Magistratura democratica
Magistratura e società

Velo, non velo

di Francesco Florit
Giudice del Tribunale di Udine
La querelle estiva sull’uso del burkini in spiaggia (ed un recente episodio accaduto in Provincia di Pordenone) ha risvegliato in Italia una questione mai chiarita appieno: il burqa può essere portato in pubblico nel nostro Paese?

Per una volta, i cugini d’Oltralpe hanno fatto a livello internazionale una figura non degna della tradizione libertaria e laica che costituisce, giustamente, un loro vanto.

Nella polemica transalpina sul burquini, vietato nelle spiagge in quanto simbolo di una cultura contro la quale i Francesi si sentono in guerra, sono evidenti i segni dell’isteria collettiva, che di solito sfocia in comportamenti irrazionali, eccessivi e che conduce inevitabilmente all’estremismo ed al razzismo.

Fortunatamente in Italia la polemica non si è protratta oltre misura: paradossalmente, la cultura cattolica italiana, almeno in questa occasione, è parsa più tollerante della laicità francese.

Vi è tuttavia un tema parallelo che, come un convitato di pietra, aleggia in Italia, senza venire mai affrontato con chiarezza. 

Si tratta della possibilità di portare in pubblico il burqa o il niqab, cioè capi di vestiario che coprano, oltre al capo ed alle fattezze della donna, anche il volto, precludendo la possibilità di identificarla e/o riconoscerla.

Intendiamoci, tra burqa e burkini non vi è, sotto questo aspetto, alcuna similitudine dato che l’indumento sportivo (burkini) non copre e non impedisce la visione del volto, che viene delimitato al di sotto del mento e appena a copertura delle orecchie (oltre che di parte della fronte), senza tuttavia impedire di vedere elementi di sicura rilevanza ai fini del riconoscimento quali occhi, naso, bocca, zigomi e mento. Il burqa ed il niqab sono vietati in Francia in base ad una legge del 2010, il burkini no.

È quindi solo la confusione creata dal neologismo (burkini) che induce l’erronea assimilazione degli indumenti. Si tratta di una confusione terminologica che si ritorce contro le stesse intenzioni della creatrice del nuovo capo di vestiario e del nome che lo identifica: come si può leggere qui, il burkini venne originariamente disegnato e realizzato da Aheda Zanetti, una donna mussulmana Australiana, per consentire alla nipotina di giocare a netball, una versione del gioco del basket, molto diffuso tra le ragazze nei paesi del Commonwealth e dell’Oceania. Nelle intenzioni, quindi, uno strumento di integrazione delle giovani attraverso lo sport e non una limitazione o imposizione.

È poi noto a tutti, oramai, che il burqa o il niqab non sono testualmente previsti dal Corano e che capi di vestiario che prevedevano la dissimulazione del volto erano presenti nella cultura di alcuni Paesi del Medio Oriente fin da epoca anteriore alla Rivelazione islamica (7° secolo d.C.).

Ma per tornare al tema di questo intervento, ci si chiede se sia lecito in Italia portare in luogo pubblico il velo integrale che impedisca il riconoscimento della persona, vuoi che si tratti di burqa (che prevede la retina davanti agli occhi), vuoi che si parli di niqab (che consente di intravedere gli occhi).

Si tratta di capire se il divieto posto dalla c.d. legge Reale (L.22 Maggio 1975, n. 152) di “uso dei caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico senza giustificato motivo” (art.5) riguardi anche il burqa o il niqab. Il divieto è sanzionato con l’ammenda e con l’arresto.

A dispetto del tenore della disposizione, del tutto privo di ambiguità, l’incertezza è assai diffusa.

Ciò è testimoniato dal fatto che talune amministrazioni abbiano adottato provvedimenti regolamentari che impediscono l’accesso agli uffici e strutture pubbliche a chi porti il velo integrale (la Regione Lombardia, un anno fa; il Comune di Padova, nel maggio di quest’anno). Se è necessario uno strumento attuativo, si potrebbe sostenere, è proprio perché non vi è un divieto generale nell’ordinamento che vieti in pubblico l’uso di indumenti atti a celare il volto. E che, se violato, preveda una sanzione di natura amministrativa o penale.

Per contro, un noto magistrato ha recentemente ricordato che tale divieto è già presente nell’ordinamento, ma non viene rispettato né è fatto rispettare “Le leggi ci sono già ed è arrivato il momento di farle rispettare”, ha sostenuto il dr.Nordio. (leggi qui: http://www.ilgazzettino.it/nordest/venezia/pm_carlo_nordio_vietare_velo_islam_venezia-1367863.html).

Se la legge già c’è, c’è da chiedersi perché non venga fatta rispettare.

Poiché non è del tutto raro vedere nelle strade delle città italiane donne coperte con il velo integrale (e nemmeno in un consiglio comunale in Provincia di Pordenone, tanto da comportare la sospensione della seduta), si deve escludere che la disapplicazione delle disposizioni di legge alle quali si riferisce Nordio sia intenzionale e bisogna piuttosto concludere che vi sia una diffusa incertezza dell’ambito applicativo delle disposizioni. Incertezza che induce, inevitabilmente, all’inazione.

È interessante notare che mentre la Corte Suprema non ha avuto occasione di occuparsi della disposizione, in relazione all’uso del velo integrale, v’è una sentenza del Consiglio di Stato del 2008 che, pur interpretando la norma nella prospettiva del diritto amministrativo, tocca i punti centrali della fattispecie.

Esaminiamo brevemente il caso: nel 2004 il Sindaco di un Comune friulano aveva emanato un'ordinanza che vietava di comparire in pubblico mascherati, comprendendo nel “mascheramento” anche il velo indossato dalle donne musulmane. L’ordinanza, che faceva riferimento all’art.5 l. 152/75, veniva annullata dal Prefetto, su parere del ministero dell'Interno, in quanto considerata inutile, ritenendosi che dalla normativa già derivasse il divieto di usare il burqa, e che quindi il sindaco non avesse imposto nuovi obblighi ai cittadini.

Il Prefetto inoltre contestava la competenza sindacale ad intervenire in materia di pubblica sicurezza. Il Sindaco si rivolgeva prima al TAR del Friuli Venezia Giulia per ottenere l’annullamento del provvedimento prefettizio e quindi, di fronte al rigetto del ricorso, al Consiglio di Stato, che confermava la decisione della prima istanza amministrativa. Il TAR del Friuli Venezia Giulia si limitava ad osservare che “è evidente che a prescindere dai casi concreti in cui ogni ufficiale di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per caso se la norma di legge sul divieto di usare mezzi atti ad impedire il riconoscimento della persona sia rispettata, un generale divieto di circolare in pubblico indossando il burqa può derivare solo da una norma di legge che lo specifici, il che è in linea con le implicazioni politiche di una simile decisione”: con tale argomento, che da un lato ribadisce la vigenza della disposizione della legge Reale e dall’altro impedisce al Sindaco di ‘legiferare’ con provvedimenti di carattere generale ed astratto in una materia che non gli compete, il TAR risolve la questione amministrativa.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n.3076 del 19 giugno 2008, non solo ha confermato la decisione di primo grado, ma si è spinto più in là, ricordando che “la ratio della norma (art.5 l.152/75), diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene “senza giustificato motivo”. Con riferimento al “velo che copre il volto”, o in particolare al burqa, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. … non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento”.

Il Consiglio di Stato parte da una corretta interpretazione della ratio legis e tuttavia perviene ad una conclusione che pare discutibile, perché interpreta l’espressione usata dalla legge, cioè “atto” (“a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”), come “diretto”. Mentre l’aggettivo “atto” indica solamente idoneità, capacità (a celare) e non già l’intenzione (di celare). Intenzione di celare che è estranea alla struttura della norma e che sarebbe eventualmente stata espressa, secondo le comuni formule di legge, da una clausola di dolo specifico (del tipo “al fine di rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”).

Tale vizio logico traspare dal passaggio successivo della sentenza che afferma: “Il citato art. 5 consente nel nostro ordinamento che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all'identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine”.

In verità, non pare affatto corretto affermare che l’esigenza da soddisfare sia solo quella dell’identificazione (cioè l’atto posto in essere dal Pubblico Ufficiale che verifichi l’identità della persona che si trova dinnanzi) né che la pubblica sicurezza debba essere tutelata solo in occasione di manifestazioni: all’epoca in cui il divieto venne introdotto (i c.d. “anni di piombo”) si intendeva impedire che attraverso l’uso del casco o di altro strumento idoneo, si potesse precludere alla generalità dei consociati di essere visti e quindi riconosciuti in un eventuale processo penale.

Questa era l’esigenza tutelata dalla norma. D’altra parte la norma parla di ‘riconoscimento’ e non di ‘identificazione’ da parte di un pubblico ufficiale; identificazione che può anche non aver luogo (se un pubblico ufficiale non è presente, ad esempio) o può avvenire ‘troppo tardi’.

Quaranta anni dopo, l’esigenza permane intatta (basta googlare ‘casco integrale omicidio’ per vedere il numero di entries…).

La sentenza del Consiglio di Stato ritiene quindi che il porto del ‘velo che copre il volto’ (virgolettato nell’originale) sia fondato su un giustificato motivo anche se precisa che “in questa sede al giudice non spetta dare giudizi di merito sull’utilizzo del velo, né verificare se si tratti di un simbolo culturale, religioso, o di altra natura, né compete estendere la verifica alla spontaneità, o meno, di tale utilizzo”. Analoga motivazione è rinvenibile anche nell’unico precedente reperibile nella giurisprudenza di merito fino ad oggi (Tribunale Cremona, sent.27 Novembre 2008).

Ma se non spetta al giudice valutare il giustificato motivo, a chi compete? In realtà, la clausola utilizzata dalla legge è del tutto analoga a quella utilizzata in numerose disposizioni di legge (ad es. art.4.2 legge 18 Aprile 1975, n.110 in relazione al porto di bastoni o strumenti da punta o taglio) per le quali nessuno dubita che il potere di valutare se vi sia un giustificato motivo spetti al giudice.

E non potrebbe essere altrimenti.

Ci si chiede allora: il motivo religioso costituisce giustificato motivo per derogare al divieto di legge? Ed inoltre, nel nostro ordinamento, che tende alla tutela e promozione ad ogni livello dell’uguaglianza di genere cioè, per usare un’altra locuzione, della parità dei sessi, può essere giustificato il motivo che si manifesti nella imposizione alla donna di un indumento che la nasconde al mondo? Perché questo, in fondo è un punto centrale: pur con tutto il rispetto per le tradizioni e i credo di altre fedi e di altre culture, è difficile ritenere che il burqa o il niqab sia espressione di uguale trattamento tra i due sessi ed è difficile accettare che indossarlo sia sempre il frutto di una libera scelta. E non si vede come il giudice potrebbe accordare tutela ad un motivo (religioso o culturale) che permetta tale stato di cose.

Se non si affronta questo aspetto con chiarezza e coraggio, ogni soluzione giuridica rappresenterà semplicemente un tentativo di svicolare dalle proprie responsabilità di interprete, di abbozzare per trovare una facile (ma, forse, pilatesca) soluzione.

Una soluzione chiara ci è offerta da un ordinamento superiore, quello rappresentato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Corte posta a suo presidio.

La Cedu si è occupata della questione nel caso noto come S.A.S v. France (2014), promosso da una cittadina francese di origine pakistana il giorno stesso dell’entrata in vigore, nel paese transalpino, della loi n° 2010-1192 du 11 octobre 2010 interdisant la dissimulation du visage dans l'espace public.

La disposizione di legge (il cui articolo 1 recita: Nul ne peut, dans l'espace public, porter une tenue destinée à dissimuler son visage) è stata ‘impugnata’, in particolare, per la ritenuta violazione degli articoli 9, 10 e 14, diretti rispettivamente a proteggere la libertà di pensiero, coscienza e religiosa, la libertà di espressione nonchè a vietare la discriminazione.

In relazione al diritto di praticare e manifestare liberamente la propria religione (il nocciolo della questione), il Governo francese ha obiettato che non vi sarebbe violazione dell’art.9 CEDU poichè il secondo comma della disposizione ora citata espressamente consente limitazioni alla manifestazione della religiosità se (i) previste dalla legge e se (ii) tali limitazioni sono necessarie per la sicurezza pubblica, la salute o la morale pubblica ovvero per la protezione dei diritti e delle libertà di altri.  

Esaminando la questione, la Corte EDU ha innanzi tutto stabilito che in effetti il divieto previsto dalla legge francese (anche nei confronti del velo islamico) interferisce con la libertà di religione (art.9 CEDU) e con il diritto al rispetto della vita privata (art.8).

Passando quindi a valutare se le giustificazioni addotte dalla Francia (limitazioni ex comma 2.9 CEDU) avessero fondamento, la Corte ha stabilito innanzitutto che esigenze di sicurezza pubblica (come invocato dalla Francia) non possono giustificare un divieto generalizzato poiché potrebbero essere soddisfatte da restrizioni più limitate, già ammesse dalla giurisprudenza di Strasburgo, come l’obbligo di farsi identificare, ove necessario.

La Francia aveva inoltre invocato la necessità di proteggere i diritti e le libertà di altri (art.9.2 CEDU) sostenendo che il divieto di dissimulare il volto (e quindi il divieto del niqab e del burqa) era necessario ‘per assicurare il rispetto dei valori minimi di una società aperta e democratica’ ed in particolare l’uguaglianza tra uomo e donna, la dignità umana ed il rispetto dei requisiti minimi della vita in società.

Sul punto, la Corte ha adottato un orientamento assai restrittivo escludendo addirittura che il tema dell’uguaglianza uomo donna potesse applicarsi per vietare una pratica, quella del velo integrale, difesa dalle donne (nel caso, la ricorrente).

La Corte tuttavia ha accettato l’ulteriore argomento secondo il quale il rispetto dei requisiti minimi della vita in società costituisce un diritto dei consociati (cioè ‘degli altri’) ed impedisce la dissimulazione del volto.

La Corte in particolare ha condiviso l’opinione francese che il volto giochi un ruolo importante nella interazione sociale e che quindi la barriera elevata contro gli altri da un velo che nasconda la faccia sia percepita in Francia come una violazione del diritto degli altri di vivere in uno spazio di socializzazione che renda più facile il vivere assieme. È stato così sancita l’esigenza di proteggere un principio di interazione tra gli individui, che è essenziale per l’espressione non solo del pluralismo, ma anche della tolleranza e della apertura mentale, senza la quale non vi è società democratica.

Si potrebbe aggiungere, con riferimento agli ideali illuministici fondanti l’identità francese, che la fraternité, ancor più che una aspirazione ideale, è un dovere sociale.

In conclusione, la Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso promosso contro la legge francese.

* * *

Tutti i principi affermati dalla Corte EDU possono trovare applicazione nel caso italiano poiché sono principi di carattere generale che riguardano il profilo del vivere insieme e della democraticità della società, aspetti per i quali Francia e Italia non son dissimili.

Se vi è un dovere di interazione tra individui, conseguenza della scelta di vivere in una società democratica, tollerante e aperta, non pare possa essere ravvisato un giustificato motivo al porto del velo integrale. La compressione del diritto alla libertà di espressione del credo religioso è giustificata ex art.9.2 CEDU.

Né si può obiettare che la norma della legge Reale venne introdotta in una epoca del tutto diversa ed in un contesto sociale completamente differente. A parte il fatto che le esigenze di sicurezza e ordine pubblico presenti alla metà degli anni Settanta si sono, se mai, amplificate nella realtà e nella percezione, al giorno d’oggi, non può sfuggire che la norma va interpretata per quello che era il suo fine precipuo e cioè la riconoscibilità dell’individuo in luogo pubblico da parte di chiunque, a prescindere da un obbligo di identificazione che è, evidentemente, tutt’altra cosa.

Nel recente caso avvenuto in provincia di Pordenone, per esempio, la cittadina italiana di origine albanese che ha preteso di prendere parte al consiglio comunale a San Vito al Tagliamento mantenendo il volto coperto ed inducendo pertanto il Sindaco a sospendere la seduta, non è stata identificata. La pretesa di mantenersi integralmente coperta nel luogo preposto all’esercizio della democrazia a livello locale stride ed è in contraddizione con l’obbligo di vivere insieme, in una società aperta, che fa del confronto aperto il sale della democrazia.

Non può sfuggire che la pretesa di indossare il niqab nel consiglio comunale proviene da chi ha voluto diventare cittadina italiana. Un processo inevitabilmente lungo, che si immagina abbia richiesto una maturazione interiore e la riflessione sui valori della comunità alla quale si voleva accedere, senza ridursi ad una prospettiva meramente utilitaristica (il mero godimento dei ‘diritti di cittadinanza’). In un processo così profondo non sono ammesse riserve mentali nella accettazione delle regole del confronto, di apertura democratica e di partecipazione alla vita sociale italiana che l’acquisto della cittadinanza comporta.

Oggi si apprende (LEGGI QUI) che con decreto penale di condanna del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pordenone, la donna è stata condannata per violazione dell’art.5 l.152/75. Secondo le notizie di stampa, l’imputazione è relativa al secondo comma della disposizione citata, che vieta ‘in ogni caso … l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino’.

Dato inquadramento giuridico adottato (che equipara la seduta del consiglio comunale ad una manifestazione) la questione del ‘giustificato motivo’ del porto del velo non è rilevante.

A prescindere dalla correttezza della qualificazione adottata (può non apparire così scontato che una seduta di consiglio comunale sia una manifestazione nel senso richiesto dalla norma), è facile prevedere che la vicenda sia destinata ad ulteriori sviluppi, tanto più che da notizie di stampa si apprende che la donna stessa ha presentato a sua volta denuncia (non è dato sapere contro chi e per quale ragione).

Se alla decisione del g.i.p. di Pordenone dovessero seguire altresì polemiche a livello politico, è da sperare che esse non degenerino in espressioni partigiane e fideistiche, che spesso avvelenano la discussione pubblica su temi del genere. Se mantenuto nei limiti della continenza e della correttezza, il dibattito potrebbe condurre all’avanzamento ed alla maturazione della coscienza civile del nostro Paese.

 

09/12/2016
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