Magistratura democratica

Introduzione

di Francesco Buffa

1. Sono raccolti in questa sezione saggi di giuristi autorevoli a commento della sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale, pronuncia che – affacciandosi, come detto da uno di questi autori «sul baratro della coscienza europea del Novecento» – ha esaminato la questione delicatissima delle responsabilità per i crimini nazisti e della esclusione dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione di Paesi stranieri per gli atti lesivi dei diritti fondamentali della persona.

La questione era emersa qualche anno prima, dopo il risveglio investigativo e giudiziario seguito alla scoperta del cd. “armadio della vergogna” nel 1994 (su cui Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti 2004, e Franzinelli, Le stragi nascoste, Mondadori 2003) e dopo le successive azioni risarcitorie proposte  anche in Italia da cittadini italiani e stranieri contro lo Stato tedesco, che avevano portato alla condanna della Germania quale responsabile civile dei reati ed all’attivazione di procedure esecutive su immobili tedeschi in Italia.

La Corte di cassazione aveva affermato in più occasioni il primato dei diritti fondamentali della persona e le sezioni unite, nella sentenza n. 5044 del 11/03/2004, statuivano che il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha assunto il valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale, riducendo la portata e l’ambito di altri principi ai quali tale ordinamento si è tradizionalmente ispirato, quale quello sulla “sovrana uguaglianza” degli Stati, cui si collega il riconoscimento della immunità statale dalla giurisdizione civile straniera; ne consegue che la norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta che impone agli Stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri, non ha carattere assoluto, nel senso che essa non accorda allo Stato straniero un’immunità totale dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, tale immunità non potendo essere invocata in presenza di comportamenti dello Stato straniero di tale gravità da configurare, in forza di norme consuetudinarie di diritto internazionale, crimini internazionali, in quanto lesivi, appunto, di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali; sussiste pertanto la giurisdizione italiana in relazione alla domanda risarcitoria promossa, nei confronti della Repubblica federale di Germania, dal cittadino italiano che lamenti di essere stato catturato a seguito dell’occupazione nazista in Italia durante la seconda guerra mondiale e deportato in Germania per essere utilizzato quale mano d’opera non volontaria al servizio di imprese tedesche, atteso che sia la deportazione che l’assoggettamento ai lavori forzati devono essere annoverati tra i crimini di guerra e, quindi, tra i crimini di diritto internazionale, essendosi formata al riguardo una norma di diritto consuetudinario di portata generale per tutti i componenti della comunità internazionale (nello stesso senso, Sezioni unite, ordinanza n. 14201 del 29/05/2008, est. Morelli, e sez. 1, sentenza n. 11163 del 20/05/2011).

Ne era nata però presto anche una questione internazionale che aveva portato, sul piano internazionale, ad una sentenza della Corte internazionale di Giustizia di condanna dell’Italia per violazione della regola internazionale dell’immunità statuale (sentenza CIG del 3 febbraio 2012, già commentata – tra i tanti – in questa Rivista, Franco Angeli, 2012, n. 3, 185, da Baiada, nel ricco ed appassionato saggio Il processo dell’Aja: Germania contro Italia, nonché da Senese, Giurisdizione e guerra, in L’evoluzione giurisprudenziale nelle decisioni della Corte di cassazione, Giuffré, 2013), e prima ancora, sul piano interno, all’adozione del decreto legge 28 aprile 2010 n. 63, convertito nella legge 23 giugno 2010 n. 98 (che aveva sospeso di diritto, anche con riferimento alle procedure in corso ed ai titoli già formati, l’efficacia dei titoli esecutivi nei confronti di uno Stato estero, qualora lo Stato estero o l’organizzazione internazionale avesse presentato un ricorso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, diretto all’accertamento della propria immunità dalla giurisdizione italiana, in relazione a controversie oggettivamente connesse a detti titoli esecutivi).

La situazione, si è ben detto, aveva del paradossale, atteso che oggetto della controversia davanti alla Corte internazionale non erano più i crimini nazifascisti, ma i giudici nazionali che pretendevano di dare soddisfazione alle vittime, tanto che si è parlato di una decisione che sembrava addirittura rappresentare una “rettifica” della sentenza di Norimberga.

La Cassazione si è subito adeguata e le sezioni unite (ordinanza n. 4284 del 21/02/2013) hanno affermato che non sussiste la giurisdizione italiana in relazione alla domanda risarcitoria promossa nei confronti della Repubblica federale di Germania con riguardo ad attività iure imperii lesive dei valori fondamentali della persona o integranti crimini contro l’umanità, commesse dal Reich tedesco fra il 1943 ed il 1945, dovendosi escludere che il principio dello jus cogens deroghi al principio dell’immunità giurisdizionale degli Stati. (Nella specie, le sezioni unite., in sede di regolamento di giurisdizione, hanno dato applicazione alla sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja del 3 febbraio 2012 – la cui immediata efficacia nei giudizi è stata riconosciuta anche dall’art. 3, comma 1, della legge n. 5 del 2013, sopravvenuta tra la decisione ed il deposito della sentenza – che aveva disatteso il pregresso orientamento delle medesime Sezioni unite).

La soluzione non aveva peraltro riferimenti giurisprudenziali contrari in ambito internazionale, e la stessa Corte europea dei diritti umani in più occasioni aveva ritenuto (pur, ma solo in alcuni casi, con numerose dissenting opinion) che il principio di immunità riconosciuto agli Stati in date materie è conforme alle limitazioni generalmente ammesse dal diritto internazionale, ha fondamento legale, persegue uno scopo legittimo e non eccede dal margine di apprezzamento lasciato agli Stati nel limitare l’accesso degli individui ai tribunali a tutela dei propri diritti (si richiamano in proposito le affermazioni del principio in tema di tortura in paesi esteri: Al Adsani c. Gran Bretagna, 21.11.01, con ampi richiami di giurisprudenza internazionale in tema di immunità, nonché Jones c. Gran Bretagna, 14.1.2014; o in ordine agli atti criminosi della polizia staniera su territorio estero: McElhinney, 21.11.2011; o in tema di lavoro forzato durante il governo di Vichy: Grosz c. Francia, 16.6.2009; o infine in tema di procedimenti esecutivi contro la Germania per danni relativi a massacro perpetrato dalle forze tedesche nel 1944: Kalogeropoulou +246 c. Grecia e Germania, 12.12.2002; o ancora nelle controversie di lavoro di impugnativa dei licenziamenti degli agenti delle ambasciate: Fogarty v. Gran Bretagna, 21.11.01).

All’esito della pronuncia della Corte internazionale di giustizia, e poi della legge 14 gennaio 2013 n. 5 (recante Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle nazioni unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), sembrava che la questione fosse definitivamente chiusa, fino a quando un valoroso e coraggioso giudice toscano, con quattro distinte ordinanze del 21 gennaio 2014 (l’ultima delle quali è stata oggetto di distinto giudizio costituzionale, discusso all’udienza dell’11 febbraio 2015 e definito con ordinanza n. 30 del 3 marzo 2015, pres. Criscuolo, rel. Morelli), sollevava questione di legittimità costituzionale di alcune norme che gli avrebbero imposto di declinare la giurisdizione, come eccepito dalla convenuta, in relazione a tre giudizi instaurati contro la Repubblica federale di Germania (RFG) per ottenere la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni patiti nel corso della seconda guerra mondiale da tre cittadini italiani, catturati nel territorio italiano da forze militari tedesche e deportati in Germania per essere adibiti al lavoro forzato nei campi di concentramento (nella specie, di Mauthausen, Kahla-Thuringa, Zeitz (Buchenwald),  Hartmannsdorf Stammlager e Granschutz).

In particolare, il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale: 1) della «norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost.», della consuetudine internazionale accertata dalla Corte internazionale di giustizia (Cig) nella sentenza del 3 febbraio 2012, nella parte in cui nega la giurisdizione, nelle azioni risarcitorie per danni da crimini di guerra commessi, almeno in parte, nello Stato del giudice adito, iure imperii dal Terzo Reich; 2) dell’art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848 (Esecuzione dello statuto delle Nazioni unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945), nella parte in cui, recependo l’art. 94 dello Statuto dell’Onu, obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi alla pronuncia della Cig quando essa ha stabilito l’obbligo del giudice italiano di negare la propria giurisdizione nella cognizione della causa civile di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità, commessi iure imperii dal Terzo Reich, almeno in parte nel territorio italiano; 3) dell’art. 3 della legge 14 gennaio 2013 n. 5, su richiamata, nella parte in cui obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi alla pronuncia della Cig anche quando essa ha stabilito l’obbligo del giudice italiano di negare la propria giurisdizione nella cognizione della causa civile di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità, commessi iure imperii dal Terzo Reich nel territorio italiano, in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione.

Le richiamate norme sono state censurate in riferimento agli artt. 2 e 24 Cost., in quanto, impedendo l’accertamento giurisdizionale e l’eventuale condanna delle gravi violazioni dei diritti fondamentali subìte dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità, perpetrati sul territorio dello Stato italiano, investito dall’obbligo di tutela giurisdizionale, ma commessi da altro Stato, anche se nell’esercizio dei poteri sovrani (iure imperii), contrasterebbero con il principio di insopprimibile garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti, consacrato nell’art. 24 Cost., il quale è principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano ed in quanto tale costituisce limite all’ingresso sia delle norme internazionali generalmente riconosciute, ex art. 10, primo comma, Cost., che delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 238 del 22 ottobre 2014 (pres. ed est. Tesauro), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in toto dell’art. 3 della legge n. 5/2013 e l’illegittimità dell’art. 1 l. n. 848/1957 esclusivamente nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012 (che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona). La Corte ha invece dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale della norma «prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost.», della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati. In motivazione, peraltro si spiega come il dispositivo di rigetto derivi dal fatto che la norma contrastante con principi fondamentali e diritti inviolabili della persona è norma inidonea ad entrare nel nostro ordinamento (sicché la Corte espressamente esclude che «atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini, nell’ambito dell’ordinamento interno»).

Infine, con ordinanza n. 30 del 3 marzo 2015, la Corte costituzionale –superando le polemiche nate all’indomani della precedente sentenza n. 238 ed alcuni rumors sulle opinioni contrastanti dei giudici che l’avevano accompagnata- ha confermato l’impostazione del proprio precedente, dichiarando la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità sollevate, non solo in ragione del nuovo assetto dell’ordinamento risultante dalle precedente pronuncia (che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme, espungendole dall’ordinamento), ma anche in riferimento all’impossibilità per la parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati che confligge con i nostri principi fondamentali di entrare nell’ordinamento italiano.

2. Gli interventi che seguono esaminano la portata della pronuncia costituzionale e le questioni, non di rado complesse, che la materia solleva.

 

Di eccezionale interesse, per i ricchi ed imprescindibili riferimenti storico-giuridici e filosofici e per la tensione morale che vi scorre, il saggio di Senese, che prende le mosse dalla considerazione della «rivoluzione mondiale» nell’ordinamento internazionale verificatasi con la Carta delle nazioni unite, che ha determinato l’acquisizione, come ius cogens, di tre valori, tra loro intimamente connessi, costituiti dalla pace, dai diritti umani e dall’autodeterminazione dei popoli, che non consentono più allo Stato di comportarsi, come per il passato, senz’alcun altro limite che quelli derivanti dai patti che lo Stato stesso abbia sottoscritto, essendo invece obbligato a rispettare, tra l’altro, i diritti fondamentali della persona umana, sia questa un cittadino o uno straniero.

Il saggio puntualmente rileva come una categoria fondativa della modernità giuridica, la sovranità, entra in crisi, cedendo il passo alla «sovranità dei valori», come confermato dalle più recenti e mature elaborazioni della giurisprudenza della Corte di cassazione italiana che, nel contribuire all’emersione di una regola conformativa dell’immunità dello stato estero, ha consolidato l’orientamento secondo il quale il rispetto dei diritti inviolabili della persona ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il ruolo di principio fondamentale.

L’Autore evidenzia così che, nel contesto storico-giuridico che analiticamente si esamina nella sua prospettiva diacronica, la decisione del 3 febbraio 2012 della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, lungi dal costituire espressione di principi indiscutibili del diritto internazionale (quale il rispetto dell’immunità degli Stati stranieri), è in realtà una battuta d’arresto nel processo rivoluzionario mondiale descritto, e che solo per intervento della Corte costituzionale italiana è riemersa una regola conformativa dell’immunità, basata sull’affermazione della persona e dei suoi diritti fondamentali quale valore comune da parte di ciascun popolo e ciascun ordinamento.

 

Segue lo scritto limpido di Silvestri che, nel ricordare incisivamente come le vittime di gravissime lesioni di diritti fondamentali siano andate per anni «alla ricerca di un giudice», ripercorre le vicende normative e giudiziarie relative alle riparazioni dei danni derivati dalle atrocità naziste: l’Autore richiama le pronunce in materia della Cassazione (con la relativa affermazione che il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha assunto il valore di principio fondamentale del diritto internazionale), il dibattito interno alla Corte europea dei diritti dell’Uomo (ben espresso in un caso dalle dissenting opinion di otto giudici della Cedu su diciassette), fino alla  affermazione generale, ad opera della Corte internazionale di giustizia, del principio di immunità degli Stati dal sindacato giurisdizionale per i loro acta jure imperii (pur con l’opinione dissenziente di un giudice che vi ha contrapposto la nozione di delicta imperii, crimini internazionali in violazione dello ius cogens, in relazione ai quali non è possibile invocare l’immunità degli Stati).

In tal contesto, si ricorda come l’avvento della Costituzione democratica del 1948 – dopo la dittatura, gli orrori della guerra e la Resistenza al nazifascismo – abbia sostituito il fondamento di “valore” a quello di “autorità” ed abbia scardinato, di conseguenza la nozione tradizionale di “sovranità”. In tale contesto si inserisce la sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale, che – pur senza pervenire, come sarebbe stato più corretto secondo l’Autore, ad un dispositivo di accoglimento, applicabile come tale erga omnes – ha esteso il proprio sindacato di costituzionalità, comprendendo tra le norme che possono essere scrutinate dalla Corte costituzionale anche quelle non scritte, quali quelle poste in essere da consuetudini internazionali, al fine di eliminare tutte le “zone d’ombra” nelle quali si producono ed hanno efficacia norme giuridiche in grado di incidere sul livello primario del sistema normativo e sulla tutela dei diritti dallo stesso tutelati.

 

L’analisi di Lupo esamina la portata della sentenza n. 238, sottolineando come sia la prima sentenza che rende operanti ed applica i “controlimiti” nei confronti non di norme di ordinamenti esterni costituenti limiti per il diritto interno, ma di una sentenza di una Corte internazionale, vincolante per lo Stato italiano.

Si evidenzia come la pronuncia, nel toccare materia molto discussa in ambito internazionale – essendo la pratica degli Stati in uno “state of flux”, registrandosi casi sia di riconoscimento che di rigetto della immunità statuale – segna in modo radicale una smentita del processo di marginalizzazione della Corte costituzionale nella tutela dei diritti fondamentali che era derivato – a seguito dell’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della crescente applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – da un lato dall’affermazione delle Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo e, dall’altro lato, dal nuovo ruolo del giudice ordinario quale giudice europeo, direttamente chiamato a dare attuazione diretta, nell’applicazione diretta o anche solo nell’interpretazione orientata, ai principi internazionali di protezione della persona.

Attraverso la nuova via dell’inclusione nell’ambito del sindacato di costituzionalità delle norme consuetudinarie di diritto internazionale (recepite nell’ordinamento interno ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost.), anche se anteriori alla Costituzione, e, per altro verso, nell’ambito del tradizionale controllo di legittimità delle norme, attraverso l’affermazione della necessità della conformità ai principi fondamentali della nostra Costituzione sia delle norme degli altri ordinamenti (sopranazionali e internazionali), sia delle sentenze emesse dai giudici previsti dagli stessi ordinamenti, la nostra Corte – con sentenza pur non priva di alcune imperfezioni rilevate dall’Autore sul piano tecnico – afferma in modo netto il proprio ruolo di verifica che non sia superato il «limite del rispetto degli elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale, vale a dire dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili della persona».

 

Acutamente rileva Colacino come la Corte costituzionale abbia tentato una ricostruzione della portata applicativa della regola dell’immunità degli Stati su basi giuridiche e concettuali diverse da quelle fatte proprie in passato dalla Corte di cassazione: secondo quest’ultima, infatti, l’antinomia quale la regola dell’immunità (richiamata dall’art. 10) e del diritto alla tutela giurisdizionale (sancito all’art. 24 della Costituzione e annoverato tra i diritti inviolabili riconosciuti dall’art. 2) poteva trovare composizione sul piano «sistematico» delle fonti del diritto internazionale attraverso la “cedevolezza” della norma consuetudinaria che sancisce l’insindacabilità degli atti posti in essere da Stati stranieri allorché configurino una «estrinsecazione immediata e diretta» della loro sovranità (acta iure imperii) innanzi alla prevalente esigenza di garantire la tutela delle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità.

Tale soluzione si scontrava però con la eterogeneità delle norme messe a confronto, trattandosi di norme destinate a operare l’una sul piano sostanziale e l’altra su quello procedurale, come rilevato dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 3 febbraio 2012.  

La Consulta ha quindi proposto una soluzione diversa, basata su un piano tutto interno all’ordinamento costituzionale, attraverso un bilanciamento tra norme procedurali del medesimo rango.

L’Autore osserva come la scelta di ricorrere a tale tecnica non sia priva di conseguenze: il bilanciamento presuppone, infatti, che la soluzione individuata non sia valida in abstracto, in forza cioè dell’applicazione di criteri predeterminati, ma scaturisca dalla sensibilità del giudicante rispetto al concreto atteggiarsi della situazione in cui le norme in conflitto sono chiamate a operare, dovendo verificare in concreto se i comportamenti denunciati attengano all’esercizio tipico della potestà di governo (agli acta jure imperii) o se ad esso non possano essere ricondotti (e siano dunque dei crimina imperii), in quanto lesivi di diritti inviolabili della persona.

 

Lo scritto di Lamarque registra la nuova centralità che la Corte costituzionale viene ad assumere, dimostrando – soprattutto alle Corti di Strasburgo e Lussemburgo, con le quali essa intrattiene da tempo “relazioni pericolose” multileve l- di essere capace, all’occorrenza, di opporre resistenza all’ingresso nell’ordinamento italiano di orientamenti di giudici esterni.

Si rilevano, peraltro, vari profili di criticità della sentenza costituzionale, che al difficile problema di come bilanciare i diritti costituzionali delle vittime di atroci violenze con il rispetto del diritto internazionale consuetudinario offre una soluzione estremamente rigida, che pare postulare una lesione dei diritti e della dignità delle vittime italiane dei crimini di guerra per il solo fatto di non poter agire in giudizio contro la Germania per ottenere il risarcimento dei danni subiti, senza accennare così alla possibilità di considerare altri elementi, e in particolare quelle forme di compensazione collettiva già auspicate dalla stessa sentenza della Corte internazionale di giustizia che, pur senza passare attraverso la via giurisdizionale, comunque potrebbero in ipotesi raggiungere l’obiettivo ultimo di tutelare la dignità delle persone coinvolte.

Sul piano degli effetti della pronuncia, l’Autrice si interroga sugli effetti che la sentenza costituzionale produce nei confronti dei giudici italiani, chiedendosi se li vincola, obbligandoli davvero a compiere un illecito internazionale, oppure se li invita soltanto a compierlo, e propende per la seconda soluzione, sia in ragione della forma del terzo capo del dispositivo della sentenza, sia in ragione della mancata sottoposizione alla Corte (e della mancata estensione da parte di questa del giudizio) della questione di legittimità costituzionale della legge 23 marzo 1958, n. 411 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per il regolamento pacifico delle controversie, firmata a Strasburgo il 29 aprile 1957) – che contiene all’art. 39 una norma analoga a quella dell’art. 94 dello Statuto delle nazioni unite, con relativo obbligo dell’Italia di conformarsi al decreto della Corte internazionale di giustizia in ogni controversia nella quale è parte.

 

Tutta sul piano tecnico, nell’ottica del costituzionalista, l’analisi di Luciani, che evidenzia come gli interrogativi aperti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 238 siano più numerosi delle risposte che ha dato: si sottolinea così l’esigenza che l’affermazione dell’assenza di spazi vuoti del controllo di costituzionalità e del primato della Costituzione debba comunque essere assicurato con le tecniche, con gli strumenti e nei limiti che la stessa Costituzione ha fissato, con conseguente rilievo dell’anomalia dell’oggetto del controllo di costituzionalità (posto che un sindacato su norme consuetudinarie, o in genere su norme di fonti-fatto, non sembra ammesso nel nostro ordinamento) e, per altro verso, della sua estensione a norme consuetudinarie anteriori alla Costituzione (pur in presenza di norma costituzionale – l’art. 10 – che nel contempo si esclude dal controllo); si afferma per altro profilo che, se la norma internazionale è inidonea ad essere sindacata o, comunque, se essa non è mai entrata nel nostro ordinamento perché contrastante con i princìpi fondamentali, la relativa questione di costituzionalità avrebbe dovuto portare alla declaratoria di inammissibilità della questione.

Sul piano dei principi e con riferimento all’esordio dei controlimiti, poi, nel sottolineare come gli effetti dei controlimiti non sono sempre gli stessi in relazione alle norme internazionali cui si oppongono, si riscontra criticamente una certa eterogenesi dei fini nella pronuncia, in quanto la dottrina dei controlimiti, elaborata per difendere lo Stato in un contesto generale che lo vede esposto alle più varie forme di erosione della sua sovranità, finisce per diventare il grimaldello per un’ulteriore assoggettamento della sovranità statale a limiti.

L’Autore critica poi la genericità del richiamo operato dalla Corte al paradigma della dignità umana, in quanto privo di elementi capaci di specificarne adeguatamente il contenuto («essendo i più vari i Menschenbilde»), sottolineandosi nel contempo che il punto che occorreva dimostrare non era tanto il pregio dei diritti lesi dagli atti iure imperii dello Stato straniero, quanto l’assenza di pregio dell’interesse all’intangibilità di quegli atti davanti al giudice dell’altro Stato, interesse la cui caratura internazionale è indiscussa, ma che proprio per questo avrebbe dovuto essere vagliato nella sua eventuale dimensione costituzionale.

Infine, sul piano pratico, si sostiene l’incongruità del risultato della pronuncia costituzionale, che renderà più difficile per i giudici di merito sottrarsi a richieste di tutela di persone lese, con conseguente responsabilità internazionale del nostro Stato, e con l’ulteriore conseguenza che il vero pregiudizio patrimoniale si potrebbe determinare proprio in capo allo Stato che ha rivendicato la giurisdizione.

 

Meno critica la posizione di Girelli, secondo il quale, pur essendo configurabili altre soluzioni meno forti e pur essendovi a disposizione molte chiavi per aprire le porte dell’inammissibilità, la Corte costituzionale, pervenendo ad una sentenza interpretativa di rigetto, pur tenendo fede alle sue funzioni istituzionali, non ha inteso collocarsi in una posizione di radicale opposizione rispetto al contesto internazionale, né ha inteso vincolare oltremodo i giudici di merito, ricercandone anzi la collaborazione nel dar seguito a quanto sancito in una sentenza per definizione non immediatamente vincolante per lo specifico profilo attinente alla consuetudine internazionale: dunque, per effetto della formula decisoria prescelta, gli atti di governo restano coperti dall’immunità, ed anche l’atto di governo il più odioso, quello che la Costituzione della Repubblica espressamente «ripudia», la guerra, rimane nell’alveo applicativo dell’immunità in parola; per converso, «uccidere civili inermi, mettere le persone in vagoni piombati, costringerle ai lavori forzati, torturarle, gettarle nelle fosse comuni sono comportamenti che non attengono all’esercizio tipico della potestà di governo e rispetto ai quali, quindi, non può essere invocata l’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale».

 

Molto interessante, infine, per la prospettiva internazionale e di ampio respiro nell’esame delle dinamiche politiche interne al Consiglio di sicurezza delle nazioni unite e nella proiezione degli effetti della pronuncia costituzionale nel prossimo futuro, l’intervento di Marini, il quale, accertato che la sentenza della Corte costituzionale italiana presenta profili di contrasto con quella adottata dalla Corte internazionale di giustizia, si interroga su cosa potrà accadere sul piano dei rapporti tra Stati, pur nella consapevolezza che un simile problema si porrà in concreto solo ove vi siano condanne dello Stato tedesco da parte dei giudici di merito italiani, peraltro una volta che esse siano definitive.

Nell’ipotesi di reazione dello Stato tedesco alla violazione da parte dello Stato italiano degli obblighi derivanti dalla decisione della Cig, la questione è rimessa al Consiglio di sicurezza, ai sensi del paragrafo 2 dell’art.94 della Carta delle nazioni unite.

Peraltro, lo studio dei precedenti in cui il Consiglio di sicurezza è stato chiamato a intervenire a fronte di asserite violazioni degli obblighi nascenti a carico di uno Stato a seguito di una decisione della Cig evidenzia che essi hanno riguardato situazioni di crisi e di asserite «minacce per la pace e la sicurezza internazionali», sicché gli stessi non sembrano precedenti utili per il nostro caso, relativo a risarcimenti per fatti risalenti ormai a molti decenni fa; quegli stessi precedenti, peraltro, evidenziano in ogni caso la natura tutta politica del dibattito in seno al Consiglio di sicurezza e la probabilità che il Consiglio finisca per non assumere decisioni, rinviando al confronto politico e alle trattative fra le parti il compito di individuare le soluzioni e renderle effettive.

Pare così che l’opzione principale, nel caso che potrà opporre Germania ed Italia, sia da rinvenire nel dialogo fra gli Stati e in un percorso politico di confronto che sappia farsi carico della complessità della vicenda e dello sviluppo culturale, giuridico e politico che caratterizza la tutela dei diritti della persona verso gli Stati.