Magistratura democratica
giustizia internazionale

Presidente, alla sbarra!

di Francesco Florit
Giudice presso il Tribunale di Udine
Iniziato davanti alla Corte Penale Internazionale (ICC) il processo contro Laurent Gbagbo e Blé Goudé

E’ incominciato tra accuse di politicizzazione della Corte Penale Internazionale (ICC) il processo contro Laurent Gbagbo e Blé Goudé, rispettivamente  ex Capo di Stato ed ex Ministro della Costa d’Avorio, per le violenze post-elettorali del 2010.

Chi si interessa di vicende giudiziarie internazionali, si imbatte in refrain ricorrenti, quasi dei ritornelli o dei cliché destinati a ripetersi ogni qualvolta venga tratto a giudizio, innanzi alla Corte Penale Internazionale o ad una delle varie istanze giudiziarie sovranazionali, un ex capo di Stato o il leader di una milizia o di una fazione resisi responsabili (asseritamente, ça va sans dire) di gravi crimini contro la popolazione civile.

Da un lato, per inevitabile sensazionalismo giornalistico, si enfatizza ‘il processo del secolo’ o addirittura ‘il processo del millennio’ (espressioni utilizzate per il processo Milošević innanzi all’ICTY ma anche, più recentemente, per il processo Karadžić e per quello nei confronti di Hissene Habré, in corso a Dakar avanti ad una corte ibrida), evidenziando che ‘per la prima volta’ un ex-Capo di Stato viene portato alla sbarra avanti all’ICC (in altre occasioni il concetto di primazia era stato utilizzato per la prima apparizione di un Presidente effettivo – Uhuru Keniatta o per il primo processo in assoluto); parimenti si enfatizza che è il primo processo nei confronti di un esponente politico di primo livello. Insomma, la ricerca del titolo ad effetto, nella stampa anglofona più che in quella francofona (e ancora meno in quella italiana, dove l’attività dell’ICC è sostanzialmente ignorata) porta a sempre continue scoperte.

D’altro lato, come d’abitudine per i processi e più in generale per ogni iniziativa presa dalla Corte Penale Internazionale, si moltiplicano nella stampa internazionale e da parte di numerose NGO e gruppi di pressione, le denunce di ‘double standards’ e di uso politico della attività giudiziale della ICC, accusata di essere strumento nelle mani di alcune Potenze egemoni (in primo luogo, Francia e Stati Uniti d’America) ai danni dell’Africa. Questa accusa è ovviamente la più infamante e delegittimante per un organo giudicante, perché tende a farne venir meno la stessa legittimazione morale. Per quanto basata su mere allegazioni/petizioni di principio e per quanto il suo ‘face value’ sia prossimo allo zero, essa è diventata rituale, come un meme che diventa vero e scontato per la mera forza della ripetizione.

 

In cosa il processo a Gbabo e Goudé si differenzia da simili procedimenti innanzi a istanze giudiziali internazionali?

Fondamentalmente perché i fatti ascritti a Gbagbo ed a Goudé nelle 4 accuse non sono avvenuti nel corso di un conflitto internazionale o di una guerra civile ma sono le violenze che hanno fatto seguito ad una elezione contestata. Si tratta di fatti ben circoscritti, accaduti in un limitato arco temporale.

L’ex Presidente ivoriano è tratto a processo con un ex ministro del suo governo (Blé Goudé) per rispondere di quattro episodi, avvenuti tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, nei mesi successivi al ballottaggio elettorale che aveva contrapposto il Presidente in carica (Gbabo, appunto) al candidato dell’opposizione (Ouattara).

E’ necessario ricordare che il secondo turno delle elezioni presidenziali 2010 si era chiuso con un esito incerto: mentre il Presidente in carica (dal 2000) si dichiarava vincitore, sulla base del pronunciamento del Consiglio Costituzionale ivoriano, ricevendo il sostegno ed il voto di fedeltà dei vertici delle forze armate e di gran parte dell’establishment a lui legato, la Commissione Elettorale Internazionale (promossa dall’ONU e sostenuta dai principali Paesi occidentali) aveva proclamato la vittoria di Ouattara, invitando al contempo Gbabo ed il suo entourage ad un responsabile atto di accettazione della sconfitta elettorale per evitare uno scontro che avrebbe potuto portare ad esiti drammatici.

L’impasse ed il braccio di ferro tra le due fazioni che è seguito nei mesi successivi al ballottaggio ha effettivamente generato il temuto scontro. Secondo le accuse, nel tentativo di ostacolare l’avanzata delle forze del Nord fedeli a Ouattara, Gbagbo avrebbe ordinato, promosso, indotto o comunque contribuito in altra via alla commissione di Crimini contro l’Umanità ai danni di seguaci dell’opponente, attaccando i manifestanti pro-Ouattara a metà Dicembre 2010 ed all’inizio di Marzo 2011 e bombardando due località, popolate principalmente di seguaci di Ouattara a metà Marzo e metà Aprile, poco prima di capitolare.

Complessivamente, le vittime civili delle violenze (morti, feriti, donne stuprate) sarebbero 3.000.

 

Perché l’accusa di parzialità?

L’accusa principale mossa alla Corte da una parte della stampa e del mondo delle NGO (oltre che, dei sostenitori di Gbabo) è di aver investigato e posto sotto accusa solamente una fazione ed i suoi leader, ignorando (volendo ignorare) le violenze commesse dai seguaci di Ouattara; ci si è spinti ad affermare che i documenti ed i filmati sui quali le accuse si basano sarebbero dei veri e propri falsi, poiché le scene di violenza in essi immortalati sarebbero state commesse dalla fazione di Ouattara.

Si è affermato addirittura (Shannon Ebrahim: link qui) che l’intera investigazione sarebbe semplicemente lo strumento con cui la Francia è riuscita a eliminare dalla scena politica africana Gbagbo, dopo avervi inutilmente provato tra la metà e la fine del decorso decennio in forme più ‘tradizionali’ (coup d’état, attentati).

La colpa di Gbagbo, fin dai primi anni della sua presidenza (2000-2010) sarebbe stata quella di essere il principale leader africano a capo del processo di emancipazione delle colonie francofone dall’influenza politica francese e dall’ingerenza economica delle multinazionali francesi, che consente il protrarsi della dilapidazione delle ricchezze naturali del Paese a favore di Parigi.

Secondo questa narrazione, la stessa Procuratrice, Fatou Bensouda, consapevole della pochezza delle accuse, avrebbe recentemente ammesso ad un politico africano (un candidato presidenziale nella Repubblica Centrafricana) che si tratta solamente di “pressione politica che viene dalla Francia” ma di “non poter far nulla”. Vero o falso che sia, l’episodio rivela a quale livello sia caduta la credibilità dell’istituzione, se si giunge ad accettare l’idea che il vertice della Procura internazionale sia asservita alle politiche di uno Stato (avendone richiesto il sostegno al tempo dell’elezione all’ufficio).

Ora, non si può negare che la Francia giochi un ruolo chiave nelle sue ex colonie (di cui la Costa d’Avorio è una delle ‘perle’, per sviluppo economico e vivacità culturale); si deve altresì prendere atto del ruolo svolto da Parigi nella ‘deposizione’ ed arresto di Gbagbo (link qui).

Tuttavia, ridurre una vicenda storica così complessa alla solita teoria complottistica che vede l’Occidente manipolare la Corte a danno dell’Africa risulta antistorico oltre che troppo semplicistico.

Antistorico, perché non tiene conto del fatto che nei mesi dei Due Presidenti (Dicembre 2010 – Aprile 2011) la Costa d’Avorio era presidiata, oltre che dalle due fazioni belligeranti, anche da due Missioni internazionali (oltre all’UN, la Francia aveva i propri contingenti militari sul terreno) nonché da un esercito di Organizzazioni non governative a carattere umanitario, specificamente interessate a monitorare e memorializzare eventuali violazioni dei diritti umani. Nell’era mediatica in cui viviamo e con il ruolo svolto dall’open knowledge nei conflitti e nelle catastrofi umanitarie in ogni angolo del mondo, l’idea stessa di una fabbricazione di tali proporzioni appare difficile da accettare.

Inoltre, la teoria del ‘complotto francoamericano’ dimentica che fin dal giorno successivo all’esito referendario, che assegnava a Ouattara la vittoria, poi negata dal Consiglio Costituzionale (link qui), l’ECOWAS (l’equivalente dell’UE per l’Africa Occidentale) ed addirittura l’Unione Africana avevano disposto la sospensione della Costa d’Avorio di Gbagbo per aver usurpato la vittoria a Ouattara.

Come tutte le teorie complottiste, anche quella dell’asservimento della Corte internazionale all’Occidente suona troppo semplicistica. Partendo dal dato incontrovertibile che la assoluta maggioranza delle indagini è a carico di Capi di Stato, leader, Capi di Governo africani, pretende di affermare che ciò sia il frutto di una scelta, piuttosto che del destino di un Continente in cui il ricorso alle armi ed all’uso indiscriminato delle stesse è un normale meccanismo di risoluzione delle tensioni politiche. 

Soprattutto, la teoria del complotto, poiché diretta a porre in questione l’esistenza stessa della Corte ed il suo funzionamento in generale, non risponde (non si cura di rispondere) alla domanda fondamentale che si pone nel singolo processo, domanda che si risolve nel quesito: nel caso concreto, sono stati commessi Crimini contro l’Umanità o no? Anche se la Procura Internazionale avesse mancato di portare a processo altri Crimini contro l’Umanità commessi in giro per il mondo, quando un indictment è stato confermato e l’imputato è stato portato davanti alla Corte, il processo che ne è seguito è stato equo? Sono stati rispettati gli elevati standards che ci si aspetta dalla Giustizia (internazionale e domestica), quando gli si affida il giudizio su un uomo e sulle sue azioni?

La teoria del complotto, che denuncia la Giustizia internazionale per essere strumento di Super Poteri (cioè dell’Occidente), ignora che oltre alla Procura Internazionale (che non è più di una parte del processo, soprattutto nel clima ‘anglofilo’ che si respira nelle Corti internazionali) c’è la Corte, che è indipendente, non ha comunicazioni ‘riservate’ con la Procura, ed è costituita da Giudici nominati con autonoma (e laboriosa) procedura tra giuristi di chiara fama.

Nel processo contro Gbagbo e Blé Goudé, il Presidente del collegio giudicante è Cuno Tarfusser, magistrato italiano, già Procuratore di Bolzano, ampiamente noto nella magistratura italiana. Ovviamente non si può pensare che giornalisti ed opinionisti schierati lo conoscano e tanto meno che l’opinione pubblica africana, orientata contro la Corte a priori, se ne curino, ma da giudice italiano mi permetto di dire che una delle parole che potrebbero essere usate per definire il collega potrebbe essere maverick, cioè il soggetto che non si adegua alla regole. Non un cane sciolto o un dissidente (altro possibile significato del termine) ma una persona che presenta una assoluta indipendenza di giudizio e che, paradossalmente, se gli venisse richiesto di fare qualcosa, per principio e per carattere tenderebbe a fare il contrario, per essere sicuro di non assoggettarsi al diktat. Questo mio giudizio è ovviamente personale ed espresso con stima e simpatia per il collega, nella certezza che una persona come lui sia totalmente libero da pregiudizi.

Alla fin fine, i processi, a qualunque livello, sono fatti da uomini (e donne, ovviamente), cioè da individui, ed è nella garanzia che queste persone possono fornire che va cercata la certezza della loro indipendenza ed, attraverso essa, del collegio che compongono.

C’è un altro vizio di fondo del ragionamento ‘complottistico’: chi accusa una istituzione giudiziaria di parzialità, poco o nulla sa delle logiche e dei valori che governano una Corte, sia essa domestica o sovranazionale e ritiene che un giudice agisca secondo i parametri di un qualsiasi altro ufficio pubblico o comune cittadino. Ma mentre per una autorità amministrativa è del tutto lecito procedere (nel rispetto della legge), alla massimizzazione dell’interesse pubblico attraverso l’esercizio della funzione, rispondendo ad esigenze che sono concrete e che impongono scelte discrezionali, una Corte ha una scelta binaria (accolgo/non accolgo, condanno/assolvo, giusto/non giusto, sulla base della valutazione dei fatti).

La rigidità che deriva dalla applicazione di regole giuridiche non viene compresa/accettata dai commentatori o dai politologi abituati a ragionare secondo logiche politiche per cui diversi interessi vengono composti e mediati per fondersi nell’interesse superiore.

Analogamente, diviene difficile per commentatori free-lance e politologi comprendere che l’indagine investa solamente una delle due fazioni politiche in campo. Ispirati da una visione ecumenica della giustizia, non riescono ad accettare che solo una fazione sia tratta a giudizio.

 

Un nuovo “caso Kenya”?

Il processo è appena iniziato. Secondo tutti gli osservatori internazionali esso è destinato a durare anni, dato il numero di testimoni chiamati a deporre (diverse centinaia) e la mole di documenti e le centinaia di ore di filmati depositati dalle parti.

Nel corso dell’opening speech, il Procuratore Internazionale ha espressamente rimarcato che l’unico fine del processo era la scoperta della verità, per garantire giustizia alle vittime e prevenire il ripetersi di atrocità nel futuro. Ha aggiunto che la questione su chi abbia vinto le elezioni del 2010 o chi avrebbe dovuto vincerle è estranea al processo.

La dichiarazione, che potrebbe apparire scontata, va intesa come una risposta preventiva alle critiche di parzialità della indagine, denunciata come one-sided, cioè diretta solo contro il campo delle forze che facevano riferimento a Gbagbo.

In precedenti occasioni la Procuratrice Fatou Bensouda aveva ricordato di investigare anche possibili violazioni commesse dai seguaci di Ouattara ma di aver adottato un approccio sequenziale.

In un precedente caso, quello relativo ai disordini che avevano accompagnato e seguito le elezioni presidenziali in Kenya nel 2007, l’investigazione aveva portato a due distinti procedimenti, l’uno nei confronti del Presidente eletto Uhuru Kenyatta, e l’altro nei confronti di uno degli opponenti, William Ruto. Nei confronti del primo tuttavia le accuse sono state ritirate a Dicembre 2014, a causa delle asserite difficoltà di accedere a informazioni fondamentali per la accusa e della lamentata mancata collaborazione del Governo Keniano a fornirle. Nei confronti del secondo, il processo è stato interrotto appena un mese fa (al termine del Prosecutor’s case) con la formula dell’insufficienza delle prove a sostenere l’accusa. Tecnicamente non si tratta di una assoluzione (il caso potrebbe essere ‘riaperto’ in presenza di nuove prove) ma di un proscioglimento anticipato perché c’è ‘no case to answer’ (secondo la formula inglese).

I processi nei confronti dei due politici Keniani, ora uniti in una coalizione che ha nel programma politico l’uscita del Kenya e degli altri Stati africani dalla giurisdizione della Corte Internazionale, rappresentano una dura lezione per la Corte e per la credibilità della giustizia internazionale.

C’è da augurarsi che il processo in corso nei confronti di Gbagbo e di Blé Goudé giunga a conclusione, qualunque essa sia, in tempi ragionevoli.

Benché unificato sotto la presidenza di Ouattara dopo anni di divisione Nord/Sud, la Costa d’Avorio è ancora un Paese ‘in transizione’ ed in via di consolidamento. Il tema mai sopito della ‘Ivoirité’ (oltre un quarto dei 19 milioni di abitanti non sono autoctoni), le tensioni tra campagna e città, tra Sud cattolico e Nord musulmano e non ultimo, il rischio di infiltrazione terroristica (l’ultimo assalto a un resort turistico, che ha causato 18 vittime, risale ad appena due mesi fa) sono fattori di destabilizzazione nel Paese.

Il processo in corso, con il monito implicito a tutte le forze in campo, a trovare forme democratiche di soluzione delle crisi politiche, piuttosto che ricorrere alle armi, può aiutare il Paese a trovare il dialogo interno invece della divisione su linee etniche o religiose.

 

16/06/2016
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