Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Quando la legalità costituzionale non può (più) attendere…

di Andrea Natale
giudice del Tribunale di Torino
A margine di Corte costituzionale n. 40 del 2019 e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle sanzioni penali in materia di “droghe pesanti”

1. Un dispositivo che viene da lontano…

Tanto tuonò che piovve. «(…) per questi motivi la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni».

Questo il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019.

Gli antefatti della sentenza sono noti. L’originario testo del ’90 – fondato su due bipartizioni: droghe leggere/droghe pesanti; fatti di lieve entità e “fatti non lievi” – fu modificato nel 2006 dalla cd. legge Fini-Giovanardi (artt. 4-bis e 4-vicies-ter del dl n. 272 del 2005, conv. in legge n. 49 del 2006). L’art. 73 – “versione Fini-Giovanardi” prevedeva invece un trattamento sanzionatorio indifferenziato per i comportamenti illeciti aventi ad oggetto sostanze stupefacenti (“leggere” o “pesanti” che fossero).

È storia altrettanto nota quella che vede la Corte costituzionale dichiarare – con la celebre sentenza n. 32 del 2014 – l’illegittimità costituzionale delle modifiche apportate dalla cd. legge Fini Giovanardi per vizi del procedimento legislativo [1]: dichiarata l’illegittimità della Fini-Giovanardi si verifica la reviviscenza dell’originario testo dell’art. 73 dPR n. 309/1990, nella versione Jervolino-Vassalli; nel frattempo, però, il testo dell’art. 73 era stato modificato dalla sopravvenuta entrata in vigore del dl n. 146 del 2013, che era intervenuto sul testo dell’art. 73, comma 5, dPR n. 309/1990 (in seguito ulteriormente modificato con dl n. 36 del 2014).

In sostanza: le norme penali previste dall’art. 73 dPR n. 309/1990 erano la risultante di una sovrapposizione di novelle legislative (la novella dell’art. 73, comma 5, dPR n. 309/1990 per effetto del dl 146/2013) e interventi della Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 32 del 2014 (con reviviscenza del testo dell’art. 73 dPR n. 309/1990 nella versione anteriore alla legge n. 49 del 2006).

2. Alla ricerca di una coerenza

Il risultato normativo che emergeva dalla stratificazione di interventi normativi e giurisprudenziali non brillava per intrinseca coerenza. Il quadro sanzionatorio si articolava come segue:

a) Comportamenti penalmente illeciti “non lievi”, aventi ad oggetto droghe “pesanti”: da otto a venti anni di reclusione, oltre alla multa;

b) Comportamenti penalmente illeciti “non lievi”, aventi ad oggetto droghe “leggere”: da due a sei anni di reclusione, oltre alla multa;

c) Comportamenti penalmente illeciti “di lieve entità”, aventi ad oggetto indifferentemente droghe “pesanti” o “leggere”: da sei mesi a quattro anni di reclusione, oltre alla multa.

I profili di criticità segnalati erano molteplici: perché trattare in modo differenziato le sostanze in presenza di fatti non lievi e in modo indifferenziato in presenza di fatti lievi? E, ancora: era ragionevole, proporzionato, conforme alle esigenze considerate dall’art. 27, comma 3, Cost. la pena minima di otto anni di reclusione prevista dall’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990?

E queste domande si facevano ancora più pressanti ove si consideri che – nella pratica giudiziaria – risultano tutt’altro che nitidi i confini tra le fattispecie incriminatrici previste dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 dPR n. 309/1990 [2], con il rischio di generare trattamenti differenziati difficilmente accettabili per condotte tutto sommato non troppo differenti.

Gli imputati – temendo di vedersi condannare ad otto anni di reclusione come pena minima – cominciano ad eccepire l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990 (nella versione risultante a seguito di Corte cost. n. 32 del 2014) lamentando la violazione di vari parametri costituzionali.

Le risposte della giurisprudenza sono state diversificate: con varie decisioni si è ritenuto di non promuovere l’incidente di legittimità costituzionale, ritenendo che la determinazione della cornice edittale rientrasse in una sfera di discrezionalità legislativa che, in assenza di «soluzioni a rime costituzionalmente obbligate», non avrebbe potuto essere incisa nemmeno dalla Consulta. L’assenza di soluzioni alternative che fossero a «a rime costituzionalmente obbligate» si ricavava dall’esistenza di una pluralità di possibili scenari alternativi: si poteva abbassare il minimo edittale dell’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990, magari sotto la soglia della pena massima edittale prevista per l’art. 73, comma 5, dPR n. 309/1990 (ma fino a quanto?), oppure sino a farlo coincidere con il massimo edittale del comma 5; ovvero ridurre il minimo edittale del comma 1 ad altra dimensione. Proprio la pluralità di possibili scenari che si sarebbero potuti proporre all’esame della Consulta – nessuno dei quali costituzionalmente necessitato – dimostrava (ad avviso di alcuni) che ciò che in definitiva si auspicava era l’emissione di una pronuncia manipolativa tale da implicare l’esercizio di un potere discrezionale tipicamente riservato al legislatore [3].

Altri, invece, hanno investito della questione la Consulta. In due occasioni, alcuni difetti dell’ordinanza di rimessione hanno determinato l’inammissibilità della questione per ragioni che qui possono essere messe in secondo piano (si allude ai casi risolti da Corte costituzionale nn. 23 del 2016 e 148 del 2016). Ben più rilevante, invece, la questione di legittimità costituzionale proposta dal gup di Rovereto [4] con cui si poneva in discussione la legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990 in relazione a diversi parametri costituzionali, sollecitando la Consulta a manipolare la pena minima edittale prevista dal comma 1, ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede un minimo edittale di anni otto di reclusione ed euro 25.822 di multa, anziché di anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di multa.

Il seguito è noto. La Consulta, con sentenza n. 179 del 2017, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità proposta, sul rilievo che la soluzione prospettata nell’ordinanza di rimessione «non costitui[va] l’unica soluzione in armonia con la Costituzione» (considerato in diritto, n. 7).

Ma pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità proposta, la Consulta formulò un monito al legislatore, che vale la pena riportare per intero:

«Questa Corte ritiene, dunque, che la divaricazione – venutasi a creare a seguito del d.l. n. 36 del 2014, come modificato dalla legge di conversione – tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria rimediabile con plurime opzioni legislative. Conseguentemente, “il ‘rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario’ (sentenza n. 23 del 2013) comporta una dichiarazione di inammissibilità delle questioni” (sentenza n. 279 del 2013).

Tenuto conto dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti, non può non formularsi un pressante auspicio affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73, del d.P.R. n. 309 del 1990» (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2017, considerato in diritto n. 8).

3. A buon intenditor…

Il legislatore ha tenuto il monito della Consulta tra le cose più care. E, come spesso accade, non ha inteso esercitare la propria discrezionalità per rimediare al vizio di possibile illegittimità costituzionale rilevato dalla Corte (in questo caso, l’«anomalia sanzionatoria»).

Non è una novità la sordità del legislatore di fronte ai moniti della Consulta. Tanto che, sempre più spesso, la Consulta si vede “costretta” a percorrere sentieri più o meno inediti; per rimediare al mancato “ascolto” prestato ai moniti (come avvenuto nel noto caso Dorigo, allorquando la Corte costituzionale, con sentenza n. 113 del 2011, introduce in via pretoria la revisione europea – pur nella riconosciuta assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate – a fronte del mancato ascolto, da parte del legislatore, dei moniti pronunciati con la sentenza n. 129 del 2008) o per prevenire il mancato ascolto dei moniti (come sembra essere avvenuto nel noto caso Cappato, in cui la Corte costituzionale con ordinanza 207 del 2018 ha sospeso il giudizio di legittimità costituzionale per dare modo al legislatore di esercitare la sua discrezionalità, intervenendo su una disciplina normativa di cui la Corte ha già prefigurato l’illegittimità costituzionale) [5].

E, di fronte al perdurante silenzio del legislatore, passato oltre un anno dal precedente monito, la Consulta si è vista anche in questo caso costretta a percorrere un sentiero inedito per «risanare la frattura» tra cornici edittali che la Consulta – nella sentenza n. 179 del 2017 – aveva comunque denunciato come incoerente con il «principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio».

La Consulta lo dice esplicitamente. Una volta rilevata la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza e del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost., «non può essere ulteriormente differito l’intervento di questa Corte, chiamata a porre rimedio alla violazione dei principi costituzionali evocati» (Corte costituzionale, sentenza n. 40 del 2019, considerato in diritto n. 5.3).

E l’intervento non può essere differito nemmeno se esso implica un piccolo sconfinamento nel recinto della discrezionalità del legislatore (discrezionalità che il legislatore non ha però voluto esercitare) e nemmeno se l’intervento comporta una manipolazione del testo legislativo che non è a rime obbligate.

Come dire… La legalità costituzionale non può (più) attendere.

4. …poche parole

Nel leggere la sentenza n. 40 del 2019, ci si accorge che l’incostituzionalità del regime sanzionatorio denunciato davanti alla Consulta è ritenuta piuttosto evidente, tanto che le ragioni dell’incostituzionalità sono esplicitate in un passaggio della decisione che è tutto sommato breve.

La Corte costituzionale – dopo aver rimarcato il divario sanzionatorio esistente tra la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5 e i fatti puniti dall’art. 73, comma 1 – osserva che, nella pratica applicativa, sono incerti i confini tra le due fattispecie («indubitabilmente molti casi si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato»); tale incertezza appplicativa «rende non giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve». Si determina il rischio «di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte». È (anche) su tale presupposto che si rileva «la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost.».

Infatti – prosegue la Consulta − «allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa»; in altri termini «i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. “esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale” in vista “del progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa” della pena».

Si tratta di un altro importante capitolo con il quale la Corte continua a scolpire «il volto costituzionale della pena» [6] e sul quale non ci si può ora soffermare (e sul quale sarà bene però che questa Rivista torni in un prossimo futuro).

La Consulta – preso atto dell’inerzia del legislatore ed affermate le ragioni dell’incostituzionalità – ha un ultimo problema da affrontare: individuare il regime sanzionatorio con il quale sostituire la pena minima di otto anni, ritenuta incostituzionale.

Deve trattarsi di una misura della pena minima edittale che – pur non costituzionalmente obbligata – non può essere arbitraria e deve rappresentare una misura che sia in qualche modo già rinvenibile nell’ordinamento. Al considerato in diritto n. 5.3, la Consulta delinea le ragioni per cui la misura di sei anni di pena minima edittale per la violazione dell’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990 sia misura della sanzione «non arbitraria» e già rinvenibile nell’ordinamento. Dal punto di vista degli equilibri istituzionali, si tratta, probabilmente, del passaggio più delicato della sentenza. Non è possibile, in questa sede e in questo primo commento, dire se la motivazione della Consulta sia del tutto convincente. Qui basti dire che, effettivamente, la misura di sei anni non appare individuata arbitrariamente e che essa rappresenta una misura “già rinvenibile nell’ordinamento”.

5. Cosa succede ora...

Una sentenza come quella in esame, sino a pochi anni fa, avrebbe determinato un terremoto. Ci si sarebbe chiesti quali effetti avrebbe avuto la sentenza sui giudizi in corso e, soprattutto, sulle sentenze passate in giudicato.

Ma la storia non passa invano. E l’inerzia del legislatore e gli interventi di ortopedia costituzionale della Consulta hanno già messo i giudici comuni di fronte a problemi simili a quelli che si proporranno allorché la sentenza della Corte costituzionale sarà pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.

Varranno allora i principi di diritto già ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità:

a) È possibile rimettere in discussione le pene irrogate con sentenze di condanna passate in giudicato, in quanto determinate muovendo da una cornice edittale dichiarata incostituzionale [come riconosciuto da Sez. unite, n. 37107 del 26/02/2015 - dep. 15/09/2015, Marcon, Sez. unite, n. 33040 del 26/02/2015 - dep. 28/07/2015, Jazouli e, prima ancora, da Sez. unite, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, pm in proc. Gatto];

b) È possibile rimettere in discussione anche le sentenze di applicazione pena passate in giudicato, eventualmente dando applicazione analogica al dettato dell’art. 188 disp. att. cpp [come riconosciuto da Sez. unite, n. 37107 del 26/02/2015 - dep. 15/09/2015, Marcon];

c) È possibile – in caso di sentenza di applicazione pena non ancora irrevocabile – per la Corte di cassazione rilevare la nullità dell'accordo sulla pena concordata muovendo dalla cornice edittale dichiarata costituzionalmente illegittima, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza [Sez. unite, n. 33040 del 26/02/2015 - dep. 28/07/2015, Jazouli].

6. In chiusura…

In chiusura una piccola nota sul ruolo che possono rivestire i giudici comuni nella tutela della legalità costituzionale. Si è visto che l’incostituzionalità ora riconosciuta dalla Consulta era stata eccepita più volte davanti ai giudici comuni.

E si è anche visto che alcuni giudici comuni rifiutarono di promuovere l’incidente di legittimità costituzionale sulla base dell’argomento che non si ravvisavano soluzioni costituzionalmente obbligate (argomento che, alla luce della sentenza n 179 del 2017, è effettivamente corretto).

Altri giudici, invece, hanno promosso l’incidente di legittimità costituzionale, ben sapendo che la questione avrebbe potuto essere dichiarata inammissibile e che – al massimo – si sarebbe ottenuta la pronunzia di una “sentenza monito”… (è il caso dell’ordinanza promossa dal gup di Rovereto, tra le righe della quale si legge questa consapevolezza).

Ma è proprio da quei primi passi che si è giunti alla pronunzia della sentenza n. 40 del 2019. La legalità costituzionale, dunque, si promuove anche sollecitando la pronunzia di sentenze monito.

Perché i moniti della Consulta non rappresentano mai parole al vento…



[1] Questa rivista se ne occupò all’indomani della decisione e prima del deposito della sentenza – ricostruendo l’iter legis – in A. Natale, La Consulta boccia la Fini-Giovanardi, in questa Rivista on-line, 13 febbraio 2014, http://questionegiustizia.it/articolo/la-consulta-boccia-la-leggefini-giovanardi_13-02-2014.php. A commento della celebre sentenza n. 32 del 2104, vds. tra i molti, V. Manes e L. Romano, L'illegittimità costituzionale della legge c.d. "Fini-Giovanardi": gli orizzonti attuali della democrazia penale, in Diritto penale contemporaneo, Rivista trimestrale, 2014, n. 1, pp. 215 e ss, https://www.penalecontemporaneo.it/d/2929-l-illegittimita-costituzionale-della-legge-cd-fini-giovanardi-gli-orizzonti-attuali-della-democrazi.

[2] Se ne è occupato più volte L. Miazzi, Il “nuovo” V comma T.U. n. 309/1990: dal reato di quantità al reato di condotta?, in questa Rivista on-line, 18 gennaio 2016, http://questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-v-comma-t_u_n_3091990_dal-reato-di-quantita-al-reato-di-condotta__18-01-2016.php e Id., Droga e pena nella casistica della Corte di appello di Venezia, in questa Rivista on-line, 9 gennaio 2014, http://questionegiustizia.it/articolo/droga-e-pena-nella-casistica-della-corte-di-appello-di-venezia_09-01-2014.php; in giurisprudenza, Tribunale per il riesame di Perugia, ord. 9 marzo 2016, est. Semeraro, in questa Rivista on-line, 21 marzo 2016 con nota redazionale, I limiti ponderali per il riconoscimento del quinto comma dell'art.73 testo unico stupefacenti, http://questionegiustizia.it/articolo/i-limiti-ponderali-per-il-riconoscimento-del-quinto-comma-dell-art_73-testo-unico-stupefacenti_19-03-2016.php.

[3] È la soluzione data dal Tribunale di Torino, con sentenza del 17 dicembre 2014, annotata da F. Filice, Stupefacenti e ragionevolezza delle pene, in questa Rivista on-line, 14 luglio 2015, http://questionegiustizia.it/articolo/stupefacenti-e-ragionevolezza-delle-pene_14-07-2015.php.

[4] Gup Rovereto, ordinanza 21 gennaio 2016, est. Dies, pubblicata in questa Rivista on-line, 10 marzo 2016, http://questionegiustizia.it/articolo/alla-consulta-il-trattamento-sanzionatorio-in-materia-di-stupefacenti_10-03-2016.php.

[5] Cfr. tra i molti commenti, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in questa Rivista on-line, 19 novembre 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/il-caso-cappato-alla-corte-costituzionale-un-ordinanza-ad-incostituzionalita-differita_19-11-2018.php.

[6] Cfr. A. Pugiotto, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), Relazione al Seminario dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Il senso della pena. A un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte Edu, svoltosi lo scorso 28 maggio 2014 a Roma, presso la Casa Circondariale Rebibbia., pubblicato su www.penalecontemporaneo.it, 10 giugno 2014.

11/03/2019
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