare il recupero dei condannati tossicodipendenti, attraverso l'ampliamento dei casi di accesso alla misura alternativa dell'affidamento in prova terapeutico di cui all'art. 94 t.u. stup.; sicché il co. 5-bis, introdotto in sede di conversione, appariva del tutto coerente con la ratio del decreto, prevedendo un percorso (il lavoro di pubblica utilità) anch'esso diretto ad agevolare il percorso risocializzativo del condannato tossicodipendente.

Stante però la decisione tranchante della Corte, non si può che prendere atto della caducazione del co. 5 bis. Sicché, a questo punto, il problema ulteriore che si pone è, come abbiamo anticipato, quello della possibile caducazione 'a cascata' dell’art. 73, comma 5 ter, D.P.R. n. 309/1990

Dalla lettura dell'incipit di questa disposizione ("La disposizione di cui al comma 5 bis si applica anche nell'ipotesi di.....") emerge immediatamente la sussistenza di un rapporto di dipendenza tra le due norme. Non ci sono molti dubbi sul fatto che, per usare le parole della Corte, il co. 5 ter sia divenuto privo del suo oggetto, essendo venuto a mancare il co. 5 bis, cui esso si riferisce. Né si pone, in questo caso, un problema di reviviscenza della previgente disciplina, posto che il co. 5 bis (a differenza di quanto abbiamo visto per le norme incriminatrici) non ha abrogato una disposizione precedente, ma è stata introdotto ex novo nell'ordinamento dalla legge Fini-Giovanardi.

 

FENOMENO SUCCESSORIO PER I FATTI COMMESSI PRIMA DELLA  PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Per i soggetti  che abbiano commesso il fatto di reato tra la pubblicazione della legge n. 49/2006 e la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale si aprono, invece profili di applicabilità dei principi che governano i fenomeni di diritto intertemporale ( art. 2/4 c.p.), in relazione ai quali la stessa Corte chiama il Giudice ordinario a pronunciarsi di volta in volta individuando il trattamento in mitius.

 

  1. 1.      IL TRATTAMENTO SANZIONATORIO DELLE DROGHE PESANTI

La prima questione su cui vale ancora la pena di concentrare l'attenzione riguarda il trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le 'droghe pesanti'. Il problema è rappresentato dal fatto che la disciplina previgente - che, come chiarito nella sentenza, torna ad essere applicabile a seguito della dichiarazione di illegittimità - è più severa di quella caducata: infatti, la disposizione contenuta nella legge Iervolino-Vassalli (in vigore dal 1990 al 2006, ed oggi ripristinata dalla pronuncia della Corte) prevedeva per questi fatti la reclusione da 8 a 20 anni (oltre la multa), mentre la disposizione contenuta nella legge Fini-Giovanardi (in vigore dal 2006 ed oggi dichiarata incostituzionale) prevede la reclusione da 6 a 20 anni (oltre la multa).

Il profilo, come si diceva, viene affrontato espressamente dalla Corte costituzionale che, richiamandosi alla propria precedente giurisprudenza, osserva preliminarmente che "gli eventuali effetti in malam partem di una decisione (...) non precludono l'esame nel merito della normativa impugnata". La Corte d'altra parte esclude che dalla dichiarazione di illegittimità possano derivare conseguenze pregiudizievoli per l'imputato, e attribuisce pertanto al giudice il compito di individuare ed applicare la disciplina più favorevole, "tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p.".

Senza poter qui ulteriormente approfondire la questione, ci pare che i principi cui la Corte si richiama trovino in realtà il loro fondamento immediato nella Costituzione, più che nell'art. 2 c.p. (che è norma concernente le vicende modificative delle norme penali derivanti da interventi del legislatore, piuttosto che da dichiarazioni di illegittimità costituzionale):  la certezza di libere scelte d'azione - desumibile in particolare dall'art. 25 co. 2 Cost., letto anche attraverso il prisma dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - presuppone non solo la vigenza di una legge che qualifichi il fatto come reato al momento della sua commissione, ma anche la prevedibilità della pena che gli potrebbe essere inflitta in caso di condanna.

Al soggetto non potrà dunque essere applicata una sanzione che non fosse per lui chiaramente conoscibile al momento del fatto: come è, appunto, la pena prevista da una norma (l'articolo 73 nella sua formulazione originaria) che soltanto ex post è stata giudicata dalla Corte costituzionale mai legittimamente abrogata, e che pertanto - in base alla valutazione retrospettiva oggi imposta dalla pronuncia della Corte - doveva da considerarsi ancora in vigore al momento del fatto. Egli avrà, piuttosto, diritto a essere giudicato secondo la più favorevole norma che all'epoca dei fatti, e dunque in prospettiva ex ante, appariva valida: e cioè, appunto, l'art. 73 nella formulazione introdotta dalla legge Fini-Giovanardi.

Dunque, per quanto concerne la questione in esame, nel caso di reati concernenti le droghe pesanti, dovrà essere applicata la norma dichiarata incostituzionale (ossia l'art. 73 co. 1, nella formulazione della legge Fini-Giovanardi), nel caso di reati commessi prima della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale, qualora da essa derivi un effetto più favorevole per l'imputato, e cioè nei casi di fatto avente ad oggetto droghe 'pesanti';

In conclusione, si può concordare che il minimo edittale del 1° co. "pesanti"  resti  a 6 anni anziché a 8,  ma solo, dunque, cogliendo lo spunto della Corte, per i fatti commessi prima della pubblicazione della sentenza: solo agli stessi potendo riferirsi sia i principi dell'art. 2 c.p. sia i principi euro- unitari di "accessibility" con riferimento alla sanzione, mentre per i fatti che saranno commessi dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta sulla Gazzetta Ufficiale, il minimo edittale del 1° co per le c.d. “droghe pesanti” sarà di nuovo pari ad otto anni di reclusione, oltre alla multa.

 

  1. 2.      L’APPLICAZIONE DELL’ART. 73, CO. 5, “VECCHIA FORMULAZIONE”

E con riguardo all’applicazione del comma 5 vecchia formulazione, può aprirsi uno spazio per un confronto, secondo i principi della lex mitior,  ex art. 2/4 c.p., tra l’art. 73/5 ante 2006 e l’art. 73/5 di cui al DL 146/13 – L. 10/14 ?

Potrebbe, in effetti, ritenersi aperto uno spazio siffatto, ma solo in relazione ai fatti commessi sino al varo del DL 146 del 2013.

Infatti l’effetto abrogativo della sentenza della Corte, ex art. 30 L. 87/53, può estendersi a ritroso,  comportando la reviviscenza del vecchio co. 5 ante 2006,  ma solo fino al varo del DL 146/13 che (poi convertito in L. 10/14) ha, come visto, sostituito la disposizione “reviviscente” (id est un’abrogazione implicita) con altra non attinta dagli effetti abrogativi della pronuncia della  Corte.

Onde, con limitazione ai soli fatti commessi non già sino alla pubblicazione della sentenza della Corte ma, al più, sino al varo del DL 146/13, è possibile aprire uno spazio per un ragionamento, anche qui,  imperniato sull’art. 2 c.p. -  confrontando gli effetti che avrebbe il precedente dettato dell’art. 73, co. 5 (sì con una cornice edittale inferiore, ma circostanza attenuante e non valida a fini prescrizionali) con il nuovo: che è fattispecie autonoma e valida a fini prescrizionali; forse per i casi in cui si stima equa una pena inferiore all'anno e ci si riesca ad arrivare applicando il vecchio 5 comma al netto dei vari bilanciamenti (da effettuarsi, attenzione,  anche alla luce di C.Cost. . 251/2012, e dunque con possibilità di prevalenza dell’attenuante speciale anche in caso di recidiva reiterata). Si tratta di vedere, appunto in ossequio all’art. 2 co. 4 c.p., il maggiore vantaggio nel singolo caso concreto, avendo come criterio guida, appunto, più che altro la valenza ai fini prescrizionali della pena contratta.

 

  1. 3.      L’APPLICAZIONE DEI COMMI 5 BIS E 5 TER

L'ultimo aspetto da considerare riguarda la considerazione dei possibili effetti in malam partem che possono derivare al condannato dalla caducazione del co. 5 bis e, di conseguenza, del co. 5 ter. Il problema si pone in quanto entrambe disposizioni rappresentano 'norme penali di favore', poiché da esse discende l'applicazione di una sanzione - quella sostitutiva del lavoro di pubblica utilità - che è sicuramente più mite rispetto alla pena detentiva che si dovrebbe applicare nel caso della loro inesistenza.

Sul punto, si possano riproporre le stesse considerazioni svolte dalla Corte a proposito del trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto droghe pesanti, a cui abbiamo fatto cenno poco sopra: secondo la Corte, ferma restando la legittimità del sindacato costituzionale, occorre impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale produca effetti sfavorevoli per l'imputato.

E dunque, nei confronti dei soggetti che abbiano commesso il fatto di reato tra la pubblicazione della legge n. 49/2006 e la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, il giudice dovrà applicare la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità nei casi previsti dal co. 5 bis; e tale misura dovrà egualmente essere applicata nei casi previsti dal co. 5 ter, qualora il fatto sia stato commesso tra l'entrata in vigore della legge 94/2013 sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale.

L'utilizzazione della sanzione sostitutiva, purtroppo, risulterà invece preclusa nei confronti di chi avrà commesso il fatto successivamente alla pubblicazione della sentenza, così come - ci pare - nei confronti di chi abbia commesso il fatto prima del 2005 ovvero, per ciò che concerne le ipotesi previste dal co. 5 ter, prima del 20 agosto 2013 (data dell'entrata in vigore della legge 94/2013), dal momento che in questi casi il soggetto non avrebbe potuto fare affidamento su tale più favorevole disciplina, e dovendosi per altro verso verosimilmente escludere che il principio dell'applicazione della legge successiva più favorevole di cui all'art. 2 co. 4 c.p. trovi applicazione nell'ipotesi in cui la legge più favorevole successiva sia stata dichiarata incostituzionale. E ciò almeno fino a quando - si spera in tempi brevi - il legislatore non provveda a reintrodurre nell'ordinamento una sanzione diversa dalla detenzione, una volta tanto, di sicura utilità.

 


*Su segnalazione dell"autore, si precisa che il testo pubblicato costituisce una relazione illustrativa delle problematiche emerse in sede di prima applicazione della disciplina risultante dalla pronuncia della Corte Costituzionale n.32 del 2014, nata con la finalità di illustrare, prima facie,  le varie  possibilità applicative per gli interpreti;  tale relazione contiene, ai paragrafi dedicati ai commi 5 bis e 5 ter dell' art. 73, un riferimento testuale a una nota a firma del prof. Francesco Viganò e di Angela Della Bella pubblicata su Diritto Penale Contemporaneo il 27.2.2014.

[1] Quanto al fenomeno della “abrogazione implicita” si intende, come è chiaro, il  rapporto tra norme: nel senso che la C. Cost porta a “rivivere” una norma, il 73/5 vecchia formulazione; nel frattempo il Legislatore emana (con la legge di conversione del DL 146-13,  successiva alla pronuncia costituzionale), una nuova norma (il nuovo 73/5) che implicitamente abroga, sostituendolo, il vecchio 73/5, il quale  si era "riespanso" a seguito del portato demolitivo - certamente  a natura giurisdizionale - della C. Cost.

Peraltro, si tratta solo di una notazione teorica: perché, nella pratica, al momento della legge di conversione la decisione costituzionale non era ancora stata pubblicata in G.U., quindi, quando lo sarà, il suo portato demolitivo semplicemente non troverà effetto sul 73/5 vecchio, perché nel frattempo già sostituito da  nuova norma non attingibile dalla demolizione " a cascata" ex art. 27.

 

09/03/2014
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