Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

La violazione dell’art. 2 della Cedu con riferimento all’utilizzo permissivo della forza pubblica, quando da essa sia derivata la morte come conseguenza non intenzionale

di Giovanni Dinisi
Tirocinante presso il Tribunale di Livorno
Note sulla sentenza della Corte Edu del 13 aprile 2017 nel caso Tagayeva and others v. Russia

1. Premessa

«La morte non si considera cagionata in violazione dell’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale».

Se in linea di principio non può essere posto alcun dubbio sulla validità giuridica della normativa di matrice internazionale, problemi possono nascere quando tale principio generale di “legittima difesa” deve essere confrontato con la realtà concreta dei fatti.

Il raid del 1° settembre del 2004 avvenuto alla scuola di Beslan da parte di 32 ribelli fondamentalisti islamici e separatisti ceceni e che ha portato, due giorni dopo, allo scontro con le forze speciali russe e a più di 300 vittime (di cui 186 bambini), è stato oggetto di ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo, la quale in data 13 aprile del corrente anno si è pronunciata condannando la Federazione russa al pagamento di 3 milioni di euro complessivi nei confronti delle vittime del delitto e dei parenti delle stesse. Il lavoro della Corte poggiava su dati di non facile risoluzione, tutti fondati su una situazione tumultuosa difficilmente controllabile. E se da un lato è innegabile quanto sia risultato complesso l’operato delle forze speciali russe nelle operazioni del settembre 2004, non meno impegnativo è stato il compito dei giudici di Strasburgo, preposti a sindacare proprio quell’operato. Un affare laborioso che ha portato al Case of Tagayeva and others v. Russia, nonché ad aspre critiche provenienti da entrambe le parti in causa.

Ma ciò che desta ad oggi scalpore è stato il risultato che emerge dalla sentenza, ovvero una sorta di condanna “a tappeto” dell’intera operazione: da come le autorità governative abbiano mal predisposto le operazioni di prevenzione di un attacco che risultava facilmente prevedibile da tempo, passando per l’inadeguatezza degli interventi posti in essere dalle forze speciali durante il blitz nella scuola occupata – a parere della Corte non collimanti con quello che risulta l’epicentro della normativa citata, ossia “l’assoluta necessità” dell’intervento armato – e spingendosi fino alle operazioni successive all’attentato, non essendo stata in grado la successiva inchiesta sulla strage di determinare se l’uso dalla forza fosse stato o meno giustificato in quelle circostanze.

Per cui, al fine di svolgere un’operazione di analisi della vicenda giudiziale iniziata il 25 giugno 2007 con la proposizione alla Corte Edu di quattro[1] dei sette ricorsi complessivi, verrà utilizzata principalmente una prospettiva diacronica, in relazione alle singole valutazioni operate della stessa Corte in merito agli errori e alle deficienze poste in essere dai soggetti titolari di volta in volta dei compiti di tutela della vita e integrità fisica delle 1200 persone prese in ostaggio nella palestra della scuola di Beslan.

2. Le operazioni di prevenzione (mal) predisposte dalle autorità russe

Ciò che emergeva dal Criminal investigation no. 20/849 (indagine ordinata da Mr. Fridinskiy, il Deputy Prosecutor General[2]) era essenzialmente una situazione di consapevole e generalizzato allarme sociale, resa pubblica da «numerous telexes, orders and decrees» da parte del Ministero dell’interno e dal FSB – ossia i Servizi federali russi – tra il luglio e l’agosto del 2004, che paventava un elevato rischio di attacchi terroristici nella zona a nord del Caucaso. Ma emergeva altresì come, a livello distrettuale, gli ufficiali di comando del Pravoberezhny ROVD di Beslan non erano riusciti a prendere le necessarie misure preventive per impedire il verificarsi di atti terroristici durante la cd. “Giornata della Conoscenza” del 1° settembre. In particolare, né il personale del ROVD era stato adeguatamente edotto in merito alle specifiche azioni da adottare qualora si fosse verificata una situazione di emergenza del tipo di quella poi effettivamente verificatasi, né era stato predisposto alcun piano specifico per assicurare una additional security durante l’annuale cerimonia scolastica. Ad ulteriore corollario, a protezione della struttura era stato predisposto un solo agente di polizia, mentre gli altri due che erano stati indicati per preservare la scuola risultavano essere stati trasferiti altrove. Insomma una serie di deficienze cautelari che hanno portato il “senior staff” del Pravoberezhny ROVD ad essere accusato di negligenza professionale da parte della Cedu.

Rilievo decisivo, comunque, lo assumeva in concreto il report prodotto alla Corte da due esperti di anti-terrorismo del Regno Unito sulla base della richiesta dell’EHRAC, nel settembre 2014. Tra i vari quesiti loro sottoposti (che verranno ripresi a tempo debito), veniva evidenziata la questione se sussistesse a quel tempo un pericolo «real and immediate» che fosse percepibile delle autorità del luogo. Avendo dato il necessario credito agli attacchi che in precedenza erano stati posti in essere da parte di milizie cecene, gli esperti concludevano che c'era effettivamente un livello estremamente alto di minaccia di attacco terroristico nella parte meridionale della Federazione Russa e, in particolare, nelle aree di confine del nord dell'Ossezia. Minaccia che gli stessi esperti qualificavano come “immediata”, fondandosi appunto sulle informazioni diffuse prevalentemente via telex o mediante altri documenti pubblicati dal Ministero dell'interno russo.

Successivamente gli esperti designati passavano al setaccio tutte le misure preventive che allo stato dei fatti erano state predisposte. In particolare evidenziavano come, se da un lato non potesse essere prognosticabile una misura di sicurezza in particolare che avrebbe potuto garantire il successo contro gli assalitori, d’altra parte la presenza di personale di sicurezza per le strade e all’interno di obiettivi potenziali avrebbe potuto impedire l’assalto. Nell’elaborato spiccava come un emblematico sunto della loro analisi sull’argomento una frase intrisa di amara ironia, quando i redattori facevano notare come «un gruppo di più di trenta terroristi armati era stato capace di viaggiare lungo le strade locali di Beslan, incontrando un solo posto di blocco». Addirittura veniva esposta a titolo esemplificativo l’ipotesi di aver potuto posticipare di un anno l’apertura della scuola, al fine di negare ai terroristi l’obiettivo di alto profilo che cercavano. Certamente un rimedio senza precedenti, ma che, a parer di chi scrive, dà la misura di come si dovrebbe essere disposti ad agire in situazioni difficilmente controllabili e pervase da un alto tasso di criticità.

2.1. La responsabilità delle forze speciali russe per le operazioni predisposte durante l’assedio

Alle ore locali 9.05 del mattino un commando di trentadue persone armate e con il volto coperto fece incursione nell’edificio. Era il 1° settembre del 2004.

Ciò che accadde in quei tre giorni dentro e fuori dalla scuola è ormai fatto noto grazie a molte fonti di cronaca, anche se non tutte perfettamente coerenti l’una con l’altra. Tuttavia, risulta ad oggi chiaro come il taglio del nodo gordiano si ebbe con la detonazione di due granate verso le ore 13.30 del pomeriggio del 3 settembre, che aprirono due varchi nel muro e permisero alle forze speciali russe di fare l’incursione decisiva. Per questo motivo il “narrato giuridico” può essere scomposto in quanto successe prima di quelle esplosioni e quanto accadde nelle ore successive. Eventi che, nonostante le carenze informative, la Corte Edu è riuscita a ricostruire con un soddisfacente livello di dettaglio, anche se non nella totalità degli accadimenti.

Un primo punto su cui la Corte veniva chiamata a pronunciarsi riguardava la questione se lo Stato avesse «osservato le sue obbligazioni internazionali di cui alla Convenzione», ovvero l'obbligo di “cautelarsi” nelle sue scelte, di modo da dirigere l’intera operazione per «minimizzare le perdite tra i civili»[3]. In questo senso, pur ammettendo che in situazioni del genere un certo disordine nell’attuazione dei piani operativi è in qualche modo inevitabile e senza disconoscere «il coraggio e l’efficienza dimostrate dai servizi coinvolti, che riuscirono ad assicurare una rapida e massiccia evacuazione nonostante le difficoltà», la Corte sottolineava come le autorità russe in realtà non erano riuscite a cautelarsi, a causa dell’incompetenza della struttura di vertice delle operazioni, incapace di mantenere linee chiare di comando e di responsabilità, non essendo riuscita a coordinare e comunicare importanti dettagli attinenti all'operazione di liberazione dei civili imprigionati nella struttura. Questo, a detta della Corte, costituiva una delle violazioni di cui all’ art. 2 della Convenzione[4].

Apporto decisivo veniva ancora fornito dal report esibito dai due esperti inglesi, i quali non nutrivano dubbi nel riconoscere la oggettiva difficoltà nel decidere le modalità più opportune di intervento, asserendo che in tali situazioni «non esiste alcun tipo di addestramento o di guida manualistica che possa offrire soluzioni sicure». Tuttavia, nel caso di specie, appariva opportuno prendere in considerazione l’ulteriore dato che, nell’arco di due giorni di sequestro, le autorità russe avessero avuto tempo e risorse per pianificare e praticare una operazione adeguata[5].

Sempre nell’ambito delle attività poste in essere dall’Operative Headquarters (OH), durante il periodo del sequestro delle persone nella scuola, nell’ambito della Criminal investigation no. 20/849 veniva esaminato un’ulteriore aspetto cruciale, ovvero quello delle trattative intervenute tra l’organizzazione criminale e gli agenti delle forze speciali russe. Ciò che se ne poteva trarre, avendo di seguito analizzato i nastri delle conversazioni tra alcuni membri dell’organizzazione terroristica e dei collaboratori dell’OH situati al di fuori dell’edificio, era che l’oggetto delle richieste da parte dei sequestratori fosse solamente di tipo politico, ossia relativo alla situazione contingente della Cecenia[6]. Emergeva chiaramente come i terroristi avevano altresì rifiutato incondizionatamente di discutere su alcune misure volte ad alleviare la precaria situazione degli ostaggi, costretti a non mangiare e bere per giorni, sotto un caldo torrido. Le conversazioni telefoniche «venivano terminate spesso in maniera aggressiva e senza un’apparente ragione». 

In breve quello che risultava, in maniera incontestata anche dagli stessi giudici della Cedu, era la ferma e materiale impossibilità di salvaguardare, anche nelle sue forme essenziali, il benessere degli ostaggi. I terroristi erano andati a Beslan unicamente per infliggere terrore e morte, con un fagotto di richieste irreali e inflessibili, senza una vera e propria strategia negoziativa. A parere degli esperti, sembrava che «si fossero preparati a morire fin dall’inizio»[7].

Per tutti questi motivi, dati i notevoli sforzi impiegati dalle autorità di creare dal nulla un’offerta senza aver potuto contare su una preventiva domanda, la Corte decideva che sotto questo punto di vista l’approccio delle autorità russe non poteva essere rimproverato.

2.2. La responsabilità delle forze speciali russe durante il forcing contro le milizie cecene. Il problema del travalicamento del limite dell’“assoluta necessità” durante l’uso della forza armata mortale

Tra tutte le attività poste in essere dall’Operative Headquarters come azioni potenzialmente discordanti con il principio ex art. 2 della Convezione, quello dell’utilizzo della forza durante la fase dell’incursione militare del 3 settembre nella scuola di Beslan ne costituisce un esempio paradigmatico.

A fronte delle due visioni diametralmente contrapposte dei ricorrenti da un lato – i quali asserivano che la forza letale utilizzata durante l’assalto nell’edificio era stata eccessiva – e del Governo russo dall’altro – il quale insisteva nell’affermare sia che le armi erano state usate «direttamente e precisamente» contro i terroristi  e che gli ostaggi non erano stati colpiti, sia che il principio dell’assoluta necessità del ricorso alla forza di cui all’art. 2 della Convenzione fosse stato effettivamente rispettato –, la Corte di Strasburgo addiveniva ad una pronuncia di condanna dei comportamenti posti in essere dalle forze speciali russe, fondando il proprio giudizio sulla consolidata valenza assiologica del termine normativo di cui all’ art. 2 della Convenzione.

Nel dettaglio, la Corte ribadiva come la situazione che si era venuta a creare a seguito dell’esplosione delle granate e della conseguente apertura del varco nel muro dell’edificio era comunque insolita. In quei momenti il comando operativo doveva essere capace di prendere decisioni rapide e difficili, contro un nemico dotato di potenti armi da fuoco.

Ma a fronte di questa circostanza, la Corte constatava anche talune defezioni, a partire da quanto stabilito nella normativa di anti-terrorismo russa[8], la quale si caratterizzava per una “vaghezza generale” di contenuti. In particolare mancava una vera e propria distinzione quanto al modus operandi nelle semplici «routine police operations» e nelle «situations of large scale anti-terrorist operations». Emergeva quindi come, nell'assenza di regole chiare su come condurre operazioni di anti-terrorismo, i riferimenti che venivano presi in considerazione dalle forze militari erano stati quelli descritti nel Manuale di Campo dell'Esercito (Volume 3) il quale però, nel trattare nel dettaglio le azioni da eseguire all’atto pratico, non faceva alcuna menzione di principi fondamentali, quali «proportionality, necessity or distinction». Per cui, ciò che la Corte constatava a seguito dell’esame delle prove raccolte, era che quel giorno la forza letale veniva usata indiscriminatamente contro entrambi, sia terroristi, che ostaggi, anche per il fatto di aver fondato l’intervento su criteri normativi non in linea con le cautele da utilizzarsi in questi casi sulla base dei parametri internazionali. Difatti, ciò che la Corte sosteneva, con particolare riferimento al requisito dell’assoluta necessità – come principale criterio permissivo per l’utilizzo della forza in situazioni in cui da ciò sia causalmente risultata, come conseguenza non intenzionale, la privazione della vita – era che tale precondizione deve essere sottoposta a regole «stricter and more compelling», in maniera maggiormente affine a come il postulato della necessità viene interpretato in una società democratica, ove appunto il dato ermeneutico del suddetto termine viene di regola sottoposto a limiti più severi.

Secondo tale via, lo scopo primario dell'operazione eseguita il 3 settembre doveva essere quella di proteggere le vite da una illecita violenza. Ma l’uso massiccio e indiscriminato di armi, alcune delle quali estremamente potenti e capaci di infliggere danni in maniera particolarmente massiccia[9] portava inevitabilmente alla conclusione che il loro utilizzo nel caso di specie era stato assolutamente sproporzionato e, per tal motivo, non compatibile con gli standard di cura essenziale in una operazione che comportava l’utilizzo della forza letale da parte di agenti statali. Gli ufficiali in comando avrebbero dovuto considerare e meglio tutelare le vite di più di 1000 persone mediante una maggiore pianificazione, e limitando al minimo indispensabile gli scontri diretti con le truppe cecene.

Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: accertato l’utilizzo sproporzionato e indiscriminato della “forza” – termine da enucleare in questo caso come impiego eccessivo di armi da fuoco e come utilizzazione di tattiche di combattimento maggiormente affini a quelle proprie di un attacco militare, rispetto a quelle esigibili da una operazione che richiede una dettagliata elaborazione di matrice programmatica – da parte delle autorità governative, può essere ricondotta a tali negligenze operative la morte o la lesione dell’integrità fisica di taluni ostaggi?

Per rispondere al quesito la Corte premetteva che entrambe le parti in causa non adducevano prove inequivocabilmente e univocamente riconducibili alla responsabilità dell’uno o dell’altro gruppo di forze militari in campo. Tuttavia specificava che in tutti questi casi di perdurante incertezza probatoria, risulta a carico del Governo l’onere di provare in maniera convincente la propria assoluta esenzione da tali forme di responsabilità. E nel caso di specie la Corte osservava che il Governo russo si «rifiutava» di produrre tali atti in giudizio[10]. A parere della Corte la coesistenza di queste presunzioni «strong, clear and concordant» era sufficiente a integrare la prova per il superamento del limite del ragionevole dubbio.

Un passaggio di notevole interesse riguarda la difesa che il Governo russo aveva sostenuto, citando la sentenza Finogenov ed altri v. Russia. Tralasciando le più che evidenti similitudini con la vicenda di specie[11], la Corte ribatteva alle ipotesi difensive, asserendo che, differentemente da quanto accaduto nella situazione citata, durante l’incursione nella scuola di Beslan venivano impiegate «conventional weapons», sottoposte al regime legale afferente a quello delle armi termobariche, la cui utilizzabilità in concreto è assoggettata a condizioni maggiormente restrittive rispetto a quelle delle armi utilizzate nel caso Finogenov ed altri v. Russia.

In definitiva, nonostante non vi fosse una prova diretta assoluta della ricollegabilità materiale delle armi utilizzate dalle forze dell’OH alle lesioni subite da taluni degli ostaggi della scuola, la Corte affermava che, fermo restando il regime di onere della prova in capo al Governo riguardante la sua non responsabilità per le accuse mossegli, tutti gli elementi noti del caso portavano a concludere nel senso che l'uso di forza letale da parte degli agenti statali russi avesse effettivamente contribuito alla verificazione di incidenti anche fra gli ostaggi[12].

Non risultava parimenti convincente alla maggioranza dei giudici della Cedu l’inferenza elaborata dei giudici “dissenzienti” Hajiyev (Russia) e Dedov (Azerbaijan) con riferimento alla non violazione dell’art. 2 della Convenzione per quanto riguarda il momento in cui veniva utilizzata la forza letale da parte delle forze speciali russe. I giudici autori di opinioni dissenzienti, in particolare, affermavano che la decisione alla quale la Corte era pervenuta sulla spinta di quello che si è dimostrato l’orientamento assolutamente maggioritario, in realtà integrerebbe un caso emblematico di travalicamento dei limiti delle competenze della Corte stessa. La Cedu, nel valutare come positivamente verificatosi questo «eccesso colposo» nella fattispecie di legittima difesa internazionale di cui all’art. 2 della Carta Edu da parte delle forze speciali russe, in realtà non avrebbe fatto altro che sostituirsi arbitrariamente all’autorità nazionale, identificando come “materialmente accaduti” dei fatti solo perché le stesse autorità non avrebbero espletato correttamente le indagini su tali eventi. In altre parole la Corte, a distanza di ben tredici anni, avrebbe dato per provati degli accadimenti fondando il proprio giudizio sul presupposto che le indagini su quegli stessi eventi erano, di fatto, “mancate” o “mal eseguite”. Di conseguenza, secondo i due giudici dissenzienti, sarebbe stata sufficiente la qualificazione della responsabilità delle autorità russe per il solo fatto che «l'investigazione espletata sugli eventi del 3 settembre non fosse stata effettiva», senza arrivare a dilatare le avvinte responsabilità in gioco a mezzo di una discrezionalità non priva di eccessi.

Su questo punto occorre d’altra parte osservare come la Corte abbia in vero dimostrato la propria coerenza con la consensus view dimostrata in altre questioni simili sottoposte in passato al suo vaglio. Essa infatti reiterava il principio, già affermato in un caso contro la Turchia, secondo cui qualora la stessa Corte, durante l’esame di una questione sottoposta alla sua attenzione, si trovi nell’impossibilità di stabilire le esatte circostanze afferenti al caso in esame per ragioni obiettivamente attribuibili alle autorità statali, deve ricadere sul Governo, parte in causa, l’onere di spiegare nella maniera maggiormente soddisfacente e convincente la sequenza degli eventi relativi, al fine di confutare le accuse della controparte; pena la qualifica della stessa parte come effettivamente responsabile[13]: il fatto che l’inchiesta posta in essere dalle autorità turche si fosse rivelata lacunosa portava la Turchia ad essere condannata dalla Corte a corrispondere un equo risarcimento nei confronti dei genitori del defunto per violazione dell’art. 2 della Cedu, in quanto il Governo turco non era riuscito a provare il mancato sforamento del requisito della “assoluta necessità” e “stretta proporzionalità” della condotta omicida.

3. La responsabilità del Governo russo per quanto riguarda l’occultamento delle indagini nelle fasi successive all’intervento armato

Un ulteriore profilo su cui la Corte si focalizzava era la palese carenza di indagini poste in essere dalle autorità governative, volte ad accertare l’esatta dinamica dei fatti. In particolare, dalle risultanze probatorie di cui alla succitata Criminal investigation no. 20/849 non si riusciva a comprendere se l’azione delle forze speciali russe fosse stata o meno giustificata dalle circostanze del caso. Un comportamento che la Corte di Strasburgo constatava come recidivo, in quanto in molti casi precedenti volti ad accertare le medesime questioni – ossia se le operazioni condotte dalle autorità russe fossero state eseguite pedissequamente o fossero state, di contro, inadeguate – l’assenza di investigazioni effettive aveva precluso alle vittime di accedere a forme di riparazione[14]. Tali risultanze portavano i giudici della Corte a sussumere la violazione dell’art. 2 della Convenzione anche sotto l'aspetto procedurale, essendo stato negato in questo modo alle parti in causa di ottenere il risarcimento per i danni da loro sofferti.

Tuttavia, se da una parte veniva appurata così la violazione dell’art. 2 della Convenzione, dall’altra non veniva riconosciuta la violazione del diritto a un ricorso di fronte a un’istanza nazionale ex art. 13 della Convenzione[15]. Il cortocircuito sistematico veniva riconosciuto proprio in forza del fatto che le indagini poste in essere dalle autorità russe erano risultate, appunto, “incomplete”. L’art. 13 per poter essere applicato richiede un’investigazione completa ed effettiva, capace di condurre all'identificazione dei soggetti materialmente responsabili, nonché l’accesso effettivo per la parte attrice alla procedura di investigazione sul caso concreto. Ma all’atto pratico non era avvenuto nulla di tutto ciò. Né l’accesso della parte ricorrente agli atti di indagine, né l’effettivo completamento delle stesse (questione che, come si è visto in precedenza, è stata appunto alla base della condanna ex art. 2 della Convenzione). Inoltre le figure istituzionali che risultavano sottoposte a procedimento criminale per i fatti del 3 settembre, per una parte avevano beneficiato del provvedimento dell’amnistia[16], e per un’altra parte erano state sottoposte a procedimento penale con esito assolutorio[17]. Su tale aspetto occorre prendere in debita considerazione il pensiero del giudice Pinto De Albuquerque, il quale dissentiva con la maggioranza dei giudici con riferimento a questo aspetto decisorio. In particolare riteneva «indeed surprising» che un’amnistia avesse potuto porre fine ad un’investigazione in corso per offese criminali commesse dalla pubblica autorità durante un’azione di anti-terrorismo che culminava con il decesso di più di 300 persone. A suo parere, appariva incomprensibile che la maggioranza dei giudici fosse stata disposta ad accettare questa circostanza.

4. Le critiche rivolte alla sentenza Cedu

Immediata è stata la reazione del Cremlino a mezzo di uno dei suoi principali portavoce Dmitry Peskov, il quale, subito dopo la pronuncia, asseriva come tali sentenze fossero «assolutamente inaccettabili, per un Paese che era stato attaccato diverse volte dai terroristi; una nazione, la Russia, facente parte ad oggi di una lista di altri Paesi purtroppo in costante crescita». Seguiva quindi l’enunciazione della volontà del Governo russo di promuovere ricorso in appello di fronte alla Grande Camera contro la sentenza della Corte di Strasburgo.

Ma a fronte della manifesta insoddisfazione per gli “sconfitti”, occorre rilevare come neppure le parti attrici si dichiaravano pienamente appagate dell’esito della sentenza. Profili di merito a parte, la Presidente dell'associazione Madri di Beslan, Aneta Gadieva, contestava come la misura economica della condanna risultasse in sede di riparto affatto inidonea a placare lo spirito retributivo dei genitori delle vittime. «Qualcuno riceverà 5.000 euro, qualcuno 20.000. Non è un gran somma per un danno morale incalcolabile…»[18]. Un mero palliativo a quei ben più pressanti bisogni emotivi di punizione ormai radicatisi negli animi dei parenti delle vittime.

E se una certa dicotomia di vedute risultava del resto prevedibile tra le parti in causa, occorre evidenziare come allo stato dei fatti ci si trovi di fronte ad una pronuncia giudiziale in parte atipica, ove una porzione della responsabilità della parte processuale convenuta veniva qualificata proprio sulla base di una sequenza oscura degli eventi[19]. Per questo motivo è legittimo quantomeno “ascoltare” le diverse opinioni che gravitano attorno alla vicenda. Mere congetture, forse. Ma che costituiscono ciò che spesso rimane, quando un fatto viene epurato da elementi idonei ad assegnargli connotati di intrinseca affidabilità probatoria[20].

5. Conclusioni sulla fattispecie

Alla luce di quanto esposto fin ora, risulta utile riepilogare la disciplina internazionale in materia di uso permissivo della forza, qualora da essa ne sia derivato il decesso di persone.

In linea generale, la disciplina dell’art. 2, par. 2 contempla al suo interno gli indici permissivi in presenza dei quali non debbano ritenersi illecite condotte potenzialmente idonee a violare il diritto alla vita (principio di cui al paragrafo precedente dell’art. 2), sia ponendo il limite circostanziale dell’assoluta necessità dell’utilizzo della forza mortale («la morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario»), sia ponendo dei requisiti di tipo finalistico rispetto alla stessa condotta omicida [«a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione»].

Ora, tale norma, pur sancendo un evidente obbligo di tipo negativo, ossia di astenersi dal porre in essere atti (in particolare in costanza dell’utilizzo della forza pubblica) che possano cagionare la morte di individui che non siano assolutamente necessari secondo le circostanze del caso, in realtà accorda una disciplina di ben più ampio respiro rispetto a quanto direttamente desumibile dal dato letterale, spingendosi fino alla vera e propria qualificazione per implicito di obblighi positivi a carico delle autorità statali di attivarsi concretamente e in maniera il più possibile programmatica per proteggere e reprimere la “violenza illegale”, nelle forme di cui ai punti a), b) e c) dello stesso articolo[21]. In aggiunta si consideri come il paragrafo 1 dell’art. 2, nel momento in cui sancisce il principio generale secondo cui «nessuno può essere intenzionalmente privato della vita», in realtà, in ossequio a quanto diffuso nell’ambito della giurisprudenza internazionale attuale[22], renda invece ascrivibili a tale disciplina anche le condotte da cui sia derivata l’uccisione non intenzionale di una persona, svuotando quindi il succitato avverbio di ogni significato concreto. 

Fatta questa necessaria premessa, passiamo alla disamina del contenuto dei due obblighi, in connessione con quanto di volta in volta accertato dalla Corte nella sentenza in commento, relativamente alla loro violazione.

a) quanto agli obblighi di tipo negativo, la Corte si trovava ancora una volta a fare i conti col convitato di pietra del limite dell’assoluta necessità, come precondizione essenziale per poter giudicare sia l’intervento in sé delle forze dell’ordine che le modalità con cui questo era stato attuato. Avendo interpretato tale postulato in maniera restrittiva e non avendo ricevuto da parte del Governo russo convenuto prove sufficienti a sostegno delle sue ragioni in merito al mancato sforamento di tale limite, in ossequio alla consolidata giurisprudenza Cedu su questo profilo[23], la Corte condannava la Russia per violazione dell’art. 2 della Carta Edu;

b) quanto gli obblighi di tipo positivo (che la Corte ha col tempo estrapolato implicitamente dal significato, latu sensu interpretato, dell’art. 2 della Convenzione) la Corte rinveniva nel caso di specie sia violazioni di tipo materiale – intendendo come tali tutte quelle misure che le autorità pubbliche nazionali devono adoperare per prevenire ed evitare situazioni idonee a porre in pericolo e cagionare danni all’integrità fisica della vita umana –, nella carenza sostanziale di cautele nella predisposizione delle operazioni di prevenzione di un attacco che risultava allo stato dei fatti facilmente prevedibile[24] e nella mancata ed erronea predisposizione di piani attuativi idonei una volta che l’attacco era stato posto in essere[25]; sia violazioni di tipo procedurale – intendendo come tali tutti quei doveri di accertamento delle eventuali responsabilità individuali che ogni Stato deve adottare per dare risposta ad una denuncia relativa alla possibile violazione del diritto alla vita umana – per aver, nella sostanza, occultato e mal ottemperato a tutti quegli obblighi di indagine successivi agli eventi denunciati[26].

6. Conclusioni riflessive

A conclusione di quanto esposto possono essere colti utili spunti di riflessione sulla tutela del diritto alla vita. Innanzitutto occorre porre in evidenza la notevole ampiezza che la Cedu, con la sua giurisprudenza, ha col tempo attribuito alla fattispecie dell’art. 2 della Carta. E la sentenza in commento costituisce in questo senso un punto di riferimento esemplare, se solo si considera quanto siano diverse tra loro le illiceità materiali imputate alla parte convenuta, ricondotte tutte a violazioni della medesima normativa internazionale, in forza del suo poliedrico significato giuridico[27]. Si osserva quindi come la competenza integratrice della Corte di Strasburgo abbia avuto in questo senso un ruolo decisivo, avendo portato ad un accrescimento senza soluzione di continuità dell’elemento semantico di una fattispecie normativa (quella sull’uso permissivo della forza mortale) ben al di là di quello resogli palese dalla sua littera legis. Una normativa, peraltro, con una struttura sintattica tutto sommato di modesta complessità[28].

D’altra parte, a parer di chi scrive, occorrerebbe rilevare come proprio sulla scorta dei precedenti della Corte per violazioni non dissimili dell’art. 2, i giudici preposti ad emanare la sentenza Tagayeva and others v. Russia abbiano qualificato sussistente la concreta colpevolezza degli agenti russi con riferimento al decesso degli ostaggi della scuola di Beslan, proprio sul presupposto che il Governo russo non abbia addotto sufficienti prove a sostegno della tesi inversa[29]. Potrebbe osservarsi che la Corte abbia in questo caso disconosciuto principi tradizionalmente invalsi in molti paesi contraenti della Carta, quali il principio di “presunzione di innocenza”, di “inversione dell’onere della prova in capo all’indagato quanto alla sua non responsabilità e, di conseguenza, il fatto che  la carenza di prove certe sui fatti accaduti  – che la parte convenuta avrebbe dovuto provare – ha in concreto fatto superare il ragionevole dubbio sulla responsabilità della stessa parte convenuta”. Ma se da una parte tali rilievi sono stati altresì posti in evidenza dai due giudici dissenzienti Hajiyev e Dedov, risulta innegabile come la stessa Corte abbia rispettato con risoluta coerenza i suoi postulati ermeneutici dell’art. 2[30]. Ed è questo il motivo per cui, come fatto emergere anche dall’altro giudice dissenziente Pinto De Albuquerque, «questo giudizio dovrebbe essere lodato perché, anche di fronte alla forma più vergognosa di terrorismo, la Corte è rimasta in piedi sui suoi principi interpretativi dell’Articolo 2 della Convenzione».



[1] Nn. 26562/07, 49380/08, 21294/11 e 37096/11.

[2] Vds. paragrafo 111 e ss. di Case of Tagayeva and others v. Russia.

[3] Vds. paragrafo 173.

[4] Su questo punto vds. anche paragrafi 584 e ss.

[5] Vds. paragrafo 444. Cfr. alla giurisprudenza relativa, vds. Case of Ergi v. Turchia, 28 luglio 1998.

[6] Vds. paragrafo 13.

[7] Vds. paragrafo 451.

[8] Legge n. 130 - FZ del 25 luglio 1998.

[9] Anche se non sussistono dati precisi, venivano contati tra le dodici e le diciassette munizioni per RPO-A Shmel, circa quaranta munizioni per lanciagranate LPO-97, non meno di ventotto cariche per lanciatori di granata. A questi venivano aggiunte altre munizioni, tra cui 7.000 cartucce per fucile automatico e mitragliatrici. Vds. paragrafo 608 per maggiori elementi di dettaglio.

[10] Vds. paragrafo 586.

[11] In Corte europea dei Diritti dell’uomo, I sez., 20 dicembre 2011, ricc. nn. 18299/03, 27311/03 e altri, Finogenov ed altri v. Russia, veniva giudicato il caso di alcuni cittadini russi tenuti in ostaggio da un gruppo di separatisti ceceni dentro un teatro per tre giorni. Durante l’episodio le autorità russe diffondevano all’interno dell’edificio del gas. In tal caso, tra le accertate violazioni del principio di cui all’art. 2 della Convenzione – tra cui la gestione disorganizzata della crisi – la decisione di impiegare tale arma per risolvere quella situazione di impasse non veniva considerata una scelta di carattere sproporzionato, nonostante si fosse constatato che l’utilizzo del gas abbia provocato morti tra i civili, i quali si trovavano indeboliti dopo la lunga permanenza nella struttura.

[12] Vds. paragrafo 590.

[13] Con le dovute differenze in fatto, si veda il caso Mansuroğlu v. Turchia, no. 43443/98, § 80, 26 febbraio 2008, come citato al paragrafo 586 della sentenza Case of Tagayeva and others v. Russia. In tale circostanza, se da un lato non veniva contestato che gli agenti di polizia turca avessero utilizzato la forza verso il Mazlum Mansuroğlu, a differenza del Case of Tagayeva and others v. Russia, ove, come precedentemente riscontrato, le indagini non permettevano di arrivare con sicurezza al medesimo esito.

[14] Vds. a titolo esemplificativo Case Abakarova v. Russia, no. 16664/07, § 104, 15 ottobre 2015.

[15] Secondo cui «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali».

[16] Si tratta delle Forze armate del Pravoberezhny ROVD che si erano giovati dell’Amnesty Act of 22 September 2006.

[17] In data 5 ottobre 2007, di fronte alla Corte suprema dell’Inguscezia.

[19] Cfr. alla parte della sentenza in esame relativa all’utilizzo sproporzionato della forza anche nei confronti delle vittime del massacro.

[20] Tra le altre, si osservino le parole del Ministro della sanità cecena Aslan Maskhadov: «Non sono stati i guerriglieri ceceni a dare il via alla strage nella scuola di Beslan, ma i militari russi. Testimoni attendibili ci hanno riferito che è stata una cannonata russa a scatenare l’attacco all’edificio. E poi c’erano degli elicotteri che sparavano dall’alto, e quindi anche contro i bambini». Sulla stessa linea di vedute si trovava la giornalista russa Anna Politkovskaia, la quale scriveva che «il governo russo non ha fatto nulla, al di là delle dichiarazioni di Putin, per avviare un negoziato con i guerriglieri che tenevano in ostaggio i bambini di Beslan. La verità è che i terroristi volevano la trattativa, ma nessuno, in Ossezia, in Georgia, in Inguscezia, in Russia sapeva che cosa fare. [...] La verità è che i servizi segreti avevano già deciso di attaccare la scuola». Fonte: A. Forbice, Ecco la verità su Beslan. Putin volle il massacro”, Quotidiano nazionale, 02 novembre 2004.

[21] Vds. F. Bestagno, Diritto alla vita - Art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, G. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Cedam, Padova, 2012.

[22] Tra le altre vds. Case Stewart v. Regno Unito, 10 luglio 1984, ove un manifestante veniva inavvertitamente colpito da un proiettile scagliato dalle forze dell’ordine in costanza di un tumulto popolare.

[23] Vds. la succitata sentenza Finogenov and others v. Russia, 20 dicembre 2011, ricc. nn. 18299/03, 27311/03 e altri.

[24] Su questo punto vds. sentenza McCann and others v. United Kingdom, 27 settembre 1995, § 200; o anche Makaratzis v. Greece, ric. n. 50385/99, 20 dicembre 2004.

[25] Sul punto vds. sentenza Andronicou and Constantinou v. Cyprus, ric. n. 25052/94, 9 ottobre 1997.

[26] Sul punto vds. sentenza Alikaj v. Italy, ric. n. 47357/08, 29 marzo 2011.

[27] Per approfondimenti sul punto, si veda il paragrafo precedente.

[28] Sebbene accordino una tutela di natura differente, ossia di tipo penale, si pensi alla corrispondente fattispecie tipica italiana, la quale, alla disciplina generale sulla legittima difesa (Art. 52 cp), affianca norme disciplinanti sia condotte di “eccesso colposo” che condotte “putative” della sussistenza in concreto della stessa scriminante. Tutte fattispecie che sarebbero state sicuramente prese in considerazione in costanza di un giudizio nazionale, qualora le medesime circostanze, mutatis mutandis, si fossero verificate nel nostro Paese.

[29] Sul punto vds. paragrafo 3.2.

[30] Vds. a titolo esemplificativo le citate sentenze Finogenov and others v. Russia e Mansuroğlu v. Turchia.

12/09/2017
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