Magistratura democratica
Magistratura e società

“Il concorso”

di Umberto Apice
Avvocato Generale presso la Corte di cassazione
Recensione al romanzo di Bruno Capponi (Novecento Editore, Milano, 2014)
“Il concorso”

Il romanzo di Bruno Capponi intitolato Il concorso narra le progressive tappe di un procedimento concorsuale per la nomina di un professore universitario di prima fascia. La cattedra è quella di Estetica del Diritto. Non è casuale la disciplina: perché niente è casuale in Capponi. E non importa se presso la Sapienza di Roma esista o meno una tale cattedra: perché in Capponi il verosimile e l’inverosimile si alternano e si intrecciano in continuazione. Quello che conta è che i tre professori che costituiscono la Commissione giudicatrice sono quanto di più antiestetico (fisicamente e spiritualmente) si possa immaginare.

Vediamoli più da vicino.

Una prima descrizione si attaglia a qualunque studioso in genere (ivi compresi i nostri tre professori: Augusto Colafantini, il romano; Pasqualino Bonanno, il napoletano; Tommaso Fortini, il toscano): «Gli occhi degli studiosi si trasformano con l’età, si deteriorano, si riducono, svirgolano, appassiscono, si ritraggono nelle orbite e alla fine della mutazione restano due spilli inespressivi nascosti dietro spesse lenti, sempre più spesse» (pp. 7 – 8).

La seconda descrizione, del romano Colafantini, è più propriamente un’autodescrizione: «Sono proprio mie quelle borse scure sotto gli occhi? Quella ruga profonda che taglia in due la fronte, come una vecchia ferita di guerra? Quelle macchioline grigie, che partono dal cuoio capelluto ormai sguarnito di capelli? Quelli residui, saranno più grigi, più gialli o più bianchi? E gli occhiali, perché non stanno dritti? Ho forse un orecchio più alto dell’altro? È sempre stato così? Mi s’è ammosciato un orecchio, senza che m’accorgessi di nulla?» (pp. 19 – 20).

La terza descrizione è di Bonanno, il napoletano: «Bonanno, da scugnizzo, era diventato il classico panzone napoletano gonfio di pizza, fritti, taralli e vino di Gragnano. Il suo viso era rimasto stretto fino alle orecchie, poi s’era allargato a fiasco facendo un tutt’uno col collo taurino» (p. 19).

La descrizione del toscano Fortini mette subito in evidenza – dalla stessa posizione fisica assegnatagli nella prima riunione – la preoccupazione di chi deve guardarsi da un eventuale complotto degli altri due contro di lui: «Fortini capì subito che, essendo la poltroncina sfondata, la sua seduta non era a livello degli altri due. Nell’atto di sedersi, si incassò nel telaio restando coi piedi sollevati. Era come accomodarsi nel vuoto, sporgersi a natiche aperte verso un pozzo profondo e ignoto, popolato di mostri. [….] Si domandò subito se la cosa non fosse stata preparata ad arte, per metterlo in difficoltà sin dalle primissime battute; lui era espressione della scuola del Nord, militava nell’estetica giuridica settentrionale e giocava quindi fuori casa. Guardava i suoi colleghi dal basso verso l’alto, mentre Colafantini e Bonanno si trovavano alla stessa altezza e lo guardavano, quando si degnavano di farlo, dall’alto verso il basso» (p. 12).

Sin dalle prime pagine il lettore è indotto a interrogarsi sul comico e sul tragico nella letteratura. Da che parte sta la superiorità filosofica? Dalla parte di Democrito o dalla parte di Eraclito? E la vera musa è una musa tragica o una musa comica? È ovvio che si tratta di interrogativi oziosi. L’Ulisse di Joyce ci sembra ora tragico e ora comico: e la stessa cosa si può dire della Commedia di Dante o del Don Chisciotte di Cervantes. La Musa è per se stessa onnisciente: è colei che sa e che pertanto detta in tutta sicurezza; sa che nel nostro mondo il paradiso e l’inferno sono nello stesso luogo, anzi l’uno si confonde continuamente nell’altro. Spieghiamoci meglio. Capponi ci aveva già abituati a personaggi disegnati con grande vigore di fantasia (Chi nasce tondo può morire quadro, L’ultimo dei Rutti): personaggi buffi, giocondi, senza alcun arrière-pensée, ognuno con il suo tic, il suo ritornello, il suo dialetto. Ma i personaggi del Concorso sono diversi: anch’essi sono archetipi più che veri personaggi, ma con un loro moralismo all’incontrario; non sono descritti per fare soltanto ridere, ma per farsi odiare, per rimandare a un ideale di società in cui gli uomini (o meglio: la cosiddetta classe dirigente) si dovrebbero comportare all’opposto. Insomma, ad animare le invenzioni di Capponi, stavolta, è una volontà denunciatrice, che fa assumere alla comicità le trasparenze del tragico e quindi dell’arte.  

In passato, commentando Chi nasce quadro può morire tondo di Bruno Capponi, mi sembrò di cogliere che il riso che suscitava la lettura del libro non era il riso sciocco dell’opulenza (l’anasyrma: tirarsi giù i pantaloni, un capitombolo per le scale): non era, cioè, il riso di chi crede di stare al di sopra delle miserie umane. Era un’altra cosa. Era (è) il riso che viene nel vedere messa a nudo la società, le sue devianze, le sue colpe. Vedevo già in quell’opera, e in altre di quel periodo, l’umorismo di chi volge le spalle al mondo e rifiuta la logica del potere borghese. Oggi il discorso è più esplicito, ma anche più completo. Potremmo dire – mutatis mutandis – quello che si disse di Leonardo Sciascia: alla corda pazza (di pirandelliana memoria) si è aggiunta la corda civile.

Ma torniamo alla nostra storia. Quei tre malmessi, degradati, invecchiati esponenti del mondo accademico sono stati chiamati a officiare un rito delicato ed esaltante: quello della riproduzione. Sì, della riproduzione: perché il concorso «è come il coito. Gradevole più o meno, lungo più o meno, acrobatico più o meno, l’importante è che assicuri la cristiana riproduzione».

La discordia non tarda a diventare scoperta. Chi dei tre deve fare il presidente? Il romano Colafantini (è a Roma che si svolge il concorso, è l’Università di Roma che mette il posto) dà per scontato che a lui spetti la presidenza. «… quel concorso era proprio roba sua. Era lui che doveva riprodursi. Il coito doveva essere il suo, solo il suo, suo e di nessun altro». E, ovviamente, il sospetto di Colafantini è che gli altri due complottino per scegliere il migliore. Una bestemmia. «Il migliore. Ecco la vera bestemmia accademica, ecco l’anatema universitario, ecco la maledizione storica degli Atenei. Il migliore. Che strana parola. Una parola che facilmente nasconde un reato, una parola potenzialmente illecita. Ci vuole un bel coraggio, a parlare di migliore in occasione di un concorso universitario. E chi stabilisce chi sia il migliore? La commissione, forse?». Di qui prende il via tutta una serie di astuzie, espedienti, che i commissari mettono in opera per non far prevalere l’uno o l’altro dei commissari: «Quel concorso [...] sembra voler sfuggire alla regola fondamentale della selezione accademica. Le domande erano più dei posti e quello, spiacenti, non era un concorso di massa. Quel concorso doveva essere ritagliato sul candidato, e di norma solo il vincitore avrebbe potuto fare domanda. Il concorso non serve per designare il vincitore, ma soltanto a ufficializzare una designazione già decisa prima e altrove».

Insomma, quel concorso si presenta anomalo agli occhi dei commissari, che perciò si sentono legittimati ad agire fuori dalle regole: rinviano sempre l’inizio dei lavori, aprono (e richiudono), ma non ufficialmente, le buste delle domande per sapere i nomi dei candidati prima che la Commissione inizi i lavori, ecc.

A questo punto, forse con l’intento di far conoscere di che pasta sono fatti i candidati, il racconto subisce una brusca parentesi giustificata dal fatto che i candidati sono relatori a un convegno a Milano e i commissari decidono di andarli a conoscere da vicino. Iniziano così quattro digressioni, rispettivamente una per ogni relazione («la crisi della giustizia, specie quella civile», «una difficile e declinante professione: l’avvocatura», «il giurista minchione: anomala diffusione del tipo ai giorni nostri») e una quarta sulla «perduta bellezza del viaggiare in Italia». Ci si imbatte in notazioni interessanti e in nuovi scenari rispetto a quello strettamente universitario. Il risultato è un po’ spiazzante per il lettore: il furore inventivo delle prime 48 pagine lascia il passo a uno spirito più “giornalistico”, starei per dire “post-moderno”, in cui il febbrile sarcasmo diventa garbata, erudita, ragionata, politically correct ironia. Sono pagine di saggistica o di pseudo-saggistica, per le quali circola sì un’aria maligna, cioè quello stesso spiritello folle delle prime 48 pagine, ma è come se fosse uno spiritello che ha assunto ansiolitici. Ciò non toglie che alcune invenzioni sulla minchioneria giuridica suonino come una grande sinfonia: il minchione che è convinto di essere il migliore, il minchione che volutamente scrive in modo incomprensibile, il minchione illustre (che a causa della sua nomea viene scelto per essere inserito in collegi difensivi, ma dev’essere proprio minchione, di quelli che firmano gli atti scritti da altri senza leggerli sennò farebbe perdere tempo), il minchione anglofilo (o gli anglominchioni, che «sono in fortissima espansione»).

Finite le pagine digressive, il lettore viene ripreso in una «tensione fattiva» (come direbbe Erich Auerbach). La bravura di Capponi è creare le atmosfere che pongono il lettore in quello stato. E questo riesce a fare semplicemente con i dialoghi dei personaggi, con il pepe dei loro monologhi o rimuginii, senza psicologismi. Dunque: con il ritorno alla trama del racconto, Capponi ci propina un’altra serie di proposte strampalate che scaturiscono dalla fantasia spregiudicata dei tre commissari. Viene fuori la preoccupazione di rispettare la riserva per le donne. È un ulteriore banco di prova per la criminogena propensione dei commissari: far cambiare sesso a uno dei candidati? Aggiungere surrettiziamente una domanda di donna? Ma esistono donne estete? E così via: in un flusso inarrestabile. Capponi ci tiene ad andare fino in fondo, perché le devianze, le trivialità, le malformazioni della classe borghese non hanno limite e lui vuole affondare il bisturi, fino a scoprire l’abiezione totale, l’impudicizia totale, l’amoralità totale: in questo Capponi è maestro.

Nell’evoluzione delle riunioni-non riunioni della Commissione escono allo scoperto le idee più gaglioffe: i tentativi di corruzione (ti do la direzione della Rivista del settore se tu mi voti il mio candidato), espedienti clamorosamente delinquenziali (votami la mia protetta e io trovo lo stampatore che fa risultare la data giusta per la pubblicazione che ancora non esiste), i colpi bassi (un commissario dice all’altro: «Ti sei guardato allo specchio? Hai lo stesso fascino di uno scorfano incastrato sotto lo scoglio. Manco la cravatta si salva più, fa schifo pure quella. Lo sai che le cravatte si lavano?»).          

I colpi di scena si susseguono. I posti non sono due, ma quattro (e allora si potrebbero accontentare tutti i candidati): c’era un errore – originario o manipolato ex post – nel decreto. Ma le cose si semplificano o si complicano? La componente femminile da far risultare tra i vincitori è formata da una candidata o da due candidate? E i termini si riaprono o no? Insomma, l’evoluzione del concorso prende un andamento decisamente schizofrenico, che fa saltare i normali parametri di ragionamento e gli stessi parametri della comunicazione verbale, che diventa una sorta di paranoica filastrocca, di balletto manicomiale. Ecco qualche esempio dei monologhi farneticanti di Colafantini, preludio dell’infarto letale che presto sopraggiungerà: «“La posta?” […] ma certo, la posta, la posta arriva tutti i santi giorni, viene uno apposta a portarla, postarla, sempre lo stesso, con una divisa blu addosso, sempre la stessa, ha un paio di spessi occhiali, che porta spesso, sempre gli stessi, ogni giorno più spessi, li porta perplesso, ma fa lo stesso, li porta e li posta, la segretaria dell’istituto certamente lo saprà, deve saperlo, certo, la posta, eh già, ogni giorno mi porta la posta da un posto apposito della segreteria» (pp. 152 – 153).

E più avanti: «Il concorso per ordinario, e che diamine, quale altro concorso abbiamo in ballo? Il concorso a due posti, anzi no, i posti non si sanno, è un dettaglio che al momento del resto non ci interessa punto, non ci deve interessare, noi dobbiamo essere imparziali, i posti dipendono solo dalla posta: sto parlando insomma del nostro concorso, il concorso che abbiamo bandito. Un bandito di concorso. Mi porti la posta per il posto, in busta, e ora per favore basta» (p. 153).

E poi ancora: «Sì, certo, che vuole, lo so bene da me che il fascicolo non si trova. [….] Che vuole, la colpa è solo del concorso, un concorso senza posti, senza posta, un concorso che non sta al posto suo, un concorso complicatissimo che non vuole saperne di partire. Partorire. Presto dire» (p. 153).

Sono dei monologhi in bilico tra il teatro del non-sense e il vaneggiamento da ubriaco, che sarebbero piaciuti molto a Dario Fo. L’acme viene raggiunto con la dissertazione sui termini. Alla segretaria che sta diventando troppo saccente sul rito del concorso, in particolare sui termini temporali già scaduti di presentazione della domanda, il prof. Colafantini sale in cattedra e impartisce una lezione da par suo: «Scaduti? E come fa lei a dirlo? È forse un’esperta di termini? Si tratta di materia assai complessa, sa? Lei sa che ci sono termini che si computano in avanti, e termini che si computano a ritroso, come i gamberi? E termini che non vanno né avanti né indietro, fissi nel tempo e nello spazio? Ci sono termini che non si sa mai quando scadono, ci sono termini che non scadono mai, termini che non hanno termine, termini che restano aperti per sempre. Concorsi senza termini. Senza mezzi termini. Termini estetici. Virtuali. Apparenti. Estatici. A scomparsa. Lei sa che per la presentazione della domanda vale la data di spedizione, e non quella di ricezione?».

L’ultima trovata di Bonanno, il napoletano, è la carta della corruzione più smaccata: a Colafantini offre un arbitrato (un milione di euro per la sola fatica di una firma). In cambio vuole la rinuncia al candidato romano e la direzione della Rivista da offrire al pisano Fortini per l’accordo concernente il via libero per la «zoccola» (la protetta, amante di Bonanno). Ma la proposta, durante una telefonata, provoca un collasso fatale all’ormai già debilitato Colafantini.

Nell’ultima telefonata di Bonanno con Fortini, il napoletano ancora fantastica sulle soluzioni possibili: ma il passato gli si avventa addosso, con le voci degli studenti, assistenti, ricercatori, che si aspettavano qualcosa da lui, qualcosa che non ha fatto. Poi, anche per lui è il crollo. Fortini sogghigna. È rimasto lui l’unico anziano della materia: gli toccherà preparare il necrologio.

Tiriamo un po’ le somme di questo caleidoscopio delle meschinità del mondo accademico, di questo repertorio della realtà, che – come dice lo stesso Capponi in una Postilla – è sempre così sterminato da superare la fantasia. Delle due teorie artistiche dell’antichità, prodesse e delectare, Capponi è evidente che accoglie quella di delectare, se pensiamo che quella del prodesse si riferisce all’utile pratico in senso stretto. L’arte non è politica. Ma non è neppure fuga dinanzi alla realtà, come già avevano capito gli intellettuali romantici, vedi Victor Hugo. E non fuggire la realtà significa diagnosticare la propria epoca.

È un libro composito questo di Capponi: ci sono bellissime pagine di narrazione e bellissime pagine di saggistica. Ora, questa duplice faccia è nello stesso tempo il pregio e il limite (se è un limite) dell’opera. È come se l’autore cercasse continuamente di chiarire il suo punto di vista, la sua indignazione, la sua presa di distanza. E questa “duplicità” ha valore anche per quel che riguarda la composizione delle singole pagine: dove spesso le annotazioni più significative sui personaggi o sulla vicenda sono insistite e reiterate, ottenendo, per un verso, un altissimo diapason di vis comica, ma anche svelando un intimo timore dell’autore: di non essere compreso, di non riuscire a far deflagrare il suo punto di vista e la sua indignazione. In una parola: la sua cultura. Si potrebbe dire quello che Geno Pampaloni disse dei romanzi di Corrado Alvaro: Il concorso è come un melodramma in cui si alterna alla musica del racconto un recitativo sotto forma di “ragionativo”. Ed è lì nel recitativo che Capponi rivela le proprie inclinazioni, la propria cultura dell’eticità e della legalità, il proprio humus da cui l’arte nasce.

*In copertina un fotogramma tratto da La meglio gioventù (M. T. Giordana, 2003)

13/05/2017
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