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La riforma dello scambio elettorale politico-mafioso

di Piergiorgio Morosini
giudice Tribunale Palermo (dal 25/09/2014 Componente CSM)
Considerazioni sulla recente riforma dell'art. 416 ter del codice penale
La riforma dello scambio elettorale politico-mafioso

1. Mercoledì 16 aprile. Termina al Senato l’iter di riforma dell’art 416 ter del codice penale. Dopo venti anni di norma inapplicabile, finalmente il reato di scambio elettorale politico-mafioso muta fisionomia. L’epilogo parlamentare si consuma, però, tra polemiche e invettive. In aula e fuori, divisioni e estremismi salutano quella che, da più parti e con supplementi retorici, viene vissuta come una “norma simbolo” per bonificare la nostra democrazia dai patti scellerati. Secondo un copione collaudato, “garantismi di comodo” e “suggestioni giustizialiste” rendono flebili le riflessioni più pacate.

Lo stesso associazionismo antimafia è in subbuglio. Dai suoi opinion makers era partito un forte impulso alla riforma. Un impulso necessario a scuotere non solo le coscienze di tanti cittadini ma anche il dibattito parlamentare. Eppure, dopo il voto del Senato, anche quel mondo registra una pluralità di posizioni. Ma non c’è da stupirsi. Da tempo, all’unisono si sosteneva l’esigenza di “cambiare” la legge “inutile” sul “patto di scambio”, senza un accordo sul “come” scriverla. E, forse, proprio questo pluralismo di idee spiega gli oltre venti anni di vita del vecchio 416 ter. Una longevità, per altro verso, figlia del deficit di coraggio, dei ritardi culturali e dell’istinto di auto protezione di significativi segmenti della classe politica.

2. Ma torniamo al testo della riforma. Il parlamento era chiamato a superare una norma “inutile”. Dopo l’ultimo voto del Senato, può parlarsi di “missione compiuta”?

I “favorevoli” valorizzano la novità relativa all’inserimento della locuzione “altre utilità” nella promessa del politico. Parlano di grande “passo avanti” rispetto al passato. I “critici”, invece, denunciano l’ennesimo “regalo” alle mafie: sanzione troppo blanda (dai quattro ai dieci anni di reclusione); un precetto penale che, non tenendo conto della “disponibilità a soddisfare gli interessi mafiosi”, lascerebbe ampi margini di ingiustificata impunità del politico. E allora ragioniamo su queste criticità.

3. Il “passo avanti” c’è stato. Il vecchio testo dell’art.416 ter puniva il solo scambio di promesse voti/denaro. La promessa di “altre utilità” per le cosche non veniva sanzionata. Eppure anni di iniziative giudiziarie, da Palermo a Napoli, da Reggio Calabria a Catania e persino a Milano, parlano chiaro. Nelle tornate elettorali, i clan non si mobilitano per chiedere soldi ai candidati e ai partiti che sostengono. Il danaro lo raccolgono in tanti altri modi, nei mercati legali e illegali. Piuttosto, in cambio del sostegno elettorale, al politico chiedono appoggio su appalti, autorizzazioni amministrative, protezione giudiziaria, agevolazioni bancarie e tanto altro. Per questo l’inserimento nel 416 ter della formula che sanziona il politico quando promette “altre utilità”, e non solo “denaro”, in cambio del sostegno elettorale, è fondamentale.

Dimostra maggiore aderenza alla realtà. E aumenta notevolmente le potenzialità dell’azione di contrasto alle “alleanze nell’ombra” tra candidati e cosche. Senza quella aggiunta, pubblici ministeri e giudici sarebbero rimasti di fronte ad un bivio. Rassegnarsi alla sterilità del vecchio precetto. O “forzare l’interpretazione” del 416 ter. Lo aveva fatto di recente la Corte di appello di Palermo (9.1.2013), parificando alla dazione di denaro l’impegno del politico di fare pressioni verso una banca in vista di una transazione a condizioni indebitamente vantaggiose per una azienda mafiosa. Certo, così il vecchio 416 ter era più efficace verso le insidie di quei patti. Ma, senza la riforma, rimanevano possibili interpretazioni differenziate; e quindi trattamenti ineguali e verdetti processuali oscillanti, con il consueto strascico di polemiche strumentali sui giudici.

4. Dunque, la nuova formula “altre utilità” estende il campo di applicazione del divieto per il politico di fare promesse ai clan in campagna elettorale. Diventa più efficace lo strumento penale di protezione della libertà degli elettori, esposti alla mobilitazione della macchina elettorale mafiosa. Ma quella novità è suscettibile di giovare anche alla libertà di impresa, come dimostra un caso relativo alle elezioni siciliane per il rinnovo della assemblea regionale risalente al 1996. Allora Cosa Nostra offrì l’appoggio elettorale ad un politico. Se eletto, quasi certamente avrebbe ricoperto un incarico di governo, per il peso che aveva nel partito di maggioranza. Il politico accettò e, in cambio, promise di attivarsi per finanziarie una serie di opere pubbliche. Ai boss bastò quel patto prima del voto per affilare i “metodi persuasivi” verso gli elettori e iniziare a riscuotere il pedaggio del costituendo “cartello di imprese” che si sarebbe spartito gli appalti promessi. Ma quel genere di patto non poteva essere sanzionato dal vecchio 416 ter, nonostante i concreti pericoli non solo per gli elettori, condizionati dalle pressioni mafiose, ma anche per la libera concorrenza tra imprese (chi entra nel “cartello mafioso” può avere appalti, gli altri no). D’ora in poi, invece, con la nuova norma, il solo “incrocio di promesse” farà scattare la responsabilità penale del politico. Non è poca cosa. Anche se non è tutto.

Certo, la “mera promessa di procacciare voti” da parte della cosca non significa automaticamente “mobilitazione effettiva”. Generiche parole di impegno a sostenere un candidato possono rimanere lettera morta, con il rischio di punire le “brutte intenzioni” più che le azioni concrete. Ne soffrirebbero così le più elementari garanzie costituzionali. Ma in realtà la Cassazione, che presidia la corretta applicazione della legge, da tempo ha fissato i “paletti”. Non si accontenta della semplice promessa. Richiede, come minimo, che questa sia accompagnata da concreti segnali di mobilitazione in esecuzione dell’impegno assunto verso il candidato (v.Cass.14.1.2004 n.3859; Cass.11.7.2012 n.27655).

Una mobilitazione dimostrabile ad esempio con la presenza di affiliati ai seggi, ai comizi o nei luoghi di diffusione dei fac-simili elettorali. Semmai per evitare in radice “eccessi di attenzione giudiziaria” verso promesse generiche, si sarebbe potuta inserire nel 416 ter una formula del tipo “si adoperi per procurare voti”, peraltro sollecitata nel corso del dibattito parlamentare. Alla fine il legislatore ha rinunciato a quella aggiunta, confidando in una interpretazione del testo in sintonia con il principio di materialità, sulla scia dei precedenti della Suprema Corte.

5. La soluzione adottata è ritenuta “debole” da ampi settori del parlamento e anche da alcuni magistrati. L’incisiva repressione dei “patti inconfessabili” passerebbe per l’inserimento nell’art.416 ter della formula “disponibilità a soddisfare” gli interessi mafiosi. Peraltro, proprio su quella opzione si era coagulata la maggioranza al Senato nel passaggio di marzo. Ma il testo finale l’ha bocciata.

Robusti argomenti giustificano la mancata integrazione. Del termine “disponibilità”, infatti, non vi è traccia in tutto il sistema penale positivo. Non è mai stata descritta una condotta con quel termine, in alcun codice. Da quello del Regno delle due Sicilie del 1819, passando per il Sabaudo del 1859, sino al codice Zanardelli del 1889 e ovviamente al codice Rocco del 1930. Tutto questo non è avvenuto per puro caso. Il termine “disponibilità” appare vago, inafferrabile, non compatibile con la necessaria determinatezza dell’illecito penale. La questione è stata affrontata con specifici approfondimenti dalle sezioni unite della Suprema Corte con la sentenza del 12 luglio 2005 (n.33748). Si trattava di un processo a carico di un noto esponente politico per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. In quella sede, i giudici di legittimità, nell’assecondare esigenze di profilassi giudiziaria, hanno affermato che ancorare il precetto penale a concetti come “disponibilità” o “vicinanza” significa veicolare nel processo intuizioni, precomprensioni, giudizi etici.

Insomma, il concetto di “disponibilità” viene considerato quanto di più ambiguo e in contrasto con i cardini di un sistema penale costituzionalmente orientato. E quella tesi trova riscontro nella opinione di alcuni pubblici ministeri impegnati nelle procure “calde” del meridione d’Italia. I quali, dalle colonne del Corriere della sera del 27 marzo scorso, non rinunciano a manifestare le criticità di una formula che estende la punibilità a chi offre “la disponibilità a soddisfare interessi mafiosi”. La bollano come “labile”, “indeterminata” e foriera di “processi alle intenzioni”. Inoltre mettono in guardia dalle inevitabili difficoltà sul piano probatorio. Perplessità in buona parte riprese dalla componente di Area al CSM che con una nota scritta sollecitava l’organo di autogoverno a pronunciare un parere sul relativo disegno di legge. La condivisibile iniziativa si sofferma, in particolare, su una conseguenza da evitare: l’ “alta probabilità che la magistratura sia chiamata a interloquire in conflitti squisitamente politici, con evidenti possibilità di accentuazione del tasso di conflittualità con la politica”.

6. Gli strali sul nuovo 416 ter si estendono anche al trattamento sanzionatorio. La pena della reclusione dai quattro ai dieci anni ha “scandalizzato” una parte politica e alcuni commentatori. I più moderati parlano di pene troppo miti, altri addirittura di “regalo ai collusi”, con il plauso di una parte della pubblica opinione. Certi attacchi si ancorano a considerazioni politico-criminali contingenti. Minacciare una pena più alta sarebbe un forte deterrente anche in vista delle imminenti scadenze elettorali. Ma quei giudizi paiono trascurare aspetti altrettanto meritevoli di attenzione. In particolare, le esigenze di razionalità di un sistema delle pene che deve tenere conto della diverse forme di manifestazione e della diversa potenzialità offensiva della condotta del politico che stringe rapporti con i clan.

In effetti la nuova fattispecie delineata dal 416 ter, nella quale assume un rilievo centrale “la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui all’art.416 bis”, finisce per aggiungersi ai delitti di partecipazione in associazione di tipo mafioso e di concorso esterno. Con il 416 ter si prevede l’anticipazione della soglia di punibilità con riguardo al potenziale rapporto illecito tra il politico e il clan, rispetto a due condotte ben più pregnanti di uno scambio di promesse. In altri termini, se immaginassimo una scala di potenzialità offensiva dei tre reati, al vertice ci sarebbe la partecipazione, a seguire il concorso esterno, e poi il voto di scambio. Pertanto il disvalore differenziato delle tre condotte rende opportuna la previsione di una diversità di sanzioni, con una gradazione minore per quello meno offensivo, ossia il “patto di scambio”.

D’altronde non può trascurarsi un dato della esperienza giudiziaria degli ultimi venti anni in materia di concorso esterno del politico. Ebbene, se esaminiamo la maggior parte dei verdetti di condanna, notiamo che questi si attestano su una sanzione che oscilla tra i sette e gli otto anni di reclusione. E in quei casi la condotta in contestazione è più grave di quella prevista dall’art.416 ter. Quindi anche alla luce di tale dato, non appare irrazionale, per il “patto di scambio”, la sanzione della reclusione dai quattro ai dieci anni. Peraltro quella “forchetta” così ampia si giustifica con la circostanza che il reato può essere contestato all’amministratore del piccolo centro così come ad una alta carica dello Stato.

7. Le spinte emotive della società da sempre hanno un peso sui processi di riforma del sistema penale. Le politiche della sicurezza e la legislazione dell’emergenza, da circa quaranta anni, ne sono una dimostrazione lampante. Come ricorda anche in un recente saggio Luigi Ferrajoli, sappiamo che i frutti di quelle esperienze non sempre sono felici sul piano della compatibilità con le garanzie costituzionali.

Sul percorso di riforma del 416 ter e sulle reazioni al testo finale, ha inciso il clima di sfiducia  verso la classe politica che si respira nel paese. Quei sentimenti sono stati “cavalcati” con veemenza da significativi segmenti del parlamento. Ma in tanti hanno trascurato le oggettive difficoltà del legislatore. Le opzioni penali sui metodi di raccolta del consenso nelle competizioni elettorali pongono, fisiologicamente, questioni che coinvolgono punti nevralgici della vita democratica. Non era agevole l’individuazione del punto di equilibrio tra corretto esercizio di diritti politici di rango costituzionale e efficace contrasto giudiziario all’inquinamento mafioso del voto.

Così come l’elaborazione di formule in grado di distinguere, nell’ampia galassia delle promesse del candidato in campagna elettorale, tra reato e condotte penalmente indifferenti, sia pure sintomatiche di un malcostume riprovevole sul piano etico. Le soluzioni adottate certamente non risolveranno tutti i problemi dell’azione di contrasto e di prevenzione alle contaminazioni mafiose della politica. Ma non si può negare che d’ora in avanti, con il nuovo 416 ter, la magistratura avrà uno strumento in più per tutelare alcune importanti libertà che attengono principalmente al metodo democratico nella elezione dei rappresentanti del popolo.

08/05/2014
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