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Nuovo volto del diritto di proprietà e profili risarcitori: il ruolo della Cedu e della Carta di Nizza

di Antonio Ivan Natali
giudice del Tribunale di Brindisi
Le sentenze dei tribunali di Trieste e di Vercelli hanno riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale per la violazione del diritto di proprietà
Nuovo volto del diritto di proprietà e profili risarcitori: il ruolo della Cedu e della Carta di Nizza

I Tribunali di Trieste e di Vercelli, rispettivamente con le sentenze del 9.12.2013 e del 12.2.2015, arricchendo un filone intepretativo sempre più consistente, hanno riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale per la violazione del diritto di proprietà ed, in particolare, del diritto al pieno godimento della propria abitazione, ovverosia a quello spazio essenziale per la serena esplicazione della persona.

Ciò, offrendo pregevoli spunti ricostruttivi.

Come evidenziato dal Tribunale triestino, tale diritto é annoverabile tra i diritti fondamentali, ed é contemplato anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, di Nizza, oggetto di recente "comunitarizzazione" per effetto del Trattato di Lisbona.

Ed, infatti, la Carta di Nizza prevede sia il diritto al rispetto del proprio domicilio (art. 7), sia il diritto di proprietà (art. 17) che, ovviamente, non estraneo la panorama costituzionale interno, si colora, per effetto della norma sovranazionale comunitarizzata, di una funzione più marcatamente soggettivistica ed individualista.

Recita, infatti, testualmente la disposizione de qua che “Ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usare, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale”.

Come osservato dal Tribunale di Vercelli, dal dato normativo de quo, emergerebbe la novità della concezione sovranazionale della proprietà, evincibile dalla circostanza che il dominium non é configurato dalla Carta Costituzionale, quale diritto inviolabile, ma quale mero "diritto di partecipazione all’organizzazione ed allo sviluppo della vita economica"; diritto piegato ad una chiara “funzione sociale”.  

Orbene, é noto che i diritti previsti dai Trattati, così come tutte le norme self-executing, pur non avendo rango costituzionale, si pongano ad un livello superiore alla normativa primaria, determinandone la disapplicazione della normativa interna che non ne consenta la tutela.

Invero, a tal riguardo, la pronuncia triestina evidenzia quella che ritiene essere la duplice operatività dei diritti della Carta: 1) diretta ed immediata e, quindi, causa di disapplicazione nelle materie di competenza comunitaria; 2) mero criterio interpretativo, al di fuori delle suddette materie, ma pur sempre con effetti incisivi perchè "conformativi", seppur sotto il profilo della esegesi delle norme nazionali.

A tal fine, si richiamano le pronunce della Cassazione che si sono espresse in termini di "fonte di libera interpretazione del dato normativo nazionale stante il suo [della Carta] "carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei" (Corte cost. n. 135/2002, cfr. cass. 15519/2012; cass. 229678/2010).

Dunque, il giudice nazionale - laddove non possa esercitare il potere disapplicativo della norma interna - ne dovrebbe assicurare un'interpretazione conforme al dato normativo sovranazionale ed, in particolare, "ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza" (Cass.Civ. 2352/2010,cit.). Ciò, in modo da garantire ''l'effet utile du droit europeen".

Invero, a tal riguardo, sorge il dubbio se in materia di domicilio e di proprietà, sia operabile un distinguo a secondo che venga in rilievo una materia di competenza comunitaria esclusiva o concorrente, oppure se alle disposizioni della Carta debba riconoscersi sempre e, comunque, la primazia propria del diritto comunitario, con conseguente dovere per l'interprete di disapplicare la norma interna con esse in contrasto.

Più incerta appare, pur dopo il trattato di Lisbona, la valenza della Cedu che pure prescrive la tutela del diritto dominicale. Prevede, infatti, all’art. 1 del Primo protocollo alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, che “1. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. 2. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

E proprio la prima delle suddette regole sostanziali, quella per cui "ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni", deve indurre a ritenere prevalente, anche nella concezione della Cedu, l'anima individuale e soggettiva del diritto di proprietà, con conseguente rilevanza dei profili risarcitori connessi alla attuazione della personalità per il tramite dell'esercizio delle facoltà dominicali.

Quanto al ruolo della Cedu sul piano normativo interno, controverso è se e a seguito della modifica dell’art. 6 Tue, per effetto del Trattato di Lisbona, le norme Cedu abbiano acquisito diretta rilevanza in ambito comunitario e, per l’effetto, anche nel nostro ordinamento[1].

Infatti, ai successivi paragrafi 2 e 3, lo stesso art. 6 prevede che "l’Unione europea aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali"; e che "i diritti fondamentali", garantiti da detta Convenzione "e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali". Alla luce di tali previsioni, indipendentemente dalla formale adesione alla Cedu da parte dell’Unione europea – non ancora avvenuta, ma comunque preannunciata – i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione addirittura sotto un duplice profilo: in via mediata, tramite la loro elevazione a "principi generali del diritto dell’Unione"; oppure, in via immediata, come conseguenza della "trattatizzazione" della Carta di Nizza.[2]

 

La tesi della comunitarizzazione della Cedu[3]

L’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – contenuto nel titolo VII, cui lo stesso art. 6 del Trattato fa espresso rinvio – prevede, infatti, che, ove la Carta contenga "diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione"; fermo restando che tale disposizione "non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa".

Di conseguenza, tutti i diritti previsti dalla Cedu che trovino un “corrispondente” all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi "tutelati (anche) a livello comunitario (rectius, europeo, stante l’abolizione della divisione in “pilastri”), quali diritti sanciti […] dal Trattato dell’Unione".

Coerentemente con tali premesse concettuali, un cospicuo orientamento di pensiero – in ciò avallato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sezione IV, 2 marzo 2010, n. 1220 e TAR Lazio, sezione II bis, 18 maggio 2010 n. 11984) – ritiene che le norme Cedu - beneficerebbero del medesimo statuto di garanzia delle norme comunitarie. Esse, pertanto, non sarebbero più considerate quali norme internazionali e mero parametro “interposto” di legittimità costituzionale di norme domestiche ex art. 117 Cost., bensì quali  norme comunitarie (in quanto “comunitarizzate” con il Trattato di Lisbona). Quindi, in virtù della “primautè” del diritto comunitario, sarebbe doverosa la non applicazione di norme interne con esse contrastanti.

Da ciò, la legittimità del ricorso, per l’interprete, non più al solo strumento della rimessione alla Corte Costituzionale, per violazione dell’art. 117 Cost., primo comma, della norma interna che non consenta una tutela (idonea) – e compatibile coi dettami comunitari – di un diritto fondamentale di rilevanza comunitaria, ma al più incisivo meccanismo della disapplicazione, quale mezzo idoneo a consentire un controllo diffuso di compatibilità comunitaria.

 

La tesi della rilevanza delle disposizioni della Cedu, quali principi generali[4]

Invero, la ricostruzione de qua è stata oggetto di critica da parte di un’autorevole dottrina per cui se è vero che il Trattato Unione Europea, per come modificato dal Trattato di Lisbona, consente l’adesione dell’Unione alla Cedu", è vero anche che "non solo tale adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della Cedu al diritto comunitario, bensì – semplicemente – una loro utilizzabilità quali principi generali del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri".

Quindi, "il Trattato di Lisbona nulla avrebbe modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della Cedu che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale".

Né il suddetto art. 6 potrebbe avere, di per sé, la valenza di un “assenso” dell’Italia (o di un altro stato membro) a quella limitazione di sovranità che, in conformità all’art. 11 Cost., avrebbe consentito (come già verificatosi in occasione dell’adesione dell’Italia al Trattato istitutivo della CE la diretta operatività della norma internazionale sul piano interno, della regolamentazione dei rapporti giuridici fra i singoli consociati. Infatti, gli stati membri non avrebbero espresso alcuna volontà di autolimitazione e di rinuncia al proprio potere di normazione dei rapporti giuridici creati all’interno di ciascuno di  essi.

Né l’assenso alle limitazioni di sovranità ex art. 11 Cost. sarebbe da considerarsi definitivamente “delegato” al legislatore comunitario per effetto dell’iniziale sottoscrizione del Trattato Istitutivo della CEE, ora Unione Europea.

Dunque, quest’ultima, se può aderire alla Cedu quale soggetto internazionale e, in virtù della personalità giuridica di diritto internazionale che gli viene riconosciuta dall’art. 47, non può, però, “disporre”, quale soggetto internazionale, della sovranità dei rispettivi stati membri.

Accedendo a tale seconda ricostruzione, per effetto dell’art. 6 la sola UE si sarebbe autovincolata ad aderire alla Cedu in rappresentanza di se stessa e quale soggetto internazionale distinto dagli stati membri.

Ne discende che le norme Cedu sarebbero idonee a dare luogo a vincoli internazionali nei confronti della UE, così come degli Stati membri, ma non sarebbero “garantite” dallo statuto tipico del diritto comunitario e, quindi, dal meccanismo della loro diretta applicabilità.

A diverse conclusioni, si sarebbe potuto pervenire, in sede interpretativa, se  fosse stata prevista espressamente, nel Trattato di Lisbona, l’equiparazione del valore giuridico tra le norme comunitarie e quelle della Cedu, così come, appunto, previsto per le disposizioni della Carta di Nizza.

Invero, la Consulta con la sentenza n. 80 del 2011 sembra accedere a tale seconda opzione ricostruttiva dei rapporti fra norme Cedu e ordinamento interno. Infatti, ricostruendo la portata delle sue stesse decisioni, evidenzia "come, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale sia costante nel ritenere che le norme della Cedu – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008)".

Ne consegue che "ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della Cedu, il G. comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte Costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della Cedu data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato".

Invero, anche le pronunce di San Martino hanno nettamente differenziato l'efficacia della Cedu rispetto a quella delle norme comunitarie, omettendo di soffermarsi sul profilo relativo all'eventuale valenza conformativa, in sede interpretativa, di quest'ultima; vaalenza, invero indubbia alla luce delle suddette pronunce della Corte Costituzionale

Al di là della questione relativa alla rilevanza della Convenzione Europea, nell’ordinamento comunitario - e cioè, se la stessa sia “diretta” (perchè da considerarsi quale parte integrante dello stesso), o mediata (perché rilevante quale fonte di principi generali, al più alto livello delle fonti -il Trattato sull’Unione Europea-), deve considerarsi consacrato il principio per cui i diritti sanciti dalla C.e.d.u. sono tutelabili, quali principi generali del diritto comunitario, di fronte agli organi comunitari e a quelli degli stati membri.

In tal senso, depone l’univoco dato testuale dell’art. 6 che, come già affermato, prevede che "i diritti fondamentali", garantiti dalla Cedu "e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali".

E, ovviamente – come precisato dal preambolo della Carta di Nizza – lo sono nei limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea cui compete il ruolo istituzionale di “delineare” le fattispecie di diritti della persona suscettibili di tutela, nonché di modularne i limiti operativi.

Ciò, in virtù della portata etero-integratrice dei diritti fondamentali – e, in generale, dei Trattati e della normativa comunitaria suscettibile di diretta applicazione – che deve riconoscersi alle pronunce dei suddetti organi giurisdizionali cui è riconosciuto il potere di variamente modulare e graduare gli strumenti di tutela.

 

Il risarcimento del danno non patrimoniale

Così delineato il nuovo volto del diritto di proprietà sulla propria abitazione, quale proiezione spazialedella personalità dell'individuo e la valenza giuridica da riconoscersi alle disposizioni sovranazionali che ne prescrivono la tutela, é chiaro che - laddove ricorrano gli estremi dell'illecito aquiliano, il cui accertamento s'impone, come ricordato dalle Sezioni Unite del 2008, anche in presenza di un pregiudizio di carattere areddituale - potrà vagliarsi la configurabilità di un danno non patrimoniale.

Ciò in quanto dell'art. 2059 c.c., come evidenziato dal Tribunale di Vercelli, s'impone, proprio in virtù dell'obbligo di un'interpretazione adeguatrice un'esegesi conforme ai parametri sovranazionali, che deve essere sempre sperimentata prima di vagliare l'eventuale incostituzionalità della norma interna.

E il danno non patrimoniale potrà essere riconosciuto ove la lesione di un diritto costituzionalmente rilevante, in tal caso la proprietà della propria abitazione, superi il vaglio della "gravità" dell'offesa e della "serietà" del pregiudizio.

D'altronde,  come condivisibilmente  evidenziato dal Giudice di Vercelli, sotto il profilo sistematico, "il legislatore italiano, ha, al primo comma dell’art. 42bis D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, espressamente previsto, in caso di occupazione acquisitiva, il diritto del proprietario ad un “indennizzo” per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale".

In favore della risarcibilità del danno non patrimoniale, é richiamabile anche la giurisprudenza sovranazionale che, come ricordato dal Tribunale di Vercelli, a fronte di una violazione del diritto di proprietà da parte di un soggetto pubblico, è giunta a riconoscere al danneggiato il risarcimento del danno morale (Corte dei diritti dell’uomo, 11 dicembre 2003, Carbonara e Ventura c. Italia, Corte dei diritti dell’uomo, 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera c. Italia).

Dunque, riconoscere il diritto ad un ristoro patrimoniale del danno nell'ipotesi di lesione del diritto di proprietà in conseguenza della condotta illecita di un soggetto pubblico e non, anche, di quella di un privato, porrebbe un problema di compatibilità di tale soluzione esegetica con l’art. 3 Cost.. Ciò, specie, ove si consideri che, "nel secondo caso, la lesione neppure risulta giustificabile alla luce del perseguimento di interessi di carattere generale".

Dunque, il danno non patrimoniale si arricchisce di una nuova componente, non derivante dalla mera lesione dell'integrità e della funzionalità del bene, nella sua accezione oggettiva, ma strettamente legata al profilo soggettivo- individuale del godimento della proprietà da parte del suo titolare.

                                                                                                                     


[1] v. ordinanza del Tribunale di Brindisi - Sezione Distaccata di Ostuni, del 3 aprile 2012, che ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità delle tabelle sulle micropermanenti.

[2] v. ord. citata.

[3] v. ord. citata.

[4] v. ord. citata.

03/04/2015
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