Magistratura democratica
giurisprudenza costituzionale

La rettificazione di attribuzione di sesso tra Corte Costituzionale n. 221/2015 e fonti sovranazionali

di Alessandra Nocco
Dottoranda presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino

1. Il quadro giurisprudenziale prima dell’intervento della Corte Costituzionale

Con ordinanza n. 228 del 20 agosto 2014 il Tribunale di Trento ha sottoposto al vaglio della Corte costituzionale l’art. 1, primo comma, della l. 14 aprile 1982, n. 164, il quale stabilisce che “La rettificazione si fa in forza di sentenza passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali” (corsivo aggiunto).

Il caso da cui la rimessione traeva origine era quello di una donna che aveva chiesto la rettificazione di sesso da femminile a maschile e l’autorizzazione a compiere, ma solo in via eventuale e futura, gli interventi medico-chirurgici necessari alla demolizione dei propri organi sessuali ed alla ricostruzione di quelli maschili, ritenendo tuttavia detti interventi non indispensabili ai fini dell’autorizzazione in parola.

L’istante aveva esposto di percepire sin dall’infanzia un’identità maschile, di aver sviluppato un orientamento sessuale verso le donne e di provare frustrazione e disagio per il fatto che i propri documenti d’identità e le proprie risultanze anagrafiche attestassero un genere femminile.

Il Tribunale di Trento, persuaso che il tenore letterale dell’art. 1, primo comma, della l. n. 164/1982 non lasciasse dubbi in ordine all’indispensabilità sia del trattamento ormonale che dell'intervento medico-chirurgico (e che quindi, nel caso di specie, l’istanza della transessuale non operata andasse respinta) aveva allora sollevato incidente di costituzionalità, reputando la disposizione in insuperabile contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU). (In dottrina, v. tra tutti Lorenzetti, Diritti in transito. La condizione giuridica delle persone transessuali, 2013, che offre una ricca visione d’insieme delle difficoltà di ordine giuridico e delle tutele che interessano il transessuale in Italia.

Sulla possibilità di ottenere la riattribuzione anagrafica del sesso pur in difetto di intervento chirurgico cfr. 65 e ss.; v. anche Rodotà, La vita e le regole, tra diritto e non diritto, Milano, 2009, 88, secondo cui l’imprescindibilità dell’intervento chirurgico è una pratica “crudele”, dato che il diritto all’identità sessuale potrebbe essere validamente esercitato “tramite una procedura giuridico-formale di mutamento del nome e del sesso nei registri dello stato civile, permettendo così di presentarsi socialmente in conformità con il sesso psicologico”).

Altri tribunali di merito (ma da ultimo, ed incisivamente, anche Cass., sez. I civ., 20.7.2015 n. 15138, intervenuta in pendenza del ricorso davanti alla Consulta) al contrario, pronunciandosi su casi analoghi, avevano ritenuto di poter superare il tenore letterale della norma mediante interpretazione costituzionalmente orientata, in forza della quale avevano autorizzato le rettificazioni pur in difetto di intervento. In queste sentenze, infatti, si era reputata sufficiente la verifica, da un lato, del transessualismo degli istanti, dall’altro, del loro fermo convincimento di appartenere al sesso opposto a quello attribuito alla nascita, nonché del raggiungimento di uno stabile equilibrio psicofisico, con piena accettazione del proprio corpo (Trib. Roma 7.11.2014, inedita; Trib. Messina, 04.11.2014; Trib. Siena 12.6.2013, in NGCC, 2013, I, 1116, con nota di Bilotta; Trib. Roma 11.3.2011 e Trib. Roma, 22.03.2011, in NGCC, 2012, 243, con nota di Schuster; Trib. Roma 18.10.1997 in Dir. fam. pers., 1998, 1033, con nota di La Barbera). Attesa la genericità dell’espressione “modificazioni dei caratteri sessuali”, alcuni tribunali di merito, per esempio, avevano ravvisato la sufficienza della terapia ormonale ai fini della rettificazione, in quanto anch’essa ampiamente modificatrice di tali caratteri.

Altri, facendo leva sul disposto dell’art. 31, comma quarto, del d.lgs. n. 150 del 2011,a tenore del quale “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”,avevano affermato che l’adeguamento dei caratteri sessuali mediante intervento non integrasse affatto, per il legislatore, condizione indefettibile per la rettificazione. In particolare, secondo questo orientamento, non potevano essere “costretti al bisturi” quanti, aspirando alla rettificazione, corressero gravi rischi per la propria salute col sottoporsi all’intervento, o semplicemente, avendo già completato il percorso di transizione sessuale, non lo ritenessero utile né, appunto, necessario (Trib. Rovereto cit.; Trib. La Spezia 25.7.1987, in Arch. civ. 1987, 1233, ma qui nel senso che vada negata l’autorizzazione al trattamento medico-chirurgico qualora esso consista in interventi che, oltre a poter risultare pericolosi al momento dell’attuazione, non rappresentino una soluzione certa del transessualismo del richiedente né dal punto di vista somatico né psichico – con la conseguenza dell’impossibilità giuridica di rettificazione.

In dottrina, sul “costringimento al bisturi”, v. Patti, Mutamento di sesso e «costringimento al bisturi»: il Tribunale di Roma e il contesto europeo, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2015, 39, ma anche Patti, Rettificazione di sesso e intervento chirurgico, in Famiglia persone e successioni, 2007, 25). Quello appena esposto, nondimeno, era un orientamento giurisprudenziale minoritario: il requisito delle “modificazione dei caratteri sessuali”veniva interpretato dalla maggior parte dei giudici nel senso che, ai fini della rettificazione, fosse indefettibile, oltre al completamento della terapia ormonale e al raggiungimento di un armonioso rapporto soma-psiche, anche l’intervento chirurgico (Trib. Potenza, 20.02.2015 in www.articolo29.it; Trib. Vercelli, 12.12.2014, Redazione Giuffrè 2014; Trib. Roma, 18.7.2014, in www.ilsole24ore.com; Trib. Piacenza 18.2.2012, confermata da Corte d’App. Bologna 22.2.2013, in www.articolo29.it; Corte d’App. Bologna, 20.03.2013, in www.articolo29.it; Trib. Vercelli, 12.12.2004, in www.altalex.it; Trib. Brescia, 15.10.2004, in Famiglia e Diritto, V, 2005, 527 ss., con nota critica di Veronesi; Trib. Macerata 21.5.1985 in Arch. civ. 1986, 758; Trib. Macerata 12.11.1984 in Giur. It. 1985, I, 2, 195).

Lo scarso rigore terminologico della disposizione e la già evidenziata vaghezza dell’espressione “modificazione dei caratteri sessuali” avevano tuttavia determinato, all’interno del filone giurisprudenziale maggioritario, significativi scostamenti in ordine al tipo e al grado di invasività dell’intervento chirurgicominimoritenuto necessario ai fini della rettificazione. In difetto di specificazione normativa, infatti, l’intervento richiesto ben poteva riguardare la demolizione dei soli caratteri sessuali esterni (così Trib. Milano 2.11.1983, in Foro it., 1984, I, 582) oppure anche di quelli interni (si pensi alla transizione da donna a uomo e all’imposizione o meno, ai fini della rettificazione, dell’intervento di asportazione dell’utero e delle ovaie. Per esempio, nel senso che fosse necessaria anche l’asportazione dell’utero, delle ovaie e delle ghiandole mammarie v. Trib. Bologna 5.8.2005 in Foro it., 2006, 12, I, 3542). Ancora, l’intervento minimo necessario poteva interessare, a seconda che si accedesse ad un’interpretazione restrittiva o estensiva della lettera della legge, i soli caratteri sessuali secondari (es. seno, pomo d’Adamo) ovvero anche i caratteri sessuali primari (organi genitali).

A questo proposito, tuttavia, avveduta giurisprudenza di merito aveva osservato come, a fronte dell’agevole individuabilità dei caratteri sessuali primari, il novero dei caratteri sessuali secondari fosse da considerarsi assolutamente indeterminato (così Trib. Vercelli cit., secondo cui, sulla base del principio ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus, in difetto di specificazioni da parte del legislatore la norma andasse interpretata nel senso che fosse necessaria anche la modificazione dei caratteri sessuali primari).

La norma, per la sua indeterminatezza, era stata inoltre intesa sia nel senso che fosse sufficiente l’intervento demolitorio di tutti (o alcuni) dei caratteri sessuali preesistenti (Trib. Pavia 2.2.2006 in Foro it. 2006, 5, I, 1596; Trib. Bologna cit.; Trib. Benevento 10.1.1986 in Dir. Famiglia 1986, 614 nonché Riv. it. medicina legale, 1988, 264), sia che fosse necessario l’ulteriore e delicato intervento ricostruttivo dei caratteri propri del nuovo sesso (Trib. Cagliari 25.10.1982, in Giur. it., 1983, I, 2, 590; Trib. Vercelli cit.), ma, in quest’ultimo caso, quasi tutti i tribunali ritenevano non indispensabile la regolare o completa funzionalità degli stessi (Trib. Monza 25.10.1983, in Giur. merito, 1984, 256; Trib. Milano 2.11.1982, in Foro it., 1984, I, 582). Una posizione intermedia avevano assunto i tribunali che ritenevano sufficiente la perdita dei caratteri anatomici principali del sesso originario, con acquisizione di una sufficiente specificazione anatomica dell’altro sesso (Trib. Roma 3.12.1982, in Giust. civ., 1983, I, 996; Trib. Bologna 5.8.2005 cit.). Parte della giurisprudenza di merito, infine, faceva riferimento al diverso requisito della necessità di perdita della capacità procreativa tipica del sesso originario (Trib. Pavia 26.2.2006, in Foro it., 2006, 5, I, 1596).

Com’è agevole intuire, non si trattava di discordanze interpretative di poco conto, soprattutto considerando il diverso impatto che le prospettate alternative avevano sul corpo e sulla psiche dei transessuali che, in base alla propria residenza, si trovavano ad adire questo o quel tribunale. Per non parlare della disparità di trattamento e del vulnus alla certezza del diritto che antitetiche pronunce determinavano. In questo contraddittorio panorama giurisprudenziale, infatti, poteva accadere che, da un lato, un/a transessuale non ottenesse la rettificazione di sesso (pur avendo affrontato un’invasiva terapia ormonale e la demolizione dei caratteri sessuali primari e secondari) soltanto perché, temendo per la propria salute, non si fosse sottoposto/a (anche) alla riattribuzione chirurgica del sesso; dall’altro, altro/a transessuale ottenesse la richiesta rettificazione pur in difetto di qualunque intervento medico-chirurgico perché, secondo il diverso tribunale adito, si poteva procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma. Molto bene ha fatto, allora, il Tribunale di Trento a sollevare questione di costituzionalità e a chiedere un po’ di chiarezza.

2. L’ordinanza n. 228/2014 del Tribunale di Trento: le ragioni della rimessione alla Consulta

Il presupposto dal quale ha preso le mosse il Tribunale di Trento nell’ordinanza n. 228/2014, come già accennato, è l’insuperabilità del tenore letterale dell’art. 1, comma 1 l. n. 164/1982 attraverso una sua interpretazione costituzionalmente orientata. Come già altri giudici (Corte d’App. Bologna e Trib. Vercelli cit.), inoltre, anche i rimettenti hanno ritenuto che il rigore della norma non fosse temperato dal disposto dall’art. 31, comma quarto, del d.lgs. n. 150 del 2011, rubricato “Controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, a mente del quale “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”. Ed invero, secondo la prospettiva ermeneutica accolta, quest’ultima disposizione ammette la riattribuzione chirurgica di sesso come eventuale solo perché considera che i caratteri sessuali possano essere già stati modificati (per es. all’estero o per ragioni congenite) e non perché invece ammetta che si possa pervenire a rettificazione in difetto di intervento.

Data quest’esegesi è risultato impossibile ai giudici trentini consentire la rettificazione di sesso dell’istante non operata. Il rigetto del ricorso, tuttavia, è apparso loro in contrasto con la Costituzione in quanto soluzione lesiva del diritto dell’istante al rispetto della propria identità di genere. Da ciò è scaturita, appunto, la rimessione. Quanto alla rilevanza della questione di legittimità, essa è stata ricondotta dai giudici di Trento al fatto che in tutti i casi in cui la persona transessuale non volesse (per es. per aver già raggiunto un equilibrio psico-fisico) o non potesse (per es. per motivi di salute) sottoporsi all’intervento chirurgico, e perciò la rettificazione non venisse autorizzata, i suoi diritti costituzionali fossero indebitamente conculcati.

Il Tribunale, pertanto, ha chiesto alla Consulta di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l. 164/1982, nella parte in cui subordina l’autorizzazione alla rettificazione alla previa modificazione chirurgica dei caratteri sessuali, senza valutare la situazione fisica e psicologica dei transessuali caso per caso. Quanto alla non manifesta infondatezza, i rimettenti hanno diffusamente argomentano sui profili di contrasto della disposizione con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU), facendo proprie le riflessioni di sensibile dottrina (cfr. Winkler, Cambio di sesso del coniuge e scioglimento del matrimonio: costruzione e implicazioni del diritto fondamentale all’identità di genere, in Giur. merito, fasc. 3, 2012, p. 0571B, e segnatamente par. 2.2 Struttura e contenuti del diritto all’identità di genere e 2.3. La situazione italiana) nonché tenendo in considerazione le ultime acquisizioni in campo medico e psicologico sul tema. Quanto al contrasto della disciplina con l’art. 2, nel provvedimento di rimessione si è sostenuto che la scelta del legislatore di subordinare la rettificazione agli interventi di demolizione e riattribuzione chirurgica di sesso - come noto dolorosi, invasivi e pericolosi - rendesse eccessivamente difficoltoso – e quindi pregiudicasse irrimediabilmente – l’esercizio del diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, il quale trova nell’art. 2 Cost. il suo referente normativo.

Non si è però trascurato di considerare come anche secondo la giurisprudenza sovranazionale tale diritto vada annoverato tra i diritti fondamentali dell’individuo. La Corte EDU, infatti, ha affermato che esso rientra nella tutela offerta dall’art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), con la conseguenza che se la legislazione di uno Stato è incompatibile con un aspetto importante dell’identità personale sotto il profilo dell’identità sessuale, allora può arrecare grave pregiudizio alla vita privata del soggetto e si pone in contrasto con l’art. 8 CEDU (il riferimento dei giudici trentini è al caso Goodwin c. Regno Unito dell’ 11 luglio 2002, nonché al precedente Dudgeon c. Regno Unito, del 22 ottobre 1981). Ancora, per la Corte di Strasburgo, la dignità e la libertà dell’uomo costituiscono il nocciolo della Convenzione e all’art. 8 CEDU va ricondotta la tutela della sfera personale di ogni individuo, compreso il diritto di decidere i particolari della propria identità di essere umano (il riferimento dei rimettenti è, qui, al caso Pretty c. Regno Unito del 29 aprile 2002.

Sul recente caso Y.Y. c. Turchia v. invece diffusamente il par. 4 del presente lavoro). All’ordinanza n. 228/2014 va quindi certamente riconosciuto il merito di aver fatto buon uso degli strumenti ermeneutici offerti dalla CEDU e dalla giurisprudenza della Corte EDU per rafforzare il ragionamento giuridico e dare spessore al contenuto del diritto dei transessuali al rispetto della propria identità di genere. Quest’ultimo, infatti, già riconducibile sul piano interno all’art. 2 Cost., è stato ancorato, attraverso il richiamo delle pronunce della Corte di Strasburgo, anche all’art. 8 CEDU, con conseguente ampliamento della sua base giuridica. Coerentemente, i rimettenti hanno ritenuto la disciplina in contrasto, oltre che con l’art. 2 Cost., anche con l’art. 8 CEDU e con l’art. 117 Cost. quale norma interposta. Quanto al contrasto con l’art. 32 Cost., nell’ordinanza è stato ricordato quanto segue.

Anzitutto, mentre nel passato la medicina qualificava in termini di disturbo dell’identità di genere qualunque dissociazione tra il sesso anagrafico attribuito e il genere cui la persona sentisse di appartenere, tale prospettiva è stata successivamente abbandonata. Similmente, mentre in passato il disturbo dell’identità di genere veniva considerato guaribile solo attraverso la c.d. triadic therapy (percorso articolato in tre fasi – un’esperienza reale nel ruolo del sesso desiderato, il trattamento ormonale, la riattribuzione chirurgica di sesso – all’esito del completamento del quale la persona si considerava ristabilita ed appartenente al nuovo sesso)successivamente è stato riconosciuto (così Trib. Roma 7.11.2014 cit.) che una persona transessuale possa raggiungere il proprio equilibrio psico-fisico anche solo con la trasformazione di alcuni dei suoi caratteri sessuali (per es. secondari), atteso che l’identità sessuale è concetto che ingloba elementi di carattere psicologico e sociale.

Come evidenziato anche dalla giurisprudenza costituzionale, infatti, essa integra un “dato complesso della personalità, determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l'equilibrio, privilegiando - poiché la differenza tra i due sessi non é qualitativa, ma quantitativa - il o i fattori dominanti” (Corte Cost. n. 161/1985). Condividendo queste riflessioni, il Tribunale di Trento è giunto a definire la sessualità umana quale espressione di molteplici componenti, essendo al contempo “genetica, fenotipica, endocrinica, psicologica, culturale e sociale” e ha ritenuto che la normativa in tema di rettificazione rispondesse ad una logica antiquata, non il linea con le più recenti acquisizioni in campo sanitario e psicologico. In punto di fatto, il Tribunale si è soffermato altresì sui rischi che i trattamenti ormonali possono comportare per la salute della persona.

I giudici hanno ricordato, infatti, che la transazione da donna a uomo può comportare ipercoagulabilità del sangue con rischio di embolia polmonare, infertilità, aumento di peso, patologie epatiche e labilità emotiva, mentre la transizione opposta può portare infertilità, malattie cardiovascolari, acne. Non meno pericolosi, per quanto le evoluzioni in campo medico-sanitario li abbiano resi meno invasivi di un tempo, sono gli interventi chirurgici per la demolizione e la ricostruzione dei caratteri sessuali. Nel complesso, si tratta evidentemente, secondo i rimettenti, di un prezzo troppo alto per i transessuali che non ritengano utile né necessario per il proprio benessere pagarlo.

Sulla scorta di tali premesse è apparso dunque pacifico che la disciplina fosse in conflitto anche con l’art. 32 Cost. che presidia la salute, diritto assoluto dell’individuo ed interesse della collettività. Interessante notare, da ultimo, come nell’ordinanza non si sia argomentato in ordine al contrasto della disposizione con l’art. 3 Cost., pur invocato quale parametro di legittimità nella rimessione alla Consulta. Forse così ovvia è parsa la violazione del principio di uguaglianza (sub specie di discriminazione basata sul sesso e sulle condizioni personali) a sfavore dei transessuali, da averne ritenuto superflua la – pur opportuna - dimostrazione. Come che sia, i giudici trentini hanno concluso affermando che, alla luce dei diritti in gioco, è necessario riconoscere alla persona transessuale il diritto di rifiutare le modificazioni chirurgiche dei caratteri sessuali, senza che questo comporti, a priori, impossibilità giuridica di rettificazione. Una volta riconosciuto che il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso costituisce un vero e proprio diritto della personalità, infatti, non sembra consentito al legislatore subordinarlo a restrizioni tali da pregiudicarne gravemente l’esercizio, fino a vanificarlo.

3. La sentenza interpretativa di rigetto del Giudice delle Leggi: un atteso stop al “bisturi per forza”

Quali prospettive potessero aprirsi dopo l’ordinanza n. 228/2014, fino a pochi giorni addietro, era difficile a dirsi. Una prima possibilità era quella che la Corte Costituzionale decidesse di non entrare nel merito. Non del tutto eccentrica appariva infatti l’ipotesi che la questione fosse dichiarata inammissibile, ad esempio, perché fondata su un erroneo presupposto interpretativo, oppure perché risolventesi in una richiesta di avallo della Corte dell’opzione interpretativa del giudice rimettente, (la quale tuttavia non costituiva l’unica interpretazione possibile della normativa censurata, come dimostrato dalle oscillazioni giurisprudenziali), oppure, ancora, perché coinvolgeva scelte discrezionali del legislatore, al quale esclusivamente spettava di decidere se subordinare o meno la rettificazione anagrafica di sesso alla condizione del previo intervento chirurgico, ovvero per ulteriori ragioni ancora.

Se così fosse stato, la questione sarebbe rimasta irrisolta, e presumibilmente le oscillazioni giurisprudenziali, col tempo, avrebbero portato il tema all’attenzione delle Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali, in funzione nomofilattica, sarebbero arrivate ad una decisione (almeno tendenzialmente) dirimente in ordine all’interpretazione della disposizione censurata. Medio tempore, tuttavia, si sarebbe continuato ad assistere a pronunce di merito di segno opposto, con i già rappresentati effetti (vulnus alla certezza del diritto ed al principio di uguaglianza). In antitesi rispetto alla possibilità di declaratoria di inammissibilità del ricorso vi era quella del suo accoglimento.

La Consulta avrebbe infatti potuto dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui subordina la rettificazione della attribuzione di sesso alla intervenuta modificazione dei caratteri sessuali, per contrasto con tutti o alcuni dei parametri costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione (artt. 2, 3, 32, 117 Cost. - art. 8 CEDU), così estromettendo dall’ordinamento una disposizione ritenuta, dai giudici trentini, irrispettosa dei diritti fondamentali delle persone transessuali. Questo tipo di sentenza, per quanto sostanzialmente condivisibile, avrebbe inevitabilmente determinato un vuoto normativo al quale solo il legislatore avrebbe potuto porre rimedio, con altrettanto inevitabili (e presumibilmente lunghi) tempi di attesa legati al dibattito parlamentare.

Nel mezzo tra le due possibilità vi era quella di una sentenza interpretativa di rigetto. La Consulta, ritenendo ammissibile la questione, avrebbe potuto infatti ritenerla infondata nel merito, indicando il percorso argomentativo – sostanzialmente vincolante per il futuro per tutti i giudici di merito - attraverso il quale rendere compatibile la disposizione censurata con la Carta costituzionale. E così è stato. Con sentenza interpretativa di rigetto n. 221 del 21 ottobre 2015 (Pres. Criscuolo – Est. Amato) la Corte Costituzionale, infatti, ha dichiarato la questione di illegittimità dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 non fondata.

In via preliminare, quanto alla ammissibilità del ricorso, il Giudice delle Leggi ha evidenziato come - al contrario di quanto affermato dall’Avvocatura generale dello Stato (che sulla scorta di tale rilievo aveva sollevato eccezione di inammissibilità dello stesso) - il Tribunale di Trento abbia correttamente esperito il tentativo obbligatorio di interpretazione costituzionalmente orientata della norma, nel pieno rispetto delle regole del processo costituzionale. Il fatto che sia giunto a ritenere insuperabile il tenore letterale della disposizione censurata, infatti, non attiene alla ammissibilità della controversia, per la quale rileva soltanto il predetto tentativo.

Quanto al merito, la Corte ha anzitutto rilevato che la disposizione censurata costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale e normativa volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU). La legge n. 164 del 1982, infatti, ha accolto un concetto di identità sessuale che conferisce rilievo non solo agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita o “naturalmente evolutisi”, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale.

Presupposto della disciplina, in questa prospettiva, è dunque la concezione di sesso quale dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori dei quali va agevolato o ricercato l’equilibrio. Non solo. La legge si colloca, ha affermato la Corte, nell’alveo di una civiltà giuridica ancora in evoluzione, sempre più attenta ai valori di libertà e dignità della persona umana, valori ricercati e tutelati anche nelle situazioni minoritarie ed anomale. Venendo alla specifica disposizione oggetto di censura, nella sentenza si legge che il fatto che essa preveda, senza ulteriori specificazioni, che “La rettificazione si fa in forza di sentenza passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, indica che è stato lasciato all’interprete il compito di definire il perimetro di tali modificazioni e delle modalità attraverso le quali realizzarle.

Ed invero, la mancanza di qualsivoglia riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), ha portato la Consulta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali. In coerenza con i supremi valori costituzionali, pertanto, essa ha stabilito che è rimessa al singolo, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare il percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere.

Di conseguenza, ad ogni istanza di rettificazione anagrafica deve seguire un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto, nonché del suo carattere definitivo. Il trattamento chirurgico, in quest’ottica, costituisce solo, viene ribadito, uno strumento eventuale, che può aiutare a raggiungere la tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza e il conseguimento di un pieno benessere. Il Giudice delle Leggi ha inoltre osservato come vada letto nella soprindicata prospettiva anche il riferimento alla eventualità del trattamento medico-chirurgico di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011: il legislatore ha voluto lasciare apprezzare al giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento, la sua effettiva necessità, in relazione alle specificità del caso concreto.

Il giudice, pertanto, autorizzerà il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali solo in funzione di garanzia del diritto alla salute. In particolare, l’intervento è auspicabile nei casi in cui la divergenza tra sesso anatomico e psicosessualità determina nel transessuale un atteggiamento di rifiuto della propria morfologia anatomica. In conclusione, la Consulta ha affermato l’importante principio secondo cui la corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico è recessiva rispetto alla prevalente tutela della salute dell’individuo, con la conseguenza che l’intervento chirurgico non può mai essere un prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione anagrafica, ma solo un possibile mezzo per il conseguimento della salute intesa in senso lato. Il diritto all’identità di genere, quale espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU), nell’interpretazione abbracciata dalla Consulta, risulta quindi pienamente rispettato sia dall’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164, sia dall’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011. Queste disposizioni, inoltre, lette nei termini di cui in motivazione, non contrastano affatto, ma anzi promuovono, anche la piena realizzazione del diritto alla salute, che come noto trova il suo referente nell’art. 3 Cost. Sebbene non costino ancora, allo stato, contributi dottrinali sulla sentenza n. 221, si può immaginare che essa sarà accolta dagli esperti della materia con favore.

Così come affermato (www.retelenford.it) dalla Presidente di Avvocatura per i diritti LGBTI, avv. Maria Grazia Sangalli, si tratta infatti di una pronuncia che “chiarisce definitivamente le ambigue zone d’ombra della legge 164/82 in tema di rettificazione di attribuzione di sesso” e che, con ciò, aggiungerei, contribuisce a rendere effettivi il principio di certezza del diritto e il principio di uguaglianza (sub specie di divieto di discriminazioni irragionevoli). Inoltre, innalzando il livello di tutela dei diritti fondamentali di quella che, di fatto, è una ristretta minoranza di persone, offre un grande segno di civiltà giuridica.

4. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Y.Y. contro Turchia del 10 marzo 2015

Non può non essere ricordato che nelle more del giudizio di costituzionalità sull’art. 1 l. n. 164/1982, è intervenuta in tema di rettificazione di attribuzione di sesso un’importante pronuncia della Corte EDU nei confronti della Turchia, la quale, pur se non menzionata dalla Consulta nella sent. n. 221/2015, certamente è stata tenuta presente dai giudici costituzionali nel decidere.

Il caso da cui ha avuto origine la sentenza è quello di un transessuale, nato donna, il quale, sentendo fortemente di appartenere al genere maschile, aveva richiesto sin dal settembre del 2005 di essere autorizzato ad effettuare i necessari trattamenti chirurgici. Tali istanze erano state ripetutamente rigettate dai giudici di merito, in ragione della mancanza del requisito della “definitiva incapacità di procreare”, richiesto dall’art. 40 del cod. civ. turco ai fini dell’autorizzazione al cambiamento di sesso.

Nel maggio del 2013, dopo diversi anni, l’istante aveva finalmente ottenuto dalle autorità turche l’autorizzazione ad effettuare i trattamenti chirurgici richiesti. Nondimeno, con decisione emessa in data 10 marzo 2015 su ricorso n. 14793/08 (in http://hudoc.echr.coe.int ), la Corte EDU ha condannato all’unanimità la Turchia a risarcire i danni patiti dal transessuale per aver dovuto attendere per anni l’autorizzazione in parola, stabilendo che negare la predetta autorizzazione per mancanza della incapacità di procreare integra una violazione, da parte dello Stato, dell’art. 8 CEDU, che protegge la “vita privata” della persona, perché ostacola l’esercizio del suo diritto all’identità di genere, da considerarsi aspetto essenziale del più ampio diritto all’autodeterminazione individuale (par. 102).

Come già da tempo pacifico nella sua giurisprudenza della Corte (v. Goodwin c. Regno Unito, 11.2.2002, in http://hudoc.echr.coe.int), essa ricorda che, anche quando, come nel caso in esame, non si sia ancora formato un ampio consenso da parte dei Paesi aderenti alla Convenzione su un certo tema, il margine di apprezzamento concesso può essere anche abbastanza ridotto, in considerazione della natura dei diritti in causa (par. 101). Inoltre, secondo la Corte EDU, vi sarebbe ormai la prova evidente di una continua tendenza internazionale a favore di una sempre maggiore accettazione delle persone transessuali e del loro riconoscimento giuridico. Ciò premesso, la Corte passa a valutare la consistenza della prospettata violazione dell’art. 8 CEDU (par. 56 e ss.). Nel merito di questo rilievo osserva anzitutto che il concetto di “vita privata” è un concetto ampio, non suscettibile di definizione esaustiva, che certamente comprende l'integrità fisica e morale della persona, ma può anche abbracciare aspetti dell’identità fisica e sociale dell’individuo, come l’identità di genere, il nome, l’orientamento sessuale.

L’art. 8, inoltre, protegge il diritto allo sviluppo personale e il diritto di stabilire e mantenere proficue relazioni con gli altri. A questo proposito, la Corte ritiene che la nozione di autonomia personale sia fondamentale quale base di interpretazione delle garanzie di cui all’art. 8 CEDU e ricorda come la dignità e la libertà dell’individuo costituiscono il cuore della Convenzione, con la conseguenza che il diritto allo sviluppo personale e all’integrità fisica e morale delle persone transessuali non può non rientrare nell’art. 8 cit. Quanto agli interessi in conflitto, i giudici di Strasburgo sottolineano la particolare importanza delle questioni attinenti ad uno degli aspetti più intimi della vita privata: la definizione dell’identità di genere.

A tal proposito, essi rilevano di aver già affrontato questioni relative ai diritti dei transessuali, condividendo il continuo miglioramento delle misure adottate dagli Stati membri ai sensi dell’art. 8 CEDU per proteggere e riconoscere i loro diritti. Con riferimento al caso specifico, la Corte EDU afferma che, per determinare se il protratto diniego da parte delle istituzioni turche di rilascio dell’autorizzazione all’intervento chirurgico integri o meno un’ingerenza indebita dello Stato nella vita privata del ricorrente, è necessario stabilire: a) se detta ingerenza sia “prevista dalla legge”; b) se, in una società democratica, sia “necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Posto che l’effettiva esistenza di una base giuridica per la predetta ingerenza non è in discussione tra le parti, essendo pacificamente ricondotta all’art. 40 del cod. civ. turco, la Corte passa rapidamente all’esame del secondo punto, ovvero alla legittimità e alla necessità dell’ingerenza stessa ai sensi dell’art. 8 CEDU (par. 72 e ss.). In proposito, essa ricorda che l’ingerenza da parte dell’autorità nella vita privata e familiare della persona è considerata “necessaria in una società democratica” anzitutto se risponde ad un “bisogno sociale imperativo” e se è proporzionata allo scopo legittimo perseguito. A tal riguardo, è quindi necessario che le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla siano “rilevanti e sufficienti”.

Nel caso di specie, la questione coinvolge la libera definizione dell’identità di genere del ricorrente, ovvero un aspetto essenziale del diritto all’autodeterminazione, sicché pare alla Corte fondamentale che la Convenzione sia interpretata ed applicata in modo da rendere i diritti ivi sanciti “non teorici ed illusori, ma concreti ed effettivi”. Per questa ragione, essa è consapevole di dover adottare, nel decidere, un approccio dinamico ed evolutivo: in caso contrario rischierebbe di rendere la Convenzione, più che uno strumento, un ostacolo per il miglioramento.

Nel caso sottoposto al suo esame, pertanto, la Corte ritiene opportuno tenere conto dell’evoluzione del diritto internazionale ed europeo, nonché della legge e delle prassi in vigore negli Stati membri del Consiglio d’Europa, al fine di valutare le circostanze del caso “alla luce delle attuali condizioni di vita” (par. 104). In questa prospettiva, i giudici evidenziano subito che la possibilità di intraprendere il percorso di transizione da un sesso ad un altro esiste già in molti Paesi europei, così come il riconoscimento giuridico del nuovo genere.

Molte legislazioni nazionali, implicitamente o esplicitamente, subordinano tuttavia il riconoscimento giuridico della nuova identità di genere all’intervento chirurgico e/o all’incapacità definitiva di procreare. Vero è, dice la Corte, che in base al principio di sussidiarietà è rimessa soprattutto agli Stati contraenti la decisione sulle misure necessarie ad assicurare che il proprio ordinamento risolva i problemi pratici di riconoscimento giuridico della condizione dei transessuali, e che quindi vada loro riconosciuto un ampio margine di apprezzamento; nondimeno, detto margine, in alcuni casi, è da considerarsi ridotto. Così è quando, per esempio, come nel caso in esame, il rango dei diritti in gioco è primario e quando, pur non essendosi ancora formato un largo consenso europeo su come risolvere i problemi pratici e giuridici in discussione, appaia incontestabile una progressiva tendenza internazionale verso un certo risultato (ivi: verso una maggiore accettazione sociale dei transessuali e una crescente consapevolezza della necessità del riconoscimento giuridico della loro identità).

Gli strumenti di soft law più recenti (v. par. 5 del presente lavoro), ricorda a tal proposito la Corte EDU, affermano che è necessario rivedere le condizioni poste dagli Stati membri per la transizione da un sesso ad un altro, al fine di “eliminare i requisiti abusivi” e, in particolare, al fine “bandire la sterilizzazione forzata” e, d’altro canto, alcuni Stati membri hanno recentemente modificato la loro legislazione o la loro prassi amministrativa in materia di accesso alle cure e al cambiamento di sesso, abolendo il requisito della infertilità/sterilità ai fini del riconoscimento giuridico. Per tali ragioni, il margine di apprezzamento degli Stati è da considerarsi non più ampio, ma ridotto.

Al di là di questa considerazione di ordine generale, non va sottaciuta la valutazione di contraddittorietà che i giudici di Strasburgo operano con specifico riguardo all’art. 40 del cod. civ. turco, laddove postula l’incapacità di procreare quale condizione per accedere all’intervento chirurgico: tale incapacità, infatti, è piuttosto la conseguenza dell’intervento stesso (par. 118). Concludendo, a parere della Corte EDU il requisito della incapacità permanente di procreare richiesto dal cod. civ. turco ai fini dell’autorizzazione all’intervento chirurgico, anche alla luce delle tendenze europee ed internazionali sul tema, si pone in insuperabile contrasto con l’art. 8 CEDU, essendo la sua formale previsione non “necessaria in una società democratica”.

Di conseguenza, l’ingerenza delle autorità turche nella vita privata del ricorrente non è conforme alla Convenzione, come indirettamente confermato, secondo la Corte, dal fatto che le stesse autorità turche, nel 2013, abbiano mutato orientamento e rilasciato al richiedente l’autorizzazione a ricorrere alla chirurgia per cambiare sesso. Detto rilascio, tuttavia, a parere dei giudici di Strasburgo, non cancella il fatto che per molti anni il ricorrente non abbia potuto accedere all’operazione richiesta, con conseguente violazione del suo diritto al rispetto della vita privata ex art. 8 CEDU. Per tutto quanto esposto, la Corte EDU condanna la Turchia a risarcire il ricorrente per il danno medio tempore patito.

5. I diritti dei transessuali e gli strumenti di soft law

In chiusura pare opportuno dare brevemente atto di alcuni degli strumenti di soft law che, negli ultimi anni, hanno avuto ad oggetto (anche) i diritti dei transessuali e la questione della rettificazione di attribuzione di sesso. Il 29 luglio 2009 il Commissario per i diritti umani ha pubblicato un documento dal titolo “Diritti umani e identità di genere”, con il quale, tra l’altro, ha invitato gli Stati membri del Consiglio d’Europa a: stabilire procedure rapide e trasparenti per il cambiamento di nome e sesso sui certificati di nascita, documenti di identità, passaporti e altri documenti ufficiali; smettere di condizionare il riconoscimento dell’identità di genere di una persona alla sterilizzazione o sottoposizione ad altri trattamenti medici, i quali potrebbero compromettere seriamente l’autonomia, la salute o il benessere della persona; garantire che il trattamento ormonale, l’intervento chirurgico e l’assistenza psicologica siano realmente accessibili per le persone transessuali e sia garantito il rimborso delle spese sostenute.

Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha richiesto agli Stati membri, con una Risoluzione del 2010, di introdurre normative apposite sul cambiamento di sesso anagrafico, evitando di sottoporre le istanze di rettificazione alla condizione del trattamento medico o all’operazione chirurgica, anche considerato che hanno già legiferato in tal senso numerosi Paesi aderenti alla Convenzione (il riferimento è alla Risoluzione n. 1728 del 29 aprile 2010 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sulla discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere).

Quanto ai documenti adottati sotto l’egida delle Nazioni Unite, il 17 novembre 2011 l’Alto Commissario dei Diritti Umani ha presentato al Consiglio dei Diritti Umani un rapporto sulle leggi discriminatorie, le pratiche e gli atti di violenza contro le persone, basati sul loro orientamento sessuale o identità di genere. Nelle conclusioni e raccomandazioni del rapporto in parola, l’Alto Commissario, in particolare, ha raccomandato agli Stati membri: “[…] h. De faciliter la reconnaissance juridique du genre de préférence des personnes transgenres et de prendre des mesures pour permettre la délivrance de nouveaux documents d’identité faisant mention du genre de préférence et du nom choisi, sans qu’il soit porté atteinte aux autres droits de l’homme.”.

In aggiunta a questi strumenti di soft law, peraltro richiamati anche nella pronuncia Y.Y. c. Turchia (par. 31 e ss.), mi pare molto interessante richiamare la posizione assunta dal Parlamento dell’Ue nella Risoluzione del 28 settembre 2011 “sui diritti umani, l’orientamento sessuale e l’identità di genere nel quadro delle Nazioni Unite” (2013/C 56 E/12, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE in data 26.2.2013), nonché nella recentissima Risoluzione del 12 marzo 2015 sulla relazione annuale “sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell’Unione europea in materia” (2014/2216(INI), in www.europarl.europa.eu ).

Nella prima, il Parlamento, tra l’altro: “[…] 11. si rammarica che nell'Unione europea i diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, ivi inclusi il diritto all'integrità fisica, alla vita privata e alla famiglia, il diritto alla libertà di opinione, di espressione e di associazione, il diritto alla non discriminazione, il diritto alla libera circolazione anche per le coppie omosessuali e le relative famiglie, il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ricevere cure mediche, nonché il diritto di asilo, non siano ancora sempre pienamente rispettati; […] 13. condanna con assoluta fermezza il fatto che, in alcuni Paesi, anche all'interno dell'Unione, l'omosessualità, la bisessualità o la transessualità siano ancora percepite come una malattia mentale e chiede agli Stati membri di affrontare questo fenomeno; chiede in particolare la depsichiatrizzazione del percorso transessuale, transgenere, la libera scelta del personale di cura, la semplificazione del cambiamento d'identità e una copertura da parte della previdenza sociale; […] 16. invita la Commissione e l'Organizzazione mondiale della sanità a depennare i disturbi dell'identità di genere dall'elenco dei disturbi mentali e comportamentali e a garantire una riclassificazione non patologizzante in sede di negoziati relativi all'11a versione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11); […]”.

Nella recentissima Risoluzione del 12 marzo 2015 citata, ancora, il Parlamento europeo afferma di accogliere positivamente “l'adozione da parte del Consiglio degli orientamenti dell'UE per la promozione e la tutela dell'esercizio di tutti i diritti umani da parte di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali […]” (par. 42), e dedica un intero titolo ai “Diritti LBGTI”. Ivi si legge che “Il Parlamento europeo: […] 159. deplora che l'omosessualità sia tuttora sanzionata penalmente in 78 paesi, sette dei quali prevedono la pena di morte (Arabia Saudita, Nigeria, Mauritania, Sudan, Sierra Leone, Yemen, Afghanistan, Iran, Maldive e Brunei), e che in 20 paesi siano ancora configurate come reato le identità transgender; condanna fermamente il recente aumento di leggi discriminatorie e ritiene che le pratiche e gli atti di violenza contro gli individui sulla base del loro orientamento sessuale e dell'identità di genere non debbano restare impuniti; incoraggia un rigoroso controllo della situazione in Nigeria, Uganda, Malawi, India e Russia, dove nuove leggi o recenti sviluppi giuridici minacciano gravemente la libertà delle minoranze sessuali; riafferma il proprio sostegno all'incessante lavoro dell'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani volto a contrastare tali leggi e pratiche discriminatorie, nonché, più in generale, al lavoro delle Nazioni Unite su questo tema; 160. sostiene l'idea che il SEAE debba accordare priorità alle sue azioni in tale ambito e concentrarsi in modo particolare sulle situazioni in cui è in vigore la pena di morte e/o le persone LGBTI sono sottoposte a torture e maltrattamenti, condannando tali pratiche conformemente agli orientamenti dell'UE sulla pena di morte e a quelli in materia di tortura e altri pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti; 161. accoglie positivamente l'adozione, nel giugno 2013, degli orientamenti dell'Unione per la promozione e la tutela dell'esercizio di tutti i diritti umani da parte di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali (LGBTI); invita il SEAE e la Commissione a sollevare la questione dei diritti delle persone LGBTI nei dialoghi politici e in materia di diritti umani con i paesi terzi e nelle sedi multilaterali; sottolinea l'importanza che la Commissione e il SEAE continuino a sollevare la questione dei diritti delle persone LGBTI nei dialoghi politici e in materia di diritti e umani e ricorrano all'EIDHR per sostenere le organizzazioni che difendono i diritti delle persone LGBTI consentendo loro di sfidare le leggi e le discriminazioni omofobe e transfobiche nei loro confronti, sensibilizzando il grande pubblico nei confronti della discriminazione e della violenza subite da persone di diversi orientamenti sessuali e identità di genere e garantendo che sia prestata assistenza di emergenza (comprese l'assistenza psicosociale e medica, le misure di mediazione e di reintegrazione) a coloro che hanno bisogno di tale sostegno; 162. prende atto della legalizzazione del matrimonio o delle unioni civili tra persone dello stesso sesso in un numero crescente di paesi nel mondo, attualmente diciassette; incoraggia le istituzioni e gli Stati membri dell'UE a contribuire ulteriormente alla riflessione sul riconoscimento del matrimonio o delle unioni civili tra persone dello stesso sesso in quanto questione politica, sociale e di diritti umani e civili; 163. invita la Commissione e l'OMS a eliminare i disturbi dell'identità di genere dall'elenco dei disturbi mentali e comportamentali; invita la Commissione a intensificare gli sforzi per porre fine alla patologizzazione delle identità transgender; incoraggia gli Stati a garantire procedure rapide, accessibili e trasparenti di riconoscimento del genere, che rispettino il diritto all'autodeterminazione; 164. accoglie con favore il crescente sostegno politico per la messa al bando della sterilizzazione quale requisito per il riconoscimento giuridico del genere, come espresso dal relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, e condivide il punto di vista secondo cui tali requisiti dovrebbero essere trattati e perseguiti come una violazione del diritto all'integrità fisica nonché della salute sessuale e riproduttiva e dei relativi diritti;[…]”

6. Osservazioni conclusive

Alla luce delle considerazioni svolte va osservato come l’indirizzo giurisprudenziale che autorizzava la rettificazione di attribuzione di sesso “solo previo intervento chirurgico”, tendenzialmente maggioritario nel nostro Paese sino alla sentenza della Corte Costituzionale n. 221/2015, fosse in contrasto non solo con gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, ma anche con l’art. 8 CEDU (come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu, da ultimo nel caso Y.Y. c. Turchia) e con i più recenti strumenti di soft law in tema di transessualismo. Quanto al contrasto con l’art. 8 CEDU, il crescente consenso negli Stati membri in merito alla necessità di riconoscimento giuridico e tutela dei diritti delle persone transessuali aveva già peraltro sensibilmente ridotto il margine di apprezzamento degli Stati membri su questa materia, con la conseguenza che i legislatori - ma anche i giudici, nella applicazione concreta del diritto – dovessero tendere verso il pieno riconoscimento giuridico e la più ampia tutela del diritto dei transessuali alla propria identità di genere. Peraltro, lo stesso rango primario dei valori in gioco, indipendentemente dall’ampiezza del consenso europeo sul tema, lo richiedeva.

La sentenza della Consulta, in questa prospettiva, ha condivisibilmente allineato la lettura di una disposizione aperta, oltre che alla Costituzione, alle fonti sovranazionali, evitando che la questione, portata dinanzi alla Corte EDU, potesse portare ad una condanna dell’Italia per ragioni analoghe a quelle del caso turco. Quanto al contrasto della predetta interpretazione maggioritaria con i più recenti strumenti di soft law in tema di transessualismo, va osservato che questi ultimi non sono giuridicamente vincolanti per gli Stati membri, e tuttavia, da un lato, si potrebbe affermare che lo siano da un punto di vista politico, dall’altro, essi sono chiari indicatori delle tendenze europee su un certo tema giuridicamente sensibile. Ed invero, come ricordato dalla Corte Edu nel caso Y.Y. c. Turchia, è anche alla luce dei contenuti degli strumenti di soft law che può affermarsi la progressiva tendenza internazionale verso la maggiore accettazione sociale dei transessuali e la crescente consapevolezza della necessità del riconoscimento giuridico della loro identità.

In conclusione la Corte Costituzionale, indicando ai giudici il percorso argomentativo che rende la disposizione censurata compatibile con i valori supremi della Costituzione, ha altresì allineato il diritto vivente italiano alle fonti sovranazionali, dimostrandosi sensibile alle sollecitazioni della Corte Edu e rispondendo positivamente, pur senza menzionarle, anche alle raccomandazioni internazionali provenienti dal soft law.

30/11/2015
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