Magistratura democratica

Italicum due: una legge elettorale abnorme

di Mauro Volpi

Il 27 gennaio 2015 il Senato ha approvato, con modifiche, il testo della legge elettorale, a sua volta approvato dalla Camera il 12 marzo 2014, meglio noto come Italicum. L’autore prende in esame il testo del Senato, cd. Italicum due, per evidenziarne le criticità con riferimento al metodo di presentazione e di discussione, ai profili di illegittimità costituzionale ed all’incompatibilità con la forma di governo parlamentare delineata dal nostro Costituente. Sotto quest’ultimo aspetto, l’Autore evidenzia il pericolo che la forma di governo possa essere surrettiziamente modificata da una legge ordinaria di riforma del sistema elettorale e non, invece, espressamente da una legge di revisione costituzionale.

Premessa

Il 27 gennaio 2015 il Senato ha approvato il testo della legge elettorale, meglio noto come Italicum, apportando alcune modificazioni a quello che era stato approvato dalla Camera il 12 marzo 2014[1]. L’Italicum due ripropone un sistema elettorale teoricamente proporzionale per liste concorrenti, ma con correttivi talmente forti da trasformarlo in pratica in un maggioritario di lista[2]. I correttivi più significativi rispetto al testo precedente sono i seguenti:

  • la soglia necessaria per ottenere il premio di maggioranza al primo turno, pari a 340 seggi, cioè il 54% dell’intera Camera dei deputati, passa dal 37 al 40% dei voti;
  • il premio viene attribuito alla lista che ottiene più voti (e non anche alla prima coalizione);
  • se nessuna lista ottiene il 40% dei voti, si tiene un secondo turno di ballottaggio al quale possono accedere solo le due liste più votate e tra primo e secondo turno è vietato qualsiasi apparentamento; il premio di 340 seggi va alla lista che ottiene più voti;
  • la soglia di accesso perché una lista possa ottenere seggi non è più differenziata tra liste coalizzate e non, ma è unica ed è pari al 3% dei voti;
  • i collegi plurinominali sono 100; i capilista sono bloccati e possono essere candidati in un numero massimo di dieci collegi, mentre gli altri candidati sono eletti con la doppia preferenza di genere (si può esprimere una sola preferenza, ma se se ne danno due, la seconda deve andare ad un candidato di sesso diverso rispetto al primo, pena l’annullamento della preferenza).

Il sistema elettorale approvato presenta varie criticità che lo rendono abnorme in sé e anomalo rispetto a quelli esistenti nelle altre democrazie. Tali criticità riguardano il metodo adottato per la presentazione e la discussione del disegno di legge, i vizi di legittimità costituzionale in esso riscontrabili, l’incompatibilità con la forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione.

1. Il metodo: tra accordo extraparlamentare e forzature antiparlamentari

È noto che il sistema elettorale di cui si parla è nato da un accordo extraparlamentare, il cd. “patto del Nazareno”, stipulato il 18 gennaio 2014 tra Renzi, appena diventato segretario del Pd con il metodo delle primarie aperte a tutti gli elettori, non parlamentare e non ancora presidente del Consiglio, e Berlusconi, già dichiarato decaduto dalla carica di senatore per la condanna definitiva a quattro anni di reclusione. Se è naturale che su una legge ordinaria ma di rilievo costituzionale come quella elettorale si ricerchi la più ampia convergenza possibile, non è affatto normale che il leader del primo partito parlamentare concluda un accordo a due senza prima avere consultato il proprio partito né gli alleati di governo né gli altri partiti della opposizione. Era inevitabile che gli interessi elettorali dei due partiti contraenti e dei rispettivi leader finissero per essere decisivi e per prevalere sulla necessità di dare vita ad un sistema elettorale equilibrato, in grado di favorire la partecipazione popolare e che non suscitasse dubbi di legittimità costituzionale. Inoltre il testo dell’accordo, il cui contenuto non è stato mai reso noto, ma che si estendeva alla riforma costituzionale e forse anche ad altre questioni, è stato blindato alla Camera e anche gli emendamenti approvati al Senato sono stati solo quelli previamente concordati tra i due contraenti del patto.

Altro aspetto discutibile: il disegno di legge che recepiva l’accordo a due è stato presentato alle Camere non dai gruppi parlamentari, come sarebbe stato opportuno per una riforma sulla quale deve essere ricercato il più ampio consenso parlamentare, ma dal Governo (esattamente come quello di riforma della Costituzione). Inoltre l’iter parlamentare del ddl è stato costellato da frequenti forzature dei regolamenti parlamentari e dalla continua minaccia del presidente del Consiglio di ricorrere allo scioglimento anticipato delle Camere, come se questo fosse un suo potere sostanziale sull’esercizio del quale il presidente della Repubblica svolgerebbe un ruolo meramente formale. La forzatura più evidente e contrastante con lo spirito della Costituzione si è avuta al Senato con l’approvazione dell’emendamento Esposito, che premetteva al testo di legge un articolo 01 il quale riassumeva i contenuti essenziali dell’intera legge. In questo modo venivano fatti decadere gran parte degli emendamenti presentati, inaugurando una procedura contrastante con l’art. 72 Cost., che impone la discussione e l’approvazione articolo per articolo, e mettendo ai voti un testo che non era un emendamento in quanto non modificava nessun articolo né aveva natura precettiva e quindi avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile. Si è dato vita così ad un precedente al quale potrebbe rifarsi in futuro ogni governo strangolando la dialettica parlamentare su un qualsiasi disegno di legge mediante la previa presentazione di uno pseudo-emendamento riassuntivo dei suoi contenuti. Insomma si è inaugurato di fatto una specie di “voto bloccato” all’italiana, non disciplinato nella Costituzione come in Francia (dove il Governo può imporre un solo voto sull’intero testo in discussione o su una sua parte con i soli emendamenti da esso proposti o accettati), che va ben al di là degli strumenti previsti nei regolamenti parlamentari al fine di superare l’ostruzionismo.

Altra questione di metodo, ma anche di merito: la riforma riguarda la sola Camera dei deputati e, in attesa della revisione costituzionale che dovrebbe rendere il Senato non più elettivo, la sua entrata in vigore è posposta al 1° luglio 2016. Quindi anziché far precedere la riforma del Senato a quella della legge elettorale, come sarebbe stato logico e corretto, si intende approvare la seconda nell’aspettativa di un evento incerto sia nell’an che nel quando, in quanto non può esservi certezza né sull’approvazione del ddl costituzionale né sui tempi, anche in considerazione della quasi certa sottoposizione del testo approvato a referendum popolare. Cosa accadrebbe se la riforma costituzionale non giungesse in porto o se, prima della sua approvazione finale, il presidente della Repubblica dovesse decretare lo scioglimento anticipato del Parlamento? Le due Camere verrebbero ad essere elette con due sistemi elettorali molto diversi e al Senato si applicherebbe il cd. Consultellum, cioè la normativa di risulta derivante dalla sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, e cioè un sistema proporzionale senza premio di maggioranza e senza liste bloccate (con la possibilità di esprimere una preferenza) e con il mantenimento di diverse soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza. Il risultato più che probabile sarebbe l’esistenza di due diverse maggioranze nelle due Camere. Diventa allora ancora più incomprensibile la forzatura dei tempi parlamentari, che pare essere stata dettata più da un intento mediatico-propagandistico che dall’effettiva urgenza di provvedere.

2. Profili di illegittimità costituzionale

A monte del dibattito sulla riforma elettorale vi è stata la citata sentenza n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi sia il premio di maggioranza, tanto quello nazionale alla Camera, quanto quello attribuito regione per regione al Senato, sia le liste bloccate previste dalla legge n. 270 del 2005, il cd. Porcellum. Ora, l’Italicum due non risolve i problemi segnalati dalla Corte e presenta vari profili di possibile illegittimità costituzionale[3].

Innanzitutto il premio di maggioranza risulta irragionevole, in quanto in assenza della riforma del Senato e, in caso di approvazione della riforma, con due sistemi elettorali diversi per le due Camere che votano entrambe la fiducia al Governo, non garantisce affatto la governabilità, che ne costituisce la ratio essenziale[4]. Questa è stata la motivazione con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali i premi di maggioranza regionali al Senato previsti dal Porcellum, in quanto non garantivano l’esistenza di una maggioranza o di una maggioranza corrispondente a quella della Camera e quindi frustravano la finalità precipua del premio di maggioranza. Lo stesso rilievo potrebbe essere rivolto al premio che si sta confezionando per la sola Camera.

In secondo luogo l’entità del premio di maggioranza non risponde al vincolo posto dalla Corte che l’obiettivo «di rilievo costituzionale» della stabilità di governo non comprima in modo eccessivo e sproporzionato «valori costituzionalmente protetti» come la funzione rappresentativa dell’assemblea e l’eguale diritto di voto. Infatti la previsione di una soglia minima di voti per accedere ad un premio, che attribuisce alla lista vincente ben più della metà dei seggi in palio, non toglie che al partito che arriva in testa, e quindi alla più forte minoranza, sia attribuito un premio che può arrivare fino al 15% dei seggi in palio (pari a più di un terzo dei voti di un partito che superasse di poco la soglia del 40%) e quindi vengano ad essere eccessivamente compresse la rappresentatività dell’assemblea e l’eguaglianza del voto. Basti pensare che l’entità del premio è analoga a quella proposta dalla legge n. 148 del 1953, che fu qualificata dalla opposizione come «legge truffa», ma questa era meno “truffaldina”, in quanto attribuiva il 65% dei seggi alla Camera alle liste apparentate che raggiungessero il 50% più uno dei voti e non alla minoranza più forte e inoltre, se tale soglia non fosse stata raggiunta, il premio non sarebbe scattato, come avvenne nelle elezioni dello stesso anno, il cui esito determinò la successiva abrogazione della legge. Vi è da aggiungere che il premio di maggioranza è molto raro nelle democrazie, essendo utilizzato tra i Paesi di una certa dimensione solo in Grecia, dove comunque l’attribuzione di 50 seggi su 300 al partito arrivato in testa non gli garantisce il raggiungimento della maggioranza assoluta, come si è verificato nelle ultime due elezioni del Parlamento. Né si può sostenere che il premio italico corrisponderebbe a quello di fatto che il primo partito otterrebbe di regola nel Regno Unito o in Francia, ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi con una maggioranza relativa dei voti[5]. Infatti in quei Paesi l’incremento dei seggi ottenuti dal partito più forte deriva dall’applicazione di una formula maggioritaria nell’ambito di collegi uninominali e non è la protesi artificiale attribuita a tavolino alla lista che arriva in testa nel quadro di un sistema formalmente proporzionale. Inoltre anche l’applicazione di una formula elettorale maggioritaria non garantisce con certezza che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi, come si è verificato nel Regno Unito nelle elezioni del 2010, in seguito alle quali il partito conservatore ha dovuto formare un governo di coalizione insieme al partito liberal-democratico.

L’illegittimità costituzionale è ancora più manifesta nell’ipotesi in cui nessuna lista ottenga il 40% dei voti, esito probabile stando ai sondaggi attuali, e quindi si tenga un secondo turno di ballottaggio tra le due liste più votate. Potrebbe infatti verificarsi che il premio sia vinto dal partito arrivato in testa con il 36/37% dei voti, ma non si può escludere che sia vinto da quello arrivato in seconda posizione, che al primo turno potrebbe avere ottenuto il 25% dei voti o anche meno. Non vale obiettare che al secondo turno la lista vincente conquisterebbe la maggioranza assoluta dei voti. Comunque il ricorso al turno di ballottaggio comporterebbe una patente violazione della volontà espressa al primo turno dalla larga maggioranza del corpo elettorale di non assegnare il premio a nessuna lista, la compressione della libertà degli elettori che al primo turno hanno votato per tutte le altre liste (e in particolare per una terza lista che potrebbe superare il 20% dei voti), la conseguente più che probabile diminuzione dei partecipanti al voto. E infine non si può neppure escludere l’eventualità che la lista arrivata in testa al primo turno vinca al ballottaggio con un numero di voti non molto diverso da quello che non le ha consentito di conquistare subito il premio. Viene quindi violata la libertà del voto degli elettori, violazione aggravata dal fatto che tra primo e secondo turno le altre liste non possono apparentarsi con una delle due ammesse. Un sistema di questo tipo è meno distorsivo in un contesto politico nel quale vi sono due coalizioni che ottengono un’altissima percentuale del voto popolare, come si è verificato nelle elezioni del 2006 e del 2008, ma diventa abnorme e irragionevole in un contesto politico tripolare come quello emerso dalle elezioni del 2013. Inoltre il doppio turno di lista è un unicum nelle democrazie contemporanee. Esso  non ha nulla a che vedere con il sistema maggioritario a doppio turno che si applica per l’elezione dei titolari di cariche monocratiche, come per i Sindaci in Italia o il presidente della Repubblica francese, o per l’elezione dei parlamentari in collegi uninominali, come per l’Assemblea nazionale in Francia. In questi casi il doppio turno è finalizzato a garantire l’ampia rappresentatività dell’eletto, che deve ottenere la maggioranza assoluta (e non il 40%) dei voti al primo turno. Inoltre in Francia al secondo turno delle elezioni parlamentari sono ammessi non solo i primi due candidati, ma tutti quelli che abbiano ottenuto all’incirca il 20% dei voti al primo turno. Quindi se questo sistema fosse recepito oggi in Italia, in quasi tutti i collegi uninominali si avrebbe una competizione non riservata ai primi due candidati ma triangolare. È altresì noto che tra il primo e il secondo turno sia per l’elezione dei Sindaci italiani sia per quella dei deputati francesi si svolgono trattative e vi sono accordi tra i candidati rimasti in lizza e gli altri, che rendono meno costrittivo il voto degli elettori dei candidati esclusi.

Altro profilo di dubbia legittimità è la previsione di liste semi-bloccate, nelle quali i capilista ricoprono automaticamente un seggio conquistato dalla lista, mentre gli altri seggi sono attribuiti ai candidati in base alle preferenze ottenute. Il presidente del Consiglio ha sostenuto che si tratterebbe di una specie di Mattarellum, che accoppierebbe il voto personale al singolo candidato di collegio con quello alle liste mediante l’espressione delle preferenze. Niente di più falso: nel sistema che precedeva il Porcellum i tre quarti dei seggi erano assegnati in collegi uninominali in ciascuno dei quali si eleggeva un solo parlamentare con sistema maggioritario a turno unico e a maggioranza relativa, mentre il quarto restante era distribuito con sistema proporzionale tra liste bloccate. Invece  nella soluzione proposta non vi è alcun rapporto esclusivo tra eletto e collegio, in quanto nello stesso collegio possono essere eletti i capilista di diverse liste e anche altri candidati. Inoltre il capolista può presentarsi in dieci collegi e quindi la sua opzione per uno dei collegi in cui risulta eletto può manipolare la volontà degli elettori, consentendo l’elezione di candidati che hanno ottenuto una percentuale di preferenze rispetto ai votanti del collegio anche inferiore a quella del primo dei non eletti nel collegio prescelto dal capolista. Viene quindi ad essere pregiudicato il diritto degli elettori di scegliere liberamente i propri rappresentanti. Ma vi è anche una duplice violazione del principio di eguaglianza. In primo luogo vi è una irragionevole disparità tra candidati facenti parte di una stessa lista, il primo dei quali, gradito ai vertici del partito, non ha bisogno per essere eletto di alcun voto di preferenza a differenza di tutti gli altri. Qui non c’è alcun comune paragone con il discutibile “listino” che ha caratterizzato dal 2000 l’elezione dei consiglieri regionali nella maggioranza delle Regioni, e oggi fortunatamente in via di superamento, che consentiva ai candidati collocati in una lista collegata al candidato eletto Presidente di essere automaticamente eletti, costituendo un premio di maggioranza a favore della coalizione vincente. Ma in tale caso si aveva almeno il pudore di distinguere il listino dalle liste per le quali era previsto il voto di preferenza, pudore che manca del tutto nell’Italicum due, nel quale il capolista è un candidato “più eguale” degli altri collocati nella stessa lista. In secondo luogo vi è una discriminazione irragionevole a danno degli elettori, in quanto solo quelli che votano per la lista che otterrà il premio potranno incidere significativamente sulla scelta di un notevole numero di eletti (240 su 340), mentre quelli degli altri partiti avranno una possibilità di scelta nulla o quasi nulla. Vi è poi da aggiungere che l’Italicum due non favorisce affatto la conoscibilità degli eletti in quanto la ripartizione dei seggi avviene non nei collegi ma a livello nazionale e nell’eventuale secondo turno i candidati spariscono e si vota solo per il simbolo del partito (e di fatto per il suo leader).

L’ultimo profilo di illegittimità riguarda l’insostenibile coesistenza di un premio di maggioranza che assicura in ogni caso la governabilità e di una soglia di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza, pur se ridotta al 3% dei suffragi. Infatti tale soglia può avere un senso come correttivo di un sistema proporzionale se serve a evitare una eccessiva frammentazione della rappresentanza che può rendere difficile la formazione del Governo o dare vita ad esecutivi eterogenei, ma si risolve in un’indebita compressione della volontà del corpo elettorale se alla lista che vince è garantita la certezza di formare da sola il Governo. Ne consegue che anche qui vi è una compressione irragionevole della volontà manifestata dagli elettori che abbiano attribuito a partiti minori un numero di voti pari al quorum naturale necessario per l’attribuzione di seggi. 

3. Lo stravolgimento della forma di governo parlamentare

La virtù fondamentale attribuita all’Italicum due sta nella certezza che la sera stessa del voto si conosca il vincitore delle elezioni ed emerga il nuovo Governo. Ora tale esito non può essere assicurato, come si è visto, da nessuno dei sistemi elettorali, anche rigorosamente maggioritari, adottati nelle altre democrazie. Ciò costringe i suoi ideatori italioti a proporre il ricorso a meccanismi molto più distorsivi della volontà manifestata dal corpo elettorale e di dubbia democraticità. Ma come mai coloro che negli ultimi venti anni hanno teorizzato la necessità del maggioritario, considerato ontologicamente superiore a qualsiasi sistema proporzionale anche corretto, in quanto garanzia di governabilità, non propongono oggi l’adozione di una formula maggioritaria? La ragione sta nel fatto che nel contesto italiano nessun sistema maggioritario potrebbe di per sé garantire con certezza che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. E quindi si opta per una formula proporzionale stravolta da premi abnormi e da un secondo turno anomalo. Ma, nel perseguire l’obiettivo del vincitore certo, l’Italicum due pecca di una congiunturalità che mal si addice ad un nuovo sistema elettorale che possa durare nel tempo. Non è un caso che gli emendamenti al testo originario dell’Italicum approvato dalla Camera siano stati successivi al risultato delle elezioni europee del 2014, nelle quali il Pd ha ottenuto il 40,8% dei voti (anche se nel quadro di una partecipazione popolare pari al 58% degli aventi diritto al voto). Di qui la scelta di innalzare la soglia necessaria per ottenere il premio dal 37 al 40% dei voti nonché quella di sopprimere il premio alla coalizione prevedendo solo quello alla più forte lista. Si tratta di un calcolo miope, che potrebbe in futuro essere smentito dalla evoluzione dei rapporti di forza elettorali e che è ritagliato sulle aspettative congiunturali del partito maggiore e del suo leader[6]. Ora, un metodo di questo tipo non può dare vita ad un sistema elettorale adeguato e durevole, ma al più ritenuto utile a vincere le prossime elezioni.

L’aspetto più preoccupante di un sistema che impone l’attribuzione di una maggioranza più che assoluta dei seggi ad un solo partito consiste nell’impatto sistemico che esso produrrebbe sul sistema istituzionale, determinando l’alta probabilità di uno stravolgimento della forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione. Tale esito viene apertamente rivendicato da chi sostiene che con l’adozione dell’Italicum due verrebbe ad essere recepito a livello nazionale il presunto «modello italiano di governo»[7], adottato a livello locale e regionale e fondato sulla elezione popolare della persona posta a capo del potere esecutivo, al quale viene garantita (con certezza nelle Regioni, con forte probabilità nei Comuni) una maggioranza assembleare determinata dal premio di maggioranza attribuito alla coalizione (o lista) collegata al candidato vincente. Qui si tratterebbe di valutare quanto sia auspicabile una forma di governo che, anche grazie allo scioglimento automatico dell’assemblea che si azzardi a votare la sfiducia al capo dell’esecutivo, si configura non come presidenziale, ma come presidenzialistica, in quanto fondata sul ridimensionamento del ruolo dell’organo assembleare e priva dei contrappesi che garantiscono l’equilibrio tra i poteri. E anche il giudizio, dato spesso per scontato, secondo il quale tale «modello» avrebbe garantito nelle Regioni la governabilità, dovrebbe essere rivisto alla luce del fatto che negli ultimi due anni in sette Regioni (Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Molise e Piemonte) si sono tenute elezioni anticipate derivanti per lo più da episodi di corruzione, da gravi irregolarità o dalla inefficienza degli esecutivi regionali che la forma di governo presidenzialista evidentemente non è stata in grado di evitare. Infine l’adozione di un modello di governo a livello locale non impone affatto che debba essere recepito a livello nazionale, data la diversità e l’importanza delle funzioni politiche che il Governo di uno Stato è chiamato a svolgere. Non è allora un caso se il modello fondato sull’elezione popolare del Primo ministro non è stato adottato in nessuna democrazia, con l’unica eccezione di Israele a partire dal 1996, dove non era previsto alcun meccanismo premiale che garantisse al Primo ministro una maggioranza parlamentare e il modello è stato abbandonato nel 2001.

L’aspetto più inaccettabile consiste nel fatto che il modello, che forse sarebbe più corretto definire “italico”, verrebbe imposto a livello nazionale non da una legge di revisione costituzionale, ma dalla legge ordinaria di riforma del sistema elettorale. In tal senso è significativa la riproposizione della norma, già contenuta nel Porcellum, secondo la quale «i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica» (nuovo art. 14-bis del dpr n. 361 del 1957). Anche qui, come nel Porcellum, si sente il bisogno di precisare che restano ferme le prerogative del presidente della Repubblica sulla nomina dei componenti del Governo ex art. 92, c. 2, Cost. La precisazione è pleonastica, non potendo ovviamente una legge ordinaria violare una disposizione costituzionale, ma è rivelatrice della concezione secondo la quale il capo della forza politica (non più della coalizione) alla quale viene garantito il 54% dei seggi sarebbe di fatto eletto dal popolo. E tale concezione acquisterebbe maggiore forza nel turno di ballottaggio quando al voto popolare sono sottoposti solo i simboli dei due primi partiti e i loro rispettivi capi. In pratica la nomina del presidente del Consiglio da parte del capo dello Stato sarebbe a rime obbligate e la fiducia iniziale della Camera si trasformerebbe in uno stanco e inutile rito. Ma ciò equivarrebbe ad un accantonamento della forma di governo parlamentare, la cui essenza sta , come ha insegnato Leopoldo Elia, nel fatto che il titolare del potere esecutivo deriva dal Parlamento e non direttamente dal voto popolare[8].

Il rischio di un cambiamento surrettizio della forma di governo parlamentare risulta con ancora maggiore evidenza se si collega la riforma elettorale al ddl costituzionale approvato in prima lettura dal Senato l’8 agosto 2014 e in dirittura di arrivo alla Camera. Il risultato complessivo che ne scaturisce sarebbe un bicameralismo, nel quale vi sarebbero una sola Camera politica (cosa di per sé condivisibile), e un Senato non più elettivo, con una composizione debole e priva di significativi poteri di controllo e di garanzia. Ma ciò che più conta è che, se venissero approvate le due riforme, nella Camera dei deputati il partito più forte, che rappresenterebbe una minoranza dei votanti, otterrebbe una maggioranza più che assoluta dei seggi e sarebbe in grado di imporre, anche per il peso numerico ridotto del Senato, l’elezione dei titolari di organi di garanzia (presidente della Repubblica, un terzo dei giudici costituzionali, un terzo dei membri laici del Csm, presidente della Camera), nonché l’approvazione dei disegni di legge governativi entro 60 giorni e con ogni probabilità anche delle leggi costituzionali[9]. Diventerebbe, quindi, determinante il ruolo del presidente del Consiglio plebiscitato di fatto dal popolo, in un contesto fortemente intriso di una cultura populistica, che in passato ha consentito al leader della coalizione di centro-destra risultata vincente di fregiarsi del titolo di «unto dal Signore» e recentemente al presidente del Consiglio in carica di affermare che, in virtù dell’esito delle primarie del Pd e del buon risultato ottenuto nelle elezioni per il Parlamento europeo, il suo programma era voluto dai cittadini.

4. Esistono alternative?

Il quadro comparativo dei sistemi elettorali vigenti nelle più importanti democrazie offre più di una alternativa alla riforma elettorale prospettata. A patto che si voglia abbandonare l’idea sbagliata e perniciosa che occorra adottare un sistema “italico” del tutto peculiare e anomalo rispetto a quelli degli altri Paesi. Una scelta di questo tipo, tanto più se accompagnata all’imperativo che la sera delle elezioni vi sia un partito che ottenga la maggioranza assoluta dei seggi, non può che dare vita, come si è visto, ad un sistema ultramaggioritario, di dubbia costituzionalità e sicuramente antidemocratico. Le alternative migliori praticabili nel contesto italiano sono due. I sostenitori della necessità di ricorrere ad un sistema maggioritario potrebbero guardare al modello francese del doppio turno, opportunamente adeguato alla situazione italiana e con la previsione di un “diritto di tribuna”, del quale da tempo si discute in Francia, tale da consentire a partiti di una certa consistenza di accedere alla rappresentanza. Quanti invece, come chi scrive, ritengono che la crisi italiana sia soprattutto una crisi di rappresentatività dovrebbero rifarsi al modello tedesco, che è di tipo proporzionale ma con una clausola di sbarramento del 5% e con l’attribuzione di metà dei seggi in collegi uninominali[10]. L’obiezione per cui con tale sistema in Italia nessun partito otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi è viziata ab origine dall’idea pericolosa che tale maggioranza debba essere imposta per legge. Inoltre proprio l’esperienza tedesca dimostra che la formazione di esecutivi di coalizione in una forma di governo parlamentare razionalizzata assicura la stabilità del Governo senza comprimere la rappresentatività del Parlamento.Quanto alla governabilità che l’Italicum due assicurerebbe, siamo sicuri che il premio al primo partito non stimoli la formazione di listoni compositi e, in caso di secondo turno, lo svolgimento di trattative e la conclusione di accordi sottobanco e quindi la formazione di governi fondati su un’ampia maggioranza, ma eterogenei e inefficienti? Quel che è accaduto negli ultimi venti anni non ha insegnato proprio nulla?

[1] Per una valutazione critica e argomentata dei sistemi elettorali adottati dal 1993 in poi vedi O. Massari, Sistemi di partito, effetti dei sistemi elettorali dopo il 1993 e la riforma elettorale, in M. Volpi (a cura di), Istituzioni e sistema politico in Italia: bilancio di un ventennio, il Mulino, Bologna, 2015, p. 87 ss.

[2] Sul testo approvato dal Senato vedi A. Pertici, La riforma della legge elettorale in corso di approvazione, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, Osservatorio costituzionale, n. 1/2015.

[3] Sui possibili vizi di incostituzionalità dell’Italicum, che valgono anche per il testo approvato al Senato, vedi G. Azzariti, La riforma elettorale, relazione al Seminario «I costituzionalisti e le riforme», Milano, 28 aprile 2014, in www.associazionedeicostituzioinalisti.it, Rivista telematica, n. 2/2014.

[4] Vedi in tal senso l’intervista del presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, Una legge incostituzionale serve una norma per il Senato, in la Repubblica, 23 novembre 2014.

[5] R. D’Alimonte, Con il premio l’elettore sceglie chi governerà, in Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2014.

[6] Di legge elettorale “ad partitum” ha parlato G. Pasquino, L’Italicum 2 di Renzi & B. è incostituzionale, intervista in il sussidiario.net  14 novembre 2014.

[7] Cfr. R. D’Alimonte, Con il premio alla lista governi più coesi, in Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2015.

[8] Cfr. L. Elia, Governo (forme di), in Enc. dir., Giuffrè, Milano, XIX, 1970, p.642.

[9] Naturalmente una legge costituzionale approvata con maggioranza assoluta ma inferiore ai due terzi dei componenti delle due Camere sarebbe sottoponibile al referendum ai sensi dell’art. 138, c. 2, Cost. Ma la maggioranza assoluta, comunque sufficiente per l’approvazione parlamentare non sarebbe più adeguata alla luce del premio attribuito dalla riforma elettorale e potrebbe consentire ad un solo partito, che avesse la maggioranza dei seggi anche al Senato, di approvare le modifiche della Costituzione a suo piacimento.

[10] Per più ampi sviluppi vedi M. Volpi, Riforma elettorale e rappresentanza, in www.costituzionalismo.it, 10 settembre 2012.