Magistratura democratica

Allargare l’area dei diritti fondamentali non obbliga a banalizzarli

di Vladimiro Zagrebelsky

Evidenziando come, in relazione a ricorsi individuali fondati su nuove richieste di tutela che gli ordinamenti nazionali non sapevano garantire, il giudice esterno all’ordinamento abbia tutelato i diritti fondamentali a livello sovranazionale con giurisprudenza evolutiva, l’Autore sottolinea che tale allargamento della tutela non ha portato a banalizzare i diritti perché si tratta sempre di diritti fondamentali, frutto di evoluzione culturale e sociale. Semmai di banalizzazione della tutela può parlarsi non per l’area dei diritti protetti ma per il livello di protezione assicurata, nei casi in cui la lesione ai diritti fondamentali, pur non essendo grave, richiede comunque (ad esempio, perché si rivelano carenze strutturali dell’ordinamento nazionale) l’intervento del giudice sovranazionale, il quale finisce con il proteggerli con meri indennizzi, come se fossero diritti qualunque.

Parlano di banalizzazione dei diritti fondamentali, sia coloro che sono allarmati da una tendenza che rischia di indebolirne l’idea stessa, sia coloro che prendono pretesto per contrapporre ai diritti i doveri e lamentano l’invadenza dei diritti (e dei giudici che ne sono l’inevitabile corollario). Vedo il fenomeno e mi pongo dalla parte dei primi.

Vi è intanto una questione preliminare, che attiene alla terminologia. È difficile chiamar diritto una pretesa che in nessun modo può farsi valere davanti ad un giudice. E’ possibile farlo naturalmente quando però si abbia chiaro che ci si pone sul piano politico o su quello morale e si sappia che la promozione o la rivendicazione possono realizzarsi con i modi propri dell’azione politica o morale. Ma la confusione di piani è deleteria e frustrante quando porti alla constatazione dell’inefficacia della protezione giudiziaria. La protezione giudiziaria non è in assoluto migliore di quella che può derivare dal successo di una lotta politica, sociale, morale, ma ha la specifica qualità di riguardare e risolvere i casi individuali. Ne seguiranno conseguenze generali, per la forza del precedente, ma prima di tutto il giudice risponde alla domanda posta dal caso singolo. La giustiziabilità – il grado di giustizi abilità – della pretesa dovrebbe essere il discrimine tra ciò che è diritto e ciò che non lo è o non lo è ancora. È ben chiaro però che il criterio indicato è lontano dall’offrire inequivoci risultati. L’esempio della vasta area che ricade nella categoria dei diritti sociali fornisce valida conferma della varia esistenza della possibilità di ricorrere efficacemente al giudice.

Una vicenda abbastanza recente, riguardante il diritto all’abitazione, merita di essere brevemente narrata. A fronte di ricorrenti manifestazioni di sans abris nel centro della capitale francese, il Governo, con gran pubblicità introdusse una riforma che trasformò il diritto all’abitazione in droit opposable. Chi, secondo la legge vigente, aveva diritto a un alloggio popolare poteva ricorrere al giudice amministrativo per far constatare il suo diritto. Ottenuta la sentenza favorevole, rimane però in lista presso la Prefettura in attesa della disponibilità di un alloggio assegnabile. Ecco un caso esemplare di apparente rafforzamento di un diritto condizionato dalla materiale disponibilità di risorse pubbliche, mediante l’introduzione di una giustiziabilità (necessariamente) debole, se non addirittura fittizia.

Ma gli evanescenti confini del diritto, definito sulla base della possibilità del ricorso al giudice, divengono anche più evidenti quando si consideri la varietà dei giudici cui si può immaginare di ricorrere. Mi riferisco alla (equivoca) natura multilivello della protezione dei diritti fondamentali, dove l’intervento della Corte europea dei diritti umani o, prima di essa, quando trattisi di controversia che ricade nell’ambito del diritto dell’Unione, della Corte di giustizia, è giustificata dalla inesistenza o dalla inefficacia del rimedio nazionale.

La mancanza di una distinzione quanto più possibile rigorosa tra il diritto che trova tutela davanti al giudice nazionale e quello che ad esso aggiunge la protezione internazionale offerta, nell’area regionale europea, dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla sua Corte è il terreno su cui la cd. banalizzazione dei diritti fondamentali ha modo di crescere. E naturalmente la questione riguarda sia il piano tecnico-giuridico sia quello del linguaggio comune. Quest’ultimo è naturalmente meno rigoroso, ma non meno importante poiché all’estensione infinita del richiamo ai diritti fondamentali corrisponde l’ampliarsi delle attese di protezione giudiziaria (ed anche delle inevitabili disillusioni).

Nell’area europea – oltre alle dichiarazioni e ai trattati di portata universale – vigono due carte che elencano diritti fondamentali. La Convenzione europea dei diritti umani porta una serie di diritti e libertà alla cui protezione sovrintende un sistema che vede al centro la Corte europea. Si tratta di un sistema che riguarda i 47 Stati della grande Europa del Consiglio d’Europa. I diritti e le libertà che la Convenzione considera, nel contenuto che essi assumono nella giurisprudenza della Corte europea, compaiono anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale però menziona anche diritti ulteriori (oltre che principi). Di essi, una parte corrisponde a diritti sociali che, nell’ambito del Consiglio d’Europa, sono oggetto della Carta sociale con il suo sistema para-giudiziario di tutela. Questa descrizione costituisce solo un cenno, che non può qui essere sviluppato, ma che inquadra la complessità degli ambiti e dei livelli. Essa mette innanzitutto in luce che l’elenco dei diritti fondamentali non corrisponde a quello ben più vasto dei diritti riconosciuti dalle leggi nazionali (comprese le Costituzioni nazionali).

I diritti e le libertà fondamentali riconosciuti a livello europeo sovranazionale vengono da una storia diversa, in qualche modo persino antagonistica, rispetto alle vicende delle legislazioni nazionali. La loro origine extra o pre-statale fa sì ch’essi si impongano al legislatore nazionale e spiega l’istituzione di un giudice che assicura un “controllo esterno”. Ambito dei diritti considerati per assegnar loro la qualità di “fondamentali”, riconduzione del loro fondamento al livello sovranazionale e istituzione di una sede giudiziaria di controllo esterno sono aspetti ineludibilmente legati. Un simile sistema riguarda solo quei diritti che la storia dell’evoluzione culturale e morale della società umana – qui si tratta dell’Europa – ha portato a ritenere fondamentali, propri della persona umana come tale, non concessi ma necessariamente riconosciuti dagli Stati.

È necessario tener sempre presente il confine che tiene distinti i diritti dai diritti fondamentali. Solo questi ultimi richiamano e ammettono il ricorso al giudice esterno agli Stati nazionali. Solo la natura fondamentale del diritto giustifica la giurisdizione del giudice esterno e della sua opera di interpretazione evolutiva alla ricerca della sintonia con la dinamica propria della società europea.

Ma dove corre il confine che separa un diritto da un diritto fondamentale? Un primo orientamento discende dall’elenco dei diritti contenuti nella Convenzione europea dei diritti umani (cui si sono aggiunti i diritti menzionati in successivi protocolli), nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e nella Carta sociale europea. Si tratta di elenco vasto e ad esso si aggiungono altri diritti, oggetto di altri Trattati riguardanti materie specifiche. L’importanza dei diritti della Convenzione europea e del sistema giudiziario che li accompagna, unitamente al fatto che i diritti corrispondenti della Carta dell’Unione hanno il contenuto definito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, giustifica – discutendo il tema della banalizzazione dei diritti fondamentali – il fatto che su di essi si concentri l’attenzione.

I diritti enunciati nella Convenzione europea, come anche negli altri strumenti internazionali, sono descritti in termini estremamente ampi, così che l’interpretazione evolutiva operata dalla Corte può manifestarsi con grande facilità, sulla spinta di una crescita evidente e rapida che in diversi campi caratterizza la società europea e la sua cultura. Altrettanto ampie sono le formule usate dalla Convenzione per indicare le possibili ragioni di imporre limiti e condizioni all’esercizio dei diritti. L’esempio maggiore di diritto che ha manifestato una grande attitudine a darsi contenuti via via più ampi e vari è quello al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 Conv.). Al suo ambito è stato ricondotto il diritto a non subire interferenze da un ambiente inquinato (inquinamento sonoro, chimico, ecc.). La Corte europea, vincolata alla Convenzione che ha fissato l’area del consenso degli Stati che l’hanno ratificata, ma non adepta dell’originalismo, nega di creare nuovi diritti per via interpretativa e afferma di limitarsi ad enucleare nuovi aspetti di diritti già menzionati nella Convenzione. Come che sia, è interessante notare che l’evoluzione giurisprudenziale non nasce ad opera spontanea della Corte, ma è indotta dal tenore dei ricorsi individuali presentati alla Corte. Vi è una giurisprudenza evolutiva, ma prima ancora è evolutivo il tenore dei ricorsi. È evidente che non vi sono sentenze se non vi sono ricorsi. Nel corso del tempo vengono introdotti ricorsi che in altra epoca non erano nemmeno immaginabili. Quelli fondati sul diritto ambientale sono l’esempio più chiaro. Di un simile diritto (espressamente menzionato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione solo nel 2000), non v’è traccia nel testo e nei lavori preparatori della Convenzione del 1950. Esso divenne ipotizzabile solo in seguito, seguendo il crescere di una diffusa sensibilità sociale che lo valorizzava. Chi per primo ne fece oggetto di un ricorso alla Corte europea divenne strumento dell’evoluzione giurisprudenziale. Un’evoluzione che è il risultato di un’opzione metodologica adottata dalla Corte nell’esercizio della competenza assegnatale dall’art. 32 Conv. e che gli Stati parti della Convenzione non hanno mai contestato, con la conseguenza di confermarne la corrispondenza alla volontà espressa nel Trattato (art.31/3 b) Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati).

Il nesso inscindibile tra ricorso e sentenza, segnala l’importanza che assume il sistema adottato dalla Convenzione europea (specie dopo la riforma che gli Stati hanno introdotto nel 1998 con il Protocollo n.14), che si fonda sul ricorso individuale, diretto e senza filtri. Si tratta di un sistema che in ogni occasione gli Stati indicano come pilastro del sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali. E in effetti si tratta di sistema (di cui qui non si esaminano gli effetti deleteri derivanti dalla quantità ingestibile dei ricorsi introdotti annualmente), che ha una essenziale incidenza sia sulla tutela offerta ai singoli e sulla posizione dell’individuo sul piano sovranazionale, sia sul tipo di giurisprudenza che induce. A quest’ultimo aspetto ora va riservata attenzione.

La Corte europea, a essenziale differenza di Corti costituzionali come quella italiana ed anche della Corte di giustizia dell’Unione, e similmente a quanto fanno i giudici nazionali ordinari, risponde a quesiti di compatibilità con i diritti convenzionali di vicende specifiche e individuali. Lo fa sulla base della richiesta di chi si presenta come vittima di una violazione e della narrazione che fa della sua vicenda e della denunciata inefficacia della soddisfazione ottenuta in sede nazionale. Il Governo convenuto in giudizio avanti la Corte, tende spesso a rispondere con richiamo alla sua legge nazionale e alla ragionevolezza del tenore di una normativa che per sua natura è “generale e astratta”. Ma la Corte è chiamata ad assicurare, come essa ripete, diritti “concreti e effettivi”. Lo scarto dunque tra legalità nazionale e rispetto dei diritti individuali della Convenzione è strutturale. Si può addirittura dire che la Corte europea è istituita per dichiararlo. È quindi inevitabile che le sentenze della Corte (che peraltro riguardano i ricorsi restanti dopo che circa il 95% di essi è dichiarato irricevibile) siano in gran prevalenza di violazione e indichino quindi come obbligatorio un livello di tutela del diritto fatto valere più elevato di quello che il giudice nazionale ha affermato. Buona parte dello sviluppo giurisprudenziale delle obbligazioni positive di tutela dei diritti convenzionali, ha avuto modo di manifestarsi nella varietà concreta dei casi sottoposti al giudizio della Corte.

Venendo ora al tema della banalizzazione, ritengo che vada escluso che il termine possa ragionevolmente riguardare l’ampliarsi progressivo dell’area dei diritti coperti dalla protezione offerta dalla Convenzione europea e dalla giurisprudenza della Corte. La valutazione operata dalla Corte – pur difficile e dal risultato spesso opinabile – tende a seguire l’evoluzione di culture e concezioni elaborate nella società europea. In questo senso, in linea di principio, non crea, ma dichiara. La tesi secondo la quale sarebbe un’esigenza propria dei sistemi democratici che la risposta a simile evoluzione fosse data dai parlamenti, si scontra con la constatazione della loro frequente inettitudine e dell’urgenza dei casi concreti. Comunque – riconoscendo la natura fondamentale dei diritti considerati – i parlamenti stessi hanno provveduto a mettere in piedi un sistema di protezione dei diritti fondamentali basato sulla giurisprudenza di una Corte indipendente di giustizia. E l’esecuzione delle sue sentenze è rimessa alla sorveglianza (meglio, alla gestione) del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, cioè dell’insieme dei governi.

Ma allora non c’è una questione che possa riassumersi nella formula della “banalizzazione dei diritti fondamentali”? C’è, ma riguarda non tanto l’area dei diritti, quanto il livello del loro riconoscimento non soltanto come diritti, ma come diritti fondamentali. Ed allora la resistenza alla banalizzazione deve venire dalla giurisprudenza della Corte europea, che ad esempio, invece di enfatizzare singole carenze procedurali in particolari momenti delle procedure giudiziarie, dovrebbe invece valorizzare ciò che essa stessa afferma (ma spesso dimentica), che l’equità di una procedura va apprezzata nel complesso e non nel dettaglio (art. 6 Conv.). In tal modo si eviterebbe il problema serio del difficile impatto di singole sentenze della Corte sul sistema processuale dello Stato convenuto in giudizio e dell’ancor più difficile influenza sulla generalità degli altri sistemi europei. In generale la Corte dovrebbe dare il massimo spazio operativo al nuovo criterio di irricevibilità dei ricorsi individuali per il fatto che il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio importante. In ordine a tale criterio tuttavia va considerato che opera il limite del generale interesse della protezione dei diritti fondamentali, cosicché violazioni di ridotta o infima gravità per il ricorrente possono tuttavia richiedere una sentenza della Corte, se si tratti di violazioni ripetitive che rivelano una carenza strutturale del sistema statale. Il sistema opererebbe in modo corretto se gli Stati fossero fedeli all’impegno assunto ratificando la Convenzione ed evitassero quindi, specialmente dopo una sentenza della Corte, di perseverare nelle violazioni e se, in caso contrario, il Comitato dei ministri fosse efficiente e rigoroso nell’imporre agli Stati di adeguarsi agli obblighi assunti.

Per altro verso va ricordato che la rilevanza della gravità della lesione, come criterio per riconoscere o negare la violazione di un diritto fondamentale è presente nella giurisprudenza della Corte europea. Lo è particolarmente in ordine ad un diritto fondamentale com’è il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani o degradanti (art.3 Conv.), ove la Corte afferma che non ogni sofferenza inflitta (oltre ciò che è inevitabile e normale portato di una pena legale) integra la violazione del diritto. Un certo livello di patimento deve essere sorpassato perché sia ravvisabile la violazione del diritto previsto dalla Convenzione (e dunque la riconoscibilità di un diritto fondamentale). E quel livello deve dalla Corte essere identificato tenendo conto della natura del divieto, che è assoluto, sottratto a ogni condizione, non sospendibile nemmeno in caso di pericolo per la sicurezza dello stato (art.15 Conv.).

Il desiderio della Corte di estendere e rinforzare la protezione dei singoli rispetto alle azioni pregiudizievoli degli Stati tuttavia si manifesta talora con un abbassamento del livello minimo di lesione perché la violazione sia riconosciuta. Ma abbassato quel livello e riconosciuta quindi più facilmente la violazione dell’art. 3 Conv., la Corte ha difficoltà a tirare le conseguenze di una così grave violazione dei diritti fondamentali della persona. Ed allora essa si astiene dall’indicare al Governo responsabile della violazione la sola via ragionevole per rimediare, che consiste innanzitutto nella cessazione immediata del trattamento inumano, fosse anche per la via della scarcerazione di un detenuto. La Corte – è il caso delle violazioni automaticamente dichiarate per il solo fatto del sovraffollamento carcerario – se ne astiene e si limita a stabilire un indennizzo economico, come se si trattasse sì di un diritto, ma di un diritto qualunque. Non di un diritto appartenente al cuore di quel patrimonio della dignità della persona che la Comunità internazionale ha assunto l’onere di difendere superando la sovranità degli Stati, con lo straordinario strumento dell’intervento giudiziario esterno. Il motivo per cui la Corte si limita all’indennizzo economico risiede nella consapevolezza del contenuto grado di gravità della sofferenza procurata al singolo ricorrente (inumana sì, ma solo un poco!) ed anche nella considerazione che si tratta di situazioni massicciamente presenti in numerosi Stati europei. Una violazione dell’art. 3 Conv. “presa sul serio” richiederebbe una posizione rigida da parte della Corte, ma, abbassato il livello della violazione dichiarata, la Corte non si sente di assumerla. Diversamente operando, anziché alla stigmatizzazione dello Stato che ha commesso la violazione, si assisterebbe alla solidarietà degli altri Stati europei (almeno in sede di esecuzione delle sentenze da parte del Comitato dei ministri). Ed invece la stigmatizzazione dello Stato violatore è un tratto strutturale del sistema convenzionale, come dimostra la previsione del ricorso interstatale, non subordinato alla condizione che lo Stato ricorrente sia vittima della violazione imputata ad altro Stato europeo.

Un diritto fondamentale, tra i più fondamentali, viene quindi trattato come un diritto qualunque, la cui violazione è monetizzabile. L’intenzione di estendere la protezione si traduce nella riduzione della natura e posizione del diritto. La sua banalizzazione, appunto, che, una volta avvenuta, diventa caratteristica del diritto che ne è stato colpito. L’esempio fatto riguarda un caso specifico e una materia che per natura è atta a distogliere da considerazioni di sistema. E tuttavia queste sono importanti ed il fenomeno ha, portata e conseguenze generali. Una correzione non porterebbe necessariamente a collegare alla minor facilità di riconoscere la violazione della Convenzione nel caso del ricorrente una più ristretta definizione dell’ambito del diritto. Le sentenze della Corte, come è noto contengono due parti distinte: le affermazioni di principio e l’applicazione nel caso concreto.

Nell’attuale stato di cose, spesso appare giustificata l’impressione che, portato dal prevalente rilievo assegnato al caso del ricorrente, vi sia un rilevante scarto tra il tenore di molte sentenze della Corte europea e ciò cui si riferisce, ciò che implica e ciò che richiede il sistema di protezione dei diritti fondamentali, che distingue l’Europa da tutto il resto del mondo.

* Lo scritto qui pubblicato è frutto di un dialogo tra l’Autore, Vincenzo Ferrone e Pasquale De Sena svoltosi il 29 gennaio 2015, in Roma, nella sede della Fondazione Lelio e Lisli  Basso (Isocco) della cui cortese ospitalità si desidera ringraziare la presidente Elena Paciotti (NdR).