Magistratura democratica
Magistratura e società

Giornata mondiale del rifugiato, il diritto ad avere diritti dei migranti*

di Giuseppe Salmè
già presidente di sezione della Corte di cassazione
Nonostante sia stato da tempo previsto, il dilagare dei populismi ci ha colto di sorpresa e ci costringe a ripensare all’origine dello Stato costituzionale di diritto e al fondamento dei diritti umani. Le migrazioni sono il terreno prioritario di tali riflessioni perché è necessario ripartire dallo stesso valore di “persona” che la crescente disumanizzazione della società nega al migrante

La bellissima relazione di Mariarosaria Guglielmi, che condivido totalmente, si apre con la dolorosa constatazione che il voto del marzo 2018 non ha segnato soltanto un netto cambiamento politico, ma ha rappresentato soprattutto l’interruzione di un percorso, iniziato con la sconfitta del fascismo e l’approvazione della Costituzione e del suo progetto di una società fondata sull’eguaglianza, la solidarietà e la pari dignità di tutti gli individui. La direzione di questo percorso era univoca. L’esito del referendum del 2016 sembrava confermarlo, ma alla luce di ciò che è accaduto nell’ultimo anno, sul piano culturale e dell’etica collettiva prima ancora che su quello politico, si è trattato solo di una “grande illusione” (come quella della fine di tutte le guerre e della speranza di una nuova società più libera e solidale amaramente descritta nel suo capolavoro da Jean Renoir). La realtà è che nella nostra società non si sono attivati anticorpi sufficienti per frenare e combattere il sovranismo e il populismo montanti.

A me pare che, a ben guardare, l’onda che ha provocato lo tsunami populista viene da lontano e non siamo stati in grado di percepirne la gravità e la capacità di erodere dal suo interno il sistema istituzionale e politico.

Ne troviamo traccia anche nella nostra piccola storia. A Palermo più di 30 anni fa (VIII Congresso, mozione conclusiva, 1 novembre 1988) abbiamo denunciato il «declino politico e culturale della sinistra» (già allora!) e la nascita di «una vera e propria moderna ideologia di destra che coniuga sapientemente liberismo e autoritarismo in una filosofia sociale fondata sulla esaltazione degli interessi forti e sull’abbandono di ogni idea di solidarietà, di eguaglianza e di emancipazione sociale» e abbiamo proposto una linea di «resistenza costituzionale», cioè di intransigente difesa dei diritti e di rilancio del progetto di eguaglianza sostanziale. Passano poco più di quindi anni, sempre a Palermo (XV Congresso, mozione finale del 7 maggio 2005), abbiamo discusso a lungo della crisi dello Stato costituzionale di diritto, in Italia e fuori; abbiamo denunciato le «pulsioni autoritarie» e la «tendenza alla compressione dei diritti, anche fondamentali, individuali e collettivi, con particolare evidenza in alcuni ambiti quali la salvaguardia della sicurezza collettiva, la sfera del diritto penale, la tutela del lavoro, la tutela dell’ambiente, l’immigrazione, il diritto allo studio, il diritto alla salute, il diritto ad informare e ad essere informati, la tutela dei minori». Abbiamo quindi individuato il terreno prioritario d’azione per Md nella «difesa della Costituzione», specialmente di fronte ai progetti di riforma poi bocciati dal referendum del 2006, e nell’impegno per una «rigenerazione e rilancio dei valori costituzionali che veda come protagoniste forze sociali, politiche e culturali».

Ho ricordato questi nostri congressi non certo come autocompiacimento per la lungimiranza delle nostre analisi: al contrario per sottolineare che, nonostante gli allarmi lanciati per tempo, l’impetuoso dilagare dei populismi ci ha colto di sorpresa. Il processo di comprensione del fenomeno è appena iniziato e forse stiamo appena uscendo da una fase di depressione politica e culturale.

Dalla relazione introduttiva e dagli interventi che si sono succeduti mi sembra emerga che, in una prospettiva strategica di contrasto della degenerazione culturale e politica che abbiamo di fronte, terreno prioritario di analisi, di forte denuncia e di proposta sia quello delle migrazioni, non per accettazione dell’agenda dettata dai populismi, ma per oggettiva necessità di ritornare al punto di partenza della nascita dello Stato costituzionale di diritto, per ricercare ancora una volta quello che ritenevamo ormai acquisito: il fondamento dei diritti umani che la Costituzione garantisce non solo al cittadino ma a ogni persona umana in quanto tale (art. 2 Cost).

Le leggi più recenti e le politiche migratorie, anche antecedenti la vittoria elettorale dei populismi, soprattutto con l’introduzione nel 2009 del reato di clandestinità, sono arrivate al punto di considerare il migrante come «persona illegale», indipendentemente dal fatto che ponga in essere comportamenti contrari alla legge, come «non persona» (A. Dal Lago, 1999).

Ora, non so se e quanto sarà condivisa l’opinione di Ferrajoli che vede nel fenomeno migratorio il fatto costituente di un nuovo ordine mondiale fondato sul riconoscimento di un unico status di persona umana (a me convince la sua distinzione tra realismo dei tempi brevi e realismo dei tempi lunghi invece che la contrapposizione tra realismo e utopia). Né mi sembra di grande rilievo il dibattito teorico sul riconoscimento di uno jus migrandi, come diritto fondamentale. Quello che è certo è che le migrazioni non possono più essere considerati come fenomeni sociali di dimensioni limitate o emergenze. Sono fenomeni strutturali e di dimensioni enormi. Da più fonti nazionali e sovranazionali risulta che nel 2050, mentre la popolazione dell’Unione europea diminuirà di circa trentacinque milioni di abitanti (passando dagli attuali 742 milioni a 705 milioni) in Africa la popolazione sarà raddoppiata, passando da un miliardo e duecento milioni a due miliardi e cinquecento milioni di abitanti.

Ma se i migranti sono considerati non persone e se il fenomeno ha le dimensioni mondiali che ormai tutti riconoscono, per l’operatore del diritto torna di attualità il problema sul quale Hanna Arendt (Le origini del totalitarismo, 1948) ha scritto pagine indimenticabili (richiamate fin dal titolo di uno degli ultimi saggi di Stefano Rodotà) nelle quali, di fronte al diffondersi, dopo la fine della Prima guerra mondiale, della tragedia dell’apolidia conseguente alla crisi degli stati nazionali («Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra») denunciava con gran forza la negazione del «diritto ad avere diritti» ovvero del diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità.

La tragicità della situazione che stiamo vivendo deriva dalla circostanza che la negazione del diritto ad avere diritti non riguarda solo il terreno giuridico, perché investe lo stesso piano il diritto a una vita “degna” e perfino alla vita tout court. Il Mediterraneo è diventato uno sterminato cimitero a cielo di vittime, alle quali è perfino impossibile dare un volto (C. Cattaneo, Naufraghi senza volto, 2018).

Nel marzo 2016, come è noto, l’Unione europea ha sottoscritto un accordo con la Turchia con il quale, dopo avere autorizzato il respingimento dei migranti e profughi che non avevano presentato domanda d’asilo alla Grecia entro il 20 marzo, si è promesso ad Ankara un’accelerazione della valutazione della richiesta d’ingresso nell’Unione, in cambio dell’impegno di Ankara a dare protezione ai migranti tornati in Turchia in base agli standard internazionali. Costo economico dell’operazione: tre miliardi di euro e liberalizzazione dei visti d’ingresso dei cittadini turchi nell’Unione. Costo umano immenso se, al di là dell’ipocrita accettazione dell’impegno turco, guardiamo alla realtà di un paese governato da una dittatura repressiva ferocissima, ben lontana dal riconoscimento dei diritti umani elementari perfino ai suoi stessi cittadini.

Il fatto sconvolgente è che mentre l’accordo con la Turchia è stato condannato unanimemente (Md ha prontamente aderito all’appello Senza una politica migratoria umana ed un'Europa federale non c'è futuro, di Europa in Movimento che ne denunciava le illegalità formali sostanziali), non altrettanto tempestiva e incondizionata, perfino al nostro interno, è stata la denuncia dell’accordo Italia-Libia del 2 febbraio 2017. Come è noto con tale accordo ci siamo impegnati a fornire alla Guardia costiera libica imbarcazioni, formazione e ulteriore assistenza per pattugliare il mare e riportare indietro rifugiati e migranti in fuga disperata verso l’Europa. Nel 2017, circa 20.000 persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e trasferite nei famigerati centri di detenzione del Paese.

Un’inchiesta della Cnn del novembre 2017 ha rese pubbliche le testimonianze di molte persone che hanno descritto con dettagli raccapriccianti gli abusi subiti, perfino la vendita all’asta di esseri umani.

Il Tribunale permanente dei popoli, nella sessione dedicata ai diritti dei migranti e dei rifugiati tenutasi a Palermo dal 18 al 20 dicembre 2017, sulla base di un atto di accusa presentato da ben 96 associazioni e ong italiane ha accertato che «le attività svolte in territorio libico e in acque libiche e internazionali dalle forze di polizia e militari libiche, nonché dalle molteplici milizie tribali e dalla c.d. “guardia costiera libica”, a seguito del Memorandum del 2 febbraio 2017 Italia-Libia, configurano – nelle loro oggettive conseguenze di morte, deportazione, sparizione delle persone, imprigionamento arbitrario, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, e in generale persecuzione contro il popolo dei migranti – un crimine contro l’umanità».

Nel dettagliato rapporto di Amnesty International del dicembre 2017 si sono documentati fatti sconvolgenti: rifugiati e migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica sono trasferiti nei centri di detenzione dove subiscono trattamenti orribili; detenzione arbitraria, tortura, lavori forzati, estorsione, uccisioni illegali che chiamano in causa autorità, trafficanti, gruppi armati e milizie. Decine di rifugiati e migranti hanno descritto il devastante ciclo di sfruttamento in cui colludono le guardie carcerarie, i trafficanti e la Guardia costiera. Le guardie torturano per estorcere danaro e, quando lo ricevono, lasciano andare le vittime o le passano ai trafficanti. Costoro organizzano la partenza, col consenso della Guardia costiera libica. A indicare che un’imbarcazione è oggetto di accordi tra trafficanti e Guardia costiera, lo scafo è contrassegnato in modo che non venga fermato. A volte la Guardia costiera scorta tali imbarcazioni fino alle acque internazionali.

La Corte di assise di Milano, con la sentenza 10 ottobre 2018 ha condannato un cittadino somalo all’ergastolo per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte, violenze sessuali e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I delitti sarebbero stati commessi nei «campi di raccolta» dei migranti in Libia, in due dei quali (Bani Walid e Sabrata) l’imputato, emigrato dalla Somalia, collaborando attivamente con i gestori dei campi, sottoponeva a violenze «esemplari» gli altri migranti privi della libertà, onde ottenere dalle famiglie il pagamento di un riscatto per liberarli e avviarli all’emigrazione in Europa.

Nonostante questa ampia e analitica documentazione la Libia è stata considerata responsabile di una zona di mare Sar, pur non essendo in grado di offrire un porto sicuro, ai sensi della Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 (legge 3 aprile 1989, n. 147) tale dovendosi considerare, secondo le linee guida «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale».

Di fonte alla tragicità di questi fatti come è possibile non raccogliere il richiamo di don Francesco Fiorillo, responsabile di Libera nell’agro pontino, che, nell’anteprima del Congresso tenutasi a Borgo Hermada, ci ha invitato a essere più coraggiosi: «Non è possibile scegliere la neutralità. Ci servono azioni chiare e parole autentiche. Dobbiamo scambiarci il sapere, per riuscire a fare la nostra parte… Bisogna alzare la voce quando tutti scelgono il prudente silenzio».

Dobbiamo allora ritenerci fortunati a stare in Md, in una comunità di magistrati e giuristi plurale, capace di operare dentro e fuori la giurisdizione e che nella sua storia, fin dalla nascita, ha sempre scelto di “alzare la voce”, non nelle forme e nei toni, ma nel rigore degli argomenti e nell’intransigenza nella difesa dei principi costituzionali. Insieme a Carlo Verardi, come ricorda la relazione introduttiva «soprattutto quando il gruppo riesce ad uscire fuori dallo steccato della giurisdizione, a parlare ai cittadini con le armi della cultura giuridica, dell’impegno personale e vorrei dire anche con uno stile di pacatezza e semplicità che bisogna sforzarsi di mantenere».

[*] In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, pubblichiamo il testo dell'intervento svolto al XXII congresso di Magistratura democratica, Roma, 1-3 marzo 2019.

20/06/2019
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