Magistratura democratica
Il sasso nello stagno

L’assegno divorzile e il dogma della conservazione del tenore di vita matrimoniale

di Antonio Lamorgese
Consigliere Corte di cassazione

1.- Il dogma della conservazione del tenore di vita matrimoniale nella giurisprudenza.

Costituisce diritto vivente, a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 11490 del 1990 (in senso conforme, tra le più recenti, vd. Cass. n. 11870 del 2015, n. 11686 del 2013), che “l’assegno di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di ‘bisogno’, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.

Il presupposto dell’attribuzione dell’assegno è, quindi, nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante (comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui egli possa disporre) ai fini della conservazione del medesimo tenore di vita avuto in costanza di matrimonio o che poteva ragionevolmente configurarsi sulla base delle aspettative maturate nel corso del rapporto. L’assegno serve così a evitare o ridurre lo scarto tra il tenore di vita che il coniuge istante potrebbe garantire a sé stesso con i propri mezzi dopo il divorzio e quello precedente.

Così impostata la questione, il giudizio sull’assegno si risolve in un confronto tra le condizioni economiche degli ex-coniugi, per fare in modo che il coniuge meno abbiente riceva un contributo, a carico dell’altro, che gli consenta di conservare, seppur tendenzialmente ma per un tempo indeterminato, il medesimo tenore di vita avuto durante il rapporto matrimoniale.

Non è necessario che egli si trovi in condizioni di “bisogno” o che non abbia mezzi adeguati a vivere una vita autonoma e dignitosa, né basta a far cessare la solidarietà postconiugale, di cui l’assegno è espressione, che il coniuge beneficiario veda nel tempo migliorate le proprie condizioni economiche, quando questo miglioramento non sia idoneo a fargli raggiungere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Ad esempio, l’insegnante senza figli che percepisca un reddito lavorativo di circa € 1500,00 mensili ed abbia una casa propria dove vivere, ha (o avrebbe) diritto all’assegno divorzile, in misura idonea a beneficiare del più alto tenore di vita avuto durante la vita matrimoniale grazie all’essenziale e preponderante contributo dell’ex marito (affermato imprenditore).

Per evitare un simile automatismo, difficilmente giustificabile, si afferma che ad una prima fase del giudizio, nella quale il giudice verifica l’esistenza del diritto (corrispondente ad una somma determinata) in astratto, a causa dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare il tenore di vita precedente, segua una seconda fase che è volta alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, sulla base della ponderata valutazione di diversi criteri: condizioni personali ed economiche dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune e durata del matrimonio, con riguardo al momento della pronuncia di divorzio.   

Per questa ragione la Corte costituzionale, con la sentenza n. 11 del 2015, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale che il Tribunale di Firenze aveva sollevato, imputando al diritto vivente in materia un contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, poiché l’assegno di divorzio, pur avendo una finalità meramente assistenziale, finirebbe per garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato al coniuge ritenuto economicamente più debole; con l’art. 2 Cost., sotto il profilo del dovere di solidarietà, poiché la tutela del coniuge debole non dovrebbe comportare l’obbligo di consentire, ben oltre il contesto matrimoniale, il mantenimento delle medesime condizioni economiche godute durante il rapporto matrimoniale; con l’art. 29 Cost., poiché risulterebbe anacronistico ricondurre l’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, senza considerare l’attuale portata del divorzio, della famiglia e del ruolo dei coniugi.  

Tale esito del giudizio costituzionale, tuttavia, non preclude e, anzi, impone una nuova riflessione sulla tenuta di un diritto vivente formatosi tanti anni fa, in un contesto giuridico, sociale ed economico molto diverso dall’attuale, avendo l’istituto matrimoniale perduto la centralità che aveva un tempo. 

La Corte costituzionale lo ha giudicato legittimo solo se e in quanto un diritto alla conservazione del tenore di vita matrimoniale possa essere escluso in concreto, in virtù del concorso dei fattori correttivi operanti (nella seconda fase del giudizio sull’assegno) in sede di determinazione dell’assegno, alla luce dei criteri sopra indicati (condizioni e redditi dei coniugi, durata del matrimonio, contributo alla formazione del patrimonio comune, ragioni della decisione).      

E tuttavia, se è vero che i suddetti criteri “agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto” e “possono valere anche ad azzerarla” (v. Cass. 2546 del 2014, n. 24252 del 2013), ciò non toglie che il diritto all’assegno da astratto può diventare concreto per il solo fatto che non ricorrano particolari ragioni ostative che l’altro coniuge, virtualmente obbligato al pagamento perché privilegiato sul piano economico, tra l’altro, è tenuto ad allegare e dimostrare.   

In realtà, secondo la nostra giurisprudenza, la conservazione del tenore di vita matrimoniale resta un punto di riferimento condizionante ed essenziale per l’attribuzione dell’assegno divorzile, del quale si predica la funzione assistenziale nel peculiare senso che il coniuge (non necessariamente debole ma) economicamente più debole dell’altro viene “assistito”, a tempo indeterminato, nell’ambito di un’operazione di tendenziale e sostanziale livellamento dei redditi e patrimoni.

Si tratta di una forma (patrimoniale) di ultrattività del vincolo matrimoniale, ormai cessato sotto il profilo personale, che si suole giustificare sulla base di varie ragioni, costituzionali (la solidarietà post-coniugale e la parità tra i coniugi, intesa come equiparazione economica degli stessi, anche dopo lo scioglimento del vincolo, a norma degli artt. 2, 3 e 29 Cost.), sociologiche e morali (per la necessaria tutela della donna-moglie che alla famiglia ha dedicato gran parte delle sue energie e, a seguito del divorzio, è in difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro, specialmente in Italia).

 

2.- Il vigente art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987.

Si deve ora verificare se un’analoga importanza sia assicurata (non solo dalla giurisprudenza ma) anche dalla legge alla conservazione del tenore di vita matrimoniale come scopo tendenziale della disciplina sull’assegno divorzile. L’esito di questa verifica è negativo.

● Nessun riferimento al “tenore di vita” è contenuto nell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, il quale stabilisce che il tribunale “dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive” e, ai fini della quantificazione, che si deve “[tenere] contodelle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”. Solo nel nono comma, che riguarda la documentazione relativa ai redditi che i coniugi sono tenuti a presentare, v’è un cenno al tenore di vita ma solo come elemento di fatto rilevante per l’accertamento delle loro condizioni reddituali e patrimoniali (“il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”).

Ciononostante, secondo la comune interpretazione della norma, la mancanza di mezzi adeguati o l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive devono essere valutate rispetto al tenore di vita matrimoniale del richiedente, considerato come (ex) coniuge, piuttosto che come persona avente diritto ad un tenore di vita dignitoso e libero dal bisogno.

E’ opportuno richiamare gli argomenti (deboli) posti a fondamento di questo radicato orientamento.

● Si sostiene che, con il riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali dei coniugi, la norma alluda implicitamente alla (necessità della) conservazione del tenore di vita matrimoniale, vista l’implicita correlazione tra i due concetti. Tuttavia, mentre l’accertamento delle condizioni economiche del coniuge richiedente serve per verificare l’adeguatezza dei suoi mezzi, non è sostenibile la necessità di comparare tali mezzi con quelli dell’altro coniuge al fine di accertare, al momento del divorzio, eventuali sproporzioni da colmare con l’attribuzione di un assegno, il cui scopo sarebbe, appunto, quello di ripristinare il tenore di vita matrimoniale. Si crea, in tal modo, una impropria commistione tra le due fasi del giudizio che dev’essere compiuto dal giudice, secondo le indicazioni della stessa giurisprudenza: la prima fase è volta all’accertamento del diritto all’attribuzione dell’assegno, che presuppone esclusivamente che il coniuge richiedente dimostri di non avere mezzi adeguati o di non poterseli procurare per ragioni oggettive; la seconda fase, alla quale si può (o si potrebbe) dare ingresso solo qualora sia stata accertata la mancanza di redditi adeguati da parte del coniuge richiedente, è volta alla concreta quantificazione dell’assegno sulla base, questa volta, di un corretto bilanciamento dei diversi criteri previsti nella norma (contributo personale dei coniugi, durata del matrimonio, ragioni della decisione e condizione reddituale del coniuge obbligato, il quale nei limiti delle proprie possibilità è tenuto ad aiutare l’altro coniuge a vivere una vita autonoma e dignitosa).

● Analoghe considerazioni valgono per il contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi (e soprattutto dal coniuge economicamente più debole) alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune: anche questo criterio viene in rilievo solo nella seconda fase, cioè dopo che sia stato accertato il diritto all’attribuzione dell’assegno in concreto, sulla base dell’esclusivo criterio dell’inadeguatezza oggettiva dei mezzi del richiedente.

● Un ulteriore sentiero seguito dalla giurisprudenza nel suo complesso e perplesso tragitto argomentativo è costituito dalla discutibile interpretazione della inadeguatezza dei mezzi, la quale prescinderebbe, in sostanza, dalla reale impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, com’è invece previsto chiaramente dalla norma (che riconosce l’assegno al coniuge che “non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”). La giurisprudenza, da un lato, pone a carico del coniuge destinatario della richiesta di assegno l’onere di dimostrare l’adeguatezza dei mezzi ovvero l’effettiva e concreta possibilità dell’altro coniuge di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini (vd. Cass. n. 21670 del 2015); dall’altro, non considera (o considera in misura insufficiente) che, a causa dello scioglimento del matrimonio, entrambi i coniugi si impoveriscono e risulta spesso difficile anche al coniuge possidente conservare il tenore di vita precedente.

In realtà, i mezzi possono essere inadeguati (e giustificano l’attribuzione dell’assegno) solo se e quando sia impossibile procurarseli, altrimenti quei mezzi non possono ritenersi inadeguati nel senso voluto dalla norma, che è quello di sopperire allo stato di “bisogno” del coniuge, in proporzione alle esigenze del coniuge obbligato. Naturalmente, occorre avere riguardo non solo a quanto è strettamente necessario per la sopravvivenza (come ad es. il vitto e l’alloggio), ma anche alle esigenze personali in senso ampio e alla “posizione sociale” dell’ex coniuge, come è già previsto dall’art. 438 c.c. in materia di alimenti a favore di chi versi in stato di “bisogno” e non sia in grado di provvedere al proprio “mantenimento”. E però, se è vero che la posizione sociale dell’ex coniuge è determinata anche dalla sua vita passata, ciò non significa che lo stato di bisogno debba essere parametrato al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, come invece ritiene la nostra giurisprudenza.    

Si potrebbe obiettare che una donna casalinga di venticinque anni che si voglia attivare per cercare lavoro ha chance diverse rispetto a una donna di quarantacinque anni che ha abbandonato vent’anni prima gli studi o il lavoro per dedicarsi esclusivamente alla famiglia e sia priva di mezzi propri. Si può replicare che l’ex coniuge di questa seconda donna, nei limiti delle proprie disponibilità, potrà corrisponderle un assegno per il tempo occorrente per il raggiungimento dell’indipendenza economica. La regola generale, però, non è quella del mantenimento dell’ex coniuge con un vitalizio sine die, esito questo che - anche se può essere escluso in concreto - è reso possibile per il fatto di essere intrinsecamente correlato all’asserito diritto alla conservazione del tenore di vita matrimoniale.

● Si sostiene che non vi sia sostanziale differenza tra il concetto di inadeguatezza dei mezzi e il parametro previsto dall’art. 156, primo comma, c.c. per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato “qualora egli non abbia redditi autonomi”. Tuttavia, a prescindere dal rilievo che nemmeno l’art. 156 prevede un diritto alla conservazione del tenore di vita matrimoniale, è curioso che la stessa giurisprudenza sia ferma (correttamente) nel ritenere che l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinda dagli obblighi di mantenimento operanti nel regime di convivenza e di separazione e costituisca effetto diretto della pronuncia di divorzio (vd. Cass. n. 398 del 2010 e n. 1707 del 2008).

● Infine, si individua il fondamento del diritto all’assegno nello stato post-coniugale che sorge dalla sentenza costitutiva di divorzio e, incoerentemente, si assegna ad esso la funzione di conservazione, seppur tendenziale, del tenore di vita che i coniugi avevano durante il matrimonio, senza trarne la conseguenza che sarebbe quella di considerare l’istituto come una forma di diritto agli alimenti, a norma dell’art. 433 n. 1 e seguenti c.c., con tutte le implicazioni del caso.

 

3.- L’originario art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970.

L’attuale sesto comma dell’art. 5 della legge n. 898 del 1987, come si è detto, è il risultato della modifica apportata dall’art. 10 della legge n. 84 del 1987 all’originario testo, che era così formulato: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi”.

Questa norma era comunemente interpretata nel senso che la funzione dell’assegno divorzile fosse triplice: assistenziale, nei confronti del coniuge la cui situazione si fosse deteriorata per effetto del divorzio; compensativa, in ragione dell’impegno personale ed economico prestato dal coniuge in vista del benessere della famiglia; risarcitoria, avuto riguardo alle ragioni della decisione e, quindi, alla responsabilità per la rottura del rapporto.

Caratteristica del sistema era l’estrema discrezionalità affidata al giudice, non solo, nella quantificazione, ma anche nell’attribuzione dell’assegno, che non richiedeva uno specifico accertamento dello stato di bisogno o dell’inadeguatezza dei mezzi: l’assegno era assicurato, di regola, alla donna-moglie, poiché si riteneva che avesse investito tutte le proprie energie in un matrimonio instaurato in regime di indissolubilità, considerato come una “sistemazione definitiva”.

La norma in esame, nel testo originario, inserendosi in un ordinamento ispirato ad una radicata tradizione antidivorzista, serviva a temperare gli effetti del radicale cambiamento di prospettiva determinato dalla legge sul divorzio, mediante un sistema di garanzie economiche in favore del coniuge più debole. Si spiega perché i vari criteri ivi indicati fossero interpretati come “necessariamente coesistenti ed egualmente rilevanti ai fini sia dell’attribuzione che della commisurazione dell’assegno” (vd. Cass., sez. un., n. 3308 del 1974) e si ritenesse sufficiente che il giudice comparasse la situazione economica dei due coniugi per accertare se ad uno di essi fosse derivato un deterioramento apprezzabilmente rilevante (vd. Cass., sez. un., n. 2008 del 1974).

Nel 1987, a quasi vent’anni dall’entrata in vigore della legge sul divorzio, il legislatore intese rivolgersi ai rapporti sorti prevalentemente in regime divorzista, modificando il sistema precedente fondato su una visione assicurativa del matrimonio che si voleva superare. E’ segno evidente del cambiamento di prospettiva la previsione (contenuta nel nuovo sesto comma dell’art. 5) dell’inadeguatezza dei mezzi o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive come presupposto essenziale dell’attribuzione dell’assegno, a prescindere dal tenore di vita matrimoniale; solo nel caso in cui il relativo giudizio sull’an fosse stato positivo, sarebbe stato possibile, ai fini della concreta quantificazione, ricorrere ai criteri ivi previsti, analoghi a quelli già dettati dalla norma originaria (con l’aggiunta della durata del matrimonio).

La ratio della legge del 1987 fu bene interpretata da una sentenza della Cassazione, così massimata: “A seguito della riforma introdotta dalla legge 6 marzo 1987 n. 74, all’assegno di divorzio è stata riconosciuta dal legislatore (art. 10 legge cit., che ha modificato l’art. 5 legge 1 dicembre 1970 n. 898) natura eminentemente assistenziale, per cui ai fini della sua attribuzione assume ora valore decisivo l’autonomia economica del richiedente, nel senso che l’altro coniuge è tenuto ad ‘aiutarlo’ solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio, in applicazione del principio di solidarietà ‘postconiugale’, che costituisce il fondamento etico e giuridico dell’attribuzione dell’assegno divorzile. Pertanto, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici del richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale” (vd. Cass. n. 1652 del 1990).

Questa interpretazione, tuttavia, come si è visto, non fu seguita dalle Sezioni Unite (vd. la già citata sentenza n. 11490 del 1990) e dalla giurisprudenza successiva che, pur predicandone la funzione esclusivamente assistenziale, interpretò (e interpreta) l’assegno in modo non molto diverso dalla giurisprudenza precedente, come un mezzo per assicurare a uno dei coniugi, seppur tendenzialmente, la conservazione del tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.

Non a torto il Tribunale di Firenze ha parlato di “una concezione criptoindissolubilista del matrimonio che appare oggi anacronistica” e ingiustificata anche rispetto al parametro costituzionale della uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, prevista dall’art. 29 Cost. “nei limiti stabiliti dalla legge a garanzia [di una] unità familiare“ che non c’è più a seguito dello scioglimento del matrimonio (l’attuazione del principio di uguaglianza nella fase postconiugale, ex art. 3 Cost., è affidata, in primis, alla divisione in parti uguali dei beni della comunione legale).

L’attuale interpretazione dell’art. 5, sesto comma, della legge del 1970, che procrastina a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti patrimoniali del vincolo coniugale, onerando uno dei coniugi del pagamento dell’assegno, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (vd. Cass. n. 6289 del 2014) che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla CEDU (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 9). Al riguardo, va apprezzata una recente sentenza della Cassazione che ha stabilito che “l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto - costituzionalmente tutelata, ai sensi dell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo - è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo” (vd. Cass. n. 6855 del 2015).

 

4.- Cenni al diritto europeo.

La Commission on European Family Law ha elaborato Principi (in Europa e diritto privato, 2009, 248 ss.) che intendono offrire una linea guida ai legislatori nazionali con l’obiettivo di indirizzare i vari ordinamenti verso un modello armonizzato in tema di diritto di famiglia. Con riguardo agli obblighi di mantenimento a seguito dello scioglimento del matrimonio, premesso che “Il mantenimento tra gli ex coniugi è soggetto alle stesse regole a prescindere dal tipo di divorzio” (p. 2.1), la regola generale è che “dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni” (p. 2.2). Più chiaramente rispetto al nostro art. 5, sesto comma, della legge del 1970, sostituito dalla legge del 1987, si distingue tra attribuzione e determinazione dell’assegno: “L’attribuzione del mantenimento dopo il divorzio presuppone che il coniuge richiedente non abbia mezzi adeguati per fare fronte ai propri ‘bisogni’ e che il coniuge obbligato abbia la capacità di soddisfare tali bisogni” (p. 2.3); per determinare il quantum del mantenimento (se dovuto) “si deve tenere conto in particolare dei seguenti fattori: a) la capacità lavorativa dei coniugi, l’età, il sesso, lo stato di salute; b) la cura dei figli minori; c) la ripartizione dei doveri durante il matrimonio; d) la durata del matrimonio; e) il tenore di vita durante il matrimonio e f) qualsiasi successivo matrimonio o convivenza duratura” (p. 2.4).

La straordinarietà del mantenimento tra gli ex coniugi è dimostrata anche dalla disposizione secondo cui “L’autorità competente attribuisce il mantenimento per un periodo di tempo limitato, ma eccezionalmente può attribuirlo senza limiti temporali” (p. 2.8) e dalla previsione di casi di estinzione presunta dell’obbligo di mantenimento “se l’ex coniuge sia passato a nuove nozze o abbia intrapreso una convivenza duratura”, con la precisazione che “l’obbligo di mantenimento non rivive in caso di rottura del nuovo matrimonio o della convivenza” (p. 2.9). Di derivazione tedesca è la disposizione secondo cui “Nei casi di eccezionale durezza per il coniuge obbligato, l’autorità competente può negare, limitare o fare cessare il mantenimento in ragione del comportamento del coniuge avente diritto” (p. 2.6). Secondo i medesimi Principles, “nel valutare la capacità del coniuge obbligato…, l’autorità competente deve… tenere conto dell’eventuale obbligo alimentare del coniuge obbligato verso il nuovo coniuge” (p. 2.7).

La dottrina ha notato “quanto ancora sia lungo il percorso che il legislatore italiano deve compiere, se intende adeguare la disciplina nazionale ai Principles in tema di diritto di famiglia, improntati decisamente a favore di un modello progressista di divorzio… per quanto riguarda gli obblighi di mantenimento… è necessario che tale istituto venga riletto sulla base dei concetti di temporaneità ed eccezionalità. I giudici sono chiamati a dare un’applicazione della legge limitando temporalmente la concessione del diritto al mantenimento ed adeguando in particolar modo la stima dell’assegno alla mera esigenza dell’ex coniuge di condurre una vita dignitosa, non parametrata quindi allo standard di vita sostenuto. Si deve, infatti, abbandonare il protrarsi all’infinito, ben oltre le effettive necessità del beneficiario, della logica solidaristica nei rapporti tra ex coniugi, per dare spazio, invece, ad una ritrovata libertà in capo ai singoli individui di destinare le proprie sostanze alle esigenze, ad esempio, del loro attuale menage familiare” (Rancan, in La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di Amram-D’Angelo, 2011, 133).

E’ utile un cenno alla Germania (vd. Cubeddu, Lo scioglimento del matrimonio e la riforma del mantenimento tra ex coniugi in Germania, in Familia, 2008, 22 ss.), dove, in passato, qualsiasi differenza di reddito conduceva di fatto al riconoscimento del mantenimento, come in Italia. Con la legge di riforma entrata in vigore il 1 gennaio 2008, la situazione è cambiata. Il mantenimento dell’ex coniuge è previsto solo in specifiche circostanze nelle quali vi sia un insuperabile stato di “bisogno” della persona, per ragioni di età, malattia o altre insuperabili difficoltà (anche in Francia l’art. 276 code civil dispone che il giudice possa imporre all’ex coniuge di versare una rendita vitalizia “a titolo eccezionale” quando per l’età o lo stato di salute l’altro non sia in grado di provvedere ai propri “bisogni”); sempre in Germania l’obbligo di mantenimento è, di regola, limitato nel tempo, poiché serve ad aiutare l’ex coniuge in una fase di transizione, dovendo egli attivarsi per cercare un’occupazione lavorativa di livello non necessariamente corrispondente allo “stato” conseguito con il matrimonio. Non esiste un diritto o una garanzia alla conservazione del tenore di vita matrimoniale. La medesima dottrina ha rilevato che “anche la ripartizione dell’onere probatorio circa la possibilità di trovare un posto di lavoro è mutata. Infatti, è l’ex coniuge che chiede l’assegno di mantenimento a dovere allegare e provare gli sforzi compiuti per trovare un posto di lavoro, come pure i fatti che eventualmente rendono impossibile, momentaneamente o definitivamente, l’esercizio di un’attività lavorativa”.

E’ senz’altro vero, come rilevato da altra dottrina (Rancan, cit.), che nei paesi del nord e centro Europa, che hanno ispirato i Principles, gli obblighi di mantenimento non sono considerati troppo importanti, poiché lì esiste un sistema efficiente di welfare che prevede una serie di sovvenzioni pubbliche di varia natura che permette un facile e rapido reinserimento nel mondo del lavoro del coniuge danneggiato dallo scioglimento del vincolo coniugale, al contrario dell’Italia e dei paesi del sud Europa, dove un simile sistema, che è assente, è in un certo senso surrogato dagli obblighi di mantenimento posti a carico di uno dei coniugi. Tuttavia, l’art. 31, primo comma, Cost., pone a carico della Repubblica di “[agevolare] con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi…”, e l’art. 23 Cost. implicitamente vieta le interpretazioni di legge che favoriscano indebite imposizioni patrimoniali.

In conclusione, in base ai principi di libertà e di autoresponsabilità (vd. Cass. n. 18076 del 2014, in tema di mantenimento dei figli maggiorenni), dopo il divorzio, gli unici legami destinati a rimanere in vita tra gli ex coniugi dovrebbero essere quelli riguardanti i figli e, qualora eccezionalmente riguardino rapporti patrimoniali, essi dovrebbero avere una durata temporanea. 

11/03/2016
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