Magistratura democratica
Magistratura e società

Il Forteto, storia, poco nota, di una comunità maltrattante

di Vittorio Borraccetti
già componente del Csm
Nella comunità del Forteto, in territorio toscano, molte persone affidate per ragioni di cura e sostegno sono state maltrattate e abusate per decenni. La lettura delle sentenze del processo conclusosi da poco in Cassazione, e anche di precedenti decisioni giudiziarie, ha fatto emergere non solo i fatti delittuosi ma anche i comportamenti negligenti se non corrivi di chi doveva vigilare

1. Nei primi giorni dello scorso mese di luglio vi è stata una polemica, circoscritta alle persone e al territorio interessati, prevalentemente in Toscana, con qualche eco anche sulle liste del gruppo associativo di Area, per una decisione della Corte di cassazione di annullamento dell’ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale di Firenze nei confronti di Rodolfo Fiesoli, capo della comunità del Forteto, condannato, assieme ad altri imputati, con sentenza definitiva per gravi reati, violenza sessuale e maltrattamenti, commessi in danno di persone affidate alla comunità.

In realtà la sentenza di condanna non può considerarsi definitiva, perché per una delle imputazioni contestate, per cui vi era stata condanna in primo grado, violenza sessuale di gruppo, riqualificata poi dalla Corte d’appello come violenza sessuale, la Corte di cassazione, su ricorso del Procuratore generale, aveva annullato e rimesso alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo giudizio. Di conseguenza la sentenza non poteva ritenersi definitiva neppure sulla misura della pena da applicare al condannato, che avrebbe dovuto essere ricalcolata al termine del nuovo giudizio su quella specifica imputazione.

Sul presupposto che in relazione agli altri capi la pena fosse determinabile comunque in una misura certa, la Procura generale di Firenze aveva emesso l’ordine di carcerazione per quella misura e la Corte d’appello, come giudice dell’esecuzione, aveva rigettato il ricorso del condannato. Come si è detto, la Corte di cassazione ha annullato tale decisione e disposto la liberazione del condannato, affermando che solo la pena stabilita nella misura in modo definitivo può essere messa in esecuzione, non già una parte di essa, anche se determinabile in modo certo [1].

Tale decisione è conforme ad un orientamento giurisprudenziale costante, anche se può suscitare qualche perplessità dal punto di vista della razionalità complessiva del nostro sistema penale e provocare, come è avvenuto, comprensibili reazioni da parte delle vittime e di quella parte di opinione pubblica interessata dalla vicenda. Specie se, come in questo caso, le ragioni delle vittime sono state ignorate o quanto meno non seriamente considerate per decenni.

La polemica, estiva e di breve durata, costituisce però l’occasione per ripercorrere l’intera vicenda della comunità del Forteto, una vicenda grave, che pone molti interrogativi anche sul funzionamento di alcuni uffici giudiziari e sul comportamento di non pochi magistrati. Oltre che degli organi della pubblica amministrazione competenti in materia di tutela dei soggetti più deboli. Una vicenda durata decenni, ma raramente oggetto dell’attenzione degli organi di informazione, se non in sede locale [2].

2. Il procedimento che ha messo capo alla condanna, ancora non compiutamente definitiva, era iniziato nel 2011 in seguito a ripetute denunce delle vittime. Con sentenza del 17 giugno 2015 il Tribunale di Firenze aveva condannato Fiesoli, capo della comunità, e altri appartenenti ad essa a molti anni di reclusione per il delitto di maltrattamenti commessi in danno di numerosi ospiti della comunità. Fiesoli era stato inoltre condannato per violenza sessuale in danno di cinque persone affidate; in un caso, quello ancora non definito di cui si è detto sopra, in concorso con altro componente della comunità.

Il 25 luglio 2016 la Corte d’appello di Firenze aveva confermato in gran parte la sentenza di condanna, operato alcune riduzioni di pena [3], pronunciato qualche assoluzione e soprattutto molte declaratorie di non doversi procedere per prescrizione, in relazione al reato di maltrattamenti. Perché i fatti risalivano nei decenni.

Quali fossero i fatti lo dice bene il relativo capo di imputazione del delitto di maltrattamenti, che riassume tutte le tecniche manipolatorie e violente poste in essere al Forteto. In sintesi esse erano le seguenti:

- rigorosa separazione degli uomini dalle donne, anche se legati da vincoli affettivi e uniti in matrimonio;

- istigazione alla pratica dell’omosessualità anche tra persone minori di età, intesa quale mezzo per risolvere i problemi sessuali dell’infanzia dovuti all’omosessualità latente;

- divieto di rapporti eterosessuali;

- denigrazione costante della famiglia di origine e ostacolo ad ogni relazione con genitori e parenti;

- divieto di coltivare rapporti con persone all’esterno della comunità, e di esercitare qualunque tipo di attività ricreativa, culturale, sportiva ed educativa, sostenendo che tutto quello che era fuori era “il male”;

- obbligo di permanenza e lavoro all’interno della comunità e accettazione della regola secondo cui quasi tutta l’intera paga derivante dall’attività lavorativa svolta presso la cooperativa il Forteto veniva versata all’associazione omonima;

- divieto di ricorrere alle istituzioni pubbliche per curare le persone che ne avevano bisogno;

- pratica ossessiva dei “chiarimenti”, cui venivano sottoposte tutte i partecipi e le persone affidate consistenti in discussioni protratte anche per ore nelle quali si obbligavano queste ultime ad ammettere e confessare, a mezzo di continue violenze psicologiche e punizioni anche corporali, suggerite ed inesistenti fantasie sessuali verso terzi e anche nei confronti dei genitori e dei parenti, violenze ed abusi subìti dai propri genitori ed infrazioni − vere o presunte − delle regole della comunità.

Come si vede, si tratta di un insieme di condotte tese a coartare le persone e a condizionarne il modo di pensare.

Con la condanna per questa imputazione, ritenuta fondata dal Tribunale, dalla Corte d’appello e infine dalla Corte di cassazione, sono stati l’intera esperienza della comunità di accoglienza e il suo metodo ad essere oggetto di riprovazione penale.

3. Non era però la prima volta che la giustizia si occupava del Forteto. Nel 1978 a seguito di più denunce Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi, i due capi della comunità, erano stati sottoposti a procedimento penale con le contestazioni di più reati, in particolare di maltrattamenti e atti di libidine violenti in danno di ospiti della comunità. Lo stesso tipo di imputazioni che si contesteranno ai due capi e ad altri collaboratori nel 2011.

Dopo la sentenza di condanna del Tribunale del 6 ottobre 1981, un primo giudizio di appello si chiuse con la sentenza di assoluzione degli imputati del 18 giugno 1982, annullata poi dalla Corte di cassazione, a cui seguì una nuova decisione della Corte d’appello, questa volta di condanna, in data 3 gennaio 1985, per i delitti di maltrattamenti e di atti di libidine violenti. La condanna definitiva riguardò solo alcuni dei reati per i quali si era proceduto, il che consentì ai fans del Forteto di minimizzare la condanna stessa. Ma i reati per i quali essa era stata pronunciata in modo definitivo erano particolarmente gravi, al di là della misura della pena, per persone che si proponevano come educatori [4].

Già allora non si trattava di episodi attribuibili a qualche educatore deviante in un contesto sano, ma di addebiti rivolti ai capi della comunità, gestori del metodo di convivenza. E già allora nel capo di imputazione di maltrattamenti aggravati erano descritte alcune delle tecniche manipolatorie proprie dell’esperienza comunitaria, come l’impedimento a comunicare con l’esterno, l’offesa sistematica con allusioni sessuali a cui erano sollecitati i componenti della comunità, manifestazioni di indole sessuale.

Nella motivazione della seconda sentenza d’appello, che confermò sia pure parzialmente la condanna della sentenza di primo grado, si mettevano, sia pure con molte precisazioni, in correlazione gli specifici fatti di violenza e il contesto educativo del Forteto [5].

Quanto scritto nelle sentenze del primo procedimento, all’inizio degli anni ’80, avrebbe dovuto costituire motivo di allarme per gli uffici e gli operatori che si occupavano di affidamento dei minori e dei controlli successivi all’affido.

Perfino la lettura delle sentenze di assoluzione pronunciata dopo il primo giudizio di appello avrebbe dovuto mettere in allarme. In quella sentenza esplicitamente si affermava che esistevano seri elementi di colpevolezza a carico dei due capi della comunità per i fatti delittuosi di cui erano accusati, sintomatici di una inidoneità ai compiti educativi. I giudici del primo processo d’appello ritennero però che ci fossero anche seri elementi a favore degli imputati e conclusero, per la verità abbastanza semplicisticamente, per l’assoluzione per insufficienza di prove. Tant’è che la sentenza fu poi annullata in Cassazione. Ma al di là del dato giudiziario, per chi operava nel campo delicatissimo dell’affidamento dei minori avrebbe dovuto bastare il sospetto della commissione di quei fatti per operare una verifica approfondita del metodo educativo del Forteto e per non continuare negli affidi. Il che non avvenne.

Anzi, l’attività del Forteto come comunità di accoglienza aveva potuto proseguire nei decenni, addirittura con una approvazione ripetuta da parte di molte organi pubblici del metodo educativo e di accoglienza del Forteto: per dirla con le parole del Tribunale nella sentenza di condanna del 2015, da parte del sistema pubblico si era «mantenuta costantemente aperta una linea di credito illimitata verso l’esperienza educativa e pedagogica del Forteto». Addirittura il Forteto si propose come modello educativo, promotore di convegni sui temi della famiglia e dei minori, organizzati assieme alle istituzioni locali, e fu oggetto di pubblicazioni elogiative.

4. Il Forteto fu anche oggetto di una procedura davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per violazione dell’articolo della convenzione riguardante il rispetto della vita privata e familiare, conclusasi con una sentenza di condanna dello Stato italiano.

Alla Corte si era rivolta la madre di due minori collocati al Forteto in forza di un decreto del Tribunale per i minorenni di Firenze, lamentando che le modalità del collocamento violassero alcuni punti della dichiarazione sui diritti dell’uomo. Con sentenza della Grande Camera in data 13 luglio 2000 la Corte dichiarò che vi era stata violazione dell’art. 8 della convenzione [6], per le modalità concrete dell’affidamento dei figli minori della ricorrente alla comunità e per l’atteggiamento di ostacolo al mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine, condannando per questo lo Stato italiano al risarcimento dei danni in favore della ricorrente. Così statuendo, anche la Corte europea evidenziò negativamente uno degli elementi tipici del metodo Forteto, quello di disincentivare in ogni modo e ostacolare il rapporto con la famiglia di origine. Inoltre, prendendo in considerazione la sentenza di condanna divenuta definitiva nel 1985 per i reati di maltrattamenti e atti di libidine di Fiesoli e Goffredi, la Corte disapprovava esplicitamente l’affidamento di minori ad una comunità i cui capi erano stati condannati per tali reati, anche se per fatti risalenti nel tempo. La decisione della Corte europea, che faceva seguito alla sentenza di condanna del primo processo penale e che, come si è visto, stigmatizzava alcuni elementi propri del metodo Forteto, avrebbe potuto e dovuto costituire un passaggio decisivo per le sorti di molti minori affidati al Forteto, delle loro famiglie di origine, dell’organizzazione dei servizi territoriali di assistenza ai minori, dei sistemi di decisione e controllo da parte dell’autorità giudiziaria minorile e per la riconsiderazione della rete di affidamenti famigliari nella regione Toscana, come si farà nel 2012 con la costituzione di una commissione d’inchiesta [7], ma così non avvenne. Gli interessati e i loro sostenitori ancora una volta si rifugiarono dietro la tesi del complotto ordito in danno dell’esperienza eretica del Forteto [8]. Fatto ancora più grave, le autorità preposte ai controlli non intervennero, implicitamente avallando l’idea del complotto, e gli affidamenti continuarono. Si è ripetuto, dopo l’importante sentenza della Grande Camera, l’atteggiamento di negazione della realtà che era emersa già dopo il primo processo penale.

Sicché nel prosieguo la continuazione degli affidi, in particolare da parte del Tribunale per i minorenni di Firenze, finì per diventare, per i difensori ad oltranza del Forteto, argomento per inficiare accuse e condanne. Ma la continuazione degli affidi non dipese da verifiche puntuali che avessero rassicurato sulla correttezza del metodo operativo dei capi del Forteto. Controlli e verifiche effettive non ce ne furono. Non si è voluto vedere. Così come non erano stati capaci di vedere la realtà i funzionari dei servizi sociali per i quali in occasione delle visite di controllo erano state predisposte le sacre stanze, una sorta di rappresentazione ad uso dei verificatori esterni, in cui la comunità dava una immagine falsa delle modalità con cui venivano gestiti gli affidi e trattati gli affidati.

5. La comunità era stata costituita da un gruppo di giovani nel 1977, sotto l’ispirazione e la suggestione di vari modelli e con l’aspirazione ad una semplicità ed autenticità di rapporti, in polemica e contestazione delle forme di vita individualiste, borghesi, di chiusura della famiglia tradizionale.

Erano anni in cui forti erano le suggestioni del comunitarismo e diffuse le critiche alle concezioni culturali, politiche e sociali prevalenti. La contestazione delle istituzioni e dell’assetto esistente aveva buone ragioni dalla sua, ma come la storia successiva, anche del Forteto, dimostrerà, quella contestazione talvolta poteva andare anche verso esiti di nuovo conformismo e di nuovi rischi per la libertà e la dignità delle persone.

Il Forteto nasceva dunque con una connotazione progressista, diciamo pure di sinistra, e questa connotazione gli assicurò dall’inizio sia simpatie che ostilità, conseguenti a impostazioni ideologiche e culturali. Esso ha avuto per decenni estimatori restii a conoscere la realtà, ha avuto il sostegno di personalità della cultura della magistratura e della politica. È stato motivo di scontro culturale e politico, originato dalle diverse appartenenze piuttosto che dal confronto con i fatti e sui fatti. Tutto ciò a discapito della verità e soprattutto delle vittime dei maltrattamenti e degli abusi.

La comunità assunse la forma della cooperativa agricola. Nello statuto, in cui si elencano le varie attività finalizzate al raggiungimento dello scopo sociale, soprattutto produttive e commerciali, vi è solo un accenno generico anche alla finalità di accoglienza e ospitalità di disadattati, anche minori di età. Nessuna regola era stata scritta sull’accoglienza e sul metodo educativo. Come cooperativa agricola il Forteto diventerà in effetti in breve tempo, e lo è tuttora, un’azienda di spicco nella produzione di prodotti alimentari. Ma esso divenne da subito anche luogo di accoglienza di persone in condizioni di disagio e in particolare destinatario di minori in affido da parte del Tribunale per i minorenni.

Vi è all’origine un equivoco che non sarà mai chiarito del tutto. La cooperativa non intrattenne mai rapporti con le istituzioni pubbliche che si occupano dei minori in difficoltà né ricevette finanziamenti a tal fine. Anche se in alcuni provvedimenti dell’autorità giudiziaria è la comunità ad essere indicata come destinataria dell’affido, gli affidi avvenivano in grande prevalenza formalmente a persone che vivevano e operavano nella comunità, non alla comunità come tale. Ma se non fossero state componenti della comunità non vi sarebbe stato affido a quelle persone, scelte proprio perché vivevano quell’esperienza comunitaria. In realtà l’affido era alla comunità. La scelta degli affidatari e la gestione degli affidi era rimessa ai capi della comunità. Nel corso dell’affido, poi, le modalità concrete con cui venivano trattati i minori erano conformi alla visione educativa (?) della comunità, senza che mai seriamente il relativo metodo fosse stato analizzato e valutato, soprattutto rispetto agli scopi dell’affido previsti dalla legge vigente.

6. L’esperienza del Forteto evoca il fenomeno delle comunità totalizzanti e delle sette, nelle quali si mettono in atto tecniche psicologiche, e non solo, che mirano a fare del partecipe una persona del tutto piegata alla concezione e allo stile di vita comunitario. Ricorda anche l’esperienza di alcune comunità di recupero per tossicodipendenti. Ma con una differenza non di poco conto. In quelle esperienze a far discutere erano alcune pratiche limitative della libertà personale finalizzate a far superare la dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Invece il Forteto, dove comunque non mancò l’uso della violenza fisica, evoca quelle comunità in cui si persegue la imposizione di uno stile di vita totalizzante, a tempo indefinito, con tecniche volte a diminuire se non ad annullare la capacità critica della persona, la sua individualità.

Il tema è difficile, da tempo dibattuto anche a livello internazionale. La giusta preoccupazione di salvaguardare libertà morale e fisica delle persone, spesso insidiate da queste esperienze, ha suggerito di verificare la sufficienza o meno della tutela penale della manipolazione mentale. Si è però affacciato il timore di incidere negativamente sulla libertà di manifestazione del pensiero, su quella di associazione e più in generale sul diritto a scegliere la propria concezione e il proprio stile di vita.

Ma nella vicenda del Forteto in realtà questo tema è del tutto marginale, se non ultroneo. Perché non si tratta di soggetti adulti e consapevoli, che volontariamente aderiscono ad una comunità con modalità di vita che comportano una perdita di individualità e di intimità, perseguendo un intento di cambiamento di vita, ma di soggetti affidati ad una comunità per ragioni di cura, protezione e sostegno.

Ogni persona adulta e capace è libera di fare scelte di vita personale che comportino anche l’obbedienza ad altri e la rinuncia a determinarsi, per adesione ad una fede religiosa ovvero ad una particolare concezione dell’esistenza. Gli unici limiti opponibili sono che i metodi di vita comunitaria non consistano in attività lesive dell’integrità fisica e della libertà morali. Inoltre che non debbano mai determinare una situazione irreversibile per il soggetto, che deve essere sempre lasciato libero di lasciare la comunità.

Ma nei confronti dei soggetti affidati per ragioni di cura protezione e sostegno non sono invece mai lecite condotte che perseguano finalità totalizzanti proprie del gruppo comunitario, in contrasto con gli scopi che l’ordinamento persegue con l’affidamento. Le persone affidate per ragioni di sostegno o di cura non avevano scelto volontariamente di cambiare vita e di andare in comunità e non era lecito che esse venissero trattate in modo da costringerle ad aderire alla concezione di vita della comunità. L’affidamento aveva lo scopo di far superare il disagio, non quello di favorire l’adesione alla comunità e al suo stile di vita. La vita in comunità, secondo regole, può anche costituire essa stessa una terapia, tuttavia sempre come strumento per rendere autonoma la persona, e se possibile per restituirla al suo ambiente di provenienza, non per farla dipendere dalla comunità. E sempre nel rispetto della dignità della persona, senza sofferenze non giustificate dal fine terapeutico e comunque non integranti condotte che la legge prevede come reato. Invece, da parte dei capi del Forteto e dei loro collaboratori è stata coartata la libertà fisica e morale degli affidati per farli aderire alla concezione di vita comunitaria teorizzata e praticata, contro lo scopo dell’affidamento. Come ha scritto il Tribunale di Firenze nella citata sentenza al Forteto invece, era «intenzionalmente perseguita la trasformazione degli affidati in aderenti alla comunità».

7. La storia del Forteto è stata storia di violenza e sofferenza protrattesi per decenni, sostanzialmente ignorate da chi, per l’ufficio ricoperto, amministrativo o giudiziario, aveva il dovere e la responsabilità di vederle e comunque di accettare l’evidenza dei fatti emersi dai diversi processi e di adottare le misure risolutive necessarie. È stata ignorata anche dalla più parte degli organi di informazione nazionale. Così essa ha potuto proseguire per molti anni senza resistenze sostanziali, nonostante l’evidenza di condotte e comportamenti che trasgredivano non solo le leggi, ma le clausole più elementari del rispetto della dignità delle persone e del dovere di sostegno nella sofferenza di individui manifestamente in difficoltà. Per quanto riguarda politica e amministrazione, ha continuato a pesare negativamente lo scontro politico e culturale e il pregiudizio favorevole al Forteto a cui s’è accennato sopra. Non è poi da escludere che abbia avuto influenza anche il timore di pregiudicare la fiorente attività produttiva e commerciale dell’azienda agricola. Nonostante l’evidenza della sofferenza delle vittime.

Quanto alla magistratura, è vero e importante che alla fine essa sia intervenuta e che la giustizia abbia scritto una parola (quasi) definitiva. Ma, appunto alla fine, dopo decenni, mentre molti anni prima l’aveva fatto in modo timido e comunque senza essere ascoltata neppure all’interno di sé stessa, se è vero che per anni sono continuati gli affidi da parte dei giudici minorili. Senza che, almeno fino ad oggi, si sia provato ad accertare le responsabilità di quei magistrati che li disposero.



[1] La sentenza della Corte di cassazione, Prima sezione penale, è del 5 luglio 2018, n. 30870.

[2] Le considerazioni che seguono scaturiscono dall’esame e dallo studio dei molti documenti riguardanti la vicenda, in particolare degli atti giudiziari. Per chi volesse approfondire i vari aspetti della vicenda, compreso quello giudiziario, sia consentito rinviare al volume Aberrazioni comunitarie. A partire dalla tragedia del Forteto, Antigone Editore 2016.

[3] La pena inflitta a Fiesoli dal Tribunale era stata di 17 anni e 6 mesi di reclusione, ridotta dalla Corte d’appello a 15 anni e 10 mesi di reclusione in conseguenza della riqualificazione come violenza sessuale dell’imputazioni di violenza sessuale di gruppo. La sentenza della Corte di cassazione terza sezione penale, n. 3346, che concluse il procedimento, salvo l’imputazione di cui s’è detto, è del 22 dicembre 2017. I condannati in via definitiva sono dieci oltre a Fiesoli.

[4] Fiesoli e Goffredi furono condannati entrambi per avere maltrattato una ragazza handicappata di diciotto anni che aveva soggiornato per qualche giorno nella comunità, in particolare picchiandola più volte al giorno, insultandola anche in presenza di altre persone, impedendole di comunicare con l’esterno, umiliandola a causa delle sue caratteristiche fisiche. Fiesoli anche per avere abusato sessualmente (atti di libidine violenti) di due handicappati mentali di sesso maschile, in una occasione in presenza di un tredicenne, il che comportò anche la condanna per corruzione di minorenne.

[5] Scrivevano infatti i giudici: «Dalle deposizioni non traspare certo un quadro edificante della situazione del Forteto con particolare riguardo ai punti ricorrenti della istigazione alla rottura con le famiglie e alla pratica della omosessualità. Va precisato però che in sede giudiziaria non possono venire in rilievo le teorie educative e terapeutiche degli imputati, né può venire in rilievo la pratica dell’omosessualità finché che tutto ciò non sfoci in precisi reati».

[6] Secondo il quale «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e non può̀ esservi ingerenza di una autorità̀ pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società̀ democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà̀ altrui».

[7] La relazione approvata e pubblicata l’8 gennaio 2013 si può leggere sul sito web del Consiglio Regionale della Toscana. Anche da essa emergono i fatti violenti e manipolatori che costituivano il metodo Forteto.

[8] Questo atteggiamento condizionò la difesa dello Stato italiano nel procedimento davanti alla Corte europea: è scritto nella sentenza che il governo italiano «ci tiene a sottolineare che nell’opinione pubblica in Toscana l’imputazione di queste due persone è stata percepita come inserentesi nella cornice di un conflitto tra partigiani ed avversari del “Forteto”. Inoltre, i due responsabili in questione sono stati assolti per dieci capi di imputazione su tredici al termine di un laborioso processo con due interventi della Corte di Cassazione. Riguardo ai capi di imputazione per i quali L.R.F. e L.G. sono stati condannati, il Governo richiama la costituzione di un comitato incaricato di raccogliere prove in vista di una richiesta di revisione della condanna». Come si vede, negare e minimizzare. Nella sentenza del 2015 il Tribunale di Firenze ha dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, la totale inconsistenza della teoria del complotto, che ancora in tempi recenti era stata riproposta.

11/09/2018
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