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Giurisprudenza e documenti

Il giudice nel silenzio della legge: riconosciuta la doppia maternità in applicazione diretta della legge sulla procreazione assistita

di Luca Giacomelli
assegnista di ricerca in diritto costituzionale e comparato presso l’Università degli Studi di Firenze
Per la prima volta è stato disposto che l’ufficiale di stato civile è obbligato a firmare l’atto di nascita del bambino riconoscendo la doppia maternità sin dall’inizio. Questo alla luce di un’interpretazione costituzionalmente conforme della legge n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Al giudice non interessa il modo in cui è nato il minore, ma solo garantire la tutela dei suoi diritti

Il Tribunale di Pistoia, con decreto depositato il 5 luglio 2018, ha ordinato per la prima volta la formazione ab initio di un atto di nascita recante l’indicazione di due madri di un minore nato in Italia, in applicazione diretta della legge n. 40 del 2004 in materia di procreazione medicalmente assistita. Il giudice pistoiese ha ritenuto applicabili gli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 ad una coppia di persone dello stesso sesso, affermando che la responsabilità genitoriale della madre non biologica sorge per effetto della prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

Le due ricorrenti, unite civilmente dal 2016, avevano intrapreso la scelta di attuare un progetto di genitorialità condiviso mediante il ricorso in Spagna alla pma. Successivamente, la coppia si era presentata dinnanzi il proprio comune di residenza per dichiarare la nascita del figlio ma si era vista opporre il diniego del sindaco alla dichiarazione di riconoscimento congiunto perché ritenuto in contrasto con i principi e le condizioni di acquisizione dello status filiationis vigenti nell’ordinamento italiano. Veniva, dunque, proposto ricorso avverso tale rifiuto ai sensi dell’art. 95, comma 1, dPR n. 396/2000, chiedendo la correzione dell’atto di nascita esistente e la sua integrazione con l’indicazione delle due ricorrenti come madri del minore e l’attribuzione a quest’ultimo del doppio cognome.

Questa decisione, che interviene per colmare un vuoto normativo lasciato scoperto dal legislatore italiano nonostante la legge sulle unioni civili (n. 76/2016) [1], può essere compresa e correttamente inquadrata soltanto se si tengono a mente alcune premesse fondamentali: anzitutto, una giurisprudenza consolidata che riconosce l’idoneità genitoriale delle coppie omosessuali alla luce dei cd. best interests of the child e che abbandona un concetto di filiazione basato sul solo dato biologico e, in secondo luogo, una rinnovata sensibilità e solidarietà civile di molte amministrazioni locali che negli ultimi mesi hanno preso posizione e ordinato la trascrizione nei registri di stato civile italiani di molti bambini nati in famiglie omogenitoriali [2].

Non è mistero la difficoltà (se non addirittura la riluttanza) che il legislatore italiano ha mostrato nel dare veste giuridica a fenomeni, come quello della pluralizzazione dei modelli familiari, che da molto tempo chiedono a gran voce di essere riconosciuti e tutelati. Soltanto nel 2016, dopo un lungo e travagliato dibattito politico, il Parlamento è riuscito ad affrontare la questione dell’affettività omosessuale, approvando una legge sulle unioni civili che rappresenta la prima forma di tutela legislativa della vita familiare delle coppie gay e lesbiche. Si è trattato di una riforma rivoluzionaria giunta dopo i numerosi moniti della Corte costituzionale (sentenze n. 138/2010 e n. 170/2014) [3] e le ripetute condanne della Corte europea per i diritti dell’uomo (Oliari v. Italia, ricorsi n. 18766/11 e n. 36030/11) [4] e il cui ritardo ha pesato sulla vita di tante persone e famiglie. La conseguenza di questo silenzio normativo è stata la progressiva sostituzione della tutela giurisdizionale, più vicina e attenta alle trasformazioni della realtà sociale, a quella legislativa, arroccata ancora su un concetto monolitico e tradizionale di famiglia. Anche alla luce dell’iter che ha portato all’introduzione delle unioni civili, sembra che al legislatore italiano continui a sfuggire una verità di fatto, ovvero che oggi ci troviamo di fronte a un patchwork della famiglia, suscettibile di assumere la forma della famiglia di fatto, eterosessuale e omosessuale, con o senza figli, della famiglia «ricostruita» o «ricomposta», nella quale uno o entrambi i partner hanno avuto precedenti relazioni stabili, di tipo matrimoniale, e dalle quali hanno avuto uno o più figli, della famiglia fondata sul matrimonio, della famiglia monoparentale o mononucleare, della famiglia omogenitoriale e non solo.

Questa legge non ha dunque risolto il divario fra la realtà sociale vissuta concretamente dalle diverse famiglie e la loro totale o parziale inesistenza sul piano giuridico, resa ancor più evidente dall’assenza nel testo sulle unioni civili di disposizioni in materia di filiazione, con lo stralcio anche della cd. stepchild adoption – la possibilità cioè di chiedere l’adozione del figlio biologico o adottivo del partner ex art 44 lett. d) della legge n. 184/1983 –, peraltro già riconosciuta in via giurisprudenziale [5]. Un quadro, questo, reso ancora più ambiguo dalla formulazione della legge n. 76/2016 che, nell’escludere espressamente l’applicazione in chiave antidiscriminatoria delle norme sulle adozioni alle coppie omosessuali, fa comunque salvo quanto «previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti» [6], preferendo ancora una volta lasciare ai giudici un compito che spetterebbe al legislatore.

A fare le spese di questa situazione di incertezza e di frammentazione giuridica, è evidente, sono prima di tutto i bambini, i quali sono esclusi dal pieno godimento dei diritti e dalle tutele previste dalla legge. A ben vedere, essi sono vittima di una doppia discriminazione da parte dell’ordinamento: oltre a venire esclusi dalla piena e stabile tutela del loro status filiationis, subiscono le conseguenze della discriminazione per l’orientamento sessuale dei genitori e per le scelte procreative da loro compiute.

Le risposte sono dunque giunte dai giudici. Si possono individuare almeno tre filoni giurisprudenziali che si sono sviluppati in materia di omogenitorialità e le cui argomentazioni giuridiche fondamentali sono comuni. Il primo relativo alla legittimità dell’interpretazione estensiva dell’art. 44 lett. d) della legge n. 184/1983 che ha consentito la adozione co-parentale (cd. stepchild adoption[7] nell’ambito di una coppia omogenitoriale. Il secondo riguardante invece la trascrivibilità nei registri di stato civile italiani dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il minore è figlio di due madri [8] o di due padri [9]. Il terzo relativo, infine, alla trascrivibilità dei provvedimenti stranieri di adozione congiunta a favore di coppie dello stesso sesso [10]. In tutti questi casi, sebbene molto diversi sul piano normativo e fattuale, i giudici italiani hanno individuato alcuni principi fondamentali trasversali e a partire da questi hanno argomentato le loro decisioni [11]. Il filo conduttore può essere infatti sintetizzato nella massima «prima i bambini», allorché la preminenza della tutela degli interessi del minore ha costituito il primo e fondamentale criterio utile a delibare ogni questione in materia di status filiationis, nel cui ambito la valutazione in ordine alla meritevolezza della tutela degli interessi degli adulti ad autodeterminarsi e a generare figli è rimasta sempre sullo sfondo. Nonostante l’ambiguità concettuale e funzionale della clausola dei best interests of the child [12], essa gioca un ruolo centrale poiché consente al giudice di assegnare assoluta preminenza agli interessi e ai diritti fondamentali dei minori nel bilanciamento con gli altri interessi e diritti in gioco, al fine di garantire «il massimo benessere possibile per quel minore». Si tratta del diritto dei figli a crescere in una famiglia, del diritto alla continuità affettiva, del diritto alla stabilità dei legami familiari di fatto, del diritto all’assistenza morale oltre che materiale, del diritto al mantenimento dello status filiationis, del diritto al nome e all’identità personale. Garantire al minore questi diritti fondamentali assicura, secondo i giudici italiani, il suo preminente interesse, e soddisfare i suoi best interests è, a propria volta, coerente con la nozione di ordine pubblico (internazionale) più volte evocato come limite alla trascrivibilità di questi atti.

La decisione in commento aggiunge un nuovo e ulteriore tassello al complesso mosaico giurisprudenziale sin qui tratteggiato. Anzitutto si conferma la «nuova» visione della genitorialità, già emersa nella giurisprudenza italiana, nella quale l’assunzione di responsabilità da parte dei genitori diventa un elemento centrale del momento procreativo e si affianca al dato meramente biologico e genetico. È indifferente il modo in cui si è venuti al mondo rispetto al diritto fondamentale del bambino alla genitorialità, e ancor più alla bigenitorialità (art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Pertanto, «il figlio voluto dalla coppia omosessuale attraverso il ricorso alla pma deve trovare tutela anche sotto il profilo giuridico» [13]. È proprio su quest’ultimo aspetto che la sentenza del Tribunale di Pistoia si fa innovatrice e, in una certa misura, rivoluzionaria: interpreta in maniera costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata l’art. 8 della legge n. 40/2004 affermando che «i bimbi nati in Italia a seguito di tecniche di pma eseguite all’estero sono figli della coppia di donne che hanno prestato il consenso manifestando inequivocabilmente di voler assumere la responsabilità genitoriale sul nascituro quale frutto di un progetto di vita comune con il partner e di realizzazione di una famiglia» [14].

Per meglio comprendere questo passaggio è opportuno fare un passo indietro: come è noto, l’articolo 5 della legge n. 40/2004 stabilisce che «possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Non possono, pertanto, avere accesso alle tecniche di pma, sia di tipo omologo che eterologo, le donne single, quelle in età avanzata, nonché le coppie composte da persone dello stesso sesso. Tuttavia, in relazione a queste ultime, è di chiara evidenza che, sino alla declaratoria di incostituzionalità del divieto assoluto di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo [15], intervenuta con sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014, l’impossibilità di avvalersi di tecniche di procreazione artificiale per le coppie omosessuali derivava in via automatica dalla delimitazione delle pratiche ammesse alle sole tecniche di tipo omologo, ossia di quelle che utilizzano i gameti, maschile e femminile, dei componenti la coppia. In questo senso, avrebbe potuto ritenersi superflua la previsione normativa, stante l’ovvia impossibilità per la coppia omosessuale di utilizzare i propri gameti, ai fini del ricorso a tecniche di procreazione artificiale omologhe. L’annullamento del divieto di pma eterologa si riverbera, però, in modo fondamentale sul modello di famiglia prefigurato dal legislatore del 2004, attraverso la rigida delimitazione delle categorie aventi accesso alle tecniche di inseminazione artificiale; ammettendo la donazione di un gamete esterno alla coppia per finalità procreative, il legame biologico tra i suoi componenti cessa di assurgere ad elemento imprescindibile della famiglia, che, piuttosto, si apre a modelli familiari differenziati, ma accomunati dalla preminenza assegnata al fattore affettivo e intenzionale. Se, dunque, si assume che sia venuta meno il nesso tra procreazione e famiglia tradizionale – fondata sul matrimonio eterosessuale – ci si può interrogare sulle conseguenze che una simile novità, fatta entrare ancora una volta da un giudice e nel silenzio del Parlamento, produce se posta a raffronto con la nozione di famiglia elaborata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Schalk & Kopf v. Austria, ricorso n. 30141/04), poi seguita dalla Corte costituzionale che, a partire dalla sentenza n. 138/2010, ricomprende al proprio interno anche l’unione omosessuale, «intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».

Detto altrimenti, se «famiglia» lo è anche quella composta da persone dello stesso sesso e, a fronte dell’unico ostacolo che le è connaturato, ossia la possibilità di procreare naturalmente, la legislazione attuale consente di ovviarvi tramite le tecniche eterologhe, ma allo stesso tempo ne circoscrive l’impiego alle sole coppie eterosessuali, viene a profilarsi una questione di discriminazione, specialmente alla luce dell’accezione di «famiglia» delineata dalla giurisprudenza italiana ed europea. A ciò si aggiunga che la legge italiana impone di riconoscere che i figli nati con pma (anche eseguita all’estero) siano riconosciuti in Italia come «figli della coppia che ha prestato il consenso» a tale pratica, manifestando la consapevole volontà di assumere la responsabilità genitoriale [16]. L’art. 8 della legge 40/2004 è chiaro nel dire che chi nasce con tali tecniche è figlio della «coppia» che lo ha voluto.

Nel momento in cui la legge n. 76/2016 riconosce espressamente che i legami affettivi di «coppia» giuridicamente rilevanti riguardano tanto le coppie di diverso che dello stesso sesso (art. 1, comma 36), ritenere che la «coppia» cui fa riferimento la normativa sulla pma debba essere necessariamente di sesso diverso non è più sostenibile, specialmente se si considera che la legge n. 40/2004 non viene esclusa dall’applicazione della clausola generale antidiscriminatoria di cui al comma 20, art. 1, della legge sulle unioni civili [17]. Una interpretazione restrittiva dell’art. 8 della legge 40/2004 implicherebbe oggi forzatura del tenore letterale della norma, guidata da un mero pregiudizio ideologico. La strada è stata aperta dall’amministrazione di Torino che, per la prima volta, ha proceduto alla registrazione di certificati di nascita di minori nati in Italia da genitori dello stesso sesso, sostenendo la compatibilità con la lettera della legge nazionale (in particolare alla luce del combinato disposto delle leggi n. 40/2004 e n. 76/2016) che, come detto, impone di considerare i figli nati con pma eterologa (o con gestazione per altri) figli della coppia, anche dello stesso sesso, che li ha messi al mondo (e così anche i comuni di Milano, Sesto Fiorentino e altri). L’aspetto predominante è pertanto il consenso che «rappresenta l’assunzione consapevole ed irrevocabile della responsabilità genitoriale da parte di entrambi i componenti della coppia e costituisce il fulcro del riconoscimento dello stato giuridico del nato e del concetto di genitorialità legale, come contrapposta alla genitorialità biologica» [18]. In questo senso la decisione si armonizza perfettamente all’interno del dialogo giurisprudenziale in tema di omogenitorialità, facendo seguito a un’altra significativa pronuncia della Corte d’appello di Napoli che, nel confermare la legittimità della stepchild adoption in coppie omosessuali, ha precisato che si tratta pur sempre di una tutela minimale che l’ordinamento non può negare ad una relazione che sarebbe comunque degna di più ampia tutela sin dall’inizio [19]. Qui, il caso riguardava la richiesta della madre non biologica di adottare ex art. 44 lett. d) della legge n. 184/1983 il figlio, nato mediante pma di tipo eterologo eseguita all’estero. In maniera non scontata, la corte partenopea si spinge a rilevare che «la partner della madre biologica (siano le due o meno civilmente unite) non è una sorta di terzo genitore, come può configurarsi con riferimento alle cd. famiglie ricomposte (etero o omosessuali), in cui il minore è nato da una precedente relazione del genitore biologico (sicché il rapporto affettivo, per quanto significativo, si è creato ex post, appunto con un soggetto estraneo alla coppia che lo ha generato); (...) di contro, ella è il secondo genitore, l’unico che il minore possa avere, e svolge tale ruolo – evidentemente – addirittura da un momento precedente al concepimento, avendo contribuito alla sua generazione (non importa se solo con la prestazione del relativo consenso: ella – ed è dato dirimente – se ne è assunta la responsabilità ab origine[20]. Come a dire che, in effetti, l’adottante non diventerà sua madre, poiché lo è già sin dalla sua nascita, avendo espresso, sia pure all’estero, il consenso di cui all’art. 6 della legge n. 40/2004 e che quindi in forza dell’art. 8 della stessa legge il bambino è già figlio di entrambi i membri della coppia.

Il sistema normativo va dunque riletto alla luce del principio dei best interests of the child e del nuovo orizzonte di valori in materia familiare e genitoriale, dovendosi affermare che «lo status filiationis è regolarmente costituito nei confronti di entrambe le donne che compongono la coppia tutte le volte in cui sia stata utilizzata una tecnica di pma anche senza i requisiti oggettivi e soggettivi fissati dalla normativa interna», ciò in quanto «le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti della legge (...) non possono ricadere su chi è nato» [21] e sui suoi diritti fondamentali, tra i quali quello di vedersi riconosciuto come figlio delle due mamme che hanno legittimamente manifestato il loro consenso ad assumere la responsabilità genitoriale.

Il decreto del Tribunale di Pistoia conferma con molta chiarezza che l’azione amministrativa di sindaci e ufficiali di stato civile è pienamente fondata e doverosa: questa sentenza annulla infatti il diniego opposto dal sindaco e dall’ufficiale di stato civile e ordina la formazione di un atto di nascita nuovo, che indica sin dall’inizio l’esistenza di due mamme. Il Tribunale ordina al sindaco di annullare l’atto di nascita esistente, indicante un solo genitore e dunque errato, disponendo la sua sostituzione col nuovo atto di nascita «con indicazione delle due ricorrenti come madri». Dunque, il principio di tutela del superiore interesse del minore, da un lato, e il divieto di discriminazione tra figli nati da coppie etero o omosessuali che abbiano fatto ricorso alle tecniche della pma di tipo eterologo, dall’altro, impone il riconoscimento di entrambe le madri e l’assegnazione di pari dignità e rispetto al contesto familiare in cui il minore è accolto, cresciuto, educato e amato. «Nell’attuale contesto sociale e giuridico», precisa la Corte, «non è possibile affermare che l’instaurazione di relazioni genitoriali tra genitori dello stesso sesso ed il figlio frutto del loro progetto di famiglia costituisca un pregiudizio per il minore, dato che ciò non ha alcuna evidenza scientifica – ed anzi l’amore di due genitori omosessuali è equivalente a quello di due genitori eterosessuali nella misura in cui consente al figlio di crescere in un ambiente coeso e tutelante quale quello familiare –, né risulta essere vietato a livello costituzionale» [22]. Non è dunque facendo finta che queste famiglie non esistano che si tutelano e salvaguardano i minori; anzi, è proprio la loro invisibilità agli occhi dell’ordinamento giuridico che preclude a quei bambini, come ha ricordato anche la Corte suprema americana nella sentenza Windsor, di «comprendere, in seno alla comunità e nella vita quotidiana, l’integrità delle loro famiglie, e la loro vicinanza e armonia con le altre famiglie, con effetti assai rilevanti sulla loro serenità, sul loro sentirsi parte della società e sulla stessa qualità della loro vita familiare» [23]. La vera discriminazione è quindi la disparità di trattamento che l’ordinamento giuridico perpetua nei confronti dei figli di coppie omosessuali che continuano a vivere in condizioni di precarietà, rispetto ai figli di coppie eterosessuali, cui sono riconosciuti automaticamente pieni diritti e massima tutela. Ad essere leso è il diritto di ciascun minore alla stabilità dei rapporti affettivi e familiari già formati (in Italia o all’estero). Il passo da una situazione di massima protezione ad una situazione di massima indeterminatezza è breve, anzi brevissimo: il solo fatto, per esempio, di perdere il genitore «biologico» o, meno drammaticamente, di attraversare il confine italiano può rappresentare lo sgretolamento del legame giuridico tra il figlio e un genitore. Considerare le famiglie omogenitoriali diverse dalle altre famiglie equivale a discriminare i loro bambini. Equivale, in altri termini, a violare l’articolo 2 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989 che stabilisce che gli Stati debbano rispettare i diritti del bambino «a prescindere dalla razza, dal colore, dal sesso (...) dalla nascita o da ogni altra condizione sua o dei suoi genitori».

 


[1] Il cosiddetto disegno di legge Cirinnà, dal nome della sua relatrice, è stato approvato dal Parlamento, a seguito dell’apposizione del voto di fiducia da parte del Governo, l’11 maggio 2016. La legge (n. 2081/2016) ha introdotto l’istituto delle unioni civili riservandolo alle sole coppie formate da persone dello stesso sesso e rappresenta la prima forma di riconoscimento legislativo della vita familiare omosessuale in Italia. Da un lato, per molti profili, le differenze tra matrimonio e unioni civili sono solo nominali, non di contenuto (vengono, infatti, riconosciuti tutti i diritti del matrimonio, dai diritti patrimoniali all’eredità compresa la legittima, dal diritto al mantenimento ed agli alimenti al diritto alla pensione di reversibilità, dal ricongiungimento familiare alla cittadinanza italiana per lo straniero unito civilmente, dal congedo matrimoniale a tutte le prerogative in materia di lavoro, dagli assegni familiari a tutte le disposizioni fiscali), dall’altro lato – e fermo che vi sono anche differenze sostanziali di rilievo – vi è la considerazione che le parole «contano», specie con riferimento ad istituti per i quali i simboli, le definizioni e i termini assumono grande rilievo sociale (basti pensare al venir meno dell’obbligo di fedeltà dei contraenti l’unione). Il grande assente di questa riforma è il tema della filiazione: il voto di fiducia ha comportato il sacrificio dell’articolo 5 della legge, quello che estendeva alle parti di una unione civile omosessuale – attraverso la modifica dell’art. 44, lett. b), della legge n. 184/83 – la possibilità di chiedere l’adozione del figlio biologico o adottivo dell’altra parte, così garantendo al bambino la stabilità e la certezza giuridica del rapporto con il genitore sociale. È interessante sottolineare, tuttavia, come al ventesimo comma del maxi-emendamento sia stato lasciato un sibillino riferimento alla filiazione adottiva che potrebbe risultare tanto più incomprensibile ove si consideri che segue alla richiamata esclusione dell’applicabilità, alla l. 184/1983, della clausola di equivalenza posta dalla stessa disposizione. Si legge, infatti, che «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». Ora, come è noto, la l. 184/1983 nulla prevede, e nulla consente, con riferimento alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso. Appare quindi evidente che la disposizione debba essere letta – del resto è stato espressamente riconosciuto da chi l’ha proposta – come una sorta di clausola di salvezza, volta a consentire, o meglio a non impedire, il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale manifestatosi di recente, alla stregua del quale è stata riconosciuta l’adozione in casi particolari, di cui all’art. 44, lett. d) della legge sulle adozioni, a favore del co-genitore dello stesso sesso quando ciò corrisponda all’interesse del minore. Cfr., tra gli altri, E. Calò, Le unioni civili in Italia: legge 20 maggio 2016, n. 76, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, Esi, Napoli, 2016; P. Schlesinger, La legge sulle unioni civili e la disciplina delle convivenze, in Famiglia e diritto, n. 10, 2016, p. 846; G. Casaburi, La disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, cit., p. 38; M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, in Famiglia e diritto, n. 10, 2016, p. 882; C.M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze: commento alla Legge n. 76/2016 e ai D. lgs. n. 5/2017; D. lgs. n. 6/2017; D. lgs. n. 7/2017, Giappichelli, Torino, 2017; G. Ferrando, Matrimonio e unioni civili: un primo confronto, in Politica del diritto, n. 1, 2017, pp. 43-64.

[2] La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è stata la prima ad annunciare la volontà di iscrivere all’anagrafe i figli nati da coppie di due mamme o due papà. La decisione è scaturita dal caso di due mamme che avevano chiesto – non la trascrizione di un certificato estero ma – di iscrivere un certificato di nascita con due mamme per un bambino che è nato qui in Italia. La questione delle trascrizioni di atti di nascita esteri era stata già affrontata e risolta positivamente da altri comuni, in particolare grazie a due importanti pronunce della Corte di cassazione (sentenze n. 19599/2016 e n. 14878/2017). Il Comune di Torino ha fatto un passo ulteriore affermando di registrare un atto di nascita con due mamme o due papà di bambini nati in Italia, in quanto lo si assume conforme alla nostra legge nazionale. Per un approfondimento si veda: M. Gattuso, Un bambino e le sue mamme: dall’invisibilità al riconoscimento ex art. 8 legge 40, in questa Rivista on-line, 16 gennaio 2018, http://questionegiustizia.it/doc/bambino_e_le_sue_mamme_gattuso.pdf (Ultimo accesso, 6 luglio 2018).

[3] Corte costituzionale, 15 aprile 2010, n. 138, in Foro italiano, 2010. Tale sentenza è stata, per molte ragioni, tra le più commentate degli ultimi anni e ha ricevuto valutazioni assai diverse. Tuttavia, andando oltre il dibattito sulla reale apertura o meno a favore della causa omosessuale, è indubbio il passo in avanti compiuto dalla Corte, specie se calato nel contesto dell’ordinamento italiano fino ad allora quasi del tutto insensibile al fenomeno. E la riprova sono i riflessi che la sentenza ha avuto sulle corti italiane. La pronuncia della Corte costituzionale ha il merito di aver abbattuto il muro del silenzio e di aver fissato un principio di estrema importanza: le coppie omosessuali sono titolari del diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, e il riconoscimento e la garanzia di tale diritto inviolabile postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolarne i diritti e i doveri, secondo la discrezionalità del legislatore. In altri termini, la sentenza ha il merito di aver fornito ai giudici ordinari gli strumenti argomentativi essenziali per tutelare future violazioni e discriminazioni a danno delle coppie di persone dello stesso sesso. Nel 2014 la Corte costituzionale è tornata a occuparsi, se pur indirettamente, di matrimonio tra persone dello stesso sesso, nella decisione n. 170 sul cosiddetto «divorzio imposto». La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso), perché non consentono a due coniugi «di proseguire nella loro vita di coppia pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi con conseguente rettificazione anagrafica». Ancora una volta, la sentenza conferma l’incorporazione del paradigma eterosessuale nella nozione di matrimonio «presupposta dal costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.)». Perciò esclude che il parametro di riferimento della fattispecie in esame possa essere l’art. 29 e, di conseguenza, indirizza la questione entro il perimetro dell’art. 2. La difesa del paradigma eterosessuale del matrimonio nella sentenza 170 risulta molto netta. La Corte respinge la possibilità di ammettere la sopravvivenza del matrimonio del transessuale dopo la rettificazione anche solo nei termini di una mera e circoscritta eccezione al carattere eterosessuale dell’istituto del matrimonio, che pure avrebbe continuato a valere come principio nel sistema ordinamentale, continuando a riservare l’accesso al matrimonio alle sole coppie di persone di sesso diverso: «Una pronuncia manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda (…) equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 Cost.» ed il legislatore è chiamato a trovare «una forma alternativa (e diversa dal matrimonio)» per garantire alla coppia, già coniugata, la protezione costituzionale dell’art. 2 ed evitarle l’approdo ad una condizione di «assoluta indeterminatezza». Cfr., tra i molti, R. Romboli, La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e le sue interpretazioni, in B. Pezzini e A. Lorenzetti (a cura di), Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, Jovene, Napoli, 2011, p. 11; C. Silvis, Il matrimonio omosessuale fra il “non s’ha da fare” dell’art. 29 ed il “si può fare” dell’ art. 2 della Costituzione, in Forumcostituzionale.it, 2010, p. 2; P. Veronesi, Il paradigma eterosessuale del matrimonio e le aporie del giudice delle leggi, in Studium Iuris, n. 10, 2010, pp. 997-1008.

[4] Nella decisione del caso Oliari & Altri v. Italia del 21 luglio 2015 la Corte Edu ha condannato l’Italia per la mancata previsione da parte del legislatore di un istituto giuridico, anche diverso dal matrimonio, che riconosca una relazione tra persone dello stesso sesso, poiché la carenza di riconoscimento giuridico di tali unioni determina una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare come enunciato dall’articolo 8 della Convenzione. La decisione nasceva dall’esame di due distinti ricorsi poi riuniti, proposti da tre coppie same-sex italiane, le quali si erano viste rifiutare dall’ufficiale dello stato civile le pubblicazioni matrimoniali. A seguito di tale impedimento, tali coppie avviavano una serie di ricorsi fino a giungere dinanzi alla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 138 del 2010, decideva che il divieto di contrarre matrimonio per le coppie same-sex non era incostituzionale. Esauriti i ricorsi interni, tali coppie decidevano infine di rivolgersi alla Corte europea per i diritti dell’uomo, lamentando come l’impossibilità di sposarsi nell’ordinamento italiano, correlata all’inesistenza di una legge sulle unioni same-sex, violasse la Convenzione Edu. Più precisamente, in un primo ricorso viene invocata la lesione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) letto singolarmente, nonché la violazione dell’art. 12 (diritto al matrimonio) letto singolarmente e in combinato disposto con l’art. 14 (divieto di discriminazione); in un secondo ricorso viene contestata la violazione dell’art. 8 in combinato disposto con l’art. 14. I giudici di Strasburgo hanno risolto la questione, affermando che i ricorsi sono fondati con riguardo alla violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 (e per tale ragione è stato, invece, ritenuto superfluo valutare se vi sia stata una violazione pure dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8), mentre manifestamente infondati con riguardo all’art. 12 letto singolarmente o in combinato disposto con l’art. 14. La decisione è il «naturale» approdo delle argomentazioni sviluppate dalla Corte Edu nei precedenti casi Karner v. Austria (ric. n. 40016/98), Schalk and Kopf v. Austria (ric. n. 30141/04) e Vallianatos and Others v. Greece (ric. n. 29381/09 e 32684/09), che non è possibile approfondire in questa sede. Nella sentenza è ulteriormente sottolineata la gravità della situazione italiana, poiché «alla necessità di riconoscere e tutelare tale relazione [omosessuale] è stato dato un alto profilo dalle supreme autorità giudiziarie inclusa la Corte costituzionale e la Corte di cassazione. (...) La Corte costituzionale ha ripetutamente ed esplicitamente invocato il riconoscimento giuridico dei diritti e dei doveri relativi alle coppie omosessuali (...), una misura che potrebbe essere adottata solo dal Parlamento. (...) Nondimeno, a dispetto di alcuni tentativi lungo tre decenni (...), il legislatore italiano è stato incapace di approvare la relativa normativa». La Corte Edu ritiene, pertanto, che l’inerzia conclamata del Parlamento italiano produce un duplice e negativo effetto: da un lato «potenzialmente indebolisce le responsabilità del potere giudiziario», dall’altro lascia «le persone interessate in una situazione di assoluta incertezza giuridica che deve essere presa in considerazione». Si veda, tra i molti, L. Scaffidi Runchella, Ultreya coppie same-sex! La Corte europea dei diritti umani sul caso Oliari e altri v. Italia, in Articolo29.it, 3 agosto 2015, http://www.articolo29.it/2015/ultreya-coppie-same-sex-corte-europea-dei-diritti-umani-caso-oliari-v-italia-2/#more-10647 (Ultimo accesso, 6 luglio 2018); A. Ceserani, Il caso «Oliari» avanti la Corte di Strasburgo e la condizione delle coppie «same-sex» in Italia: brevi riflessioni, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 3, 2015, pp. 785-802.

[5] Tribunale dei minorenni di Roma, Sentenza del 30 luglio 2015, n. 299.

[6] Art. 1, comma 20, legge n. 76 del 2016.

[7] Cass. civ., sez. I, 2016, n. 12962. Due gli snodi principali della motivazione degli Ermellini: 1) l’adozione in casi particolari nell’ambito di una coppia omosessuale non determina in astratto un conflitto di interessi tra genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice; 2) tale modello adottivo prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammesso sempreché alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il superiore interesse del minore. Dunque, coerentemente con il sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica e adottiva attualmente vigente, deve ritenersi sufficiente l’impossibilità «di diritto» di procedere all’affidamento preadottivo, lasciando al giudice la verifica delle condizioni di cui all’art. 44 e se l’adozione realizza in concreto il superiore interesse del minore (leggasi il massimo benessere possibile per quel determinato minore). Si veda, tra gli altri, la nota di M. Gattuso, La vittoria dei bambini arcobaleno, in Articolo29.it, 22 giugno 2016, http://www.articolo29.it/2016/la-vittoria-dei-bambini-arcobaleno/ (Ultimo accesso, 6 luglio 2018).

[8] Cass. civ., sez. I, 2016, n. 19599 e Cass. civ., sez. I, 2017, n. 14878. I giudici, in entrambe le pronunce escludono che la trascrizione del certificato di nascita possa essere impedita dai principi dell’ordine pubblico internazionale. Tali principi, secondo l’insegnamento della suprema Corte, devono intendersi come «principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un dato periodo storico» e fondati su esigenze, comuni ai diversi ordinamenti, «di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, sulla base di valori sia interni che esterni all’ordinamento purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale». Fra i principi che concorrono a determinare l’ordine pubblico internazionale ricorrono, allora, anche quelli desumibili dalla Convenzione europea dei diritti umani secondo l’interpretazione delle Corti europee, oltre che ovviamente quelli desunti dalla Costituzione e dai principi fondamentali dell’ordinamento posti a garanzia dei diritti fondamentali. Si vedano le note di S. Stefanelli, Riconoscimento dell’atto di nascita da due madri, in difetto di legame genetico con colei che non ha partorito, in Articolo29.it, 10 luglio 2017, http://www.articolo29.it/2017/riconoscimento-dellatto-di-nascita-da-due-madri-in-difetto-di-legame-genetico-con-colei-che-non-ha-partorito-nota-a-cass-civ-sez-i-15-giugno-2017-n-14878/ (Ultimo accesso, 6 luglio 2018); A. Schillaci, Le vie dell’amore sono infinite. La Corte di cassazione e la trascrizione dell’atto di nascita straniero con due genitori dello stesso sesso, in Guida al Diritto Il Sole 24ore Settimanale, n. 44, 2016; A. Porracciolo, Esclusa la violazione dei principi di ordine pubblico, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 3, 2017; G. Palmeri, Le ragioni della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same sex, in Il diritto di famiglia e delle persone, n.2, 2017; G. Ferrando, Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status filiationis, in Diritto Civile Contemporaneo, n. 1, 2017.

[9] Corte d’Appello di Trento, Sez. I, Ordinanza del 23 febbraio 2017.

[10] Tribunale dei minorenni di Firenze, decreti del 7 marzo 2017. Si veda la nota di A. Schillaci, «Una vera e propria famiglia»: da Firenze un nuovo passo avanti per il riconoscimento dell’omogenitorialità, in Articolo29.it, 13 marzo 2017, http://www.articolo29.it/2017/una-vera-e-propria-famiglia-da-firenze-un-nuovo-passo-avanti-per-il-riconoscimento-dellomogenitorialita/ (Ultimo accesso: 6 luglio 2018). Ancor più convintamente Corte di appello di Genova, Ordinanza del 1 settembre 2017, n. 1319.

[11] Sia consenta il rinvio a L. Giacomelli, «I ragazzi stanno bene»: la famiglia omogenitoriale, i best interests of the child e il silenzio legislativo, in Jura Gentium-Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, Vol. XIII, 2016, 2.

[12] Sia consentito il rinvio a L. Giacomelli, (Re)interpretando i Best Interests of the Child: da strumento di giustizia sostanziale a mera icona linguistica?, in Atti del Convegno del Gruppo di Pisa “La famiglia davanti ai suoi giudici”, Giuffrè, Roma, 2014.

[13] Tribunale di Pistoia, Decreto del 5 luglio 2018, § 5.2.

[14] Idem, § 5.10.

[15] Per un approfondimento si vedano M. D’Amico, L’incostituzionalità del divieto assoluto della c.d. fecondazione eterologa, in BioLaw Journal-Rivista di BioDiritto, n. 2, 2014, p. 34; M. C. Venuti, Procreazione medicalmente assistita: il consenso alle tecniche di PMA e la responsabilità genitoriale di single, conviventi e per le parti unite civilmente, in GenIUS-Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, n.1, 2018.

[16] Cfr., per esempio, M. Bianca, L’unicità dello stato di figlio, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, Cedam, Padova, 2015; A. Sassi, Accertamento e titolarità nel sistema della filiazione, in Trattato di diritto civile, diretto da Rodolfo Sacco, Torino, 2015. Come osservato da Bianca «la filiazione derivante da procreazione medicalmente assistita è infatti rapporto di filiazione il cui fondamento è l’atto di consenso» sicché la previsione di un criterio certo di determinazione della filiazione appare diretto ad assicurare il diritto ad uno status familiare certo e irretrattabile, funzionale alla stessa serenità esistenziale ed affettiva del nato.

[17] Art. 1, comma 20, legge n. 76 del 2016: «Al solo fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti» (corsivo aggiunto).

[18] Tribunale di Pistoia, Decreto del 5 luglio 2018, § 5.3.

[19] Corte d’appello di Napoli, Sentenza del 4 luglio 2018, n. 165.

[20] Idem, § 6.

[21] Cass. civ., Sez. I, 2016, n. 19599.

[22] Tribunale di Pistoia, Decreto del 5 luglio 2018, § 5.5. È interessante inoltre sottolineare che il giudice pistoiese ha ritenuto di poter decidere immediatamente senza attendere la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Pisa, con ordinanza del 14 marzo 2018, e nella quale sono rimesse al vaglio della Consulta una serie di norme che non consentono di formare in Italia un atto di nascita in cui vengono riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso.

[23] United States v. Windsor, 570 US __ 2013, cit. p. 23.

11/07/2018
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