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Principio di effettività e diritto del lavoro

di Giovanni Armone
magistrato addetto al Massimario della Corte di cassazione
Il principio di effettività, elaborato dalla Corte di giustizia per assicurare piena attuazione agli strumenti normativi dell’Ue privi di efficacia diretta, stenta a trovare applicazione nell’ambito del diritto del lavoro, nonostante una importante corrente di pensiero ne abbia da tempo sottolineato il radicamento nei valori costituzionali. Consapevole della crisi attraversata dal diritto del lavoro e dai suoi formanti, dottrinale e giurisprudenziale, il saggio tenta di verificare, attraverso tre esercizi applicativi su tematiche di attualità (contratti a termine, poteri officiosi del giudice e licenziamenti illeciti), se il principio di effettività possa far riacquistare al diritto del lavoro la sua tradizionale capacità di lettura della realtà sociale e di interpretazione dei cambiamenti. Il tentativo è condotto suggerendo che tale rivalutazione possa avvenire inducendo il diritto del lavoro a reimparare dal diritto civile un uso più rigoroso delle categorie e ponendole, opportunamente innervate dai principi del diritto dell’Ue, a servizio di quei valori personali che del diritto del lavoro costituiscono da sempre la cifra identificativa.

1. Principio di effettività e diritto del lavoro: un quadro generale

Il principio di effettività è stato elaborato dalla Corte di giustizia per assicurare piena attuazione agli strumenti normativi dell’Unione europea privi di efficacia diretta.

Tale principio può essere così compendiato.

Qualora il diritto dell’Unione europea definisca abusive o illecite determinate condotte e tuttavia non preveda sanzioni specifiche, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle disposizioni adottate in attuazione della normativa Ue.

Le modalità di attuazione di siffatte norme rientrano nella competenza dell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi; tuttavia, esse non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) [1].

Il principio di effettività può essere dunque osservato da due angoli visuali: dal punto di vista oggettivo, in quanto funzionale a garantire il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Unione europea nel singolo settore di intervento; dal punto di vista soggettivo, in chiave rafforzativa dei diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli cittadini dell’Unione.

Questo secondo profilo si è andato potenziando, acquisendo una curvatura processuale più accentuata, a seguito dell’approvazione della Carta di Nizza. L’art. 47 Cdfue conferisce infatti al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva il rango di diritto fondamentale.

Il percorso appena sintetizzato non può lasciare indifferente il giurista italiano, richiamando anzi alla mente un’importante elaborazione teorica sul tema dell’attuazione dei diritti, sviluppatasi a partire dagli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso all’interno della nostra dottrina privatistica e processual-civilistica. Attingendo alla celebre frase di Giuseppe Chiovenda, secondo cui «il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce» [2], ma anche rivisitando le tradizionali contrapposizioni tra diritto sostanziale e processo, sulla scorta di un assetto codicistico che aveva elevato «il momento della tutela giuridica a momento qualificante della vita dei diritti soggettivi» [3], la dottrina aveva allora setacciato pressoché ogni campo del diritto privato alla ricerca degli strumenti utili a inverare sul piano rimedial-processuale un principio di effettività della tutela dei diritti, non espressamente sancito nelle fonti, ma già allora ricavabile, prima della modifica dell’art. 111 Cost., dall’art. 24 Cost. [4].

All’interno di quel dibattito, il diritto del lavoro e la dottrina giuslavoristica si erano collocati in una posizione di avanguardia, avvantaggiati anche dal fatto che, in quel campo, la riflessione teorica si inscriveva in una stagione di politica legislativa assai feconda, tanto sul piano dell’allargamento dei diritti sostanziali quanto sul piano della tutela che tali diritti sorreggeva. Ne costituiscono il più chiaro esempio le norme dedicate alla tutela contenute nello Statuto dei lavoratori, così cariche di incisività e pregnanza (artt. 18 e 28 in particolare), nonché la riforma del processo del lavoro del 1973 [5].

Il percorso è proseguito anche in tempi più recenti. Dottrina e giurisprudenza hanno continuato a ragionare sul principio di effettività (di matrice europea e non), sia in ottica di rafforzamento della tutela, sia soprattutto alla ricerca di possibili rimedi allo stato di crisi della giustizia, in chiave dunque di efficienza e ragionevole durata del processo civile, inteso come prodotto o servizio pubblico [6].

A dispetto di tali affinità e di tali tentativi, bisogna tuttavia riconoscere che la declinazione del principio di effettività di origine europea nel diritto del lavoro resta ardua [7].

I fattori all’origine di questo fenomeno sono molteplici, ma possono essere verosimilmente ricondotti a un’unica matrice: la riduzione delle politiche sociali all’interno dell’Unione europea e degli Stati nazionali.

Prendiamo le mosse dall’Unione europea.

Come già si è accennato, il principio di effettività elaborato dalla Corte di giustizia è strumentale alla realizzazione degli obiettivi dei singoli strumenti normativi adottati dall’Unione; con la conseguenza che, in assenza di strumenti, il principio di effettività non ha modo di operare.

Quanto all’art. 47 Cdfue, è noto come l’art. 51 della stessa Carta espressamente stabilisca che le sue disposizioni sono vincolanti per gli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» ed escluda la possibilità che le stesse disposizioni abbiano la capacità di estendere l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione o di aumentarne le competenze. Questa limitazione, poco avvertibile in settori, come quello dei consumatori, che trovano nel diritto dell’Unione europea il proprio terreno di elezione, esercita invece un vincolo costrittivo assai penetrante per il diritto del lavoro, appunto per la riluttanza del diritto europeo a portare avanti l’armonizzazione delle politiche sociali [8].

Ed è altrettanto nota la difficoltà, nonostante l’incorporazione della Carta di Nizza nei trattati, a far acquisire ai diritti fondamentali della Carta di Nizza il rango di princìpi di livello costituzionale sovranazionale, capaci di operare senza la necessaria mediazione dei singoli strumenti da implementare.

Sul versante interno, poi, si assiste a una progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori e a un’attenuazione delle tutele.

Esemplari al riguardo appaiono due vicende.

L’una, più macroscopica, attiene alla tutela contro i licenziamenti illegittimi: la legge n. 92/2012 e il d.lgs 23/2015 (Jobs act) hanno progressivamente ridotto gli spazi della tutela reintegratoria e ampliato quelli della tutela indennitaria.

L’altra, meno evidente ma ancor più paradigmatica, riguarda le misure di coercizione indiretta. In passato, si sottolineava la assoluta necessità, proprio ai fini di garantire l’effettività della tutela, di munire le sentenze di condanna di strumenti accessori di tipo compulsivo e si guardava proprio al diritto del lavoro (oltre che al diritto industriale) come a un terreno nel quale era «riconoscibile, se non altro come linea di tendenza, la tensione delle obbligazioni verso l’adempimento “in natura”» [9] che aveva già dimostrato la concreta praticabilità di tali strumenti (art. 18, comma 22, art. 28 dello Statuto) [10]. Ebbene, quando finalmente le misure di coercizione indiretta sono state previste dal diritto positivo, mediante l’introduzione dell’art. 614-bis nel codice di procedura civile, il legislatore ha espressamente escluso dal raggio applicativo della nuova disciplina proprio le controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409.

Questo processo di politica legislativa provoca poi, sempre secondo l’impostazione dominante, un effetto a catena sugli altri formanti: a parere di molti, il diritto del lavoro, inteso come disciplina di studio autonoma, starebbe conoscendo un momento di crisi pressoché irreversibile [11]; tra i giuslavoristi «si verificano per un verso un progressivo slittamento, con tratti di vera e propria subalternità, verso culture altre, soprattutto di taglio economico e per altro una sorta di smarrimento» [12], i giudici del lavoro risentono dello spirito del tempo e a coloro tra essi «rimasti fedeli ad un diritto del lavoro più autonomo o meno succube non resta che uno spazio interstiziale di manipolazione» [13].

Le pagine che seguono sono dirette a verificare se, grazie al diritto dell’Unione europea e all’azione del principio di effettività, sia possibile ipotizzare un futuro di maggiore ottimismo per il diritto del lavoro.

2. Principio di effettività e diritto del lavoro: alcuni possibili campi di esplorazione

Nel compiere questo tentativo, vorrei soffermarmi su tre tematiche, corrispondenti a tre diverse gradazioni di influenza (attuale o potenziale) del principio di effettività sul diritto nazionale.

Nel primo esempio, quello dei contratti a termine nel pubblico impiego, la Corte di giustizia ha già affermato l’incidenza del principio di effettività sul diritto italiano e si tratta di comprendere se siano adeguate le misure adottate in ossequio a tali affermazioni dal nostro legislatore e dal nostro diritto giurisprudenziale.

Il secondo tema è quello del rilievo d’ufficio delle nullità del licenziamento discriminatorio. Qui mancano pronunce della Corte di giustizia espressamente dedicate a tale argomento, ma il diritto antidiscriminatorio dell’Unione europea è una realtà affermata, sulla quale appare dunque possibile far operare efficacemente – nel rispetto dell’art. 51 della Carta – il principio di effettività. Con l’aggiunta che il potere officioso di rilievo delle nullità è stato già ricompreso dalla Corte di giustizia tra i corollari del principio di effettività [14].

A proposito del terzo esempio – tutela reintegratoria nei casi di nullità non espressamente previsti dalla legge – lo spazio di operatività del principio di effettività è invece stretto tra due argini: scarsità delle norme Ue di copertura e apparente restrittività della norma nazionale.

3. Il precariato pubblico nel circuito della tutela multilivello

Il tema dei contratti di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato costituisce un esempio paradigmatico del modo di operare della cd. tutela multilivello.

Al rafforzamento della tutela dei precari pubblici nell’ordinamento italiano hanno infatti concorso i giudici di merito, la Corte costituzionale, la giurisprudenza di legittimità e la Corte di giustizia, lungo un percorso indubbiamente tortuoso, ma certo ricco di spunti di riflessione.

La direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70 Ce mira ad attuare l’accordo quadro sui contratti a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (Ces, Ceep e Unice) e finalizzato a prevenire gli abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile.

La direttiva riguarda sia il lavoro privato sia il lavoro pubblico.

Nel diritto italiano, la giurisprudenza di legittimità è ormai ferma nel ritenere che eventuali abusi nell’utilizzo dei contratti a termine determinino la cd. conversione del contratto: attraverso il meccanismo della nullità parziale del contratto e la sostituzione della clausola nulla di apposizione del termine, il contratto a tempo determinato si trasforma in contratto a tempo indeterminato [15].

Per il pubblico impiego, tuttavia, l’art. 36, d.lgs n. 165 del 2001 esclude la possibilità di costituire giudizialmente rapporti di lavoro con la Pa e dunque impedisce di trasformare un contratto a termine, pur abusivamente reiterato, in un rapporto a tempo indeterminato.

La Corte di giustizia si è più volte pronunciata sulla compatibilità tra tale previsione e la normativa Ue in materia di lavoro a tempo determinato, esprimendo una posizione che può così riassumersi [16].

Il divieto di cd. conversione non si pone di per sé in contrasto con il diritto Ue, neanche per il fatto di dettare una disciplina differenziata tra lavoro privato e pubblico.

La conversione non costituisce, infatti, l’unica sanzione possibile contro la reiterazione abusiva di contratti a termine. Anche una misura risarcitoria, quale quella espressamente prevista dallo stesso art. 36, d.lgs n. 165 del 2001, può essere considerata adeguata, purché tuttavia realizzi un effetto dissuasivo nei confronti dell’amministrazione pubblica autrice dell’abuso.

Tale idoneità dissuasiva dipende da vari fattori, ed ecco entrare in gioco il principio di effettività: l’ammontare del risarcimento deve essere adeguato dal punto di vista quantitativo; il percorso processuale non deve essere accidentato [17]; la prova del danno non deve essere particolarmente disagevole [18].

Nel tentativo di dare a tali principi una vestizione coerente con l’ordinamento interno, i giudici di merito e le sezioni semplici della suprema Corte hanno esplorato varie strade [19].

Ne è scaturita una situazione di incertezza, cui hanno inteso porre rimedio le Sezioni unite della Corte di cassazione con la pronuncia n. 5072 del 15 marzo 2016 [20].

La Cassazione ha anzitutto tentato di inquadrare il danno derivante al lavoratore precario secondo le categorie proprie del nostro ordinamento e ha escluso che tale danno si sostanzi nella perdita del posto di lavoro oggetto del contratto (o dei contratti) a termine. Secondo la Corte, il lavoratore non ha, al momento della conclusione dei contratti a tempo determinato, un diritto pieno e incondizionato al conseguimento di tale posto di lavoro.

«Il danno è altro», hanno osservato incisivamente le Sezioni unite al § 13, aggiungendo: «Le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato. Il lavoratore che subisce l’illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l’abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato. L’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile».

È verosimile che tale ricostruzione abbia avuto per la Corte un duplice scopo.

Da un lato, è servita a dar vita una figura di danno patrimoniale in re ipsa, che metta al riparo l’ordinamento italiano da nuove scomuniche della Corte di giustizia che, sulla scia della sentenza Papalia, facciano leva sull’impossibilità della prova del danno. Dall’altro lato, pone le premesse per trovare il parametro risarcitorio più adeguato, che viene poi individuato nell’indennità onnicomprensiva dell’art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, a proposito dell’analoga fattispecie del contratto a termine privatistico.

La soluzione adottata dalla Corte ha il merito di aver finalmente sistematizzato il danno da abusiva reiterazione di contratti a termine, ma rischia di non essere del tutto appagante.

Ciò tanto più se si osserva come, all’interno della galassia del precariato pubblico, un’altra sentenza della Cgue abbia innescato un meccanismo di adeguamento che ha creato ulteriori disarmonie. Mi riferisco alla sentenza Mascolo e al precariato scolastico [21].

Il sistema scolastico possiede peculiarità che avevano indotto in passato la Cassazione a escludere che il ricorso reiterato ai contratti a termine nella scuola, le cd. supplenze, potesse dirsi abusivo, anche se finalizzato a coprire posti vacanti di diritto [22].

A seguito della storica ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale, la Corte di giustizia ha tuttavia riscontrato una contrarietà della normativa interna al diritto Ue e, nel restituire gli atti all’autorevole giudice remittente, ha posto anche per il precariato scolastico il problema delle misure atte a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Nelle more della nuova pronuncia della Corte costituzionale, si è mosso tuttavia anche il legislatore con la legge n. 107 del 2015 (cd. legge sulla buona scuola), al fine di arginare gli effetti della sentenza della Corte di giustizia. Tra le misure adottate per i docenti (ma non per il personale Ata), vi è quella dell’art. 1, comma 109, che consente ai precari inseriti nelle graduatorie ad esaurimento un accesso diretto e privilegiato, a semplice domanda, nei ruoli della scuola.

A seguito di ciò, sia la Corte costituzionale, sia la Corte di cassazione hanno qualificato la misura del comma 109 come risarcimento in forma specifica e hanno giudicato tale forma risarcitoria idonea (nel senso voluto dalla Corte di giustizia di fornire «garanzie effettive ed equivalenti di tutela») a cancellare le conseguenze dell’abusivo ricorso alle supplenze pregresse. Ne consegue che l’attribuzione per altra via (in questo caso, legislativa) di un bene (in questo caso, il posto di lavoro) comparabile a quello oggetto del contratto viziato costituisce al tempo stesso un risarcimento in forma specifica e una adeguata misura riparatoria in base al diritto Ue [23].

Ciò tuttavia non attenua, ma semmai accentua le disarmonie tra le diverse categorie di lavoratori vittime della abusiva reiterazione di contratti a termine.

L’art. 32 consente al lavoratore privato di ottenere sia la conversione del contratto sia il risarcimento del danno. Lo stesso parametro risarcitorio è utilizzabile dal dipendente pubblico, il quale tuttavia per legge non può aspirare alla conversione. Tra i dipendenti pubblici ve ne sono poi alcuni, i docenti che abbiano fatto supplenze prima della legge n. 107 del 2015, che per legge hanno un diritto potestativo all’immissione in ruolo: anche a voler escludere che essi abbiano diritto a qualsiasi forma risarcitoria, in loro favore l’ordinamento garantisce comunque una promessa di retribuzione ben più alta dell’indennizzo massimo che può essere ottenuto dai precari pubblici ordinari.

A fronte di tale evoluzione, ci si chiedeva se le ragioni che in passato hanno indotto i giudici di Lussemburgo a “salvare” il sistema delle tutele nei contratti a termine nel settore pubblico potessero essere ancora fatte valere.

Il dubbio era che l’ancoraggio del danno in re ipsa richiesto dalla giurisprudenza Ue a una disposizione come l’art. 32, accompagnato però dall’amputazione della misura che all’interno di tale disposizione appare come la più incisiva (cioè la conversione), non produce solo e tanto un allontanamento dal principio di riparazione integrale del danno, ma piuttosto sottolinea e rende tangibile la distanza tra le sanzioni adottate nell’uno e nell’altro settore.

La citata e recentissima Corte giustizia Ue, 7 marzo 2018, C-494/16 (Santoro) sollecitata dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale del 5 settembre 2016 [24], ha tuttavia escluso che la soluzione adottata dalle Sezioni unite si ponga in conflitto con il diritto dell’Unione europea. Affermata la incomparabilità tra lavoro privato e lavoro pubblico (§ 33 e § 42), la Corte di giustizia ha negato che la clausola 5 dell’accordo quadro imponga di concedere, in mancanza della conversione, un’indennità diretta a compensare detta mancanza (§ 47), essendo sufficienti altre misure.

La partita sembrerebbe dunque chiusa, essendo difficilmente immaginabile che la Corte costituzionale – nel citato giudizio incidentale instaurato dal Tribunale di Foggia – possa sconfessare la Corte di giustizia sul terreno della conformità al diritto Ue.

Sennonché, un’attenta lettura della sentenza Santoro, anche alla luce delle conclusioni rassegnate dall’Avvocato generale presso la Corte di giustizia, Maciej Szpunar, potrebbe portare in una direzione diversa.

Ai §§ 65 e 66, l’Avvocato generale aveva infatti sottolineato come l’art. 32 preveda un limite massimo all’indennità forfettaria e ne aveva tratta la conseguenza che «tale standardizzazione delle sanzioni, invece di consentire di evitare la recidiva, potrebbe favorirla, a causa dell’esistenza di un limite massimo universale che non può essere superato, nonostante il carattere reiterato degli abusi». «Ritengo, al pari della Commissione» – aggiungeva – «che la sproporzione fra la portata potenziale dell’abuso, il quale può avere avuto conseguenze per diversi anni, e l’indennità forfettaria, la quale è pari al massimo a dodici mensilità di retribuzione, sia idonea ad indebolire l’effetto deterrente delle misure sanzionatorie»; analogamente, al § 73, l’Avvocato generale aveva osservato «che, malgrado la moltiplicazione delle misure sanzionatorie, qualora lo Stato membro abbia previsto misure risarcitorie, una sanzione simbolica non può mai essere considerata costitutiva di un’attuazione corretta ed efficace dell’accordo quadro, dal momento che una compensazione trascurabile non può costituire una misura risarcitoria adeguata. Per le stesse ragioni, l’indennità forfettaria, pur potendo essere prevista dal legislatore nazionale, non può sostituirsi interamente al risarcimento completo del danno subìto».

Dal canto suo, la sentenza Santoro, pur non riprendendo esplicitamente tali argomentazioni, mostra di averne fatto tesoro.

La normativa italiana è stata infatti “assolta” perché la Corte di giustizia ha accettato l’affermazione del Governo italiano che «i giudici nazionali adottano criteri di particolare favore sia nell’accertamento che nella liquidazione del danno derivante dalla perdita di opportunità di lavoro, richiedendo la sola dimostrazione in via presuntiva della perdita non di un vantaggio, ma della mera possibilità di conseguirlo e provvedendo alla liquidazione del danno sofferto, anche in mancanza di elementi concreti di prova prodotti dal lavoratore interessato» (§ 49); con la conseguenza che «il ricorso a presunzioni dirette a garantire a un lavoratore, che abbia sofferto, a causa dell’uso abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione, una perdita di opportunità di lavoro, la possibilità di cancellare le conseguenze di una siffatta violazione del diritto dell’Unione è tale da soddisfare il principio di effettività» (§ 50).

In conclusione, i giudici nazionali possono sentirsi liberi − perché autorizzati dalla Corte di giustizia e in via mediata dal Governo italiano − di agevolare il lavoratore precario nella prova del danno attraverso un meccanismo che, se non può essere riportato al concetto di danno in re ipsa, gli si avvicina molto, a ulteriore dimostrazione del ruolo cruciale del giudice comune europeo nell’attuazione del principio di effettività.

4. Il potere officioso del giudice nel rilievo delle nullità lavoristiche

Il secondo terreno d’indagine è quello della nullità.

Tra gli effetti più rilevanti del principio di effettività vi è quello di aver restituito vitalità alla nullità contrattuale.

Le recenti e dirompenti sentenze della Corte di cassazione in tema di rilievo officioso della nullità, con cui è stato ribaltato un orientamento consolidatissimo ed è stato messo in discussione uno dei principi-cardine del processo civile, quale il principio dispositivo, hanno trovato nella giurisprudenza della Corte di giustizia una spinta decisiva [25].

Anche qui si registra tuttavia un paradosso.

Il diritto del lavoro regola rapporti connotati da forti disparità di potere economico, contrattuale, informativo. Per questo motivo costituisce terreno d’elezione per le nullità, soprattutto di carattere lato sensu protettivo.

A sua volta il processo del lavoro si connota sin dall’origine per i forti poteri officiosi del giudice.

Quale migliore occasione per rinverdire gli antichi fasti e applicare a pieno regime il nuovo corso inaugurato dalle Sezioni unite, soprattutto in un tempo nel quale solo le violazioni che causano la nullità appaiono in grado di far accedere i lavoratori alle tutele più ampie e complete?

Lo spettro applicativo è potenzialmente molto vasto (sanzioni disciplinari nel pubblico impiego, patti contrattuali penalizzanti per il lavoratore, divieti nella contrattazione a termine, etc.), ma sinora la giurisprudenza di merito ha mostrato una certa timidezza (se non ignoranza del problema) e quella di legittimità ha affrontato il tema solo a proposito del licenziamento [26].

Come si è ricordato, le recenti riforme hanno ridotto lo spazio della tutela reintegratoria, cui il lavoratore può accedere essenzialmente in caso di nullità del licenziamento.

Nella pratica, accade però sovente, per molteplici ragioni, che il ricorso con cui si impugna il licenziamento trascuri di segnalare profili di illegittimità dell’atto di recesso, che pure emergono dai documenti prodotti dalle parti o dall’istruttoria svolta [27].

Quando tali vizi integrino un’ipotesi di nullità del recesso datoriale, ci si è chiesti se la citata giurisprudenza delle Sezioni unite sul rilievo officioso della nullità contrattuale possa essere trasposta al licenziamento, in contrasto con un filone giurisprudenziale della sezione Lavoro piuttosto consolidato [28].

Inizialmente, la Corte di cassazione si è espressa in senso positivo, valorizzando proprio la funzione protettiva delle nullità lavoristiche e richiamando, sia pur genericamente, le indicazioni della Corte di giustizia.

In un caso di sanzione disciplinare irrogata a un dipendente di un’azienda appartenente al settore autoferrotranviario (in cui quindi il procedimento disciplinare era scandito da norme di legge imperative), impugnata dal lavoratore per uno specifico motivo, Cass., 28 agosto 2015, n. 17286 ha così argomentato:

«Il principio di rilevabilità d’ufficio delle nullità negoziali emergenti ex actis si estende (contrariamente a quanto affermato da Cass. S.U. n. 14828/12) anche alle nullità cd. di protezione (per esse intendendosi quelle che possono farsi valere solo dal soggetto nel cui interesse la nullità medesima è prevista), da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, come una species del più ampio genus rappresentato dalle prime. Si tratta di una nullità caratterizzata dalla coesistenza della legittimazione ristretta (potendo essere fatta valere dal solo soggetto nel cui interesse è prevista) e della rilevabilità d’ufficio, ovviamente subordinata alla verifica dell’utilità pratica che il soggetto protetto possa trame. La nullità d’una sanzione disciplinare per violazione dell’iter legislativo previsto per la sua irrogazione rientra − appunto − nella categoria delle nullità di protezione, atteso che la procedura garantistica prevista in materia disciplinare (dall’art. 7 Stat. in linea generale e, nello specifico dei rapporti di lavoro autoferrotranviario, dall’art. 53 r.d. n. 148/31) è inderogabile ed è fondata su un evidente scopo di tutela del contraente debole del rapporto (vale a dire del lavoratore dipendente)».

Più di recente − Cass., 24 marzo 2017, n. 7687 − ha invece fatto prevalere un orientamento restrittivo, attraverso un percorso argomentativo più attento ai profili processuali delle azioni di nullità:

«In un sistema processuale fondato sul principio della domanda e sul conseguente divieto di ultrapetizione, non si giustificherebbe diversamente la previsione dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e dell’art. 4 del d.lgs n. 23 del 2015, nella parte in cui fanno riferimento all’applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio (quindi affetto da nullità) “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”. 11. Si deve, poi, aggiungere che le Sezioni unite di questa Corte per escludere che il principio dispositivo possa limitare il potere officioso nelle azioni di annullamento o di nullità hanno sottolineato, da un lato che in ogni azione contrattuale il negozio viene in rilievo “nella sua duplice accezione di fatto storico e di fattispecie programmatica” con la conseguenza che l’oggetto del giudizio è sempre anche il rapporto che da quel negozio scaturisce; dall’altro che la domanda volta a ottenere la dichiarazione di nullità, in quanto avente ad oggetto l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale fondamentale, è equiparabile alla domanda di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, articolate in base a un solo elemento costitutivo. Nessuna di dette ragioni, poste a fondamento del principio della rilevabilità officiosa, si presta a essere estesa alla impugnativa del licenziamento, che, da un lato, resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto; dall’altro non può essere equiparata all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati, attesa la molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo. 12. Le considerazioni che precedono inducono, pertanto, il Collegio a ribadire l’orientamento di questa Corte richiamato al punto 7, in forza del quale non è consentita al ricorrente la tardiva deduzione di un vizio del procedimento disciplinare non dedotto nell’atto introduttivo né può il giudice rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte».

Ora, per governare questo contrasto, e in attesa di un intervento delle Sezioni unite che non tarderà ad arrivare [29], sono necessarie alcune precisazioni.

L’estensione al diritto del lavoro, e in particolare alle fattispecie di licenziamento, dei principi in tema di rilievo officioso della nullità, elaborati dalle Sezioni unite nel 2014, non può dirsi scontata. Essa passa attraverso il giudizio di compatibilità previsto dall’art. 1324 cc, che è norma certo di non facile lettura.

Un rapido esame della giurisprudenza sull’art. 1324 mostra che l’incompatibilità è stata in passato affermata o per ragioni strutturali, legate cioè alle intrinseche caratteristiche dell’atto unilaterale, che per definizione non consente ad esempio di appurare la comune intenzione delle parti [30], o per ragioni funzionali, legate cioè al contesto nel quale quello specifico atto si inserisce [31].

In particolare, proprio in materia di licenziamento, ma con motivazione obiettivamente molto apodittica, la Cassazione, in un caso nel quale la ricorrente aveva allegato in primo grado il proprio stato di gravidanza, non però come causa del provvedimento di recesso ma come elemento a sostegno dello stato soggettivo di confusione che avrebbe giustificato il suo comportamento, aveva escluso che il giudice potesse «rilevare di ufficio (come è possibile invece, per la nullità, nelle azioni contrattuali) una causa di invalidità diversa da quella dedotta quale causa petendi» [32].

Cass. 7687/2017 sembra in effetti porsi nel solco di tale indirizzo, allorché vede nella accentuata procedimentalizzazione dell’impugnativa dei licenziamenti un argomento contrario alla rilevabilità officiosa della nullità.

Sennonché, il merito, o comunque l’effetto principale, delle pronunce delle Sezioni unite in tema di nullità è stato quello di avere introiettato nel sistema nazionale il principio di effettività e di aver proposto una rilettura dell’intera disciplina interna della nullità, comprese le norme generali, alla luce di questo principio.

In tal modo, la Cassazione ha realizzato la sintesi più avanzata possibile nella concezione dei rapporti tra diritto Ue e diritto nazionale, mostrando di aver ben inteso la lezione di quella illustre dottrina, per la quale la supremazia del diritto dell’Unione europea non può inverarsi attraverso una meccanica opera di recepimento di singole regole, dovendo piuttosto il diritto Ue essere inteso come «il diritto di ciascuno degli Stati assunto e valutato all’esito del necessario processo di integrazione tra le fonti interne e quelle di derivazione comunitaria»; il principio di supremazia non solo consente, ma «implica una modalità di svolgimento del procedimento interpretativo e quindi suppone il passaggio attraverso criteri di classificazione di tipo categoriale» [33].

Attraverso questa operazione, le Sezioni unite hanno collocato il principio di effettività e tutti i suoi corollari, tra cui il rilievo officioso, al centro del tradizionale sistema delle nullità, rendendo indispensabile confrontarsi con esso indipendentemente dal fatto che venga o meno in questione una tematica rientrante del raggio regolativo del diritto Ue.

Ne consegue che, dopo l’intervento delle Sezioni unite, non solo devono dirsi vietate operazioni interpretative che mettano in discussione o anche solo tendano a minimizzare questo nucleo centrale, ma anche che la forza pervasiva del principio di effettività deve estendersi al giudizio di compatibilità ex art. 1324, garantendone una lettura per così dire al rialzo e non al ribasso.

In altri termini, l’incompatibilità tra disciplina del contratto e atti unilaterali non può essere affermata valorizzando proprio quegli aspetti che il principio di effettività mira a contrastare, cioè quelle norme che, indifferenti allo squilibrio economico/informativo esistente tra le parti, di fatto realizzano un deficit di tutela.

In particolare, quando Cass. 7687/2017 afferma – richiamando le Sezioni unite – che «la domanda volta a ottenere la dichiarazione di nullità, in quanto avente ad oggetto l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale fondamentale, è equiparabile alla domanda di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, articolate in base a un solo elemento costitutivo» e che dunque ad essa non può essere equiparata l’impugnativa di licenziamento, «attesa la molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo», sembra trascurare che in realtà tale passaggio della motivazione delle Sezioni unite non costituisce la premessa, ma la conclusione del dirompente revirement. L’equiparazione alle domande di accertamento di diritti autodeterminati è compiuta proprio al fine di liberare il giudizio di nullità, e dunque i poteri officiosi del giudice, dalle secche in cui lo aveva calato la giurisprudenza precedente, attraverso una equiparazione ai giudizi su diritti eterodeterminati.

Il § 6.13.6 della complessa motivazione di Cass., Sez. unite 26242/2014 è chiarissimo:

«La domanda di accertamento della nullità negoziale si presta allora, sul piano dinamico-processuale, a un trattamento analogo a quello concordemente riservato alle domande di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, anch’esse articolate in base ad un solo elemento costitutivo. Il giudizio di nullità/non nullità del negozio (il thema decidendum e il correlato giudicato) sarà, così, definitivo e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore».

Le Sezioni unite hanno equiparato la domanda di nullità alle domande volte a far valere diritti autodeterminati, proprio nella consapevolezza che tradizionalmente l’azione di nullità veniva invece equiparata alla domanda volta a far valere i diritti eterodeterminati, in ragione della molteplicità dei vizi che possono affettare il contratto.

Quanto alle preclusioni di carattere processuale e in particolare alle decadenze, che il rilievo officioso delle nullità consentirebbe di aggirare, occorre a mio avviso fare attenzione a non cadere in un’inversione metodologica.

Preclusioni e decadenze non possono di per sé essere opposte come barriere al rilievo officioso delle nullità, se non altro perché esse stesse costituiscono un potenziale limite al pieno dispiegarsi del principio di effettività [34]. Far operare congiuntamente queste due regole (divieto di rilievo officioso e preclusioni decadenziali) rischia di porre l’intera complessiva disciplina delle impugnative dei licenziamenti in contrasto con il principio di effettività.

Non si deve dimenticare del resto che uno dei tratti salienti che ha caratterizzato l’evoluzione giurisprudenziale, nel passaggio dalle Sezioni unite del 2012 a quelle del 2014, è stata proprio l’estensione alle nullità protettive del potere di rilievo officioso. E tale estensione è stata operata osservando come «il potere del giudice, in questi ambiti, rafforza l’intensità della tutela accordata alla parte che, in ragione della propria posizione di strutturale minor difesa, potrebbe non essere in grado di cogliere le opportunità di tutela ad essa accordata» (§ 3.12.1).

Natura protettiva delle nullità e rilievo officioso non possono essere disgiunte, ma devono agire nella medesima direzione, pena una insanabile contraddizione.

Anche il timore di una progressiva erosione del principio dispositivo non deve far dimenticare che esso costituisce, sin dalla sua origine liberale, la proiezione sul piano processuale del principio di libera disponibilità del diritto sostanziale [35]. Con la conseguenza, se la logica non ci inganna, che il principio dispositivo ben tollera limitazioni ogni qualvolta il diritto da tutelare in giudizio appartenga al novero dei diritti in tutto o in parte disponibili; autorizza del resto a pensarlo il fatto che, nel nostro ordinamento, il principio dispositivo trovi radice, prima che nel codice di rito, nella disposizione introduttiva del titolo IV del libro VI del codice civile, dedicato alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 2907 cc) e che lo stesso art. 2907 elevi la pronuncia d’ufficio, sia pure in via d’eccezione, a strumento di tutela sostanziale, prima che a espressione del potere autoritativo. Contro gli eccessi di quest’ultimo vi è poi del resto la precisazione, affermata con nettezza dalle Sezioni unite, che il rilievo officioso non può mai sostituirsi immediatamente alla volontà della parte, ancorché debole, la quale può e deve essere aiutata a supplire a eventuali manchevolezze nella predisposizione della propria difesa, ma sempre in termini di proposta ex art. 101 cpc, cui essa può aderire o meno [36].

Se invece una lettura così allargata, ancorché coerente con la storia materiale del diritto del lavoro, non dovesse prevalere, lo spazio operativo del principio di effettività si ridurrebbe. Esso non penetrerebbe nel diritto del lavoro attraverso la disciplina generale del contratto, così come rivitalizzata da un’interpretazione evolutiva, ma dovrebbe sottostare alle strettoie che ben conosciamo.

Sia il principio di effettività elaborato dalla giurisprudenza della Cgue, sia il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva sancito nell’art. 47 Cdfue possono infatti essere utilizzati se e in quanto la materia formi oggetto di regolamentazione da parte della stessa Unione europea. Secondo l’interpretazione più rigorosa, non basta infatti che la Carta di Nizza preveda anche il diritto fondamentale alla tutela contro i licenziamenti illegittimi per affermare, sic et simpliciter, che l’intera materia dei licenziamenti sia rientrata nell’ambito delle competenze dell’Unione [37].

A poter formare oggetto di rilievo officioso da parte del giudice sarebbero soltanto i licenziamenti discriminatori, in quanto ricadenti nel raggio applicativo della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Non sarebbe poco, visto che, almeno per tutti i licenziamenti governati dal jobs act, si tratta praticamente dei soli licenziamenti nulli assistiti con certezza dalla tutela reale (ma, su questo punto, vds. paragrafo successivo). L’effetto sarebbe tuttavia ugualmente distonico, poiché verrebbe autorizzato un utilizzo del potere di rilievo officioso da parte del giudice “a macchia di leopardo”, con riferimento tuttavia a vizi che, in base al diritto nazionale, hanno la stessa caratura sostanziale.

5. Il licenziamento nullo e la tutela reintegratoria

L’ultimo campo di indagine è il più difficile da esplorare.

Abbiamo visto come, a partire dalla legge n. 92/2012, gli spazi della tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo si siano progressivamente ridotti. In particolare, dopo la modifica dell’art. 18, l’art. 2 del d.lgs 23/2015 ha ulteriormente circoscritto l’ambito della tutela reintegratoria piena, limitandola a tre ipotesi:

a) il licenziamento discriminatorio;

b) il licenziamento orale;

c) il licenziamento «riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge».

Intorno a quest’ultima dizione, obiettivamente più restrittiva rispetto a quella contenuta nel primo comma dell’art. 18 post-Fornero [38], si è aperto un dibattito dottrinale e per ora in minima parte giurisprudenziale, volto a comprendere la portata di tale riduzione [39].

In particolare, ci si chiede se l’uso della parola «espressamente» escluda dalla tutela reintegratoria ipotesi di licenziamenti che tradizionalmente la giurisprudenza considerava nulli, ma che la norma di riferimento non sanzionava esplicitamente con la nullità.

Si pensi al licenziamento ritorsivo, ma non discriminatorio, al licenziamento intimato in vista del trasferimento d’azienda (art. 2112 cc), al licenziamento intimato prima dell’effettivo superamento del periodo di comporto (art. 2110 cc) o anche, ma qui il caso è più dubbio, al licenziamento intimato nel periodo di prova, sulla base tuttavia di un patto di prova nullo [40].

In nessuno di questi casi vi è una norma regolatrice della materia che preveda espressamente la nullità del recesso. Dottrina e giurisprudenza vi giungevano e vi giungono per altre strade.

La tutela garantita contro tali ipotesi di licenziamento sarà allora quella reale o quella indennitaria? Può il principio di effettività giocare un ruolo in questo contesto? È ragionevole, in nome del principio di effettività e di equivalenza, che all’interno di un singolo ordinamento nazionale la tutela contro atti affetti da nullità (cioè carenza di potere) di pari intensità sia differenziata?

L’operazione ermeneutica non è sostanzialmente diversa da quella già condotta dalle Sezioni unite nel 2014 a proposito dei poteri di rilievo officioso del giudice, illustrata nel paragrafo precedente: si tratta di ricercare, negli interstizi del diritto privato e delle sue categorie, gli indizi di esistenza di un principio di effettività della tutela già immanente all’ordinamento interno.

Con alcune difficoltà aggiuntive: nel caso del rilievo officioso della nullità, si muoveva da una formula legislativa (quella dell’art. 1421 cc) anòdina quanto si vuole, ma che sicuramente indica all’interprete una precisa direzione, sicché si trattava “soltanto” di estendere l’applicazione di un meccanismo già esistente e codificato.

Nell’ipotesi qui considerata, invece, si coalizzano l’ostilità della lettera della legge e il problema, apparentemente inedito almeno nel campo del diritto del lavoro, di una scissione tra vizio dell’atto e sue conseguenze in termini di tutela.

Se in passato poteva apparire incongruo, ma comunque giustificato in nome del favore per il lavoratore, accomunare sotto l’ombrello della tutela reintegratoria la reazione a vizi (del licenziamento) della più varia natura, ben più difficile mi sembra, dal punto di vista tecnico e sistematico, prevedere una tutela differenziata in presenza di vizi omogenei, che il sistema sanziona cioè tutti con la nullità [41].

Con questo non si pretende certo di negare che possano esservi, all’interno di un istituto ormai molto frastagliato come quello della nullità, differenze in termini di gravità del vizio che a essa dà origine e conseguenti differenze in termini di legittimazione ad agire, possibilità di convalida, etc.

Quel che non sembra possibile – perché contrario al principio di effettività come sopra enunciato – è che, una volta riconosciuta e dichiarata la nullità di un atto unilaterale espressione di un potere privato, una volta cioè accertato che il potere non vi era e che dunque l’atto non ha prodotto effetti, la vittima di questo abuso di potere possa non ottenere la ricostituzione della situazione anteriore, che, dal punto di vista giuridico, l’autore dell’atto non ha potuto intaccare. Si è al riguardo osservato:

«Su un piano strettamente teorico, quando il potere sostanziale del datore sia privo dei necessari presupposti, conseguenza naturale del permanere in vita del rapporto contrattuale è che la sentenza che pronuncia l’illegittimità del licenziamento ordini la reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro, realizzandosi così la ripetizione solenne di quel che derivava dal contratto (l’attuazione dell’obbligo di reintegra serve, infatti, a riportare la situazione di fatto in linea con quella di diritto) … il legislatore sostanziale non è “costretto” a prevedere, nel caso di licenziamento illegittimo, la tutela reale, ma non è neppure “libero” di configurare come vuole le conseguenze dell’illegittimo esercizio del potere» [42].

La sensazione d’incongruità è poi accentuata dal fatto che il d.lgs 23/2015, pur evidentemente non ignorando l’esistenza di altre ipotesi di nullità del licenziamento (per le quali la nullità non è cioè espressamente prevista), ché altrimenti non avrebbe introdotto, in discontinuità con il passato, la sottolineatura di cui stiamo trattando, nulla ha previsto per esse in termini di tutela. Gli “altri” licenziamenti nulli vengono a collocarsi in un limbo.

Delle due l’una infatti: o essi sono assimilati ai licenziamenti ingiustificati, cosicché l’art. 3 del d.lgs 23/2015 consentirebbe a un atto di licenziamento nullo, che per definizione non produce effetti, di determinare l’estinzione del rapporto di lavoro, cioè proprio l’effetto vietato; oppure per gli “altri” licenziamenti nulli riemerge la tutela di diritto comune, che però garantirebbe al lavoratore vantaggi analoghi se non superiori a quelli della tutela reintegratoria [43].

Contro questa interpretazione milita, come accennato, la lettera della legge, che potrebbe essere però superata attraverso la considerazione che, nelle ipotesi di nullità “anonima”, essa consegue comunque alla violazione di una norma proibitiva o impositiva di determinate condotte, in altri termini di una norma imperativa posta a protezione della parte debole del rapporto. La nullità del licenziamento in tali casi sarebbe dunque la conseguenza – sempre tramite il canale comunicativo dell’art. 1324 cc – dell’applicazione dell’art. 1418, primo e/o secondo comma, cc, cioè delle norme generali in tema di nullità, che l’art. 2, d.lgs 23/2015 non avrebbe il potere di escludere.

In senso difforme, la dottrina ha fatto notare come sia di ostacolo a tale conclusione l’inciso finale del primo comma dell’art. 1418, che fa conseguire la nullità dalla violazione di norme imperative, «salvo che la legge disponga diversamente»; poiché le ipotesi di licenziamento nullo non espressamente previste dalla legge ricadrebbero automaticamente sotto l’ombrello della tutela indennitaria prevista dall’art. 3, d.lgs 23/2015, tale ultima disposizione integrerebbe la previsione fatta salva dall’art. 1418 e il diverso regime sanzionatorio capace di escludere la tutela reale [44].

Questa lettura non può a mio avviso essere seguita, per almeno due ragioni.

La prima ragione ha a che fare con la storia della nullità virtuale, cioè con la storia del dibattito sulla sanzione più opportuna per i contratti illeciti.

La scelta operata dal legislatore codicistico nell’art. 1418, primo comma, costituisce l’esito di una accesa discussione avutasi nei decenni precedenti e non può dunque essere fraintesa. Una volta accertata la violazione di una norma imperativa, la sanzione naturale è la nullità, mentre le sanzioni alternative sono l’eccezione. Di qui l’esigenza che ogni eventuale deroga «discenda in ogni caso da una volontà del legislatore positivamente manifestata» [45], volontà che nel caso del licenziamento non pare riscontrabile.

La seconda ragione, ancor più dirimente, è che l’inciso finale dell’art. 1418, primo comma, si riferisce alle sanzioni per la violazione di norme imperative, diverse dalla nullità, mentre l’alternativa tutela reale/tutela indennitaria attiene al tipo di domanda proponibile dal lavoratore all’esito (logico) di un giudizio di nullità che, in ipotesi, dovrebbe essersi già completato. Anche dopo il jobs act il momento dell’accertamento del vizio che affligge il recesso e il momento della tutela applicabile dopo che tale vizio è stato riscontrato restano separati; a dispetto delle apparenze, l’impugnativa di un licenziamento assomma in sé un’azione volta a far accertare di volta in volta la nullità o l’illegittimità dell’atto datoriale e un’azione accessoria che può essere, a seconda dei casi e delle denominazioni, un’azione restitutoria, risarcitoria, indennitaria [46].

Pertanto, se pure dovesse concludersi che, nell’ipotesi qui considerata, trova applicazione l’art. 3, d.lgs 23/2015, ci troveremmo di fronte a una nullità non accompagnata da un’azione di restituzione/ripetizione, non certo alla violazione di una norma imperativa non sanzionata con la nullità.

Qualora invece questo percorso sia considerato impraticabile, il soccorso potrebbe giungere dal principio di effettività dell’Unione europea, ma con i limiti che abbiamo già visto nel paragrafo precedente [47].

A parte i licenziamenti discriminatori, già coperti dalla nullità e dalla tutela reale in base al diritto interno, un’ipotesi sulla quale sarebbe probabilmente possibile operare è quella del licenziamento, individuale e collettivo, intimato in vista del trasferimento d’azienda, che ricade sotto l’ombrello della direttiva 2001/23 e sulla quale è dunque possibile far reagire il principio di effettività e la giurisprudenza Cgue.

6. Osservazioni finali

La disamina sin qui compiuta mostra che, pur con obiettive difficoltà e nonostante alcune resistenze, il principio di effettività può giocare un ruolo importante anche nel diritto del lavoro.

Perché questo avvenga, è tuttavia necessario scuotersi da un certo torpore interpretativo e passare a un uso più aperto e duttile degli strumenti già in possesso della nostra cultura giuridica.

In questa direzione, mi sembra anzitutto opportuno smettere di rivolgersi alla Corte di giustizia alla stregua di un deus ex machina, capace di “commissariare” gli ordinamenti interni in caso di loro inadempienza. Non va infatti dimenticato che «la Corte di Lussemburgo opera senza mai mostrare alcun trasporto per l’analisi schiettamente processualistica, né storica, né sistematica, e tanto meno dogmatica» e che per la stessa «indagini sulla diversa conformazione degli istituti interni finirebbero, in definitiva, col risultare mentalmente ingombranti e financo di insopportabile impaccio per la mission della Corte» [48].

Più utile appare invece richiamare ancora una volta la dottrina sopra citata, secondo la quale il diritto Ue deve essere inteso come «il diritto di ciascuno degli Stati assunto e valutato all’esito del necessario processo di integrazione tra le fonti interne e quelle di derivazione comunitaria», cosicché il principio di supremazia non solo consente, ma «implica una modalità di svolgimento del procedimento interpretativo e quindi suppone il passaggio attraverso criteri di classificazione di tipo categoriale» [49].

Come del resto la stessa Corte di giustizia non si stanca di ribadire, anche per sfuggire ad accuse di ingerenza, il diritto dell’Unione europea richiede sempre al diritto nazionale e ai suoi interpreti un contributo di adattamento.

A tale proposito, il richiamo alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, contenuto nell’art. 6 TUE dopo Lisbona, non può essere inteso solo come un espediente retorico per far digerire ai “sovranisti” l’apertura verso i diritti fondamentali.

Piuttosto, deve costituire un invito a riscoprire i risultati più avanzati di quel diritto vivente costituzionale di ciascuno Stato, che è dato non solo dai valori scolpiti nelle Carte costituzionali, ma anche dalle elaborazioni compiute dalla dottrina nel quotidiano dialogo con la giurisprudenza.

Sul versante interno, poi, ho l’impressione che il diritto del lavoro rischi di smarrire, nella rivendicazione nostalgica di una propria specialità, parte della propria capacità di leggere la realtà in senso evolutivo e che ciò avvenga anche per una certa riluttanza a confrontarsi con altre discipline, esterne ma anche interne al discorso giuridico, a porsi nuove domande, nella convinzione di aver già trovato, nell’epoca d’oro, tutte le risposte.

Suonano invece ancora attuali le osservazioni di un illustre studioso di entrambe le discipline.

Nella parte finale di uno scritto del 1990 dedicato all’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, Luigi Mengoni osservava:

«Negli anni ‘60 la nuova dottrina del diritto del lavoro si è progressivamente allontanata dalle strutture concettuali e dalle metodologie classiche del diritto civile ed ha percorso una vicenda intellettuale che nel decennio successivo l’ha condotta lontana dal modello originario. Ma nemmeno la scienza civilistica è rimasta ferma. (…) Negli anni ‘80 si sono create le condizioni per un riavvicinamento delle due dottrine. La dottrina generale delle obbligazioni e dei contratti e della responsabilità civile è più, aperta ai valori etico-personali; la dottrina del lavoro si è fatta più avvertita dell’esigenza tipicamente civilistica, che la traduzione dei giudizi di valori in giudizi di dover essere proceda per la via, e sotto il controllo, di una corretta concettualizzazione sistematica. Esse possono trovare una linea di pensiero comune per affrontare insieme e solidalmente i problemi di tutela della persona nella società della terza rivoluzione industriale» [50].

In conclusione, il diritto del lavoro, per riacquistare una capacità di lettura della realtà sociale, sembra costretto a reimparare dal diritto civile un uso più rigoroso delle categorie e a mettere tali categorie, opportunamente innervate dai principi del diritto dell’Unione europea, proprio a servizio di quei valori personali che del diritto del lavoro costituivano e non possono non costituire la cifra identificativa [51].

Come ci ha insegnato una grande poetessa da poco scomparsa, «ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita» [52].

*Il presente scritto costituisce la rielaborazione aggiornata della relazione tenuta il 22 giugno 2017 presso il Consiglio superiore della magistratura, nell’ambito del seminario “Il ruolo dei giudici nazionali nell’integrazione giuridica europea. Nuovi poteri, nuove responsabilità”. 



[1] Le più recenti sentenze della Corte di giustizia che hanno riaffermato tali principi in materia lavoristica sono le coeve Corte giustizia Ue, 14 settembre 2016, C-16/15, Pérez López, in Notiziario giurisprudenza lav., 2017, 123, e 14 settembre 2016, C‑184/15 e C‑197/15, Martínez Andrés e Castrejana López, in Riv. giur. lav., 2017, II, 231, con nota di V. De Michele, a proposito dei contratti a termine nel settore pubblico. Sulla stessa tematica, ancor più recente è in realtà Corte giustizia Ue, 7 marzo 2018, C-494/16, Santoro, che ha riguardato direttamente il diritto italiano e sulla quale si tornerà più avanti (§ 3). Nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, i princìpi di effettività ed equivalenza di matrice europea hanno trovato una ancor più recente riaffermazione nella sentenza n. 164 del 12 luglio 2017: alla luce di essi, fatti assurgere «a cardini necessari di ogni diritto nazionale in tema di responsabilità dello Stato per le conseguenze del danno provocato da provvedimenti giurisdizionali adottati in violazione del diritto europeo» (§ 5.2.), la Consulta ha giustificato la scelta del legislatore della l. n. 18 del 2015 di allargare il perimetro della responsabilità dello Stato a prescindere dalla responsabilità del magistrato, anche attraverso l’abolizione del filtro di ammissibilità dell’azione previsto dalla legge n. 117 del 1988, abolizione sospettata di incostituzionalità dai giudici remittenti.

[2] La frase era stata utilizzata da Chiovenda per segnalare, nel vigore del vecchio codice, la necessità di trovare un rimedio per l’ipotesi di inadempimento degli obblighi nascenti dal contratto preliminare, in assenza di una disposizione come quella che poi sarebbe stata introdotta nel codice del ‘42 con l’art. 2932 cc: G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, Riv. dir. comm., 1911, p. 99.

[3] A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, p. 9.

[4] Si veda al riguardo A. Proto Pisani, L’effettività dei mezzi di tutela giurisdizionale con particolare riferimento all’attuazione della sentenza di condanna, in Riv. dir. proc., 1975, p. 620; per un’analisi più approfondita e puntuale, istituto per istituto, vds. poi A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, cit., nelle sue quattro edizioni susseguitesi dal 1987 al 2003, con continui ampliamenti e adeguamenti all’evoluzione normativa e giurisprudenziale; dello stesso A., in termini più generali, la voce Tutela (diritto privato), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, p. 361; vds. poi i contributi contenuti nei due volumi collettanei dal titolo Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S. Mazzamuto, Napoli, 1989.

[5] Sulla posizione di avanguardia del diritto del lavoro vds. A. Di Majo, Tutela (diritto privato), cit., p. 381.

[6] Vds R. Oriani, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, Napoli, 2008; I. Pagni, voce Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. dir., Annali, X, Milano, 2017, p. 355, la quale tra l’altro sottolinea, con una vena di amarezza, come oggi il codice del processo amministrativo contenga, a differenza di quello di procedura civile, una espressa codificazione del principio di effettività in attuazione della Costituzione e del diritto europeo (art. 1). In senso contrario vds. invece la dura posizione di C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, p. 195, nt. 245, secondo il quale «il richiamo dell’art. 24 cost. al fine di ancorarvi l’effettività della tutela è un esempio tra i tanti di quell’utilizzo improprio della dogmatica, volto ad asseverare (…) esiti applicativi altrimenti periclitanti». Con specifico riferimento al diritto del lavoro, vds., oltre alla stessa I. Pagni, voce Effettività della tutela giurisdizionale, cit., pp. 366 ss., D. Dalfino, Accesso alla giustizia, principio di effettività e adeguatezza della tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, pp. 907 ss.; R. Foglia, Effettività dei diritti sociali e giustizia del lavoro, in Riv. giur. lav., 2007, I, pp. 7 ss.; V. Speziale, Processo del lavoro, certezza del diritto ed effettività delle tutele, in WP CSDLE D’Antona.it, n. 215, 2014.

[7] Per una riflessione recente sul tema vds. I. Pagni, L’effettività della tutela in materia di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2016, p. 209.

[8] Ma vds. le considerazioni e gli esempi di G. Bronzini, Le tutele dei diritti fondamentali e la loro effettività: il ruolo della Carta di Nizza, in Riv. giur. lav., 2012, p. 53.

[9] A. Di Majo, Tutela (diritto privato), cit., p. 381.

[10] Sullo stato del dibattito di allora vds. E. Ghera, L’esecuzione diretta e indiretta nel diritto del lavoro e M. Pedrazzoli, La difficile strada della coercizione indiretta, entrambi in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, cit., rispettivamente p. 1077 e p. 1181.

[11] Nella vastissima letteratura sul tema si vedano di recente i contributi contenuti in Lavoro e dir., 2016, 567 e in Questione Giustizia trimestrale, n. 3/2015, http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2015-3.pdf.

[12] L. Mariucci, Culture e dottrine del giuslavorismo, in Lavoro e diritto, 2016, p. 588.

[13] M.V. Ballestrero, Il ruolo della giurisprudenza nella costruzione del diritto del lavoro, ibidem, p. 763. Vds. anche il dibattito sulle pagine della Rivista italiana di diritto del lavoro del 2014, con le voci di L. Cavallaro, Servitore di due padroni, ovvero il paradosso del giudice del lavoro (I, 137), R. Riverso, Il volto del giudice del lavoro e la costituzione (I, 157), R. Del Punta, Il giudice e i problemi dell’interpretazione: una prospettiva giuslavoristica (I, 373). Più di recente, in una prospettiva che tende ad adeguare il ruolo del giudice del lavoro al mutare dei tempi e dell’organizzazione del lavoro, G. Santoro Passarelli, Il diritto e il giudice del lavoro, in Riv. dir. civ., 2017, I, p. 1422.

[14] Vds. Corte giustizia Ue, 4 giugno 2009, C-243/08, Pannon.

[15] Vds. per tutte Cass., 15 novembre 2010, n. 23057.

[16] Vds. Corte giustizia Ue, 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrosu, Sardino, in Foro it., 2007, IV, p. 72 e p. 343, con note rispettivamente di A. Perrino e L. De Angelis, spec. § 48, pp. 51-53, p. 57 (si noti che il caso alla base di tale pronuncia della Corte di giustizia è lo stesso deciso dalla Cassazione a Sezioni unite, citata più avanti); Corte giustizia Ue, 7 settembre 2006, causa C-180/04, Vassallo, § 40-42, in Riv. giur. lav., 2006, II, p. 602.

[17] Corte giustizia Ue, 14 settembre 2016, causa C-184/15 e 197/15, cit.: «Le disposizioni dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che figura in allegato alla direttiva 1999/70, lette in combinato disposto con il principio di effettività, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a norme processuali nazionali che obbligano il lavoratore a tempo determinato a intentare una nuova azione per la determinazione della sanzione adeguata, quando un’autorità giudiziaria abbia accertato un ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato, in quanto ciò comporterebbe per tale lavoratore inconvenienti processuali, in termini, segnatamente, di costo, durata e regole di rappresentanza, tali da rendere eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti che gli sono conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione».

[18] Con specifico riferimento al danno da abusiva reiterazione di contratti a termine nel diritto italiano vds. Corte giustizia Ue, 12 dicembre 2013, causa C-50/2013, Papalia, in Foro it., 2014, IV, 73, con nota di A. Perrino, spec. § 32, § 34. In termini più generali, vds. anche Corte giustizia Ue, 13 febbraio 2014, causa C-479/2012, H. Gautzsch GroBhandel GmbH & co. KG c. Münchener Boulevard Möbel Joseph Duna GmbH, in Giur. dir. ind., 2014, 1360, e Corte giustizia Ue, 28 gennaio 2010, causa C-264/08, Gov. Belgio c. Direct parcel distribution Belgium N V.

[19] In particolare Cass., 23 gennaio 2015, n. 1260, in Lav. giur., 2015, 480, con nota di E. Bavasso, Cass., 30 dicembre 2014, n. 27481, in Mass. giur. lav., 2015, 35, con nota di G. Franza, avevano giudicato utilizzabile, come criterio tendenziale, quello indicato dall’art. 8, l. n. 604 del 1966; Cass., 21 agosto 2013, n. 19371, in Riv. it. dir. lav., 2014, II, 76, con nota di E. Ales, aveva invece giudicato appropriato l’ancoraggio art. 32, legge n. 183 del 2010.

[20] In Foro it., 2016, I, 2994, con nota critica di A.M. Perrino, Pot-pourri di precetti, sanzioni e riparazioni: l’incontenibile universo del contratto a termine.

[21] Corte giustizia Ue, 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri, in Foro it., 2014, IV, p. 69.

[22] Corte cost., 18 luglio 2013, n. 207, in Foro it., 2013, I, p. 3059.

[23] La sentenza della Consulta, resa all’esito del rinvio pregiudiziale da cui è scaturita la sentenza Mascolo della Cgue, è Corte cost. 20 luglio 2016, n. 187, in Foro it., 2016, I, 2993, con nota critica di A.M. Perrino, Pot-pourri di precetti, sanzioni e riparazioni: l’incontenibile universo del contratto a termine; le pronunce della Cassazione sul precariato scolastico sono invece le sette sentenze “sorelle” del 7 novembre 2016, nn. 22552, 22553, 22554, 22555, 22556, 22557, 22558 (la prima è pubblicata in Foro it., 2016, I, 3792).

[24] L’ordinanza del Tribunale di Trapani, unitamente all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del 26 ottobre 2016, con cui il Tribunale di Foggia ha dichiarato «rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 5, comma 5-ter, comma 5-quater, d.lgs 165/2001 nella parte in cui, in violazione degli art. 3, 4, 24, 35, 97, 101, 104, 111 e 117 cost., consente alle amministrazioni pubbliche, senza limiti e misure preventive sanzionatorie, l’utilizzazione abusiva dei contratti a termine con personale, che, dopo aver superato procedure selettive pubbliche, ha prestato servizio a tempo determinato per più di trentasei mesi», può leggersi in http://www.rivistalabor.it, con commenti di L. Busico, rispettivamente in data 23 novembre 2016 e 13 ottobre 2016.

[25] Cass., Sez. unite, 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243, in Foro it., 2015, I, 862, precedute da Cass., Sez. unite, 4 settembre 2012, n. 14828, in Foro it., 2013, I, 1238, con nota di A. Palmieri, Azione risolutoria e rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto: il via libera delle sezioni unite (con alcuni corollari). Vds. in particolare il § 3.13.2 di Cass. 26242/2014: «Le indicazioni provenienti dalla stessa Corte di giustizia in tema di rilievo officioso (nella specie, delle clausole abusive nei contratti relativi alle ipotesi di cd. commercio business-to-consumer) consentono di desumere un chiaro rafforzamento del potere-dovere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità, (nella sentenza Pannon del 4 giugno 2009, in causa C-243/08, la Corte ha stabilito che il giudice deve esaminare di ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga, qualificando, in buona sostanza, in termini di dovere l’accertamento officioso del giudice circa il carattere eventualmente abusivo delle clausole contenute in siffatti contratti, sia pure con il limite, ostativo alla disapplicazione, dell’opposizione del consumatore). E proprio in conseguenza degli interventi della Corte di giustizia sembra destinata a restare definitivamente sullo sfondo, senza assumere il rilievo che parte della dottrina ha cercato di attribuirvi, la nozione di nullità relativa intesa come realizzazione di una forma di annullabilità rafforzata (di cui è traccia nel non condivisibile decisum di questa Corte, nella sentenza 9263/2011) anziché come species del più ampio genus rappresentato dalla nullità negoziale. Nullità che non a torto è stata definita, all’esito del sopravvento del diritto europeo, ad assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrata sull’assetto di interessi concreto, con finalità essenzialmente conformativa del regolamento contrattuale, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi e di valori fondamentali, che trascendono quelli del singolo. Si è così osservato che, se le nullità di protezione si caratterizzano per una precipua natura ancipite, siccome funzionali nel contempo alla tutela di un interesse tanto generale (l’integrità e l’efficienza del mercato, secondo l’insegnamento della giurisprudenza europea) quanto particolare/seriale (quello di cui risulta esponenziale la classe dei consumatori o dei clienti), la omessa rilevazione officiosa della nullità finirebbe per ridurre la tutela di quel bene primario consistente nella deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole». 

[26] Per una prima analisi, vds. L. Di Paola, Rilevabilità officiosa delle nullità negoziali e diritto del lavoro: un tema da approfondire, in Riv. it. dir. lav., 2015, p. 1113.

[27] Nel caso deciso da Cass., 15 febbraio 1996, n. 1173, in Impresa, 1996, 1195, su cui vds. più avanti, la parte ricorrente aveva addotto in primo grado il proprio stato di gravidanza, non però come causa di nullità del provvedimento di recesso ma come elemento a sostegno dello stato soggettivo di confusione che avrebbe giustificato il suo comportamento.

[28] Vds. Cass., 15 febbraio 1996, n. 1173, cit., Cass., 15 febbraio 2001, n. 2188, in Foro it., 2001, I, 1566, Cass., 21 dicembre 2004, n. 23683 [«Ove il lavoratore impugni il licenziamento ed agisca in giudizio deducendo il difetto di giusta causa o giustificato motivo, l’eventuale motivo discriminatorio o ritorsivo, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda. (Nella specie la Corte ha respinto il motivo di ricorso in base al quale la lavoratrice aveva lamentato che il giudice di appello, anziché ritenere domanda nuova quella volta a dedurre il carattere ritorsivo del licenziamento, avrebbe dovuto accogliere la domanda stessa, seppure sulla base di una norma giuridica diversa da quella prospettata, considerato che nel ricorso introduttivo erano comunque stati indicati i fatti che dimostravano quel carattere)»], Cass., 22 aprile 2005, n. 8474, in Impresa, 2005, 1267, e perfino Cass,. 3 luglio 2015, n. 13673, inedita, la quale, pur giungendo dopo le Sezioni unite del 2014, non si interroga sul punto.

[29] Nel procedimento sfociato nella sentenza n. 7687/2017, il pubblico ministero presso la Cassazione aveva del resto già concluso per la rimessione al primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite civili.

[30] Vds. da ultimo Cass., 6 maggio 2015, n. 9127.

[31] Proprio in tema di licenziamento, è stato così affermato «che, dovendosi configurare l’impugnativa del licenziamento come atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale (cfr. al riguardo da ultimo Cass., 1 settembre 1997 n. 8262), ad essa si applicano, giusta quanto stabilito dall’art. 1324 cc, le disposizioni che regolano i contratti e, quindi anche la norma di cui all’art. 1392 cc, per la quale si estende alla procura la forma scritta prevista per il contratto che il rappresentante deve concludere,, essendo tale norma perfettamente compatibile con gli atti unilaterali, stante la già evidenziata compatibilità della rappresentanza con gli atti unilaterali di natura non negoziale (per una analoga statuizione vedi da ultimo Cass., 1 settembre 1997 n. 8262 cit.). Quanto sinora detto non legittima, però, la tesi dell’estensibilità della retroattività della ratifica ex 1399 cc all’impugnativa del licenziamento del legale del lavoratore privo di procura sì da far ritenere tempestiva detta ratifica anche allorquando essa sia stata notificata o comunicata al datore di lavoro oltre il termine di decadenza di sessanta giorni ex art. 6 l. 15 luglio 1966 n. 604. Ed invero, in base all’art. 1324 cc le norme sui contratti e, quindi, anche quelle dettate in tema di rappresentanza senza potere, possono essere applicate agli atti unilaterali “in quanto compatibili”. Orbene, con riferimento al licenziamento, per la cui impugnativa vige il suddetto termine di sessanta giorni per evidenti esigenze relative alla definizione della sorte dei rapporti lavorativi, non pare compatibile l’instaurazione di una situazione di pendenza suscettibile di protrarsi ben oltre tale scadenza, con la conseguenza di lasciare al dominus (il lavoratore licenziato), la piena disponibilità sui tempi e modi dell’impugnativa in netto e eclatante contrasto con l’assetto della disciplina sui licenziamenti, dettata dalla legge 15 luglio 1966 n. 604 e dalla legge 20 maggio 1970 n. 300 (così come modificata dalla legge 11 maggio 1990 n. 108)» (vds. Cass., 1° settembre 1997, n. 8262, in Foro it., 1998, I, 533, seguìta da Cass., 4 marzo 1998, n. 2374, in Guida al dir., 1998, fasc. 30, 30, con nota di F.S. Ivella, e più di recente da Cass., 20 settembre 2012, n. 15888 e 23 aprile 2014, n. 9182).

[32] Cass., 15 febbraio 1996, n. 1173, cit..

[33] N. Lipari, Categorie civilistiche e diritto di fonte comunitaria, in E. Del Prato (a cura di), Studi in onore di Antonino Cataudella, Napoli, 2013, p. 1200. Vds. però G. Santoro-Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il jobs act, in Riv. dir. civ., 2016, I, p. 627, secondo il quale le categorie «hanno una funzione strumentale e cioè servono a colmare le lacune del sistema e a spiegare fatti e valori dell’esperienza concreta ma non possono sovrapporsi ad essa ed ingabbiare o ingessare la materia sempre mutevole oggetto della nostra disciplina. Le categorie civiliste, quindi, non posso essere utilizzate per proporre soluzioni interpretative in contrasto con la normativa lavoristica che è pur sempre speciale».

[34] Si veda al riguardo la recente sentenza della Corte giustizia Ue, 20 ottobre 2016, causa C-429/15, Danqua, in cui i giudici di Lussemburgo, dopo aver ribadito «che spetta agli Stati membri determinare, per le normative nazionali che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, termini in funzione, segnatamente, della rilevanza che le decisioni da adottare rivestono per gli interessati, della complessità dei procedimenti e della legislazione da applicare, del numero di soggetti che possono essere coinvolti e degli altri interessi pubblici o privati che devono essere presi in considerazione (vds., in tal senso, sentenza del 29 ottobre 2009, Pontin, C‑63/08, EU:C:2009:666, punto 48)», hanno tuttavia concluso che «il principio di effettività deve essere interpretato nel senso che osta ad una norma procedurale nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che assoggetta una domanda volta ad ottenere lo status di protezione sussidiaria ad un termine di decadenza di quindici giorni lavorativi a decorrere dalla notifica, da parte dell’autorità competente, della possibilità, per un richiedente asilo la cui domanda sia stata respinta, di presentare una siffatta domanda».

[35] Per una riflessione sui rapporti tra principio di effettività e principio dispositivo, ancorché in materia di protezione internazionale dei rifugiati, vds. M. Acierno e M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, nell’acquisizione e nella valutazione della prova, in Persona e mercato, 2017, fascicolo 5.

[36] Ci si potrebbe a questo proposito chiedere se non sarebbe opportuno prevedere che la reazione della parte debole al rilievo officioso del giudice sia necessariamente accompagnata da una manifestazione di volontà della parte, attraverso ad esempio il conferimento di una procura speciale, diversa e successiva rispetto alla procura alle liti.

[37] Si veda da ultimo Corte giustizia Ue, 1 dicembre 2016, C-395/15, Mohamed Daouidi c. Bootes Plus SL e a., in Foro it., 2017, IV, 5: «Nel caso di licenziamento di un lavoratore affetto da una invalidità non duratura, la Cgue ha ritenuto che tale nozione non fosse riconducibile al concetto di handicap, che il licenziamento non potesse dirsi fondato su un fattore discriminatorio e non potesse ricadere nell’ambito applicativo della direttiva 2000/78. La Corte ne ha tratto ragioni per declinare la propria competenza (“62. Per quanto concerne la Carta, l’articolo 51, paragrafo 1, della medesima prevede che le sue disposizioni si applichino agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. L’articolo 6, paragrafo 1, TUE e l’articolo 51, paragrafo 2, della Carta precisano che le disposizioni di quest’ultima non estendono l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione definite nei trattati. Come risulta da una giurisprudenza costante della Corte, qualora una situazione giuridica non rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza»; ma anche Corte giustizia Ue, 18 dicembre 2014, C-354/13, Fag og Arbejde (FOA) c. Kommunernes Landsforening (KL), id., 2015, IV. 96, e 10 luglio 2014, C-198/13,Víctor Manuel Julian Hernández e a. c. Reino de España,

[38] Nell’art. 18 novellato, la tutela reintegratoria era garantita contro il licenziamento «discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile».

[39] Per la soluzione più aperta vds. M. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, in Arg. dir. lav., 2015, pp. 311 ss.; V. Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra costituzione e diritto europeo, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, p. 120, con riferimento al licenziamento per superamento del periodo di comporto; per una soluzione più articolata, ma tendenzialmente più restrittiva, G. Santoro-Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il jobs act, in Riv. dir. civ., I, 2016.

[40] La giurisprudenza è contraria all’idea che la nullità del patto di prova vanifichi, di per sé, gli effetti del recesso e determini la ricostituzione del rapporto, preferendo piuttosto riportare in tal caso il licenziamento al regime ordinario e richiedendo dunque una sua giustificazione con onere a carico del datore di lavoro: vds. Cass., 12 settembre 2016, n. 17921, in Foro it., 2016, I, 3454.

[41] È interessante però notare come la descritta evoluzione del sistema dei licenziamenti nulli abbia avuto un andamento, per così dire, sinusoidale. Nel passaggio dal vecchio al nuovo testo dell’art. 18, si è infatti assistito a un ampliamento, anziché a una restrizione della tutela, sotto il profilo dei licenziamenti scaturiti da “motivo illecito”; se infatti nella vigenza del vecchio art. 18, di regola si pretendeva – in assenza di una espressa previsione e in linea con il testo dell’art. 1345 cc, norma dettata per i contratti, ma reputata applicabile anche al recesso – che il motivo illecito fosse non solo determinante, ma anche esclusivo (vds. ad es. Cass., 3 novembre 2016, n. 22323, in Foro it., 2016, I, 3812), nel nuovo art. 18 l’utilizzo della sola parola “determinante” ha indotto a non richiedere la presenza del secondo requisito e a considerare illecito un licenziamento anche in presenza di un giustificato motivo oggettivo. Ebbene, tale evoluzione, pur non smentendo frontalmente la lettura tradizionale del vecchio art. 18, in qualche misura reagisce sulla distribuzione dell’onere della prova, dando nuova linfa a quella giurisprudenza per la quale l’illiceità può essere provata anche attraverso presunzioni, «tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole» (così Cass., 8 agosto 2011, n. 17087, in Riv. giur. lav., 2012, II, 326, con nota di G. Cannati); di recente si è infatti argomentato (Cass., 17 novembre 2017, n. 27325): «È pur vero che la rilevanza del motivo illecito determinante ex art. 1345 cc, ma non anche necessariamente unico, a fini di nullità del licenziamento è stata prevista soltanto con il nuovo testo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 (come novellato ex lege n. 92 del 2012), mentre nel caso di specie trova applicazione ratione temporis il previgente testo dell’art. 18 cit.. Nondimeno, dalla lettura complessiva della sentenza impugnata emerge che i giudici d’appello hanno ritenuto che, mentre non era stato provato il giustificato motivo oggettivo dedotto dalla società, era emerso (come si è già detto) che il vero motivo del licenziamento risiedeva soltanto in una volontà vessatoria (in termini di vero e proprio mobbing) nei confronti dell’odierna controricorrente. In altre parole, affinché resti escluso il carattere unico e determinante del motivo illecito ex art. 1345 cod. civ. non basta che il datore di lavoro alleghi l’esistenza d’un giustificato motivo oggettivo, ma è necessario che quest’ultimo risulti comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito parimenti emerso all’esito di causa».

[42] Vds. I Pagni, L’effettività della tutela in materia di lavoro, cit., p. 215 e nella nota 40, dove si osserva: «Tornando alle ipotesi di tutela ripristinatoria, sia essa piena o attenuata, vi è da dire che, seppure con le differenze dovute al fatto che qui siamo in presenza di un rapporto di durata, l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto che la pronuncia ha di mira, nel capo col quale si ordina la reintegrazione, non è diverso da quello che realizza una sentenza di nullità del contratto già eseguito, che condanni alla ripetizione di quanto ingiustificatamente versato. L’ordine di reintegra, in altre parole, è semplicemente la condanna all’attuazione del rapporto contrattuale di lavoro, senza necessità di immaginare, per giustificarne il rilascio, né un diritto a lavorare scaturente dal contratto (sulla cui esistenza o meno non è questa la sede per pronunciarsi), né, come pure è stato fatto dalla dottrina lavoristica, un’inibitoria con funzione costitutivo-determinativa, che dovrebbe servire a trasformare in obbligo quel che in origine era un potere del datore di lavoro. A ben vedere, la reintegrazione non è altro che una pronuncia restitutoria, con la quale, una volta accertata l’inefficacia del potere di licenziamento, il datore viene condannato alla rimozione degli effetti determinati con l’atto illegittimo e all’adeguamento della situazione materiale alla situazione giuridica, che l’esercizio di un potere privo di presupposti non era stato in grado di modificare. Dopo la sentenza che dichiara l’illegittimità del licenziamento, gli obblighi primari derivanti dal contratto di lavoro, quali che siano, nel dictum giudiziale appariranno sostituiti da obblighi derivati di riparazione e ripristino, così come si avrà traduzione dell’obbligo retributivo in obbligo secondario “risarcitorio”: ed è ovvio che, se l’obbligo derivato di reinserire il lavoratore nell’unità produttiva, che costituisce l’oggetto della pronuncia giudiziale, non potrà essere disatteso dal datore di lavoro, la sentenza, tuttavia, non influirà sulla componente di potere che caratterizza la posizione datoriale nella fase fisiologica dello svolgimento del rapporto di lavoro, e che, almeno fintanto che quel potere rimarrà nei propri corretti confini, potrà essere esercitato anche dopo la declaratoria di illegittimità del recesso, con gli stessi limiti cui soggiaceva in precedenza».

[43] Così come avveniva, prima delle recenti riforme, per i licenziamenti nulli per illiceità del motivo, cui fosse tuttavia inapplicabile l’art. 18 dello Statuto. Vds. Cass., 26 giugno 2009, n. 15093, in Notiziario giurisprudenza lav., 2010, p. 64, e i precedenti ivi citati: «Il licenziamento nullo per illiceità del motivo (nella specie, dettato da finalità elusive di precedente pronuncia giudiziale di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro) è insuscettibile di produrre qualsiasi effetto, con la conseguenza che al lavoratore licenziato, indipendentemente dai requisiti dimensionali dell’impresa, spettano per intero, in base alle regole di diritto comune, le retribuzioni maturate in forza del rapporto di lavoro mai interrotto e parte datoriale deve essere condannata a riammetterlo in servizio ed a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal momento del recesso». Per tale tesi dopo il Jobs Act, M.T. Carinci, Il licenziamento nullo, in Jobs Act, Il contratto a tutele crescenti, a cura di M.T. Carinci e A. Tursci, Torino, 2015, p. 60.

[44] G. Santoro-Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il jobs act, cit.

[45] A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Jovene, Milano, 2003, p. 118.

[46] Vds. I. Pagni, L’effettività della tutela in materia di lavoro, cit., p. 215, nota 40.

[47] Si vedano le considerazioni ivi svolte e le sentenze ivi citate: Corte giustizia Ue, 1 dicembre 2016, causa C-395/15, Mohamed Daouidi c. Bootes Plus SL e a.; Corte giustizia Ue, 10 luglio 2014, causa C-198/13, Víctor Manuel Julian Hernández e a. c. Reino de España.

[48] C. Consolo, Il flessibile rapporto dei diritti processuali civili nazionali rispetto al primato integratore del diritto comunitario (integrato dalla Cedu a sua volta), in Corti europee e giudici nazionali, in Atti del XXVII convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Bologna, 2011, p. 63. Vds. anche, ma con accento ben più critico, C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, cit., p. 239.

[49] N. Lipari, Categorie civilistiche e diritto di fonte comunitaria, cit., p. 1200.

[50] L. Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, p. 5 (ora in Scritti I-Metodo e teoria giuridica, a cura di C. Castronovo-A. Albanese-A. Nicolussi, Milano, 2011, p. 307). Vds. però nello stesso periodo la posizione di M. Pedrazzoli, Quanto servono e quanto sviano le categorie civilistiche, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto del lavoro e categorie civilistiche, Torino 1992, p. 82, p. 88, il quale invitava il diritto del lavoro a emanciparsi definitivamente dal diritto civile e affermava che il contratto e l’autonomia privata non può riuscire a raffigurare la peculiarità del diritto del lavoro sottolineando che il diritto del lavoro incide sulla distribuzione di potere nella società e fra ceti sociali e alloca risorse economiche stabilendo le regole della loro utilizzazione per lo più senza lasciarsi invadere dal potere politico, conservando di massima la separazione tra sfera sociale e sfera politica.

[51] In tal modo si può forse dare risposta alle preoccupazioni di C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, cit., p. 288, p. 290, il quale, di fronte alla tendenza della Corte di giustizia e dei suoi recettori nazionali a brandire impropriamente il principio di effettività, auspica «un attento recupero della forma giuridica a tutti i livelli, non di una forma aprioristicamente calata su una realtà che allora la rifiuta, ma di una forma critica, che sia in grado e senta il dovere di rendere ragione delle proprie ragioni».

[52] W. Szymborska, Discorso in occasione del conferimento del premio Nobel.

24/04/2018
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