Magistratura democratica

Intercettazione di conversazioni presidenziali: ancora si naviga “a vista”

di Chiara Gabrielli

Ancora oggi il punto di riferimento per l’autorità giudiziaria che nel corso di intercettazioni telefoniche si imbatta nelle conversazioni intrattenute dal Capo dello Stato è rappresentato dalle indicazioni fornite dal Giudice delle leggi nella pronuncia n. 1 del 2013.

Si tratta di indicazioni imperniate, tuttavia, su una discutibile esegesi sistematica, che non soltanto conducono a esiti costituzionalmente opinabili – sacrificando il principio del contraddittorio, la parità fra le parti e il diritto di difesa – ma risultano anche difficili da interpretare in modo univoco; condizioni che rendono tali coordinate sia di problematica applicazione da parte dell’operatore sia incapaci di guidare il legislatore nel porre mano alla materia.

1. «Tutte le cose derivano dal fato, sí che il fato attribuisce loro una piena necessità».

L’affermazione, attribuita a Democrito, sembra valere anche per l’esigenza di regolamentare la sorte delle captazioni occasionali dei colloqui del presidente della Repubblica; un’esigenza che il legislatore finora non aveva avvertito – avendo disciplinato le sole intercettazioni intenzionalmente rivolte alle sue conversazioni con riguardo ai reati di cui all’art. 90 Cost.[1] – ma della quale la fortuita registrazione dei dialoghi telefonici fra il capo dello Stato e un noto ex senatore, le cui utenze erano state poste sotto controllo nell’ambito dell’inchiesta penale concernente la cd. “trattativa Stato mafia”, ha dimostrato l’ineludibilità.

In tale occasione toccò alla Corte costituzionale, investita di un «imbarazzante»[2] conflitto di attribuzione, rimediare al silenzio legislativo e pronunciarsi sul destino processuale delle registrazioni, concludendo che «non spettava» alla procura della Repubblica di Palermo «omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione» delle stesse «senza sottoposizione al contraddittorio»[3]. Malgrado siano trascorsi oltre due anni, quella discussa decisione «presidenzialmente orientata»[4] rappresenta ancora oggi l’unico punto di riferimento in una materia che richiederebbe, invece, «un oculato e complesso intervento» normativo, «prima costituzionale, poi ordinario»[5]. L’augurio è che quest’ultimo sia stato soltanto differito, forse nella convinzione che l’accidentale coinvolgimento del capo dello Stato negli ascolti sia un’evenienza “di scuola”, verosimilmente non replicabile; più preoccupante se il legislatore si ritenesse ormai dispensato dal prendere posizione al riguardo, avendo già provveduto la Corte costituzionale a individuare «un divieto probatorio, il tipo di sanzione processuale e la procedura da seguire per la relativa declaratoria»[6]. L’impressione, infatti, è che le istruzioni fornite dalla pronuncia n. 1 del 2013 non soltanto si fondino su premesse piuttosto discutibili sul piano costituzionale, ma siano anche difficili da interpretare in modo univoco per l’autorità giudiziaria che, imbattutasi nell’ascolto di colloqui presidenziali, a quelle autorevoli coordinate intenda attenersi[7]; ripercorrere gli snodi della decisione, dunque, significa anche mettere a fuoco alcuni dei profili problematici che l’operatore è chiamato ad affrontare.

 

 

2. Cardine della disciplina elaborata dalla Corte rispetto alle captazioni riguardanti le conversazioni del capo dello Stato è un’articolata «ricostruzione per principi»[8] della figura presidenziale, intesa quale «garante dell’equilibrio costituzionale» e quale «magistratura di influenza»; un ruolo di stimolo, di moderazione e di persuasione destinato a svolgersi soprattutto mediante «attività informali», per l’efficacia delle quali la discrezione e la riservatezza delle conversazioni intrattenute sarebbero condizioni «coessenziali» e quindi «imprescindibili». In questa prospettiva – peraltro non del tutto pacifica in dottrina[9] – l’assoluta impenetrabilità della sfera delle comunicazioni presidenziali rappresenterebbe dunque una di quelle «esigenze intrinseche del sistema» che, «sebbene non sempre (…) enunciate dalla Costituzione in norme esplicite», emergono comunque in modo evidente, là dove non ci si limiti alla «mera esegesi testuale».

Al convincimento che le conversazioni presidenziali debbano “per principio” essere sottratte agli ascolti la Corte è disposta a pagare un prezzo elevato: abbandonare, con un discutibile overruling, quella salutare diffidenza verso discipline derogatorie del trattamento giuridico comune a tutti i consociati che in precedenza l’aveva indotta a richiedere a fondamento degli stessi una «precisa copertura costituzionale»[10]. Pronunciandosi sulla legittimità della «sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato» introdotta dalla legge n. 124 del 2008, la Consulta aveva definito «la disciplina delle prerogative contenute nel testo della Costituzione» come «uno specifico sistema normativo» che «non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius, né in melius»[11]: il timore era, in quest’ultimo caso, l’indebita estensione di quelle tutele a fattispecie non meritevoli, secondo il legislatore costituzionale, di una protezione ad hoc. A ben vedere, la strada  dell’«interpretazione sistematica» che la Corte questa volta ha ritenuto di percorrere, affermando che l’inderogabilità della privacy presidenziale discende direttamente «dalla posizione e dal ruolo del Capo dello Stato nel sistema costituzionale italiano», presenta rischi non dissimili.

Com’è stato opportunamente ricordato, l’interpretazione sistematica è una tecnica esegetica «dai contorni piuttosto sfuggenti» e, soprattutto, una «leva assai potente per operare rimaneggiamenti e aggiunte nei testi normativi»[12], caratteristiche che dovrebbero sconsigliarne l’impiego in particolar modo quando si abbia a che fare con istituti che derogano ai principi di eguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale. Né rassicura che la Corte ne riconosca l’impraticabilità di fronte a «insuperabili barriere testuali», quando poi trovi abilmente il modo di renderle inoffensive. A rigore, l’assenza di una disposizione che individui un soggetto istituzionale competente ad autorizzare le intercettazioni a carico delle utenze presidenziali dovrebbe comportarne l’assoggettamento, ove si proceda per reati diversi da quelli elencati all’art. 90 Cost., alla disciplina generale dell’art. 15 Cost., che rinvia ai «casi» e alle «garanzie stabiliti dalla legge» processuale. Con un suggestivo ribaltamento di prospettiva, invece, la pronuncia vi ravvisa la «presupposizione logica (…) dell’intangibilità della sfera di comunicazione del supremo garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato», intesa come prerogativa costituzionale implicitamente preesistente. D’altra parte, a giudizio della Corte, se così non fosse si finirebbe per riconoscere alla figura presidenziale «una tutela inferiore» rispetto a quella accordata ai parlamentari dall’art. 68, comma 3, Cost. e ai membri del Governo dall’art. 10 legge cost. n. 1 del 1989, circostanza che susciterebbe rilievi, non infondati, in punto di ragionevolezza.

Ma ad ammettere che per impedire una simile «paradossale conseguenza» si possa ricorrere ad un’ardita interpretazione sistematica, ci si sarebbe allora dovuti orientare nel senso di estendere al caso di specie il meccanismo autorizzativo previsto per le captazioni rivolte alle conversazioni dei membri del Governo. È un passo che la decisione non si arrischia a compiere, affidando l’individuazione dell’organo competente a rilasciare tale autorizzazione ad «una norma di rango costituzionale, non surrogabile da alcun tipo di fonte né, tanto meno, da una pronuncia» del Giudice delle Leggi. L’atteggiamento di self-restraint potrebbe essere apprezzabile, se non preludesse – come sappiamo – a una conclusione ancora più radicale, ovvero l’assoluta impenetrabilità della sfera di comunicazione presidenziale, ritenuta «soluzione costituzionalmente obbligata», pur nel silenzio della Carta fondamentale.

 

 

3. Due le conseguenze che la Corte ricava da tali premesse ricostruttive: il divieto di disporre intercettazioni a carico delle utenze telefoniche in uso al presidente della Repubblica ogniqualvolta si proceda per reati diversi da quelli previsti dall’art. 90 Cost., in quanto coinvolgerebbero, «in modo inevitabile e indistinto», anche le conversazioni «necessarie per lo svolgimento delle sue funzioni istituzionali»; l’esigenza, ove i colloqui intrattenuti dal capo dello Stato siano rimasti accidentalmente “impigliati” negli ascolti, «di non aggravare il vulnus alla sfera di riservatezza» presidenziale e di adottare «tutte le misure necessarie e utili per impedire la diffusione del [loro] contenuto». Misure individuate dalla pronuncia nell’obbligo per la procura della Repubblica di «chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271 comma 3» cpp, da realizzarsi «senza sottoposizione … al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate».

Gli esiti cui la Corte è approdata sul versante “processuale” sembrano ancor meno persuasivi di quelli, pure opinabili, raggiunti nel ricostruire la trama costituzionale delle prerogative presidenziali. Pare rispondere, anzitutto, a una forzatura interpretativa il riferimento della pronuncia all’art. 271, comma 3, cpp, il quale presuppone, prima ancora, che gli ascolti occasionali delle conversazioni del capo dello Stato rientrino nell’«ampia previsione» delle intercettazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge» ex comma 1[13]. In quest’ultima categoria potrebbero al più collocarsi le captazioni intenzionalmente rivolte alle utenze presidenziali, in quanto – stando alle premesse esegetiche poste dalla Corte – violerebbero una di quelle «fattispecie preclusive (…) ricavabili anche e in primo luogo dalla Costituzione»; mentre non vi rientrano le captazioni legittimamente eseguite a carico dell’utenza telefonica di un soggetto terzo, neppure se questi abbia interloquito con il Presidente: a qualificarle come captazioni contra legem non può bastare il timore che la conoscenza dei loro contenuti possa compromettere la sfera di riservatezza che dovrebbe circondare le attività presidenziali; d’altra parte, ove si trattasse di intercettazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», resterebbe da spiegare perché la Corte costituzionale abbia respinto la richiesta del ricorrente di «dichiarare che non spettava agli inquirenti interrompere la registrazione delle conversazioni».

Quanto al procedimento per la distruzione, per un verso la Corte non tiene conto del dato normativo, per l’altro presta scarsa attenzione ai profili sistematici. Per tutte le captazioni disposte dall’autorità giudiziaria – con la sola espressa eccezione delle ipotesi di cui all’art. 270-bis cpp – l’art. 268 cpp contempla una precisa sequenza, che comprende il deposito delle stesse presso la segreteria del pm, la facoltà per le parti private di prenderne cognizione, il diritto dei difensori di partecipare allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione. Il codice di rito li intende come passaggi indefettibili; la Corte li ammette per le sole intercettazioni «inutilizzabili per vizi di ordine procedurale», mentre li esclude per quelle «non utilizzabili per ragioni sostanziali», che postulano «una protezione “assoluta” del colloquio per la qualità degli interlocutori o per la pertinenza del suo oggetto»; difficile non ravvisare in questo inedito «doppio binario»[14] una distinzione arbitraria, che, obbedendo a pragmatiche ragioni di opportunità[15], tradisce la «logica di sistema» che lega l’art. 271 cpp alle disposizioni limitrofe[16].

L’estromissione delle parti private dalla fase di distruzione delle registrazioni completa il disegno, tenacemente perseguito dalla Corte, di impedire che la privacy presidenziale risulti «irrimediabilmente vanificata»; l’esclusione della «ordinaria procedura camerale, nel contraddittorio fra le parti», viene giustificata facendo appello al mancato rinvio nell’art. 271, comma 3, cpp all’art. 127 cpp, che invece figura richiamato nel contiguo art. 269 cpp. In realtà, l’argomento è piuttosto debole: da un lato, quell’omissione non ha impedito in passato alla Suprema corte di affermare che «ove la questione sorga davanti al gip e sia costui competente ad ordinare la distruzione (avendo dichiarato l’inutilizzabilità) la procedura … non può che essere quella camerale ex art. 127 cpp», perché l’unica in grado di «garantire il più ampio contraddittorio fra le parti e dal quale non si può prescindere stante la particolare rilevanza ed importanza della decisione che il giudice deve assumere»[17]. Dall’altro, la stessa Corte costituzionale è costretta ad ammettere che l’art. 271, comma 3, cpp «non impone la fissazione di una udienza camerale “partecipata”», ma «neppure la esclude». L’ambiguità legislativa si sarebbe, allora, dovuta sciogliere avendo come “stella polare” non la «protezione assoluta» della privacy presidenziale, ma la sintonia con i principi costituzionali; la lettura che ne ha offerto la Consulta, invece, ne disattende vistosamente più di uno[18].

Schivando l’«errore prospettico»[19] in cui pareva incorso il ricorrente, la Corte chiarisce che la distruzione dei supporti fonici deve avvenire «sotto il controllo del giudice», inteso come «garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al capo dello Stato», e non può essere affidata alle unilaterali valutazioni del pubblico ministero. La supervisione dell’organo giurisdizionale non vale, però, a colmare la profonda distanza fra la distruzione inaudita altera parte e il nostro assetto costituzionale, inequivocamente improntato al principio processuale del contraddittorio (art. 111, commi 2 e 4, Cost.). Sorprende che quel canone fondamentale, oggi solidamente radicato nel dettato costituzionale, sia stato derubricato dalla Corte ad «astratta simmetria processuale» e, come tale, ritenuto valore cedevole rispetto ad esigenze di riservatezza della sfera di comunicazione presidenziale, peraltro «induttivamente immesse nella Costituzione a colpi di interpretazione sistematica»[20]. Stupisce che il coinvolgimento dialettico delle parti venga contrapposto ai «principi tutelati dalla Costituzione», anziché essere ricompreso fra essi; premessa che consente alla Corte di sottrarsi all’onere di un bilanciamento fra valori equiordinati, infliggendo un «drastico e incondizionato sacrificio»[21] alla dialettica processuale e assicurando al pubblico ministero, con buona pace del principio di parità fra le parti, l’accesso “in esclusiva” alle informazioni ricavabili dalle captazioni destinate alla distruzione; vantaggio non certo di poco conto, rispetto a una difesa che non è «destinataria di alcuna comunicazione relativa all’esistenza della registrazione e alla generalità dei colloquianti»[22]. A questo pare aggiungersi, forse per un infortunio sintattico, la possibilità per il pm di governare con una certa discrezionalità i tempi della richiesta di soppressione delle intercettazioni. A rigore, là dove la Corte costituzionale afferma che «non spettava alla stessa procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni», si limita a prescrivere all’organo giurisdizionale di provvedere a quell’adempimento con la massima rapidità, non appena sia stato investito della richiesta[23]. Il pm potrebbe quindi sollecitare la distruzione non appena prenda atto di aver intercettato una comunicazione presidenziale oppure optare per una richiesta “cumulativa” riferita a tutte le conversazioni del capo dello Stato registrate nel periodo di ascolto dell’utenza del suo interlocutore; ma viene da chiedersi se l’assenza di indicazioni temporali vincolanti non gli permetta anche di differire quella richiesta oltre tale scadenza senza esporsi a responsabilità disciplinari: non perché speri di fondare propri provvedimenti sul loro contenuto, trattandosi di intercettazioni ricostruite dalla decisione come «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge» e dunque inutilizzabili, ma perché reputi utile non privarsi della disponibilità di quel materiale fonico, i cui contenuti potrebbero fornirgli ulteriori spunti investigativi ove posti in opportuno collegamento con nuovi elementi di indagine nel frattempo acquisiti.

 

 

4. Se si fosse limitata alle affermazioni appena ripercorse, la pronuncia n. 1 del 2013 ci avrebbe consegnato una disciplina degli ascolti presidenziali “soltanto” di dubbia ortodossia costituzionale, perché in conflitto con i valori del contraddittorio, della parità fra le parti, del diritto di difesa; la clausola finale, oltre a rivelare il “disagio culturale” avvertito dalla Corte nel destinare alla distruzione quelle captazioni fortuite, ne fa anche una disciplina troppo sibillina per poter guidare con mano ferma l’operatore chiamato ad applicarla.

Ove si prospetti l’esigenza «di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi», l’autorità giudiziaria viene legittimata in extremis ad adottare le «iniziative consentite dall’ordinamento». Iniziative che, tuttavia, è compito dell’interprete individuare, impiegando anzitutto gli “indizi” forniti dall’incipit del controverso passaggio finale: da un lato, le stesse non si possono tradurre nel ripristinare la procedura camerale “partecipata”, la cui «esclusione» – tiene a precisare la sentenza – resta ferma «in ogni caso». Dall’altro, nel provvedere, nella fattispecie sottoposta alla sua attenzione, alle valutazioni affidate de futuro all’autorità giudiziaria, la Corte dichiara «la assoluta inutilizzabilità delle captazioni che hanno coinvolto il Presidente nel procedimento da cui ha tratto origine il conflitto»; al di là della difficoltà di decifrare la specifica portata del rafforzativo «assoluta», l’affermazione lascia intendere che sottrarre le intercettazioni alla distruzione e ammetterne l’utilizzabilità probatoria – esito invero non proprio coerente con la premessa che siano state «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge» – rientri fra le «iniziative consentite» quando si debba assicurare la «tutela della vita e della libertà personale e (la) salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.)»; un elenco che è preferibile intendere come tassativo, anche sulla base del riferimento alle «estreme ipotesi», per evitare che l’ambito di applicazione della deroga possa estendersi in modo incontrollato[24].

Stando alle scelte semantiche della pronuncia («evitare il sacrificio di interessi», «tutela», «salvaguardia»), le «iniziative consentite» sembrerebbero dover essere rivolte a prevenire la lesione degli interessi menzionati. Abbinando l’“utilizzabilità” processuale alle finalità preventive, l’esempio più immediato riguarda l’eventualità in cui dagli ascolti emergessero elementi in grado di evitare – oppure di sottoporre a revisione – una condanna a pena detentiva a carico dell’interlocutore presidenziale; meno scontato, almeno adottando una lettura ancorata al dato testuale, che si possa evitare la soppressione delle captazioni contenenti elementi di segno favorevole all’indagato là dove, anche nell’eventualità di una condanna, non si profilino conseguenze restrittive sullo status libertatis. In ogni caso, malgrado l’ottimismo di qualche interprete[25], sembra poco probabile che quella «tutela … della libertà personale» possa essere assicurata in modo soddisfacente dall’organo giurisdizionale, fisiologicamente sprovvisto di elementi conoscitivi che potrebbero invece risultare decisivi per soppesare l’attitudine delle intercettazioni ad impedire quel vulnus

La vocazione “preventiva” che trapela dalle espressioni della Corte induce a ritenere che fra quelle non meglio precisate «iniziative» debba essere incluso altresì il dovere per i magistrati che si imbattano nella progettazione di azioni delittuose contro uno degli evocati interessi fondamentali di attivarsi per sventarne la consumazione. Si spiegherebbe così – invece di doverlo ritenere una svista[26] – il riferimento della sentenza all’«autorità giudiziaria», locuzione idonea a ricomprendere anche il pubblico ministero, il quale, «per i suoi rapporti con la polizia, è il più adatto a prendere con prontezza le iniziative necessarie»[27] per impedire che tali reati si realizzino. Da quello stesso richiamo sembrano scaturire, peraltro, ulteriori implicazioni: proprio in quanto anch’egli «autorità giudiziaria», viene da chiedersi se il pm possa sottrarsi ex ante all’obbligo di investire il giudice della richiesta di distruzione, rivendicando la propria legittimazione ad affermare l’esigenza di tutelare uno degli evocati «principi costituzionali supremi» ostativa alla soppressione delle captazioni[28]; per esempio, potrebbe l’organo d’accusa non sollecitare la soppressione dei colloqui dai quali emergano elementi in grado di attenuare una gravità indiziaria che lo avrebbe altrimenti indotto a chiedere l’applicazione di una misura custodiale a carico dell’interlocutore presidenziale? Oppure, là dove ne chiedesse l’applicazione, potrebbe fare comunque salve quelle conversazioni per trasmetterle al gip come «elementi a favore dell’imputato» ai sensi dell’art. 291 cpp, facendosi carico dell’eventualità che possano indurlo a non disporre la misura restrittiva?

Ci si potrebbe domandare, peraltro, se fra gli «interessi riferibili a principi costituzionali supremi» per «evitare il sacrificio» dei quali si può prescindere dalla distruzione delle registrazioni trovi spazio anche l’interesse all’accertamento e alla repressione di illeciti che si siano già consumati a carico «della vita e della libertà personale» e «dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica»: ove così fosse, quando i contenuti delle conversazioni telefoniche intrattenute dal Presidente fornissero elementi utili all’accertamento dei fatti di reato e delle relative responsabilità penali, le stesse potrebbero sfuggire alla soppressione per essere utilizzate in chiave probatoria; per esempio – si fa osservare – qualora le captazioni dimostrassero il coinvolgimento del capo dello Stato nei reati di cui all’art. 90 Cost., «i magistrati dovrebbero presentare una denuncia al presidente della Camera dei deputati; e non sarebbe eretico pensare che le prove raccolte potessero poi essere usate nel processo innanzi alla Corte costituzionale»[29].

Piuttosto incerta appare la sorte delle captazioni presidenziali dalle quali affiori soltanto una notitia criminis relativa ad un reato lesivo di uno dei beni richiamati dalla decisione. Autorevoli interpreti[30] le ritengono sottratte alla distruzione, probabilmente nel presupposto che, una volta private inaudita altera parte del loro supporto documentale, le successive determinazioni dell’autorità giudiziaria si troverebbero più facilmente esposte a sospetti; tuttavia, valorizzando ancora il richiamo della Consulta alle «estreme ipotesi», si potrebbe obiettare che a conservare traccia della notizia di reato possa essere sufficiente il verbale delle operazioni di distruzione[31]. Con maggiore sicurezza, invece, si può affermare che sfuggano alla distruzione le captazioni qualificabili come corpo del reato, perché, ad esempio, abbiano registrato espressioni dal contenuto estorsivo; in questo caso peraltro la conclusione non discende dalla clausola di salvezza formulata della Corte, bensì direttamente da quella enunciata nella parte conclusiva dell’art. 271, comma 3, cpp.

La circostanza che la decisione abbia ricavato la tutela “postuma” della riservatezza presidenziale dalla natura delle attribuzioni del capo dello Stato ha indotto la dottrina, condivisibilmente, a chiedersi se analoga protezione spetti, per motivi di ragionevolezza, anche ai titolari di altri organi costituzionali, ove dotati, come il presidente del Consiglio e i Ministri, di «competenze operativamente più importanti di quelle del presidente della Repubblica» e non meno delicate sul piano «dell’importanza politica, giudiziaria, economica e finanziaria»[32]. Di certo, secondo la pronuncia, l’esigenza di impedire l’accesso delle parti private al contenuto dei colloqui, nel timore che ne divulghino i contenuti, accomuna tutte le ipotesi di inutilizzabilità riconducibili a «ragioni di ordine sostanziale», quali la protezione di «valori e diritti di rilievo costituzionale che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle comunicazioni», individuati dalla Corte, fra gli altri, nella libertà di religione, nel diritto di difesa, nella riservatezza di dati sensibili. Pertanto, allorché vengano captate fortuitamente le conversazioni dei soggetti elencati dall’art. 200, comma 1, cpp aventi ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio, professione, la distruzione, fondata sul combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 271 cpp, dovrebbe avvenire inaudita altera parte, poiché l’instaurarsi dell’ordinaria procedura camerale risulterebbe anche in questo caso «antitetica rispetto alla ratio della tutela», consentendo, esemplifica la Corte, che la confessione resa ad un ministro del culto sia resa nota ai terzi, o peggio diffusa mediaticamente, oppure che il colloquio riservato fra l’imputato e il suo difensore sia portato a conoscenza della parte civile.

È probabile che le prime occasioni di applicazione della discutibile procedura di distruzione riguarderanno una di queste fattispecie, “periferiche” nell’impianto della pronuncia, ma ben più comuni rispetto all’eventualità di una nuova captazione fortuita dei colloqui presidenziali. Non è implausibile, quindi, che proprio in questo contesto la Corte possa essere investita, dai giudici richiesti di procedere alla distruzione, di una eccezione «di incostituzionalità per deliberazione costituzionale»[33] a carico dell’art. 271, comma 3, cpp così come interpretato dalla pronuncia n. 1 del 2013, per contrasto con le prescrizioni di rango sovraordinato che tutelano il diritto di difesa, il principio del contraddittorio, la parità fra le parti del processo.

 

 

5. Al momento, le chance di vedere regolamentate in sede legislativa le captazioni presidenziali sembrano affidate al disegno di legge S. 863, che si propone, più in generale, di assicurare la «tutela delle comunicazioni e della libertà di movimento dei titolari di guarentigie costituzionali»[34]. Sebbene non menzioni espressamente la decisione n. 1 del 2013, manifestando l’intento di «evitare l’operatività della clausola ubi lex non dixit noluit» la relazione di accompagnamento sembra voler porre rimedio a una delle principali obiezioni rivolte dalla dottrina al dictum della Corte, ovvero l’assenza di qualsiasi ancoraggio normativo rispetto all’affermata inconoscibilità delle captazioni che coinvolgano il capo dello Stato. È poco probabile, tuttavia, che l’auspicato fondamento normativo possa esserle fornito dall’art. 2 del progetto di legge, là dove vieta l’intercettazione di comunicazioni e conversazioni «nei confronti del presidente della Repubblica … al di fuori della procedura di cui all’art. 7, comma 3, della legge 5 giugno 1989, n. 219»[35], che – come noto – attiene a colui che, accusato dei reati ex art. 90 Cost., sia stato sospeso dalla carica ad opera della Corte costituzionale. Integrando una deroga al principio di eguaglianza davanti alla giurisdizione penale, infatti, la scelta di impedire la captazione delle conversazioni presidenziali dovrebbe essere affidata a una norma di rango sovraordinato, e non – come avviene in questo caso – a una previsione di legge ordinaria; dunque, se anche la novella venisse approvata, la “copertura costituzionale” alla deroga de qua continuerebbe con ogni probabilità a essere rinvenuta nella ricognizione “di sistema” compiuta dalla decisione n. 1 del 2013. Peraltro, un legislatore che, doverosamente, si muovesse sul piano costituzionale, recupererebbe anche “autonomia” rispetto alle prescrizioni ricavate dalla Consulta attraverso l’interpretazione sistematica di cui si è detto; potrebbe quindi valutare l’opportunità di adottare soluzioni alternative maggiormente rispettose dei principi di necessità e di rigorosa proporzionalità che devono governare le prerogative introdotte a favore degli organi istituzionali; soluzioni come quella – suggerita dalla dottrina – di consentire l’intercettazione dei colloqui presidenziali previa autorizzazione della Corte costituzionale[36].

Quanto all’eventualità che questi ultimi vengano accidentalmente registrati, mentre il Giudice delle Leggi, nel presupposto che il divieto preventivo di intercettare il Presidente non fosse applicabile proprio per l’imprevedibilità della captazione, ne trasferiva la funzione di tutela «dalla fase anteriore all’intercettazione … a quella posteriore», declinandola come obbligo di distruzione dei risultati discutibilmente ricondotto all’art. 271 cpp, il ddl S. 863 opta per una tutela anticipata, in grado di impedire che tale ascolto accidentale possa realizzarsi. Ove il titolare del munus istituzionale abbia comunicato al gestore telefonico «l’attuale, esclusiva e personale disponibilità dell’utenza» a lui intestata, lo stesso dovrebbe negare l’accesso agli inquirenti ai sensi dell’art. 51 cp, qualora la stessa venga in contatto con altra utenza sottoposta a controllo; la captazione accidentale delle conversazioni presidenziali resterebbe invece possibile sulle utenze in uso al Presidente rispetto alle quali lo stesso non abbia effettuato tale comunicazione; nondimeno, ai sensi dell’art. 3 comma 6 ddl S. 863, all’interessato è consentito «dimostrare la non casualità dell’avvenuto accesso da parte dell’operatore di cui all’art. 268» cpp, al fine di far dichiarare l’inutilizzabilità dei risultati indebitamente conseguiti.

Non sfugge l’accentuata sensibilità verso le ragioni di protezione della sfera di comunicazione presidenziale sottesa all’inedita regolamentazione che si vorrebbe apprestare, e che si spinge fino ad accettare di fare a meno di risultati che potrebbero rivestire utilità probatoria nei procedimenti concernenti quei terzi sottoposti ad ascolto con i quali il titolare del munus publicum dovesse interloquire. Più che farsi carico delle ripercussioni processuali delle scelte prefigurate, la Relazione di accompagnamento sembra soprattutto preoccupata di impedire “aggiramenti” rispetto alle garanzie presidenziali mediante intercettazioni solo in apparenza fortuite, in realtà intenzionalmente rivolte alle sue conversazioni, e di evitare quel delicatissimo «test di casualità» che ha determinato il «contenzioso più difficoltoso che abbiano mai fronteggiato le Giunte di Camera e Senato in prima battuta, e la stessa Corte costituzionale adita in via di ricorso». Le non trascurabili controindicazioni della predetta rinuncia andrebbero, forse, più attentamente ponderate; di certo, comunque, andrebbe rivisto l’art. 3, comma 5, del progetto di legge, che, malgrado l’attitudine intrusiva visibilmente differente, prevede la possibilità di sottrarre alla conoscenza degli inquirenti anche i «dati esterni relativi al caso in cui il soggetto … venga in contatto con l’utenza per la quale è stato autorizzato il tracciamento delle comunicazioni telefoniche e telematiche».

In ogni caso, il legislatore che davvero ritenesse congruo – a tutela delle funzioni assolte dal Presidente – impedire anche la captazione accidentale delle sue conversazioni, non dovrebbe subordinare, come invece fa il progetto di legge, l’operare della guarentigia alle determinazioni dell’interessato, in particolare al fatto che abbia ritenuto di comunicare al gestore l’esclusiva disponibilità dell’utenza in questione. Secondo la Relazione di accompagnamento, l’intento sarebbe quello di evitare che della garanzia beneficino indebitamente i comuni cittadini che utilizzano utenze intestate ai titolari di cariche istituzionali; ma, anche se così fosse, la previsione dell’art. 3, comma 2, ddl S. 863 andrebbe probabilmente riformulata: la locuzione impiegata – «possono comunicare al gestore» – pare consentire al riguardo scelte discrezionali; opzione che risulta poco ragionevole, considerando che la ratio della garanzia è quella di tutelare le funzioni presidenziali, e non di per sé la riservatezza del soggetto che le eserciti; a voler restare nell’ottica del ddl in questione, sarebbe preferibile, allora, rendere obbligatoria la comunicazione al gestore delle utenze di cui il capo dello Stato sia fruitore esclusivo, come tali destinate ad essere sottratte a qualsiasi ascolto, anche fortuito; oppure – soluzione forse ancor più persuasiva – delle utenze di cui sia unico fruitore e che impieghi all’esclusivo fine di esercitare le funzioni presidenziali.

La sensazione è che la disciplina dei colloqui presidenziali sia ancora “a metà del guado”: l’iniziativa parlamentare di cui si è detto pare indice della consapevolezza di dover superare la controversa ricostruzione offerta in materia dalla Corte costituzionale; tuttavia, sul piano delle scelte politiche e delle soluzioni tecniche apprestate, l’obiettivo auspicabile di un soddisfacente assetto legislativo sembrerebbe richiedere un supplemento di riflessione.

[1] Sulla base dei commi 2 e 3 dell’art. 7 legge n. 219 del 1989 tali captazioni possono essere disposte dal Comitato formato dai membri delle Giunte parlamentari competenti per le autorizzazioni, previa sospensione dell’interessato dalla carica, ad opera della Corte costituzionale.

[2] L. Carlassare, La riservatezza del Presidente fra ragioni del caso e salvaguardia dei principi, in Giur. cost., 2013, 59.

[3] www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2013&numero=1

[4] L’espressione è di S. Meloni, La distruzione delle intercettazioni del P.d.R. nell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 271, in Dir. pen. proc., 2014, 175.

[5] E. Marzaduri, La ricostruzione del ruolo del Capo dello Stato nel sistema costituzionale italiano e la garanzia della riservatezza assoluta delle comunicazioni presidenziali, in Leg. pen., 2013, 960; per alcune osservazioni sul “rango” della relativa disciplina v. infra § 5.

[6] Ancora E. Marzaduri, La ricostruzione del ruolo del Capo dello Stato, cit., 962.

[7] Secondo M. Mengozzi, Intercettazioni casuali del Capo dello Stato, in Proc. pen. e giust., 2014, n. 4, 139, tale decisione, «intimamente contraddittoria», lascia «aperti diversi interrogativi, sia sul piano pratico-processuale, sia su quello più teorico, relativo al corretto rapporto tra posizioni giuridiche tutte dotate di rango costituzionale».

[8] F. Sorrentino, La distruzione delle intercettazioni del Presidente della Repubblica tra giusto processo e principio di eguaglianza, in Giur. cost., 2013, 55.

[9] Perplesso rispetto all’idea di una riservatezza assoluta per gli atti informali del Capo dello Stato, «che rischia di essere configurato come una specie di “grande tutore occulto della Costituzione”», M. Olivetti, Quella sentenza fa storia (ma rafforza qualche dubbio), in Avvenire, 27 gennaio 2013, 2. Dubita, prima ancora, che le attività presidenziali di moderazione e di stimolo debbano svolgersi, anziché attraverso atti tipici, «nell’ambito di un’informalità di cui è, invero, difficile scorgere il fondamento» F. Sorrentino, La distruzione delle intercettazioni, cit., 55 s.

[10] Dunque, un fondamento che, ove anche sia implicito, risulti «congruo, cioè effettivamente preciso e quindi frutto di un procedimento interpretativo con il più basso tasso di opinabilità» (A. Anzon Demming, Prerogative costituzionali implicite e principio della pari sottoposizione alla giurisdizione, in Giur. cost., 2013, 73).

[11] Corte cost., 19 ottobre 2009, n. 262, in Giur. cost., 2009, 3645 ss.

[12] P. Ferrua, La sentenza sulle intercettazioni “casuali” del Presidente Napolitano. I non sequitur della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2013, 1292.

[13] Secondo F. Modugno, Tanto rumore per nulla (o per poco)?, in Giur. cost., 2013, 1279, la Corte avrebbe dovuto invece sospendere il giudizio di attribuzione per sollevare davanti a sé una questione di costituzionalità relativa agli artt. 268, 269 e 271 cpp, «riscrivendo le disposizioni codicistiche in modo tale che, ogni volta che intercettate (anche casualmente) fossero le conversazioni del capo dello Stato non aventi rilevanza penale, la documentazione ad essa relativa venisse distrutta nel più breve tempo possibile». L’esito del conflitto non sarebbe cambiato, ma ne sarebbe «uscito rafforzato il principio di legalità», osserva A. Camon, La decisione del conflitto fra il capo dello Stato e la Procura di Palermo: qualche incertezza sul piano tecnico, grande equilibrio su quello politico-istituzionale, in Leg. pen., 2013, 940.

[14] A. Zappulla, Segreti versus contraddittorio in materia di intercettazioni, in Cass. pen., 2014, 4327.

[15] Condivisibilmente critici al riguardo I. Abrusci, Il destino processuale dei dialoghi con il presidente della Repubblica, in Aa. Vv., “Incontri ravvicinati” con la prova penale, a cura di L. Marafioti-G. Paolozzi, Torino, 2014, 23; R. Orlandi, Distruggete quelle registrazioni, in Cass. pen., 2013, 1356.

[16] S. Meloni, La distruzione delle intercettazioni, cit., 174.

[17] Cass., 26 maggio 2009, Pulcini ed a., in C.e.d. Cass., n. 244153.

[18] Sulla incostituzionalità di quel «fantasma normativo», cfr. F. Cordero, Un Presidente ancien régime, in Repubblica, 18 gennaio 2013, 31.

[19] D. Vicoli, Immunità del Presidente della Repubblica e intercettazioni “casuali”: silenzi normativi e previsioni espresse, in www.forumcostituzionale.it.

[20] P. Ferrua, La sentenza sulle intercettazioni “casuali”, cit., 1297. Ben altra considerazione quel principio ha ricevuto nella sentenza costituzionale n. 173 del 2009, chiamata a pronunciarsi sulla procedura di distruzione degli «atti relativi ad intercettazioni illegali»; intendendo il contraddittorio come «garanzia insostituibile nell’ordinamento processuale di uno Stato di diritto», la Corte riteneva insoddisfacente ad assicurarne la compiuta realizzazione il modello processuale di cui all’art. 127 cpp, al quale veniva preferita la più «rigorosa prescrizione» contenuta nell’art. 401, commi 1 e 2, cpp. Di tale precedente “ingombrante”, efficacemente evocato dalla Procura resistente, la decisione n. 1 del 2013 si è liberata in poche battute, limitandosi a constatare l’inapplicabilità a quella diversa materia dell’art. 271, comma 3, cpp.

[21] Così R. Orlandi, Distruggete quelle registrazioni, cit., 1356, per il quale si tratta, peraltro, di un «sacrificio non necessario»: per garantire la facoltà delle parti di intervenire con propri argomenti e rilievi sulla scelta della distruzione e al contempo fare salva l’esigenza di impedire la divulgazione del colloquio registrato «sarebbe sufficiente che il giudice secretasse il materiale riservato, vietandone la pubblicazione a norma dell’art. 114, comma 5, cpp». Dello stesso avviso, E. Marzaduri, La ricostruzione del ruolo del capo dello Stato, cit., 961.

[22] A. Zappulla, Segreti versus contraddittorio, cit., 4330.

[23] Più vincolante per il pm, semmai, l’iniziale affermazione relativa all’«obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica»; affermazione che, tuttavia, avrebbe consentito di per sé anche una distruzione affidata unilateralmente all’accusa, opportunamente esclusa invece dalla Corte nei passaggi successivi.

[24] Opzione che, sebbene preferibile, induce inevitabilmente a interrogarsi sulla ragionevolezza dell’esclusione di «beni come la salute o la difesa in giudizio, che sono definiti fondamentali o supremi dalla stessa Costituzione o già dalla più risalente giurisprudenza» (M. Luciani, La gabbia del presidente, in Giur. cost., 2013, 513). Sulla portata della nozione, esplicitamente richiamata, di libertà personale, v. i dubbi espressi da A. Anzon Demming, Prerogative costituzionali implicite, cit., 72.

[25] G.M. Baccari, Conflitto capo dello Stato-procura di Palermo: la Consulta delinea il potere di filtro del pm, in Dir. pen. proc., 2013, 674 ss.

[26] F. Paiola, La «riservatezza assoluta» delle comunicazioni del capo dello Stato, in Dir. pen. proc., 2013, 689.

[27] A. Camon, La decisione del conflitto, cit., 940.

[28] Sul punto v. anche M. Deganello, Presidenza della Repubblica ed intercettazioni fortuitamente apprese: una decisione non sufficientemente meditata dalla Corte costituzionale, in Dir. pen. cont., 25 febbraio 2014. 

[29] Ancora A. Camon, La decisione del conflitto, cit., 941. Di diverso avviso, L. Filippi, L’immunità assoluta del Presidente della Repubblica dalle intercettazioni, in Leg. pen., 2013, 944 s.

[30] A. Pace, Intercettazioni telefoniche fortuite e menomazione delle attribuzioni presidenziali, in Giur. it., 2013, 1267.

[31] Cfr. P. Ferrua, La sentenza sulle intercettazioni “casuali”, cit., 1300, nota 22.

[32] A. Pace, Intercettazioni telefoniche, cit., 1267.

[33] A. Zappulla, Segreti versus contraddittorio, cit., 4340.

[34] Presentato in data 20 giugno 2013, ad iniziativa dei senatori Buemi, Longo, Nencini.

[35] Più corretto probabilmente richiamare la procedura di cui al combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 7 l. n. 219 del 1989.

[36] Preferibile tale soluzione secondo P. Ferrua, La sentenza sulle intercettazioni “casuali”, cit., 1288, nota 5, nel presupposto che l’immunità assoluta dalle captazioni sia una scelta «alquanto dissonante rispetto al disegno complessivo della nostra Costituzione e, in particolare, ai principi di uguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale».