Magistratura democratica

Editoriale

di Renato Rordorf

Perché un numero monografico di Questione giustizia dedicato ai temi del carcere?

La domanda potrebbe apparire persino oziosa. Certo, vi sono ragioni che possono sembrare occasionali: il quarantennale della legge n. 354 del 1975, che costituì il vero punto di svolta dell’Ordinamento penitenziario italiano, avviandolo verso approdi più consoni al dettato costituzionale ed al riconoscimento anche del carcere come luogo di esercizio di diritti; e così pure, naturalmente, l’apertura degli Stati generali dell’esecuzione penale, in svolgimento da maggio a novembre di quest’anno, che hanno lo scopo di fare il punto sulla situazione del nostro sistema penitenziario sotto il profilo sia normativo sia organizzativo.

Ma l’attenzione al mondo carcerario ed agli interrogativi, complessi e drammatici, che quel mondo pone a chiunque si occupi di problemi di giustizia non nasce solo da occasioni contingenti. Sono temi che sono stati da sempre oggetto di riflessione del gruppo di magistrati che ha dato vita a Magistratura democratica. Temi che, perciò, hanno trovato costantemente spazio nelle pagine di questa Rivista, e non è certo un caso che, sin dal suo primo numero uscito nell’anno 1982, essa ospitò uno scritto di Alessandro Margara dal titolo Carceri: riflessioni sulla possibilità della riforma fra le esigenze di sicurezza e quelle di progresso.

Ed allora torniamo – non possiamo non tornare – ad occuparci dei problemi del sistema carcerario perché quei problemi sono uno dei nodi nevralgici della giustizia. Problemi, per così dire, di lungo periodo, che costringono ad interrogarci ancora sul senso stesso della pena e su quanto, nella dimensione carceraria, si esaltino drammaticamente le differenze sociali, moltiplicando le ingiustizie che da esse derivano. Problemi che non cessano di essere attuali – anzi viepiù lo divengono – in un momento nel quale il nostro Paese sembra sempre più avvitarsi in una spirale d’illegalità e di corruzione diffusa, che investe il mondo degli affari, quello della pubblica amministrazione e quello della politica, generando di riflesso nell’opinione pubblica pulsioni punitive che tendono però ad assumere sovente connotati tanto vaghi quanto irrazionali.

Nodi difficili da districare ma, per tentare di allentarli, chi intende parlare di giustizia è fatalmente destinato a continuare ancora a lungo ad affaticarsi intorno ad essi.

 

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«Tutto il terribile male di cui era stato testimone in prigioni e galere, e la tranquilla sicurezza di coloro che questo male producevano, derivava solamente dal fatto che gli uomini pretendevano di fare una cosa impossibile: correggere il male essendo loro stessi cattivi».

Questa riflessione, che Tolstòj attribuisce al protagonista di Resurrezione, il suo ultimo grande romanzo, a molti può apparire forse troppo radicale. Del resto lo si sa: sul finire della sua vita le posizioni di Tolstòj erano divenute davvero estremamente radicali ed il suo umanesimo si era andato viepiù tingendo di utopia. Eppure in quella riflessione c’è qualcosa che ci interroga nel profondo, perché mette in discussione la stessa giustificazione del potere che, pur se in un quadro di affermata legalità, alcuni uomini esercitano su altri infliggendo loro delle pene ed, in particolare, la più terribile tra esse: la privazione della libertà.

Si può non condividere, ovviamente, l’approccio radicalmente abolizionista del grande romanziere e pensatore russo (e certo non solamente suo). Comunque la si pensi, però, è innegabile che la complessità del tema punitivo – e della pena detentiva in specie – ponga problemi che si collocano al cuore stesso dello sviluppo civile dell’umanità e dei modelli sociali di cui si è dotata. 

Lo coglie molto bene Gustavo Zagrebelsky nella postfazione ad uno snello ma assai ben calibrato libro, Abolire il carcere, pubblicato quest’anno dall’editore Chiarelettere e scritto a più mani da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. L’esigenza del carcere – dice Zagrebelsky – è frutto della dialettica tra aggregazione e segregazione. La società presuppone una forza di aggregazione, che produce solidarietà e determina la coesione sociale; la quale, tuttavia, non potrebbe conservarsi senza definire chi ne è al di dentro e chi al di fuori, perché ogni inclusione genera necessariamente il suo contrario: l’esclusione – e dunque la segregazione – di chi appare come asociale dal momento che si pone contro la società e le sue regole. Il polo negativo rafforza il polo positivo. È allora il carcere una necessità sociale ineliminabile? Si tratta, per certi versi, dell’incoercibile ripetizione del terribile schema del capro espiatorio, così ben descritto nei suoi connotati antropologici di base da René Girard e che forse (contrariamente a quel che lo stesso Girard sembra auspicare) nemmeno l’avvento del cristianesimo è mai davvero riuscito a ribaltare?

Oppure, viceversa, la segregazione carceraria – la terribile pena della privazione della libertà, che sottrae al carcerato una parte della sua stessa umanità, perché lo separa dal flusso normale delle vicende di cui è fatta la vita degli uomini e delle donne – è solo uno dei modi nei quali la società si è organizzata lungo il corso della storia, certo per un non breve periodo, ma non per questo immutabilmente?

Domande che investono necessariamente anche il fondamento stesso della giustizia, in specie di quella che mostra il suo volto più temibile esibendo la bilancia dell’equità ma brandendo, nel medesimo tempo, anche la spada del castigo: un castigo che siamo tutti quasi istintivamente portati ad associare immediatamente (in Italia non più, per fortuna, con la pena di morte, bensì) con la cella di un carcere.

Quel volto terribile la nostra Costituzione ha inteso, come si sa, non del tutto cancellarlo ma di certo mitigarlo, rendendolo più umano. Il terzo comma dell’art. 27 è perentorio nell’escludere che le pene possano consistere in comportamenti contrari al senso di umanità, e prescrive che debbano tendere alla rieducazione del condannato. Gli scritti ospitati in questo numero della Rivista danno ampiamente conto del se e del come questi precetti hanno trovato concreta attuazione nelle norme dell’ordinamento e nella realtà delle nostre carceri. Non li citerò qui singolarmente. La pregevole introduzione di Riccardo De Vito già fa assai bene intendere non soltanto la varietà dei profili di analisi ma anche la diversità delle esperienze e dei punti di vista dai quali i singoli autori hanno esaminato la multiforme realtà carceraria.

Per parte mia vorrei solo notare come, di quelle due regole poste dall’art. 27 della Costituzione cui sopra accennavo, la prima mi sembra meno radicale ed ambiziosa della seconda. L’una mira a mitigare gli aspetti della pena che la moderna coscienza dei diritti civili considera ormai intollerabili, evitando il ripetersi degli orrori che spesso hanno connotato la condizione umana delle prigioni; l’altra però vorrebbe di più: cioè che la pena divenisse qualcosa di diverso da ciò che sovente storicamente è stato. Non uno strumento non più di vendetta sociale bensì di redenzione civile.

Né l’uno né l’altro di tali obiettivi può certo dirsi acquisito.

La storia del carcere è purtroppo, da sempre, storia di degradazione e disumanità: Tolstòj, ancora una volta, ce lo mostra e ce lo ricorda assai bene. Si può però riconoscere che molto si è fatto, in Italia ed in altre parti del mondo (non dappertutto, purtroppo), per dare oggi al carcere una dimensione meno feroce ed inaccettabile. La legislazione italiana dell’ultimo quarantennio (per non parlare che di noi) va indubbiamente in questo senso, benché la realtà non vi abbia del tutto corrisposto, come le recenti condanne in sede europea eloquentemente dimostrano; ma è fuor di dubbio che molto si può e si deve ancora fare per migliorare la situazione. Resta però inevasa la domanda di fondo: fino a qual punto non contrasti col senso di umanità il fatto stesso della privazione della libertà, che nella sua evoluzione storica sempre più si va configurando come uno degli elementi fondanti dell’umano.

Ma è il secondo obiettivo ad apparire di gran lunga il più problematico: siamo davvero riusciti a concepire strumenti in grado di far sì che la pena, e quella detentiva in particolare, operi nel senso della rieducazione del condannato? Nelle condizioni attuali delle nostre carceri c’è davvero poco da far conto sulla funzione rieducativa della pena detentiva, ed infatti tra coloro che hanno già sofferto precedenti carcerazioni la percentuale dei recidivi è notoriamente molto elevata. Ma, più in generale, si tratta di capire se o in qual misura con un così difficile ed ambizioso traguardo, quale è quello di modificare l’attitudine di un individuo nei confronti della società e delle sue regole, risulti compatibile l’esperienza della segregazione carceraria e la conseguente separazione dalla società civile: ché tale al fondo resta, pur con tutte le possibili attenuazioni, l’essenza della disciplina carceraria.

Nelle pagine di questo numero della Rivista qualcuno tra i pazienti lettori troverà forse la chiave per dare risposta a siffatti interrogativi. Io non ho la pretesa di farlo, ma sono convinto che sia indispensabile continuare a riflettere su queste cruciali domande.