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Medicina difensiva e responsabilità civile sanitaria

di Luca Minniti
Giudice del Tribunale di Firenze
Quali prospettive tra scelte giurisprudenziali e opzioni legislative

Una intensa campagna mediatica ha diffuso l’opinione che vi sia un eccesso di domanda di giustizia (civile e penale) che pesa sul mondo della sanità e che questo sia un effetto dell’orientamento della giurisprudenza italiana che ha eccessivamente aggravato, anche sotto il profilo della responsabilità civile, la posizione delle struttura sanitaria e dei singoli medici. Per lo più si ritiene che l’aggravamento della posizione del servizio sanitario e dei singoli medici, nell’ambito della responsabilità civile, sia avvenuto a causa dello spostamento della tutela giudiziaria della salute del paziente nell’alveo della tutela contrattuale.

E’ una opinione che ha fatto breccia anche tra i giudici e si va affermando come uno tra i tanti idola fori.

E’ lecito dubitarne?

E’ lecito quanto meno dubitare che gli orientamenti della giurisprudenza civile siano all’origine della crescita della responsabilità degli operatori sanitari ?

E’ curioso rilevare che raramente il fenomeno della crescita obiettiva del contenzioso in ambito sanitario venga letto come momento di espansione della tutela della salute del paziente ed occasione di verifica delle défaillances del sistema sanitario nel suo complesso.

Non è, per verità, opinabile che la crescita delle responsabilità e dei rischi in capo alle strutture sanitarie ed ai medici sia in atto almeno dalla fine del secolo scorso e sia stato registrato anche da quel sensibile sismografo che è, attualmente, la produzione giurisprudenziale.

In queste pagine si intende però sostenere che tale maggiore esposizione verso la responsabilità civile ha, prima di tutto, ragioni storiche oggettive, scientifiche, tecnologiche e culturali e che il mutamento che sta vivendo il giudizio di responsabilità civile sanitaria è una mera, necessaria ed inevitabile, conseguenza della sovraesposizione del medico prodotta da altri fattori.

E si intende anche contestare che, nello spostamento dell’ago della bilancia a favore del paziente quale soggetto debole del rapporto di cura e nell’aggravamento degli obblighi posti a carico della struttura e del medico, una significativa rilevanza sia attribuibile al mutamento di qualificazione (da extracontrattuale a contrattuale) della fonte della responsabilità.

 

1. La medicina difensiva

 

Non prima però di aver provato a smentire la communis opinio secondo la quale l’espansione (ritenuta eccessiva) della esposizione giudiziaria dei sanitari abbia prodotto la crescita del fenomeno della cosiddetta medicina difensiva.

Non si tratta di una opinione diffusa solo nel nostro paese , né solo in Europa perché anzi i primi approfonditi studi provengono da, ed hanno ad oggetto il sistema sanitario degli Usa.

Già questa considerazione, la tendenziale universalità del fenomeno, dovrebbe far riflettere sulla inesistenza del nesso tra mutamento giurisprudenziale interno e medicina difensiva.

Ma prima di tutto sarebbe opportuno comprendere i confini teorici e pratici dell’argomento.

Della medicina difensiva si rinviene nella letteratura statunitense la migliore e più diffusa definizione: "La medicina difensiva si verifica quando i medici ordinano test, procedure e visite, oppure evitano pazienti o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non necessariamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra test o procedure per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva. Quando essi evitano certi pazienti o procedure, essi praticano una medicina difensiva negativa" (OTA, Office of Technology assessment, USA Congress).

Le condotte di medicina difensiva negativa consisterebbero dunque nell'astensione e nel rifiuto, da parte dei medici di compiere azioni e interventi potenzialmente rischiosi per l'elevata probabilità di incorrere in una responsabilità civile o, peggio, penale connessa al loro operato.

Diversamente, la tendenza a comportamenti di medicina difensiva positiva consisterebbe nell'opposto comportamento per cui i sanitari, proprio per evitare successive addebiti di responsabilità, prescriverebbero esami diagnostici in eccesso, o sottoporrebbero i pazienti ad indagini e terapie inutili, o comunque costose, per evitare di vedersi contestate in giudizio le scelte di cura effettuate.

Nell'uno e nell'altro caso si verificherebbe quello che viene ritenuto un disservizio anche se le due ipotesi si realizzano con modalità ed effetti del tutto differenti.

Ma mentre la cosiddetta medicina difensiva negativa, è direttamente pregiudizievole per il paziente che potrebbe incontrare difficoltà nella ricerca di un professionista o di una struttura adeguata che siano disposti alla presa in carico del suo caso. La positiva invece è destinata a produrre un pregiudizio quasi esclusivamente di natura finanziaria perché consistente in una spesa inappropriata.

Sulla medicina negativa non risultano studi di “impatto ambientale”, né sotto il profilo economico né sotto quello del pregiudizio alla salute e non c’è dubbio che sia ben difficile verificare e misurare la portata del fenomeno.

Il secondo fenomeno impone di interrogarci sul livello di costo accettabile delle prestazioni sanitarie di cui non è certa l’utilità, per tutelare la salute dei pazienti.

Per esaminare con prudenza la problematica può esser utile esaminare i risultati dell' Indagine conoscitiva nazionale sulla medicina difensiva [2] del 2010 avrebbero rilevato che molte delle prescrizioni per farmaci e visite specialistiche nascono per ragioni di medicina difensiva. Il fenomeno sarebbe più accentuato presso i medici giovani, o comunque con meno esperienza, residenti nelle regioni del sud e nelle isole, spinti dal timore di ricevere un esposto o una denuncia da parte dei pazienti nonché dalla supposta necessità di prevenire e possibili sanzioni da parte delle strutture e dei servizi di appartenenza. La probabile incidenza economica della medicina difensiva sulla spesa sanitaria è stata valutata, sempre dalla richiamata indagine, fra il 10 e l'11%.

Non è però sempre chiaro, anche negli studi più autorevoli [3], di quali eccessi si tratti e quali siano le fonti e gli strumenti per misurarne la dimensione: le indagini conoscitive per lo più si fondano sulle interviste ai medici stessi, certamente principali, ma non esclusivi, attori del “confessato” eccesso di prescrizioni. Leggendo questi studi non può non tenersi nel debito conto che sono principalmente i medici stessi ad indicare come giustificazione del numero ( ritenuto eccessivo ) di prescrizioni il proprio eccessivo rischio personale.

Balza però alla mente dello studioso che le ragioni di questa giustificazione potrebbero esser innumerevoli, non è questa la sede per esaminarle partitamente ma certamente l’analisi della medicina difensiva come percepita o ammessa dai medici andrebbe svolta con la massima prudenza.

La stessa commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari riferisce che la voce principale del costo per medicina difensiva è, per il 4,6% , l’eccesso di ricoveri. Le altre voci sono tutte, ciascuna di esse, al di sotto del 2%. Non è chiaro quale sia il riscontro obiettivo del fatto che il presunto eccesso di ricoveri sia dovuto alla medicina difensiva e non ad una cattiva gestione delle degenze anche per ragioni di bilancio aziendale. Così come ci si dovrebbe chiedere se l’eccesso di prescrizione di farmaci sia la conseguenza del rischio corso dal medico o l’effetto di una opzione culturale o persino almeno in parte fenomeni, tristemente noti anche alle cronache giudiziarie , di malcostume .

Una lettura analitica delle voci di costo della medicina difensiva nella citata relazione parlamentare non può esser svolta in questa sede ma la fonte ed il dato sopra evidenziato rende prima facie quantomeno dubbio che l’unica o principale causa che orienterebbe il medico e la struttura sanitaria verso un eccesso di medicalizzazione del paziente sarebbe la paura di risponderne davanti al giudice.

La stessa Relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta conclude in relazione a questo argomento affermando che “Le politiche di riduzione del costo e del ricorso alla medicina difensiva si identificano con le azioni necessarie a ridurre l’occorrenza del danno iatrogeno e gli eventi che lo causano, mentre azioni di riduzione degli effetti della medicina difensiva che prescindano dalla riduzione del rischio clinico sono comunque destinate a fallire".

La conclusione è tanto lapidaria quanto condivisibile.

Dunque è importante non confondere il rischio clinico (che si identifica nella possibilità ineliminabile ma sempre riducibile dell’errore sanitario ) con il rischio giudiziario (che va identificato nella possibilità di esserne chiamato a rispondere, a torto od a ragione, in giudizio).

Con ciò si vuol dire che è la sovraesposizione al rischio clinico prima ancora che al rischio giudiziario che condiziona l’attività delle strutture sanitarie e dei singoli medici. Come è in gran parte inevitabile e giusto che avvenga per le ragioni che si perviene ad esporre.

 

2. Il rischio clinico sanitario

 

Ma la percezione di un eccesso di esposizione al rischio è un dato di realtà dal quale muovere in ogni caso e prescindendo del tutto dal profilo, prevalentemente finanziario, della costo della medicina difensiva.

La Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi regionali, ha intrapreso, negli ultimi sei mesi della XVI legislatura, anche una specifica inchiesta sulle coperture assicurative presso le aziende sanitarie ed ospedaliere. L'inchiesta intendeva accertare il costo sostenuto dalle strutture sanitarie per la copertura dei rischi connessi ad errori sanitari, verificare l'ammontare delle somme corrisposte ai pazienti a titolo di risarcimento e conoscere le modalità adottate per l'affidamento del servizio di assicurazione.

Il documento conclusivo della Commissione sottolinea che, nel periodo preso in esame, i premi assicurativi richiesti alle Aziende sanitarie sono sensibilmente aumentati; contemporaneamente sono stati ritirati dal mercato prodotti di garanzia della responsabilità civile professionale medica, a favore di prodotti dedicati a specializzazioni, considerate meno rischiose. In particolare, sono cresciuti del 4,6% annuo i premi assicurativi che le aziende pagano alle compagnie, si afferma, in conseguenza di un altrettanto marcato aumento delle richieste di risarcimento, anche se calano del 75% i danni liquidati.

L'incremento dei premi assicurativi versati tra il 2006 e il 2011 risulta pari al 23%, passando da 288 milioni di euro complessivamente versati nel 2006 a 354 milioni del 2011. Il premio medio annuo assicurativo, pagato dalle aziende sanitarie a livello nazionale, passa da 2 milioni di euro nel 2006 a 2,7 nel 2011, con un incremento del 35%. Altissimo anche l'incremento delle richieste di risarcimento, aumentate del 24%. Diminuiscono, invece le somme dei risarcimenti liquidati. Nello stesso intervallo temporale, gli importi pagati dalle compagnie assicuratrici per risarcimento passano dai 191 milioni del 2006 ai 91 milioni del 2011, con una riduzione del 75%.

Il Documento conclusivo della Commissione parlamentare sottolinea infine che la copertura assicurativa gestita direttamente dalla regione di riferimento, e non dalle singole ASL, rappresenta un importante fattore di riduzione di spesa. Un Fondo Regionale Assicurativo è però presente in sole 4 regioni (20,7%): la Toscana con 16 aziende sanitarie (45,7 %), il Friuli Venezia Giulia con 9 centri (25,7%), la Liguria anch'essa con 9 aziende (25,7%), la Basilicata con un'azienda sanitaria (2,9%). Sono invece 122 le aziende (il 72,2%) che si affidano ad un numero ristrettissimo di compagnie.

In Italia, secondo le stime contenute nel Rapporto ANIA sull'assicurazione italiana, le denunce pervenute alle imprese assicuratrici sono state, nell'ultimo triennio, in media, 32.000 all'anno. Per risarcire i danneggiati, le imprese hanno pagato o accantonato nel 2010 circa 800 milioni di euro, a fronte di 500 milioni di premi incassati. L'ANIA ha anche fornito, nel corso di una audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta, i dati statistici in suo possesso sulla copertura assicurativa di responsabilità civile per le strutture sanitarie (sia pubbliche che private con esclusione delle strutture quali case di riposo, laboratori di analisi, centri diagnostici, università), dai quali risulta che la stima dei premi per il settore delle strutture sanitarie per il 2010 (ultimo anno disponibile) è pari a 290 milioni di euro, mentre la stima del numero di sinistri denunciati alle imprese di assicurazione italiane relativi alle strutture sanitarie è nel 2010 pari a 21.353. Rispetto agli anni precedenti si può osservare che, dopo il decremento registrato nel periodo dal 2000 al 2003 (quasi il 30% in meno), il numero dei sinistri è rimasto costante fino al 2004 (circa 16.500), mentre dal 2008 è tornato a crescere per attestarsi sui livelli toccati nei primi anni del 2000.

Deve però esser messo in adeguato rilievo in primo luogo il fatto che le percentuali relative ai sinistri liquidati (numeri e importi) sono relativamente basse per le generazioni più recenti di sinistri. Ad esempio, alla fine del primo anno di presa in carico da parte della compagnia (2010), appena il 10% dei sinistri risulta essere liquidato, per un importo inferiore al 4%. Le percentuali crescono poi al crescere dell'anzianità della generazione dei sinistri, attestandosi a valori superiori al 90% per quelle con oltre dieci anni di sviluppo.

Vi è dunque un costo significativo connesso in qualche modo con il ritardo o comunque con il tempo lungo di trattazione stragiudiziale e giudiziale dei sinistri sanitari. E’ possibile che si tratti di un costo dovuto alla lunghezza del contenzioso civile in una materia certamente complessa come quella in esame non disgiunta però anche dalla talvolta inefficiente gestione dei sinistri da parte delle strutture sanitarie private e pubbliche e da parte delle loro assicurazioni.

La situazione è però in costante mutamento: si veda ancora la sesta edizione del Medical Malpractice Claims Analysis (sesta edizione del gennaio 2015 [4], ove si legge: “ a partire dall’anno 2009 il numero medio di sinistri registrati per struttura subisce una flessione fino all’ultima annualità. Fa eccezione l’anno 2012 durante il quale è stato registrato un picco positivo. Il picco precedente è del 2008-2009”. Ed ancora si rileva che il 78,6% dei sinistri rimane fuori dal processo, solo l’8% dei sinistri introduce un procedimento penale, entro un anno viene definito il 36,1% dei sinistri. Entro 3 anni l’80% circa.  

In particolare a pagina 28 della ricerca si afferma che “ in generale si osserva una diminuzione dei tassi di rischio (da -3,2% a -1,3 %) accompagnata però da un aumento del valore assicurativo ( da +1,3% a +3.2% ).

Sono dati importanti dai quali necessariamente partire. Ma sono tutti dati che non confermano affatto la tesi dell’accanimento giudiziario. Non cresce il numero dei sinistri, non cresce l’ammontare delle liquidazioni complessive, cresce il valore medio del risarcimento per singolo sinistro. C’è da chiedersi se tale aumento corrisponda ad un maggiore apprezzamento del valore della persona e della dignità umana o sia un effetto di una torsione sanzionatoria della funzione della responsabilità civile .

La crescita della liquidazione media per sinistro ha però riscontro statistico solo sino alla entrata in vigore della legge di conversione del DL Balduzzi.

Non vi sono dati invece sulle liquidazioni successive che sono e saranno fortemente condizionate dalla modifica introdotta dalla legge Balduzzi che, prescindendo dalla sua controversa retroattività, impone per la liquidazione dei danni per micropermanenti sanitarie l’utilizzo delle tabelle di cui all’art. 139 del TUAP , il cui effetto riduttivo del risarcimento è ben noto.

 

3. Il problema della natura giuridica della responsabilità civile sanitaria

 

Ed allora che ruolo assume il tema della qualificazione giuridica della fonte della responsabilità civile sanitaria sul fenomeno esposizione giudiziaria del medico e della struttura?

Dal 1942 e sino alla legge Balduzzi il quadro normativo in materia di responsabilità professionale medica, colpa e nesso causale, era rimasto pressoché immutato anche se la giurisprudenza - sollecitata da un contenzioso crescente con progressione geometrica - ha rivisitato praticamente tutti gli aspetti della materia: dalla natura dell’obbligazione del medico alla colpa, dal nesso di causalità alle esimenti, dai danni risarcibili al riparto dell’onere della prova. 

Nella ricerca delle ragioni della crescita del contenzioso civile, nel Quaderno dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione (2011) [5] si legge “la dottrina ha perciò provato a spiegare il fenomeno con altre ragioni, tra le quali si è segnalato:

(a) una più consapevole presa di coscienza dei propri diritti da parte degli utenti del servizio “sanità”;

(b) l’attività di sensibilizzazione compiuta dalle associazioni di difesa dei diritti del malato;

(c) l’accresciuta scolarizzazione della popolazione, che produce una maggiore attenzione ai propri diritti;

(d) l’evoluzione dei mezzi di cura e diagnosi, che ha consentito da una parte un più approfondito controllo ab externo sull’attività del medico, dall’altra l’esposizione di quest’ultimo al rischio derivante dal controllo e dal governo di strumentazioni assai sofisticate;

(e) l’evoluzione del concetto e delle funzioni della “responsabilità civile”, la quale, da criterio di riparto delle conseguenze sfavorevoli di un evento dannoso, è andata assumendo la natura di strumento di allocazione delle risorse del sistema;

(f) il massiccio ricorso di tutti i sanitari e le strutture ospedaliere all’assicurazione di responsabilità civile;

(g) la crescita esponenziale degli importi liquidati a titolo di risarcimento a seguito del riconoscimento del danno non patrimoniale  “

 

Non può, dunque, non considerarsi che la rilevanza che il diritto vivente ha recentemente assunto in questa materia, mediante l’elaborazione giurisprudenziale chiamata a definire concretamente le regole di comportamento e il contenuto dei diritti, come si legge nella introduzione al Quaderno del Massimario “ discende dalla natura degli interessi tutelati e dal fatto che nella sua primaria accezione la norma contenuta nell’art. 32 della Costituzione è volta a tutelare il diritto alla salute di ogni individuo, in maniera diretta e senza necessità dell’interpositio legis trattandosi di un diritto fondamentale della persona, immediatamente tutelabile nell’ambito dei rapporti con i poteri pubblici e nei confronti dei privati “ .

 

Ed ancora che “Salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali”, non è quindi, “di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni” (Sentenze n. 282 del 2002 e n. 338 del 2003). Poiché infatti “la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione”. Dunque, “autonomia del medico nelle sue scelte professionali e obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità, configurano un altro punto di incrocio dei principi di questa materia”.

Al giudice ed al giurista, verrebbe da dire al giurista eurounitario, sembra perciò assai evidente quanto sia vano il tentativo di predeterminare normativamente le condotte mediche mediante rinvio a predefiniti protocolli o raccolte di linee guida, certificati. Perché, come si legge ancora nel testo a cura del Massimario della Corte di Cassazione “L’elaborazione, così diffusa, relativa alla essenza e ai contenuti molteplici del diritto alla salute limita, dunque, in maniera esplicita la possibilità di una “intermediazione” del legislatore e lascia intendere che i problemi riguardanti l’individuazione e i limiti della responsabilità sanitaria debbano trovare soluzione, oltre che nei canoni deontologici, anche nell’applicazione giurisprudenziale “.

In questo contesto il legislatore con la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012 è intervenuto con approssimativa tecnica legislativa sulla disciplina penale e civile della tutela della salute da danno iatrogeno .

Il Ministero della Salute, insieme ad un buon numero di commentatori e con il conforto di qualche sentenza, hanno letto il contenuto della norma attualmente in vigore come se il Parlamento, nella legge di conversione, non l’avesse radicalmente, non solo formalmente, mutata.

Occorre rammentare in primo luogo che nell’intervento del relatore in Parlamento della legge di conversione – On Dr. Barani si afferma chiaramente che “con tale innovazione, il medico se dovesse rispondere per colpa lieve, sarà sempre tenuto a risarcire il danno ma non andrà incontro a responsabilità penale”.

Ma proviamo a fare il punto.

Il testo della norma in esame (art. 3 comma 1 decreto legge nr. 158/2012 c.d. Balduzzi, convertito con modificazioni in legge 08.11.2012, nr. 189), prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.

Ad avviso dell’esponente non può dubitarsi che il legislatore abbia scelto di limitare l’oggetto del proprio intervento al solo caso di responsabilità penale per colpa lieve, intendendo, con l’inciso finale, escludere che la norma depenalizzante la colpa lieve potesse produrre effetti riduttivi della responsabilità civile, rimasta intatta nelle sue fonti costitutive .

Né può dubitarsi che alla norma di conversione del decreto Balduzzi non possa attribuirsi natura interpretativa autentica perché con essa non si è stabilito, ma semplicemente implicato, (la locuzione “ resta fermo “ non prescrive ma presuppone ), una diversa qualificazione della fonte della responsabilità del professionista sanitario. Sicché è da escludersi che essa possa aver prodotto effetti di interpretazione autentica in grado di determinare un tanto radicale revirement  giurisprudenziale.

Né può attribuirsi alla norma un diverso significato mediante il semplice richiamo della funzione residuale dell’art. 2043 c.c,, richiamo peraltro operato, come si è detto, nell’ambito di una norma diretta a disciplinare, escludendola, la sola responsabilità penale per colpa grave e non per colpa del medico tout court .

Per una più approfondita disamina dell’opinione dell’autore si veda tra le altre la sentenza emessa dal Tribunale di Firenze, Sezione II civ., n. 436/2014 del 12 febbraio 2014 (pubblicata in Riv. Ital. Med. Leg. Anno XXXVI Fasc.2-2014 ). Merita però ricordare che l’interpretazione qui proposta non necessità affatto di pretermettere il portato normativo del richiamo all’art. 2043 c.c. che mantiene valenza residuale in tutti quei casi di invalidità del contratto di cura o di assenza di contatto sociale ( come nel caso di intervento spontaneo del medico coinvolto in situazione di emergenza occasionalmente , al di fuori di ogni rapporto e struttura). Appare perciò del tutto coerente la lettura dell’art. 3 della legge 189/2012 di conversione del decreto Balduzzi proposta dalla Corte di Cassazione ( con la sent. 8940/2014 ) . Risalente e nota è la teorica del concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale [6] .

 

4. Le scelte del legislatore

Ma non è l’interpretazione della portata della legge di conversione del decreto legge Balduzzi lo scopo principale di questo intervento.

Perché la distinzione del titolo di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, sulla base della natura pubblica o privata della prestazione medica, da taluni proposta in giurisprudenza ed in dottrina, ad avviso dello scrivente, non solo non può ricavarsi dal tenore della legge di conversione del decreto Balduzzi ma, questo è il punto sul quale si intende attirare l’attenzione, non è neppure auspicabile né in alcun modo utile vuoi alla tutela della salute, vuoi alla migliore gestione del rischio clinico e neppure alla protezione del medico.

Ad avviso dello scrivente la strada maestra per proteggere la qualità della professione sanitaria dalla pressione permanente delle azioni giudiziarie verso i singoli, senza che ciò rechi pregiudizio per il diritto alla salute ed alla dignità personale non è quella scelta dal legislatore nel decreto legge Balduzzi, ( superata dalla legge di sua conversione ) né quella proposta dalla Commissione Ministeriale che ha di recente concluso i propri lavori.

Essa appare invece individuabile , quale unica soluzione in grado di produrre il risultato sperato, nella eliminazione della responsabilità civile diretta del singolo medico verso terzi, con riferimento ad ogni attività di cura espletata nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale.

Ferma in ogni caso la responsabilità delle strutture sanitarie per le prestazioni erogate dai singoli medici (anche dal medico di famiglia) operanti nel SSN.

E salva la rivalsa della struttura verso il medico nei casi di colpa grave e, ovviamente, di dolo, nei limiti in cui la legge od il contratto possono circoscrivere.

Si rammenti infatti che il modello di responsabilità indiretta è già esistente nel nostro ordinamento proprio in ambiti che presentano analogie significative con il nostro.

Per questa soluzione ha optato il legislatore nella disciplina sulla responsabilità degli insegnanti con la legge 11 luglio 1980, n. 312 .

Ed analogo regime si rinviene in materia di responsabilità dei magistrati secondo la previsione contenuta nella legge 13 aprile 1988 n.117, di recente modificata, con la legge n. 18/2015 che ha superato il parallelismo tra la responsabilità dello Stato e quella dei giudici, ampliando la prima ben più della seconda [7].

 

Nessun ostacolo di ordine sistematico ostacola l’adozione di analoga disciplina per gli esercenti le prestazioni sanitarie nelle strutture pubbliche o comunque all’interno del SSN.

La scelta adottata nel sistema scolastico con la legge 11 luglio 1980, n. 312, in questo senso prevede: “La responsabilità patrimoniale del personale direttivo, docente, educativo e non docente della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato e delle istituzioni educative statali per danni arrecati direttamente all’Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza sugli alunni stessi. La limitazione di cui al comma precedente si applica anche alla responsabilità del predetto personale verso l’Amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza. Salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, l’Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi”. E tale scelta è stata estesa al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario dall’art. 574 dal Decreto legislativo 16.04.1994 n. 297 .

Norme particolari concernono poi i presupposti e la misura della rivalsa che il Presidente del Consiglio è tenuto ad esercitare verso i magistrati.

Non può negarsi che una siffatta opzione legislativa non arrecherebbe alla tutela della salute ed al perseguimento della efficienza del sistema alcun pregiudizio. Come nella scuola nessun pregiudizio ha inferto alla tutela della salute degli alunni.

Per contro tale soluzione certamente produrrebbe una riduzione dei costi gravanti sui singoli medici che dovrebbero mantenere la copertura assicurativa solo verso l’azione di rivalsa e per danno erariale. Potendo peraltro pattuirne il costo all’interno del contratto di lavoro.

Questa soluzione andrebbe poi verso la definizione di uno statuto tendenzialmente unitario della responsabilità del professionista pubblico a partire dalla disciplina di quella degli insegnanti e dei magistrati.

Qual è, infatti, il connotato identificativo essenziale che consente di collocare la prestazione medica dentro una categoria unitaria di obbligazioni gravanti sul professionista pubblico e tale da giustificare l’esclusione della responsabilità diretta verso terzi anche dell’esercente la professione sanitaria.

Esso sta nel fatto che il medico del servizio sanitario nazionale, come nel loro campo il magistrato e l’insegnante pubblico, quando sono chiamati a prestare l’attività di cura non possono scegliere se accettare un paziente o meno. Hanno l’obbligo di prestare il servizio. Né possono pattuire un corrispettivo monetizzando il rischio del proprio errore.

Senza dimenticare che la responsabilità personale del medico (come quella dell’insegnante e sempre più anche quella del magistrato) è intrinsecamente connessa alla e dipende dalla qualità organizzativa della struttura. Di talché si presenta al giudice come una responsabilità assai difficile da individualizzare.

In favore dunque di un nuovo statuto, minimo, della responsabilità personale dei professionisti pubblici così tanto esposti al rischio di danno a terzi (come sono medici, magistrati e insegnanti pubblici) si dovrebbe nettamente optare per il superamento integrale della responsabilità civile diretta verso terzi anche per i sanitari a qualunque titolo operanti nel SSN.

Ferma ovviamente la possibilità di rivalsa per dolo e colpa grave da parte dell’amministrazione di riferimento. Eventualmente anche con la limitazione della rivalsa per colpa grave nei limiti di una quota dello stipendio come avviene anche per i magistrati.

In ogni caso i medici rimarrebbero responsabili verso la struttura sanitaria anche per il rimborso del danno erariale ma sempre nei limiti del pregiudizio arrecato alla struttura sanitaria.

Tale circoscritta limitazione del rischio personale del singolo medico sarebbe peraltro un rischio anche più facilmente assicurabile ( secondo la metodologia di copertura del claims made).

Tra i vantaggi principali di questa scelta il medico si gioverebbe del fatto di evitare il giudizio civile, che porta con sé lo scontro personale con il paziente o con i suoi eredi, e produce di per sé in ogni caso una sofferenza ben maggiore del contenzioso tra medico e struttura di riferimento, con la quale si condividono responsabilità e poteri.

Non utile appare, invece, la strada del ri- trasferimento della responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità extracontrattuale perché essa non è destinata a raggiungere (e neppure ad avvicinarsi a) gli obiettivi dichiarati.

La diversa proposta formulata in questa sede si basa proprio sulla svalutazione degli effetti concreti del proposto ritorno al passato.

Se è vero che non è la diversa qualificazione del rapporto obbligatorio tra medico e paziente che ha esposto il sanitario ad un maggior rischio giudiziario, ma è la crescita della complessità della scienza medica e della connessa tecnologia, con lo sviluppo degli strumenti di diagnosi, controllo e accertamento, ad avvicinare fino ad identificare il contenuto della prestazione ed il grado di perizia esigibili dall’operatore sanitario nella colpa aquiliana ex art. 2043 con quella dovuta secondo la diligenza contrattuale fondata sull’art. 1176 c.c..

Così come sul piano processuale l’applicazione del principio della vicinanza della prova rivolto a consentire la prova del fatto costitutivo del diritto, nelle condizioni concrete di diseguaglianza o asimmetria sostanziale e processuale, tende oramai ad avvicinare gli esiti del pur differente riparto dell’onere probatorio gravante sul paziente (o sui suoi prossimi congiunti) o sul sanitario, nell’illecito contrattuale e nell’illecito extracontrattuale (senza considerare che la funzione percettiva della prova che la CTU svolge in questa materia erode permanentemente il principio dispositivo ed il riparto dell’onere della prova e che il fenomeno è destinato ad espandersi se dovesse esser approvata la proposta di anteporre al giudizio di cognizione la necessità di esperire il procedimento di cui all’art. 696-bis del codice di procedura civile, (consulenza tecnica preventiva al fine della composizione della lite) .

Così come anche la distinzione del termine di prescrizione ( cinque anni in luogo di dieci ) merita di esser svalutato alla luce della copiosa giurisprudenza che proprio in relazione alla tutela della salute in campo sanitario colloca  il momento di decorrenza della prescrizione nel giorno di maturata consapevolezza dell’addebitabilità del danno ad  un determinato atto o fatto illecito.

Mentre è noto ai pratici della materia che il punto di attrito, la difficoltà maggiore, nelle situazioni limite di responsabilità davvero incerta, è più frequentemente identificabile nel nesso di causalità materiale. Piano sul quale la distinzione tra contrattuale ed extracontrattuale della fonte della responsabilità non appare destinata a produrre alcun effetto.

Sul punto si prenda ad esempio la complessa, ampia e apparentemente contraddittoria casistica giurisprudenziale in materia di lesioni o morte da infezione nosocomiale. Questione che il più delle volte coinvolge solo la responsabilità della struttura e raramente anche quella del singolo operatore o dell’equipe.

Nessun vantaggio dunque è prevedibile che ottenga la posizione individuale del medico dal proposto od affermato trasferimento nell’ambito della responsabilità extracontrattuale del proprio titolo di responsabilità.

Mentre è altamente probabile che il sistema del duplice alternativo titolo di responsabilità (contrattuale della struttura e ed extracontrattuale del medico del SSN) e del conseguente diverso sistema di riparto degli oneri probatori sarebbe destinato a conservare criticità o a produrre nuovi effetti negativi sul giudizio attraverso :

1) in primo luogo un aggravio degli incombenti istruttori conseguenza della necessità di prova, nel processo, della gravità dell’errore in ogni caso con pregiudizio dell’immagine del medico e sicuro inasprimento del rapporto tra paziente e medico;

2) in secondo luogo l’aumento del costo del giudizio con il coinvolgimento non solo del medico ma anche delle assicurazioni dei singoli operatori sanitari ed allungamento dei tempi di introduzione del giudizio a causa delle chiamate in garanzia;

3) in terzo luogo il trasferimento nel giudizio civile del conflitto tra struttura e medico operante anche come conseguenza dei profili contabili retrostanti con il risultato che il medico avrebbe di fronte non solo il paziente ma anche la struttura.

Infine, per tornare alla perorata necessità di ridurre la medicina difensiva, è più che ragionevole dubitare che lo standard della prestazione dell’operatore sanitario, quand’anche condizionata dal rischio di soggezione all’azione giudiziaria, sia misurata, nelle strutture pubbliche, con il metro del proprio rischio individuale e non con quello del rischio della struttura che il singolo medico concorre a determinare sulla base dei protocolli interni.

E’ perciò ragionevole pensare che il medico normalmente si attiene (dovrà continuare ad attenersi anche nell’ipotesi propugnata dalla commissione ministeriale ) alle regole ed alle prassi imposte o adottate dalla struttura in cui opera e che collabora a definire nel corso del tempo. Mentre è ben difficile pensare che esso possa in ogni caso orientare la propria condotta attestando la prudenza sulla soglia della propria individuale responsabilità perché dovrà tener conto dell’esposizione al rischio clinico della struttura alla quale risponde anche per contratto.

Sicché è ragionevole pensare che nessun effetto, sulle condotte mediche difensive, potrà avere il diverso regime della responsabilità individuale da quello della struttura sanitaria.

Tutti questi argomenti non depongono a favore dell’indirizzo che sembra prevalere in Parlamento[8], ma a favore della scelta di escludere la responsabilità personale dell’esercente la professione sanitaria per sollevare il medico dai costi e dalle sofferenze del giudizio civile diretto verso la propria persona.

Già oggi, infatti, i pazienti che ritengono di esser danneggiati spesso rivolgono (ed è sempre auspicabile che rivolgano esclusivamente) le proprie doglianze solo verso la struttura sanitaria che, se pubblica, talvolta non chiama in causa il medico operante che risponde verso terzi, per il medesimo titolo contrattuale.

Ovviamente la soluzione proposta in questo intervento non potrà in ognin caso esser adottata per le attività sanitarie poste in esser al di fuori delle strutture pubbliche: per queste la legge non potrà, in ogni caso, negare che la fonte della responsabilità sia e resti quella contrattuale.

Potrà però ottenere un diverso regime giuridico un diverso contenuto tipico del rapporto contrattuale ma per far ciò il legislatore dovrebbe scegliere di tipizzare il contratto di cura o prestazione d’opera sanitaria in modo originale rispetto al modello vigente di contratto d’opera professionale.

Questa diversa strada sarebbe però lastricata di significativi pericoli per la tutela della salute umana.

Infine ci permette due ulteriori considerazioni rivolte ad evidenziare e valorizzare la peculiarità del ruolo della giurisprudenza ed in particolare di quella di merito nella materia della responsabilità sanitaria.

La prima è quella per cui, in ragione della importanza del processo di ricostruzione della regola medico-sanitaria del caso concreto, appare necessario rafforzare gli strumenti di ricostruzione del fatto storico ( e prima ancora di allegazione e dimostrazione dei fatti ) per consentire di pervenire a giudizi di merito sì conformi ai principi affermati dalla corte di legittimità ma anche quanto più adeguati alle peculiarità dello specifico caso medico. Per ottenere giudizi che contengano un’adeguata valutazione dei fatti.

La seconda è quella per cui ogni settore della medicina presenta peculiarità tali, in ordine alla colpa ed al nesso causale (in particolare - ma non solo - per omissione diagnostica o terapeutica) da rendere opportuno ed utile studiare gli elementi essenziali della responsabilità sanitaria articolandone l’analisi per ambiti della scienza medica con l’obiettivo di costruire un sistema di studio delle multiformi colpe mediche[9] .

Su questo terreno lo spazio della formazione comune tra giuristi ed operatore del mondo della sanità è tanto ampio quanto poco esplorato.

 



[1] Relazione tenuta in occasione del convegno organizzato dalla Camera Civile di Firenze “Medicina difensiva: male di oggi ma soprattutto di domani: quali rimedi?” Venerdì 6 novembre 2015 Firenze –Auditorium CTO Careggi

[3] Per tutte valgano le fonti citate a pag. 177 della Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari reperibile qui

[6] Si veda tra le altre la Relazione di Adolfo di Majo, reperibile qui 

[7] In questa rivista l’Obiettivo n.3 del n.3/2015, reperibile su http://www.questionegiustizia.it/rivista/2015-3.php fa il punto sulla responsabilità civile dei magistrati

[8] Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario. Testo unificato C. 259 Fucci, C. 262 Fucci, C. 1324 Calabrò, C. 1312 Grillo, C. 1581 Vargiu, C. 1902 Monchiero, C. 1769 Miotto, C. 2155 Formisano e C. 2988 D'Incecco, Relatore On Gelli

[9] Questo obiettivo culturale ha mosso un gruppo di studio che si è dedicato alla costituzione di un Osservatorio sulla responsabilità medica, promosso dal Dipartimento di scienze giuridiche dell'Università di Firenze, a cura della Prof. Ilaria Pagni con la collaborazione degli avv.ti Adriana Capozzoli e Laura Capacci, e della dott.ssa Simona Viciani) e del dott. Luca Minniti del Tribunale di Firenze .

23/11/2015
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