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Jobs act, una prima lettura della legge delega in corso di approvazione

di Mariapaola Aimo
Associato di Diritto del lavoro dell’Università di Torino
Nel rincorrersi di notizie su imminenti modifiche del ddl già approvato dal Senato, l’esame dell’articolato solleva numerosi dubbi interpretativi anche di ordine costituzionale e sulla portata delle riforme che ne deriveranno. Nell'obiettivo del legislatore non c’è solo l’art. 18, ma un ripensamento ben più allargato e profondo di istituti fondamentali per la tutela dei lavoratori
Jobs act, una prima lettura della legge delega in corso di approvazione

Il legislatore del lavoro non smette di essere frenetico: scrive norme (e sempre più spesso male), subito dopo le riscrive e nel frattempo progetta e si prepara a riscriverle di nuovo. A proposito dell'ultima riforma in cantiere, la delega che il Parlamento si appresta a confezionare a tambur battente in materia di lavoro ha un'ambizione e un ampiezza significative.

Nonostante la tanta carne messa al fuoco, i riflettori per l'ennesima volta sono stati puntati sul noto art. 18 dello Statuto dei lavoratori: curioso però il fatto che - testo alla mano (prima quello d'iniziativa governativa, poi quello modificato proposto dalla Commissione Lavoro al Senato a settembre, infine quello effettivamente approvato in Senato a inizio ottobre, ora passato alla Camera ed assegnato in sede referente alla XI Commissione permanente Lavoro pubblico e privato) - manca nella legge delega in discussione ogni esplicito riferimento alla modifica dell’art. 18 St. lav., cionondimeno elevato ad "argomento unico" da tutti i media. Ma bisogna cercare altrove per trovare qualche indicazione in più: nella relazione al maxiemendamento fatta dal Ministro del lavoro Poletti si afferma che le modifiche all'art. 18 St. lav. sono rinviate ai decreti delegati, i quali si dovranno avvalere della delega: ma di quale parte visto che lì di licenziamento non si parla? Sempre secondo il Ministro andrà usata la parte della delega riguardante la «previsione, per i nuovi assunti, del contratto di lavoro a tutele crescenti in relazione all’anzianità di lavoro» (cioè l'art. 1, co. 7, lett. c) e un’idea di che cosa pare avere in mente il Governo si legge ancora in tale relazione, ove si apprende che per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti si intenderebbe modificare il regime del reintegro, sostituendolo con un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità per i licenziamenti economici e mantenendolo unicamente in caso di licenziamento discriminatorio e per alcuni licenziamenti disciplinari gravemente ingiustificati.

Secondo queste indicazioni, quindi, la tutela non sarebbe crescente nel senso che, una volta superata una prima fase temporale, porterebbe a "conquistare" il reintegro in azienda secondo le regole previste per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato "normale" in caso di licenziamento illegittimo. Ciò che crescerebbe - nella prospettiva governativa - è la misura dell'indennizzo economico, che però rimarrebbe l'unica sanzione del licenziamento illegittimo, salve le eccezioni di cui sopra: con problemi non piccoli di tenuta del sistema - viene da obiettare - sotto il profilo del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. fra lavoratori a tempo indeterminato del vecchio e del nuovo regime[1].  

Nel d.d.l. delega, però, questi criteri non ci sono, poiché il termine vago che si utilizza è solo quello di «tutele crescenti»; e men che meno vi si trova il mandato al Governo di riscrivere per tutti, vecchi e nuovi assunti, l'art. 18 St. lav: una disposizione che è onnipresente nei dibattiti, ma è tuttavia assente, innominata, nel testo normativo in discussione.

Per questo e per ulteriori motivi - visto che anche su altri temi, come si dirà, la delega presenta caratteri di genericità -, se il testo definitivo della legge delega verrà approvato nei termini che conosciamo oggi, saremo di fronte ad un esempio di torsione, certamente non il primo né l'ultimo, del modello costituzionale disegnato dagli artt. 76 e 77, 1° co., Cost., laddove si dispone, rispettivamente, che «l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti» e che «il Governo non può senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria».

Le distorsioni di questo strumento sono una "storia nota", sono cresciute col tempo ed ha spesso prevalso nella Corte costituzionale un atteggiamento prudente, di self-restraint, in virtù del quale la Corte ha preferito mettersi da parte, considerando il problema una questione politica e lasciando liberi potere legislativo ed esecutivo di regolare di fatto i loro rapporti. Gli «oggetti definiti» più volte si sono trasformati in materie con confini incerti, i «principi e criteri direttivi» in indicazioni vaghe e indeterminate e a fronte di leggi delega generiche la Corte costituzionale ha spesso valorizzato la possibilità di ricostruire principi e criteri direttivi dalle finalità del provvedimento[2]: non si può dunque certamente negare che di deviazioni ce ne siano state e ce ne siano tuttora e che ciò abbia alimentato l'ipertrofia legislativa del Governo.

Nel panorama della giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni si sono peraltro manifestati e rafforzati segnali che evidenziano un controllo più rigoroso e severo rispetto al passato sull’osservanza delle regole di procedura e competenza: segnali particolarmente importanti e opportuni a fronte della significativa e crescente espansione della normazione governativa (secondo un trend confermato dai dati relativi alla produzione normativa nel nostro paese raccolti dall'Osservatorio sulle fonti, diretto da Paolo Caretti[3]). In particolare, a partire da alcune sentenze pronunciate dai giudici costituzionali nel 2007, si è aperto tra i costituzionalisti e nella Corte un rinnovato dibattito sulla delegazione legislativa, come ben evidenziano le relazioni e gli interventi presentati ad un interessante Convegno di studi tenutosi alla Consulta nell'ottobre 2008[4].

La nota sentenza n. 170/2007 e, per quanto qui specificamente interessa, la pronuncia n. 340/2007, si pongono evidentemente "a presidio dei confini", a difesa cioè del principio essenziale della divisione dei poteri e dell'impianto costituzionale in materia di distribuzione della potestà legislativa, in nome dell'inderogabile esigenza che i singoli atti della fattispecie procedimentale della delegazione legislativa rispondano alle condizioni dettate dall'art. 76 Cost.: e più in generale tale giurisprudenza si pone a salvaguardia e a garanzia della «democraticità del processo di decisione politica», in considerazione della «pubblicità dei lavori e (della) possibilità di partecipazione delle forze politiche di opposizione» che sono assicurate dal «principio della centralità della legge come atto dell'Assemblea rappresentativa del popolo»[5].

Nei diversi passaggi argomentativi della sentenza n. 340/2007 il giudice delle leggi ha in particolare sottolineato con forza che la delega legislativa ha carattere derogatorio rispetto all'art. 70 Cost. (cioè rispetto al principio fondamentale dell'attribuzione della funzione legislativa alle assemblee rappresentative), che la legislazione delegata è per definizione vincolata - altrimenti "non è" - e che è la legge di delegazione a dover limitare il cd. potere di riempimento del legislatore delegato, il quale ha quindi bisogno di una "copertura" per poter legittimamente esercitare il compito conferitogli.

Tornando al d.d.l. delega sul lavoro e allargando lo sguardo oltre la questione già vista del contratto di lavoro a tutele crescenti, va sottolineato come si tratti di un provvedimento che - se uscirà anche dal secondo ramo del Parlamento nella versione approvata in Senato grazie alla fiducia - presenta elementi di disomogeneità: leggendo la delega nelle sue varie e complesse articolazioni, salta agli occhi come essa si riveli generica e indefinita su certi temi, mentre dettagliata su altri; se, per fare un esempio, leggiamo la parte concernente la tutela della maternità e la promozione della conciliazione, è certamente dettagliato il criterio contenuto nell'art. 1, co. 9, lett. b), ove si parla di «garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro» e si intende opportunamente estendere anche a loro l'operatività del cd. principio di automaticità delle prestazioni previdenziali.

Si può presumere, alla luce di una delega disomogenea come quella che si appresta ad esser approvata nelle prossime settimane, che essa non andrà incontro alla condanna della Corte costituzionale per difetto dei requisiti di cui all'art. 76 Cost. - vista la sua notoria reticenza a censurare leggi delega generiche -, ma potrebbe invece condurre a incidenti di costituzionalità dei futuri decreti delegati. A proposito dei succitati segnali a difesa dell'assetto costituzionale delle fonti, non va infatti dimenticato che la Consulta negli ultimi anni ha manifestato un certo rigore nel sindacare i decreti legislativi: ha tra l'altro più volte affermato che, quando il Parlamento attribuisce al Governo il compito di procedere al riassetto di interi settori normativi (si parla in tal caso di deleghe di riassetto), l’introduzione in sede di regolazione delegata di soluzioni sostanzialmente innovative è ammissibile solo ove le relative scelte di politica legislativa siano state definite dal Parlamento[6].

Ancora molto di recente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 50/2014 e riprendendo altre precedenti pronunce (in particolar modo la sentenza costituzionale n. 80/2012), ha sì ammesso la possibilità - specie nelle deleghe di riassetto - che «il legislatore delegato introduca disposizioni che costituiscono un coerente sviluppo e un completamento delle indicazioni fornite dal legislatore delegante», ma ha d’altra parte precisato che quest'opera «deve necessariamente mantenersi nell'alveo delle scelte di fondo operate dal legislatore della delega, senza potersi spingere ad allargarne l'oggetto», sottolineando un profilo particolarmente interessante ai nostri fini, e cioè il fatto che la norma delegata risulta esorbitante - e quindi costituzionalmente illegittima - quando «intercetta un campo di interessi così connotato nell'ordinamento, da non poter essere assorbito in campi più ampi e generici, e da esigere, invece, di essere autonomamente individuato attraverso la delega».

Da queste considerazioni non si vede proprio come si possa prescindere: se per riordinare il quadro normativo si sceglie, come nel caso in oggetto, la via di una legge delega, occorre infatti che materie, principi e criteri direttivi siano molto ben formulati, poiché la sufficiente determinatezza della legge di delegazione, come ricorda Gustavo Zagrebelsky, «è funzionale alla garanzia di quell'obiettivo di buona legislazione che la delega legislativa (...) deve assicurare, tramite l'effettiva dissociazione del momento dell'impostazione politica generale da quello dell'attuazione normativa»[7]. A maggior ragione in materie socialmente ed economicamente rilevanti come quelle del lavoro, il legislatore delegante deve quindi avere un’idea sufficientemente chiara del successivo percorso regolativo che sta innescando ed assumersi la responsabilità delle scelte che compie.

Proprio in questo senso si è già espressa una buona parte della comunità degli studiosi giuslavoristi, come è stato evidenziato in un recente documento che ha raccolto l'adesione dei giuristi componenti delle direzioni e delle redazioni di tre rilevanti riviste di diritto del lavoro accreditate nel sistema internazionale della ricerca scientifica[8] e come è emerso da diverse relazioni e interventi presentati nell'ottobre scorso a Bologna in occasione della X edizione dei Seminari di Bertinoro dedicata a La politica del lavoro del Governo Renzi[9]: da molti - che pur condividono l'esigenza di razionalizzare e semplificare, per quanto possibile, la legislazione del lavoro - è infatti stata lamentata la genericità di diversi punti della delega e sono state avanzate alcune prime osservazioni e proposte su metodo e merito dei progetti in discussione, con l'obiettivo di dare impulso nei prossimi mesi a un auspicabile dialogo con i responsabili politici e istituzionali, a maggior ragione vista l'ampiezza che, come già detto, caratterizza l'attuale (ed ennesima) riforma in corso.

A proposito dell’oggetto del d.d.l. delega, infatti, i contenuti sono ambiziosi: spaziano - in una prima parte - dal «riordino della normativa degli ammortizzatori sociali» (e qui l’interrogativo è se si riuscirà davvero a realizzare l'annunciato e opportuno potenziamento dell'Assicurazione sociale per l'impiego) a quello della disciplina «in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive», in un disegno complessivo di coordinamento tra politiche attive e passive del lavoro da parte di un’Agenzia unica nazionale per l’occupazione, da istituirsi sul modello dei sistemi di buona parte dei paesi europei; per passare all'ulteriore obiettivo della «semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione del rapporto di lavoro», nonché - grazie ad un'aggiunta fatta dal maxiemendamento senza altre precisazioni, quindi sostanzialmente "in bianco" - della materia dell'«igiene e sicurezza sul lavoro».

In una seconda parte del d.d.l. delega si incrociano poi due temi fondamentali: quello dei contratti di lavoro - ove si trova la già richiamata indicazione relativa al contratto a tutele crescenti e quella del generico mandato a riordinare e semplificare in un testo unico le forme contrattuali vigenti - e il tema della disciplina del rapporto sotto diversi e delicati profili; mentre una terza e ultima parte ha ad oggetto la revisione e l'aggiornamento - secondo diversi criteri - delle misure di tutela della maternità e delle forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Come già si è accennato, è la seconda parte della delega in discussione - nella tripartizione appena fatta - quella che ha suscitato maggior dibattito e sulla quale si intende in questa sede spendere qualche parola in più.

Vi si affermano gli obiettivi di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro» e di «riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le esigenze dell'attuale contesto occupazionale e produttivo» e con queste finalità si delega il Governo ad adottare in particolare un «testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro», il quale dovrà anzitutto prevedere interventi di semplificazione, modifica o superamento di alcune forme contrattuali, in esito ad un "censimento" di tutte le forme contrattuali esistenti e ad una valutazione - si torna genericamente a ripetere – della loro «effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale» (art. 1, co. 7, lett. a). Non viene detto altro, se si esclude l'unico espresso richiamo fatto alla possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio (il cd. lavoro a voucher, per intenderci) «per le attività lavorative discontinue e occasionali» (art. 1, co. 7, lett. g): un riferimento che potrebbe riecheggiare l’esperienza dei c.d. mini jobs tedeschi.

Certamente un’operazione di riordino e di coordinamento delle norme esistenti non può che essere benvenuta e utile, così da migliorarne la conoscibilità: vedremo nei prossimi mesi se questo tipo di intervento, e non qualcosa di diverso, sarà realizzato dai decreti delegati che verranno dopo l’approvazione della legge delega.

Tra i (pochi) criteri esplicitati ai fini del perseguimento dello specifico obiettivo di rafforzare le opportunità di impiego vi è quello – che riprende il noto articolo di apertura della legge n. 92/2012 - di «promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma privilegiata» di impiego, più conveniente sul piano degli oneri diretti e indiretti (art. 1, co. 7, lett. b), partendo - come si legge nell'emananda Legge di stabilità 2015 - dalla riduzione del costo del lavoro a tempo indeterminato. Più in particolare, è diventato centrale il già citato criterio della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio» (art. 1, co. 7, lett. c).

Sotto quest'ultimo profilo - benché non ci si stanchi di ripetere che non vi è alcuna dimostrazione che la flessibilità in uscita, così come la flessibilità in entrata, possa concretamente favorire lo sviluppo dell’occupazione e la crescita delle aziende - si è detto che le intenzioni del Governo (ma non esplicitate dal Senato nel d.d.l. delega) sono quelle di superare per i nuovi assunti buona parte di "quel che resta" dell'art. 18 St. lav. dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 92/2012: va infatti ricordato che la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamenti illegittimi irrogati in aziende con organico sopra i 15 dipendenti è molto cambiata in seguito alla cd. Riforma Fornero del 2012 (e si è terribilmente complicata, com'è noto) e che la tutela indennitaria, e non reintegratoria, è oggi la sanzione prevalente dei licenziamenti economici illegittimi. Com'è noto - anche in considerazione di queste modifiche - l'indicatore OCSE che misura il grado di protezione del lavoro a tempo indeterminato (il cd. EPRC[10]) è oggi nel nostro paese inferiore all'indice di Germania, Olanda, Belgio e Francia[11].

Si tratterà di capire - non solo dopo che la legge delega e la Legge di stabilità termineranno il loro iter, ma soprattutto dopo che verranno approvati i decreti delegati - di quali tutele saranno destinatari i lavoratori assunti con questo nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele progressive, cioè in quale punto, più o meno alto, o più o meno basso, verrà posta l'asticella del cd. costo di risoluzione; e si tratterà altresì di vedere quali incentivi verranno previsti per promuovere in concreto la scelta e l'utilizzo di questo nuovo contratto da parte delle imprese: allora sarà anche più chiaro il grado di competizione che potrà esercitare rispetto ad esso il vecchio contratto a termine nel nuovo "look acausale" fornitogli dal cd. Jobs Act I (il d.l. 34/2014, conv. con mod. dalla l. n. 78/2014), del quale la legge delega in discussione non annuncia un'opera di ulteriore restyling.

Non si deve infatti dimenticare la portata liberalizzatrice delle modifiche alla disciplina sul contratto a termine introdotte dal Governo Renzi nella primavera del 2014 (sulle quali pende un'articolata denuncia presentata alla Commissione Europea ai fini dell'avvio di una procedura d'infrazione nei confronti del nostro paese per violazione degli obblighi derivanti dal diritto europeo[12]): l'eliminazione della regola generale della giustificazione oggettiva delle prestazioni di lavoro a termine è stata, com'è noto, accompagnata da un nuovo e più elastico regime di proroghe e da limiti all'utilizzo dei contratti a termine (vincoli di durata complessiva e di quantità) che risultano "a maglie larghe" in quanto ampiamente modificabili e densi di eccezioni. A conti fatti, ancor prima di vedere la luce, il semi-concepito contratto a tutele crescenti ha un vero e proprio competitor con cui dovrà necessariamente misurarsi e che sta dando - dati statistici alla mano - ottima prova di sé.

Qualche breve considerazione, infine, può essere interessante svolgere sulla parte del d.d.l. delega relativa alla disciplina del rapporto di lavoro, ponendo l'accento su uno solo dei tre principali profili in discussione, cioè quello riguardante la revisione della disciplina dei controlli a distanza[13], che dovrà tener conto «dell’evoluzione tecnologica, contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore» (art. 1, co. 7, lett. e).

La disposizione "nel mirino" - come già è avvenuto con l'art. 8 della l. 148/2011, che ha espressamente previsto il tema degli «impianti audiovisivi e dell'introduzione di nuove tecnologie» tra i tanti aspetti inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione che possono essere oggetto di specifici contratti collettivi cd. "di prossimità" operanti «anche in deroga alle disposizioni di legge (e di) contratti collettivi nazionali» - è l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, che nel suo primo comma vieta qualsiasi controllo intenzionale dell’attività lavorativa svolto a distanza, ma che ammette al secondo comma i cosiddetti controlli preterintenzionali, i quali cioè derivano dall’impiego di apparecchiature non finalizzate alla vigilanza ma richieste da esigenze organizzative, produttive o di sicurezza, a condizione però che il datore di lavoro osservi una preliminare procedura codeterminativa, che gli impone di raggiungere un accordo con le rappresentanze sindacali in azienda oppure di dotarsi di un’autorizzazione amministrativa ad hoc. Grazie all’impiego nell'art. 4 St. lav. dell’espressione elastica «altre apparecchiature» è stato possibile in questi anni, anche se con qualche difficoltà, garantire vitalità a una norma certamente datata e definita non a caso "la più invecchiata" dello Statuto: l'art. 4 St. lav. è stato espressamente fatto salvo del Codice della privacy e ripetutamente invocato come norma-cardine dal Garante della privacy e per questo è rimasto al centro del sistema prevenzionistico e repressivo dei controlli del datore di lavoro che risultino lesivi dei beni fondamentali della persona.

Anche se la legge delega non lo esprime chiaramente, la direzione della prospettata revisione della disciplina in oggetto potrebbe essere quella di eliminare il vincolo rappresentato dal rispetto della procedura codeterminativa: se questa fosse l'intenzione, va però detto che l'abrogazione di tale procedura non determinerebbe certamente un "lasciapassare" per i controlli a distanza, poiché in ogni caso l’attività di controllo configura un trattamento di dati personali soggetto alla rigorosa disciplina e alle sanzioni in materia di protezione dei dati personali contenute nel nostro Codice della privacy. Senza contare che nella pratica il rispetto della procedura codeterminativa dell’art. 4 St. lav. si è rivelato un forte strumento di garanzia per il datore di lavoro, permettendogli di regolare un tema delicato come quello dei controlli[14].

Non va peraltro sottaciuto che su questo punto la delega in discussione - sebbene troppo limitata nell'oggetto (poiché relativa ai soli controlli a distanza) e troppo vaga nei criteri - coglie un’esigenza concreta e reale, ma sinora mai sviluppata nonostante i ripetuti moniti: quella cioè di scrivere una disciplina specifica del trattamento dei dati personali e dei controlli tecnologici sul luogo di lavoro, che raccolga e consolidi gli orientamenti più significativi della giurisprudenza e dell’Autorità Garante e che tenga a mente l’esortazione di Stefano Rodotà di partire sempre dalla premessa per cui «non tutto ciò che è tecnologicamente possibile è, per questo solo fatto, pure eticamente ammissibile, socialmente accettabile, giuridicamente legittimo»[15].

 

 


* Il presente testo costituisce la rielaborazione, con l’aggiunta delle note, dell’intervento svolto a Torino il 27 ottobre 2014 in occasione del Convegno Riforma o controriforma del diritto del lavoro: solo l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori?

[1] V. le osservazioni di L. Mariucci, Contratto a tutele crescenti e disciplina dei licenziamenti: l’oscuro contenuto del d.d.l. delega n. 2600 del 2014, consultabile al sito http://www.dirittisocialiecittadinanza.org - 27 ottobre 2014.

[2] Cfr., per riferimenti di giurisprudenza e dottrina, A. Celotto, E. Frontoni, Legge di delega e decreto legislativo, in Enc. dir., VI agg., Milano, 2002, 697 ss.; M. Ruotolo, S. Spuntarelli, Art. 76 Cost., in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, vol. II, 1484 ss; v. anche E. Frontoni, Considerazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 340 del 2007: verso un maggiore rigore nel sindacato sull’eccesso di delega, in Giurisprudenza Italiana, 2008, 5, 1105 ss.

[3] Consultabili nel sito http://www.osservatoriosullefonti.it.

[4] Gli atti del seminario svoltosi a Roma presso il Palazzo della Consulta il 24 ottobre 2008 sono stati raccolti in un volume dal titolo La delegazione legislativa, Milano, Giuffré, 2009.

[5] A. Anzon Demmig, I problemi attuali del sindacato della Corte costituzionale sulla delega legislativa, in La delegazione legislativa, cit., 8.

[6] V. le osservazioni di F. Scarpelli, Le ambiguità della "semplificazione" nella delega Lavoro, in Nel merito (http://www.nelmerito.com - 29 settembre 2014).

[7] G. Zagrebelsky, Conclusioni, in La delegazione legislativa, cit., 327.

[8] Si v. il documento redatto dalle riviste Diritti Lavori Mercati, Lavoro e Diritto e Rivista Giuridica del Lavoro, dal titolo Su razionalizzazione e semplificazione del diritto del lavoro (osservazioni e proposte di alcune riviste giuslavoristiche), consultabile al sito http://www.agilazio.it.

[9] In parte raccolti nel volume curato da F. Carinci, La politica del lavoro del Governo Renzi - Atto II, Modena, Adapt University Press, 2014.

[10] L'indice l’EPRC tiene conto di quattro set di indicatori relativi ai vincoli procedurali e temporali, al livello degli indennizzi, alle difficoltà di licenziare e alla disciplina del reintegro, alla disciplina dei licenziamenti collettivi.

[11] Cfr. R. Realfonzo, La favola dei superprotetti. Flessibilità del lavoro, dualismo e occupazione in Italia, in economiaepolitica (http://www.economiaepolitica.it - 26 settembre 2014).

[12] Su cui sia consentito rinviare alle osservazioni già svolte da chi scrive in La denuncia della CGIL alla Commissione Europea contro la riforma sul contratto a termine, in Nel merito (http://www.nelmerito.com - 10 settembre 2014).

[13] Lasciando quindi da parte i pur delicati aspetti di cui alle lett. d) e f) del co. 7 dell'art. 1, relativi, rispettivamente, alla revisione della disciplina delle mansioni (ove si prospetta in sostanza una modifica in senso ampliativo dello ius variandi del datore di lavoro così come oggi disciplinato dall'art. 13 St. lav.) e all’introduzione, anche in via sperimentale, di un compenso orario minimo per i lavoratori subordinati e parasubordinati nei settori non regolati dai contratti collettivi.

[14] V. le osservazioni di A. Bellavista, La tutela del lavoro tra marketing politico ed esigenze reali, consultabile al sito http://www.dirittisocialiecittadinanza.org - ottobre 2014.

[15] S. Rodotà, Intervista su privacy e libertà, Bari, Laterza, 2005, 133.  

20/11/2014
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