Magistratura democratica

Quale giustizia? Repetita non iuvant: Ancora sulla pena e sul carcere

di Sandro Margara

L’attacco a tutto campo contro la magistratura può fare sembrare fuori tempo la riflessione che cerco di fare. Considero, però, questo uno dei rischi a cui ci si deve sottrarre. Pensare essenzialmente a difendere la stessa nostra esistenza da chi ci vuole riportare ai silenzi e alle gerarchie da cui siamo partiti, può fare mettere in seconda linea i percorsi specifici che abbiamo attuato in questi anni e la riflessione sugli stessi. Non credo, quindi, che ci dobbiamo impedire di riflettere e di pensare le singole esperienze fatte, il loro significato e come proseguire. Devo dare atto che non appartengo più a coloro che possono proseguirle, perché collocato a riposo per raggiunti limiti di età, come si usa dire. Se queste considerazioni hanno un pregio è quello di rappresentare una conclusione e di escludere un seguito.

Parte prima
Messa a fuoco

1. Il titolo generale: premessa e contesto

La riflessione che faccio ora dovevo farla da tempo, ma l’incalzare del mio lavoro in questi ultimissimi anni, mi ha impedito di concludere un discorso più volte avviato. 

Allora comincio e vi devo ragione del titolo.

Questo dà voce a un mio sospetto: siamo nuovamente in una fase che presenta tutte le caratteristiche di quella in cui Magistratura democratica pose lo stesso interrogativo, che fu il titolo della nostra prima rivista? E un altro interrogativo incalza il primo: è possibile che, oggi, pensiamo che, tutto sommato, va bene così, che le cose vanno bene così come sono, e, quindi, che non ha funzionato e non funziona il vaccino, assunto in dosi massicce in quegli anni e diffuso largamente in buona parte della magistratura, anche fuori dal nostro gruppo? Quale giustizia? Quale giustizia vogliamo? Una giustizia diseguale, che torna a fare sentire il suo peso sui deboli e lascia ai forti tutte le armi per eluderla?

La seconda parte del titolo è un po’ ambigua. Cerco di spiegarla: chiarire, e chiarire fino a farne un cavallo di battaglia, certi principi non serve. Con un moto circolare si ritorna al punto di partenza, anzi prima e più indietro del punto di partenza, perché non mi pare che oggi la domanda si ponga e si imponga con la stessa forza di allora. Essendo, però, a mio avviso, giustificata proprio come allora. Potrebbe essere posta, in termini più larghi, per tutto il discorso sulla giustizia, ma qui resto al discorso per il quale, con tanti altri, ho lavorato di più: quello sulla pena, sulla sua applicazione e sulla sua esecuzione.

Devo dire che sono preso da un dubbio atroce: quello di parlare di nulla e per nulla. Il primo dubbio – parlare di nulla – non è il peggiore. C’è chi può pensare che quello che dico è aria fritta. Il lavoro fatto per quel nulla mi costringe a pensare che sia qualcosa e mi consente di andare avanti.

Ma il dubbio veramente atroce è il secondo: di parlare per nulla. In sostanza, ci si può dire: i giuochi sono fatti (che non è un bell’approccio per parlare di giustizia). Ci sono dinamiche che ci sovrastano all’insegna dello slogan della “tolleranza zero”, esse vengono dagli Stati uniti, il paese guida, quasi in tutto (ultimamente anche nelle bancarotte), si diffondono in Europa, cominciando dall’Inghilterra e si estendono ad altri paesi: figuriamoci se i nostri attuali reggitori non impareranno alla svelta la lezione, che, peraltro, era già stata colta dai loro predecessori. E allora? E allora, non ci resta che stare zitti a guardare? Devo dire che la mia intenzione è diversa: è quella di cercare delle prospettive: di confermare un progetto, quindi, se sono possibili i progetti. Forse i progetti sono consentiti solo ai vecchi (e io posso, quindi, permettermelo), che sono gli ultimi giovani (o illusi) rimasti. Non è possibile stare zitti, se anche parlare fosse solo consolatorio.

Poniamo, per ora, il problema in termini semplicistici. Il carcere cresce, ovunque; le politiche della pena si orientano verso la cd certezza, che è la copertura (teorica, si badi, non maliziosa: oggettiva, direi) di dinamiche di severità; questo rischia inevitabilmente di sacrificare gli spazi di flessibilità della pena in sede esecutiva e di ridurre le misure alternative e di incrementare la crescita del carcere. Non c’è proprio nulla da dire e da fare?

Leggo un saggio di Pavarini (Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una recherche, in Rassegna penitenziaria e criminologica, n.1-3 del 2001, p. 119). Si fa una analisi della situazione italiana e si osserva che:

- il 75% della popolazione penitenziaria (30% tossicodipendenti, 25% stranieri, 20% giovani marginali) vengono considerati, nella realtà e senza illusioni, praticamente irrecuperabili. Si legge: «Questi “scarti sociali” (la brutalità della espressione risponde alla brutalità della realtà descritta: nota di chi scrive) vengono puniti e carcerizzati per necessità di incapacitazione in quanto attori devianti che non si riesce altrimenti a disciplinare, ovvero che risulta troppo costoso controllare attraverso politiche preventive»;

- il 10-14 % della popolazione  penitenziaria, più o meno riferibili alla previsione dell’art. 4 bis, legge penitenziaria, sono soggetti per i quali «valgono necessità di neutralizzazione» e la risposta adeguata più che la pena definita sarebbe la «pena indeterminata in strutture di massima sicurezza».

Ho operato una  estrapolazione di questa parte del saggio di Pavarini, che, con una visione molto più larga, ricostruisce l’andamento delle teorie sulla pena, ma mi pare indubbio che egli indichi delle prospettive, sinistre, ma che possono essere vicine alla realtà.

Negare l’accettazione di tali prospettive, difenderne di diverse non è inutile, ma è indispensabile, perché le altre prospettive (che fanno ancora riferimento alla realtà americana) non si realizzino e neppure si avvicinino a realizzarsi.

La riflessione che cerco di fare parrebbe a me che serva a qualcosa, che non vi sia il rischio della sua inutilità (posso superare il mio dubbio atroce). Quel 30% di tossici non è da abbandonare in galera, ci sono per loro delle possibilità che si tratta di fare funzionare; il 25% di stranieri può ricevere più spesso le risposte positive che gli si danno in qualche rara occasione; il 20% di giovani marginali sono prodotti di un sistema di accoglienza e di aiuto che non funziona, ma il fatto che non funzioni non ce lo impone nessuno (e che le politiche di prevenzione siano molto costose può essere dubbio, sapendo che il costo di un detenuto e di circa 350.000 vecchie lire al giorno). E anche per la fascia più problematica sul piano della pericolosità, si può fare qualcosa: per la verità, si deve fare qualcosa, nel nostro sistema. Lasciamo le pene indeterminate alle semplificazioni ispirate alla applicazione della sola forza, pura e dura, alla negazione della esistenza della persona, del paese-guida.

Devo aggiungere un’ultima precisazione. Il discorso che faccio è un discorso concreto, che si muove su normative che esistono e su una realtà che abbiamo sotto gli occhi. Non sono contrario a revisioni sul sistema delle pene, ma vorrei che non si abbandonasse la strada che si è percorsa per ritrovarci alla fine molto più indietro di dove siamo arrivati.

2. La necessità di capire che non siano d’accordo

Chiedo scusa. Temo che farò un discorso molto simile a quello fatto ripetutamente, se ne può fare anche un’analisi clinica e parlare di paranoia: un discorso, si potrebbe dire, che sta fra il capolinea e la pensione. Ma temo, soprattutto, e spero di non avere, il consenso a questo discorso da parte di chi si muove da dissensi di fondo che non vengono in superficie e da dissensi di superficie, che sono strettamente legati a diversità di fondo. Vorrei spiegare a chi mi dà ragione, o, almeno, mi riconosce delle ragioni, che non siamo affatto d’accordo. Non è facile e non so se ci riuscirò.

Provo a fare degli esempi. Ho partecipato, nel novembre 1999, a un incontro, che raccoglieva voci autorevoli della dottrina penalistica, sul tema delle prospettive di riforma del sistema penale e delle nuove tipologie sanzionatorie. In tale incontro si faceva riferimento alle proposte, approfondite e dettagliate, che ha formulato la Commissione presieduta dal prof. Grosso, rappresentata dallo stesso prof. Grosso e da molti altri dei componenti della stessa  commissione. Mi pare che abbiano apprezzato il discorso che ho cercato di fare, riaffermando e rivendicando la flessibilità della esecuzione della pena come principio costituzionale, la necessità di muoversi più efficacemente proprio su quella linea e la connessa necessità di opporsi alla crescita inarrestabile del carcere. Ma non eravamo d’accordo. Tanto che, nelle proposte della Commissione Grosso, all’insegna dei principi sulla effettività e la certezza della pena, si ridimensionano e in certe parti si chiudono completamente gli spazi della flessibilità e della gestione della stessa da parte della magistratura di sorveglianza (come, ad esempio, sulla ammissibilità alle misure alternative dalla libertà), rinnovando la profonda diffidenza manifestata in proposito dalla Commissione Pagliaro e dal progetto di legge delega per il nuovo codice penale dalla stessa approntato, progetto da cui la Commissione Grosso è partita. Sembrava che andassero bene le cose che avevo detto, ma constatavo, invece, che non eravamo affatto d’accordo.

E ancora. Nel dicembre 1999, ho partecipato ad un incontro del Gruppo di lavoro di penale di Md. Ho rifatto lo stesso discorso di cui sopra, anche per riprendere i riferimenti che ne aveva dato Letizio Magliaro nella articolata introduzione all’incontro. La mia impressione è che le cose siano andate meglio: anche se non venivano manifestati dubbi sulla flessibilità della esecuzione della pena, ho avuto l’impressione che il dissenso di fondo venisse più chiaramente alla superficie. Forse, perché condizionato dalla paranoia di cui ho parlato. O forse perché l’incontro era così presentato: «Quale funzione per un processo che eroga una pena non applicata effettivamente? I trattamenti alternativi possono considerarsi pene non effettive? Le ricadute sul processo di una pena flessibile: il rapporto fra il modello teorico della rieducazione e l’effettività del processo. Le ragioni e i costi del differimento della esecuzione della sanzione». E le risposte alle domande e ai problemi così posti erano date, nella relazione di Vincenza Maccora e Maria Monteleone per il Gruppo di lavoro, con una chiara presa di distanza dalla flessibilità della pena e con una conclusione che riprendeva le conclusioni della Commissione Grosso.

Vincenza Maccora appartiene alla magistratura di sorveglianza e vi ha appartenuto, con molto merito, anche Maria Monteleone. Anche qui io ritengo si manifesti un dissenso profondo, che è bene emerga. È significativo, a mio avviso, che questa funzione abbia unito in passato persone appartenenti a gruppi diversi, ed oggi divida persone anche appartenenti allo stesso gruppo. È possibile, per non dire certo, che io non sia in numerosa compagnia, ma devo aggiungere che le linee diverse non sono univoche. Mentre Maccora e Monteleone, nella relazione già citata, tornano al giudice di sorveglianza garante della legalità del carcere (l’illusione della rieducazione dell’uomo è fallita, ma quella della rieducazione del carcere non cessa di risorgere attraverso le maglie sempre più strette dello stesso), Lino Monteverde vuole un giudice terzo, ben fuori dal carcere e dai suoi coinvolgimenti, garante essenzialmente della legalità della esecuzione della pena. Dunque, anche qui disaccordo, disaccordo ad ampio raggio.

Naturalmente, non colgo in coloro con i quali sono in disaccordo, la intenzione precisa e consapevole di ritornare alla vecchia giustizia, ma vorrei chiarire, da un lato, che le modifiche che vogliono porteranno in quei paraggi e, dall’altro, che il percorso di questi anni, che difendo, ha avuto come scopo e, per certi aspetti, anche come risultato, un approccio diverso della giustizia nei confronti di gruppi assai ampi di condannati in gran parte appartenenti alle fasce sociale più deboli.

Provo a parlare di questo percorso, a cercare di vedere dove ci possono portare percorsi diversi.

3. Una storia, una teoria e un ossessione: e poi un’altra storia

Possiamo dire che la ricerca della flessibilità della esecuzione penale, dell’abbandono del sistema opposto della rigidità, ha una sua storia, che inizia con la richiesta di riforma penitenziaria, di risposta alla grande area del disagio sociale che il carcere raccoglieva. Alle sue spalle la nuova impostazione costituzionale della pena, i lavori, spesso pigri, delle Commissioni di studio, ma soprattutto la partecipazione sempre più larga di forze politiche e sociali, che riconoscevano che c’erano molte ragioni nelle rivolte che agitarono le carceri dalla fine degli anni sessanta fino alla legge di riforma del 1975 ed oltre la stessa. La legge di Riforma fu la prima tappa, caratterizzata da contraddizioni e limitazioni. Ma il cammino della riforma, sopravissuto agli anni di piombo, riprese più franco con la nuova normativa dell’86 (la legge Gozzini), considerata il completamento di quella del ’75 e il superamento delle esitazioni di questa. E intorno alla legislazione riformata continuava la presenza di forze sociali, volontariato e ancora una parte delle vecchie forze politiche, che volevano che la riforma passasse sempre più chiaramente dalle enunciazioni ai fatti. Su questa legislazione arrivarono i provvedimenti restrittivi degli anni ’91 e ’92, che colpirono l’area più pesante del carcere, ma non impedirono che, contemporaneamente o subito dopo, nuove modifiche consentissero l’ampliarsi notevolissimo delle misure alternative. Questa storia, dobbiamo dire, che trovò piena legittimazione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, sulla quale ritornerò.

Penso che interrompere questo percorso sia uno sbaglio grave: si è formata, si è consolidata intorno al carcere e alla esecuzione della pena, un’area di interesse sociale, una risorsa di impegno in un ambiente che ne è così povero. Ed è uno sbaglio altrettanto grave dirottare la storia, cambiare il suo percorso. Altro è che la legislazione presenti incoerenze che vanno rimediate: ma qui non si vuole razionalizzare il sistema che si è formato, se ne vuole un altro. Insisterei, ancora, sul punto che questa storia, questo movimento che l’ha espressa, erano volti a riformare un’area di grande disagio sociale, a dare, scivolando nell’enfasi con una espressione molto in voga in anni trascorsi, una possibilità di liberazione a persone, che, per violente e antisociali che fossero, erano, però escluse, attraverso la pena, da ogni ruolo e luogo sociale nel non ruolo e nel non luogo nei quali si risolve ogni esclusione. E gli anni in cui la riforma penitenziaria si è espressa e ha faticosamente iniziato il suo cammino, sono anni di altre riforme, quella psichiatrica, quella sanitaria, quella dell’intervento sociale, riforme tutte che cercavano di rispondere alle aree deboli della società.

Certo, una storia può finire e ne può iniziare un’altra. Ma è cominciata un’altra storia?

Sappiamo che, da anni, si sostiene, in un’area estesa della riflessione in materia, che la flessibilità della pena introdotta dalla riforma penitenziaria, ha stravolto il sistema della penalità, ha reso la pena ineffettiva, incerta, diseguale. Tornerò su queste pesanti parole, su queste qualificazioni negative del sistema della flessibilità. Ma di fronte alla storia della riforma penitenziaria e al movimento che l’ha espressa, non trovo un’altra storia, ma una riflessione teorica sulla pena e la sua funzione, una riflessione che si muove sopra la realtà: penso, sostanzialmente ignorandola. Tant’è che, dove quella riflessione si è affermata ed è diventata lentamente un’altra storia, ha ricreato le realtà da cui è partita la nostra: quella di una pena cieca che ricreava inesorabilmente fasce di esclusione e di debolezza sociale sempre più ampie.

Quella riflessione, quella filosofia, è stata sovente di sinistra ed ha chiesto contemporaneamente certezza e riduzione della pena. Ma mentre sul primo punto il consenso è generale, sul secondo sono i fatti ad essere pesantemente contrari.

Recentemente, poi, la riflessione contraria alla flessibilità ha raccolto una spinta sociale fortissima dalla richiesta di sicurezza contro quelle aree di disagio sociale,che turbano l’ordinata convivenza di tutti. Qui, a giorni alterni, si sostiene, statistiche alla mano, che la delinquenza è in crescita oppure no, che la insicurezza delle città (particolarmente di certe città) è in crescita inarrestabile oppure no. Ciò che è, però, generalmente riconosciuto è che, nel mentre tutti i vecchi elementi della sicurezza vengono svuotati dal di dentro (certezza e continuità del lavoro, dello studio, della prevedibilità degli sviluppi personali, familiari e sociali), emerge fortissima l’ossessione della sicurezza del proprio ambiente sociale rispetto a quelle presenze inquietanti ed estranee, che attentano alla sua tranquillità.

Dunque: da una parte una storia e un movimento; dall’altra, una impostazione teorica e una ossessione.

Su questo ultimo termine, è bene che apra una parentesi. L’ossessione è diventata un fatto sociale. Ne fa cenno anche la relazione Maccora-Monteleone. La richiesta di sicurezza ha i suoi movimenti, ha coinvolto tutte le forze politiche. Ma intanto, devo chiedermi se questo non segni la nascita di un’altra storia, quella che ho sopra negato: una storia nuova che rimpiazza quella che aveva accompagnato la riforma penitenziaria ed altre riforme per portare giustizia dove non ce ne era. Ebbene, se questa è una nuova storia, lasciatemi dire che ha un’altra “cifra”, se così posso dire, rispetto alla precedente. La pretesa di un diritto alla sicurezza ha una ispirazione puramente difensiva, di chiusura nel proprio particolare, di negazione e di esclusione dell’area del disagio e della precarietà, di disinteresse alla partecipazione sociale che dovrebbe intervenire su quelle aree per risolverne i problemi. Quanto alla partecipazione della politica, l’intervento e la rincorsa fra le varie parti è stato in gran parte propagandistico. Dopo la propaganda, a cui hanno partecipato praticamente tutti, la maggioranza attuale ha cominciato a intervenire e la legge Bossi-Fini sugli stranieri ne è un nitido esempio. Se questa è un’altra storia, è una brutta storia.

Ma della sicurezza non intendo disinteressarmi. Era proprio la sicurezza sociale, che voleva migliorare la vita delle persone, che ispirò il periodo delle riforme degli anni 70, fra cui la riforma penitenziaria. Ed è da lì che bisogna ripartire e cercherò di farlo più avanti.

4. I percorsi della flessibilità e della rigidità: dove si va a finire

Continuerei il confronto su alcuni aspetti generali delle due posizioni, della flessibilità e della rigidità della pena, consapevole che il contrasto può non essere necessariamente assoluto (anche il Codice Rocco prevedeva la liberazione condizionale) e che, anche in certe prospettive di recupero di certezza della pena, restano aspetti di flessibilità, pur se fortemente ridotti. Al riguardo, però, teniamo conto del fatto che qualunque sistema di flessibilità non è mai assoluto e sicuramente non lo è quello nel quale ci muoviamo. Le forti riduzioni degli spazi di flessibilità, specie quando operati all’insegna del recupero della pena certa, che evoca un quadro di rigidità, feriscono il sistema di flessibilità quale si è affermato da noi. D’altronde, proprio perché nessun sistema è assoluto, le differenze fra i sistemi sono relative e quantitative e, quando si riduce fortemente la quantità di flessibilità, ci si torna a rifare a un sistema prevalentemente rigido.

Ora, nel nostro Paese, come siamo arrivati molto tardi alle misure alternative, così si arriva al richiamo alla certezza della pena e a un sistema prevalentemente rigido di esecuzione, con ritardo rispetto ad altri paesi, che hanno già compiuto questo percorso. Se possiamo trarre qualche lezione da quanto avvenuto altrove, rileggiamo quello che ci dice Pavarini, pur critico di quel riformismo penitenziario della flessibilità che ha disarticolato il nostro sistema delle pene: le teorie nate dalla «reazione critica alla ideologia trattamentale» hanno «determinato la crescita di un movimento politico culturale … di ispirazione garantista … che ha ispirato significative riforme del sistema sanzionatorio, volte alla affermazione della meritevolezza del castigo e della inflessibilità della pena in fase esecutiva …. Le aspettative suscitate  perché la certezza della pena potesse coniugarsi con il criterio ispiratore del carcere come extrema ratio si sono dimostrate assolutamente infondate: sono aumentati i tassi di carcerizzazione, in particolare in ragione di una maggiore severità delle pene irrogate nella fase giudiziaria (e, aggiungerei io, della inflessibilità della pena in fase esecutiva); le condizioni del carcere sono ulteriormente peggiorate».

Come poteva essere altrimenti? Chi afferma che la risocializzazione penitenziaria è un mito fa talvolta un’affermazione che rappresenta un altro mito. Da un lato, si propone, infatti, di eliminare la “pietosa bugia” del trattamento penitenziario e della connessa flessibilità della esecuzione della pena, mentre, dall’altro lato, si pensa di potere controllare la legalità e la trasparenza del carcere. E, invece, la dinamica del carcere è quella di qualsiasi contenitore umano: se è neutro, se è indifferente ai singoli individui, con le loro storie e le loro esistenze, esso sarà inumano, nel senso che inevitabilmente diventerà indifferente all’uomo, ne oscurerà la dignità e i bisogni.

È arbitrario, dinanzi a queste considerazioni, tornare all’interrogativo di partenza: quale giustizia? Sempre più carcere e sempre più carcere, si può aggiungere, per i soliti noti: cioè, per le solite categorie, le cui composizioni potranno cambiare, ma il cui denominatore comune resta quello della appartenenza alle varie schiere di emarginati, prodotte puntualmente dal tipo di società   che vediamo crescere intorno a noi.

5. I quadri sociali di riferimento

Non c’è dubbio che le teorie della pena cui si rifà il diritto penale minimo o anche quelle che hanno come manifesto la certezza della pena, da un lato, e il carcere come extrema ratio, dall’altro, non vogliono arrivare agli esiti indicati. Non volevano arrivarci neppure i teorici della reazione critica alla crisi della ideologia trattamentale, che hanno suggerito quei percorsi in altri paesi: ma ci sono puntualmente arrivati. Perché non dovrebbe accadere anche da noi, dove, d’altronde, è bastata la campagna securitaria, puramente propagandistica, perché l’aumento dei detenuti in carcere sfiorasse le 10.000 unità in questi ultimi anni?

C’è dunque un legame fra le premesse e gli esiti, che omologa, quanto agli effetti, le teorie ora indicate, indubbiamente di impostazione liberale, a quelle brutalmente securitarie, portate avanti negli Stati Uniti (con numerosi epigoni, anche in Europa, pur se non arrivati all’altezza dei maestri), ove sono moltiplicati gli arresti e bloccate le scarcerazione dopo la seconda recidiva, con un trattamento penale analogo all’ergastolo. Vedi, al proposito, ancora Pavarini, a cui spesso faccio riferimento: Processi di ri-carcerizzazione e “nuove” teorie giustificative della pena, in Rass. penit. e criminol., 2000, n. 1-3, p. 95, nel quale si descrive la progressiva identificazione dell’area della detenzione, sempre più estesa, nell’area della marginalità; e il già citato Dalla pena perduta alla pena ritrovata, sempre in Rass. penit. e criminol., 2001, n.1-3, nel quale si dà atto della riflessione di alcuni studiosi americani che si interrogano in merito agli «effetti sulla stessa teoria della pena di una incarcerizzazione che si qualifica sempre nella pratica della esclusione penale della intera marginalità sociale»: questo ultimo dato corrisponde, quindi, a un fatto ormai riconosciuto.

Il legame, tornando a noi, è dato da quello che potremmo chiamare il carattere della committenza sociale, che, con una formula, si può definire: la città ostile. Le teorie buone, di impronta liberale, che si sono dette, hanno trovato e sottovalutato la influenza, di questo tipo di società che sta crescendo intorno a noi e che si esprime direttamente e francamente in risposte quali quelle degli Stati uniti, delle quali si è parlato qui sopra, dove una prassi di imprigionamento di massa realizza la detenzione dell’intera area della marginalità sociale. La città ostile accetta solo coloro che stanno dentro le mura e produce la emarginazione di quelli che non hanno le risorse per essere accettati all’interno: sia che non  riescano o anche non  vogliano riuscire ad averle (e quanto sia libera questa volontà in certe condizioni sociali è tutto da dimostrare).

All’opposto della città ostile c’è la città solidale, espressa dallo Stato sociale, cui abbiamo fatto riferimento a lungo, per poi rassegnarci alla sua crisi, che dobbiamo invece assolutamente superare, eventualmente rettificandone e perfezionandone e, soprattutto, completandone, meccanismi e modelli, ma confermandone i fini. Si gioca, qui, fra i due modelli di città e di società, il conflitto di questi anni: fra una città, riservata ai soli garantiti, che si chiude e si protegge e una città che non accetta emarginazione e cerca di essere una città per tutti. È il conflitto che stritola la politica, che, nell’unico senso accettabile, è volontà di cambiare le cose in modo da renderle più giuste, mentre, all’opposto, si impone la difesa degli egoismi individuali e delle libertà dei singoli, di quei singoli che possono averle e permettersele.   

Mi si può tacciare di schematismo. Ma mi sembra fuori di dubbio che la flessibilità della esecuzione penale, con tutti i suoi contenuti, su cui mi soffermerò più avanti, è nata e si è sviluppata nel quadro di riferimento dello stato sociale. Le teorie diverse, di segno liberale (che mi guardo bene di assimilare a quelle che hanno prodotto il mostruoso sistema penale americano e che adottano proprio il modello della città ostile), hanno, a mio avviso, il torto di essersi mosse sul piano astratto dei principi, ignorando le ricadute in termini reali. Come stanno facendo tutti coloro che insistono  sulla certezza della pena con i suoi corollari.

Anche da noi, la normativa del 1990 sugli stupefacenti si è mossa sul piano della certezza del diritto e della pena (ad esempio, con la guerra alla «modica quantità»), per poi esprimersi in una dose massiccia di aumenti di pena. E analoghi gli interventi in molte altre materie, per ricordare, come botto finale, le modifiche in materia di furto aggravato, iniziate su proposta del maggior partito della sinistra, e accompagnate in porto dal passato governo, modifiche che hanno rispolverato, per l’occasione, le pene del codice Rocco, anche se (direi: ancora peggio se) accompagnate da ardite costruzioni giuridiche. Ma, anche per questa ultima vicenda, il pretesto non era rappresentato dalla certezza della pena per alcune condotte di microcriminalità? E quale modo migliore (ovviamente, sempre sul piano della propaganda) di dare più certezza alla pena che quello di dare alla stessa maggiore durezza e severità?

Quale giustizia? La domanda di partenza ritorna. Quale giustizia nella situazione americana che si è descritta e che non sappiamo se sarà del tutto estranea al nostro futuro? Quale giustizia, non solo giudiziaria, ma più ampiamente sociale, nella società ostile che cresce? Quale giustizia nei cedimenti verso i modelli di molti paesi europei, che inalberano la bandiera della “tolleranza zero”? E quale giustizia, infine, nei tentativi di mettersi al passo dei tempi nel nostro Paese?

Capisco che mi si può obbiettare che non sono io al passo coi tempi nel parlare di Stato sociale e di città solidale. Non posso accettare questa osservazione. Accettarla vorrebbe dire arrendersi alla città ostile che viene.  Sono in gioco i valori di fondo non solo della nostra Costituzione, ma della civiltà che ci appartiene. Col tasso di prisonizzazione e di penalizzazione attuale degli Stati uniti (destinato ad allargarsi inesorabilmente fino a coprire l’intera area della marginalità sociale) siamo ancora dinanzi ad una società che si possa chiamare “sociale”?

Dinanzi a questo, abbandonare alla loro sorte gli strumenti dello Stato sociale, non è abbandonarsi ad una deriva in cui la stessa nozione di democrazia diviene una espressione verbale? Rispolverando, con tutta la sua carica critica, la espressione di “socialismo reale”, per i sistemi comunisti tramontati, non  si potrebbe parlare di “democrazie reali” per le nostre democrazie odierne?

Si parla qui di un singolo aspetto, ma tutto si tiene: dalla flessibilità del lavoro ( il lavoro ci sarà, come sarà, dove sarà, quanto durerà?) alla incertezza del futuro che ne consegue, dalla sostituzione di tutte le sicurezze con le opposte insicurezze (anche queste, come le prime, dalla culla alla tomba) alla inevitabile precarizzazione delle esistenze, da quel processo che è stato chiamato deterritorializzazione, e che ci aspetta, alla fine delle nostre appartenenze, quali che siano.

La domanda finale cambia: da quale giustizia a quale esistenza. Ho il dovere di restare alla prima e di cercare una risposta.

Parte seconda
La risposta costituzionale

1.  La legittimazione costituzionale della flessibilità

Per dare questa risposta, parto da ciò che abbiamo sul piano normativo. Ciò che abbiamo è un sistema di esecuzione della pena flessibile, che, ratificato, per così dire, con qualche limitazione, dalla legge Simeone-Fassone-Saraceni, non risulta efficace come potrebbe: anche, direi, per tutte le perplessità da cui viene accompagnato.

Partiamo, però, da una prima considerazione. La flessibilità della pena in sede esecutiva è una regola costituzionale, alla quale la legge ordinaria deve attenersi. Il discorso emerge dalla giurisprudenza costituzionale, e si articola in due tempi.

Primo tempo: la sentenza costituzionale 204/1974  nella quale si legge: «Con l’art. 27, comma 3, Cost., il fine ultimo  e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato», «ha assunto un peso ed un valore più incisivo di quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle. Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva  venga  riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativi e tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale». In questa sentenza troviamo l’affermazione di un principio, costruito come diritto soggettivo del condannato a vedere riesaminare, durante la esecuzione della pena, nei tempi e modi stabiliti dalla legge ordinaria, se la parte di pena espiata abbia già assolto positivamente o meno al suo fine rieducativo. Si noti che la individuazione di tale diritto soggettivo è centrale nella sentenza, perché, dal riconoscimento di tale posizione giuridica del soggetto, deriva la affermazione della competenza a decidere del giudice ordinario in materia di liberazione condizionale e la dichiarata incostituzionalità della competenza del ministro della giustizia, prevista dalla normativa allora vigente. Nella sentenza costituzionale si costruisce, in modo esplicito, il rapporto esecutivo penale come quello in cui lo Stato afferma la sua pretesa punitiva e il condannato ha però il diritto soggettivo che si è descritto, nato, come la sentenza chiarisce, dall’ «obbligo tassativo, per il legislatore,  di tenere non  solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle».

Secondo tempo: della costituzionalizzazione della flessibilità. Si possono riportare alcuni passi significativi della sentenza costituzionale n. 343/1987, che pur riportandosi esplicitamente alla sentenza 204/1974, fa ormai esplicito riferimento alle misure alternative alla detenzione previste dall’Ordinamento penitenziario. In tale sentenza, dopo avere rilevato «la crisi congiunta della pena e delle misure clemenziali, rivelatesi inadeguate, la prima, a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde, a promuovere reali manifestazioni di emenda», si prosegue e si osserva: «Di qui la tendenza a creare misure che, attraverso la imposizione di misure limitative – ma non privative – della libertà personale e l’apprestamento di forme di assistenza, siano idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione». Sono queste le misure alternative della Legge penitenziariae, su di queste, la sentenza osserva ancora: «Giova ricordare che sul legislatore in combe l’obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle». Non si può non rilevare la concretezza con cui la sentenza richiama a questo obbligo, osservando che sarà anche possibile che le misure in questione manchino di efficacia quando scontino «le ben note carenze strutturali e finanziarie», inerenti al sistema organizzativo che deve seguire e fare attuare le misure, e le «oggettive difficoltà di attuazione della prescrizione relativa al lavoro, non corredata da strumenti atti a forirne la disponibilità», ma ciò non toglie che quella strada vada perseguita, eliminando carenze e inadeguatezze del sistema operativo. Mi sembra chiaro che la costituzionalizzazione investe, qui, d’altronde a conferma di quanto già detto dalla sentenza 204/1974, gli strumenti necessari alla attuazione del principio affermato nella sentenza 204/1974 e il sistema organizzativo indispensabile per il funzionamento di quegli strumenti. Il che vuol dire: costituzionalizzazione delle misure alternative alla detenzione in fase esecutiva e del sistema organizzativo necessario per il funzionamento delle stesse. L’impostazione costituzionale, la ritroviamo espressa in molte altre sentenze, nelle quali è costante il richiamo alla 204/1974 e ai principi e agli strumenti della flessibilità della esecuzione della pena (282/1989, 125/1992, 306/1993, 68/1995, 186/1995, 173/1997, 445/1997, 137/1999). Se vogliamo, i vari e più recenti interventi della Corte costituzionale sono volti proprio ad individuare situazioni di rigidità che contrastano con il principio di flessibilità e a rimuovere le prime per riaffermare la seconda. E, anche nella difficile situazione normativa di cui alla legge 7 agosto 1992, n. 356, in conversione del Dl 8 giugno 1992, n.306, alcune delle sentenze citate si impegnano nella difesa dei possibili spazi di flessibilità.

Vorrei fare, a questo punto, una osservazione, che tornerà utile fra poco. La giurisprudenza costituzionale citata valorizza e, quindi, costituzionalizza, non semplicemente la funzione rieducativa della pena, ma il suo specifico funzionamento. Diversamente da quanto può accadere per le funzioni di prevenzione generale, per le quali la efficacia delle pene dipende da componenti non propriamente gestibili, per la funzione rieducativa, la giurisprudenza costituzionale si preoccupa del suo concreto funzionamento e tutela costituzionalmente gli strumenti di attuazione di quella funzione e il sistema organizzativo che deve gestirla.

E, se vogliamo, troviamo qui la risposta all’interrogativo di partenza, Ci chiedevamo: quale giustizia? La risposta la troviamo nelle sentenze costituzionali. Troviamo la risposta vera: non l’immagine stravolta, ma l’immagine ricomposta della risposta giusta ai nostri problemi. Anche la risposta che può servire a trasformare il carcere, dando allo stesso una prospettiva riabilitativa, la quale sostituisce un dinamismo utile alla immobilità senza scopo della pena rigida. Ma, già in altre occasioni, ho avuto modo di notare che tale risposta non ha raccolto tutta la attenzione che meritava.

2. Discorso costituzionale e situazione reale: nessuna risposta dalle altre proposte

Bisogna pur tornare alla situazione reale. Ogni opinione, teoria, giudizio, proposta, si devono misurare sulla situazione reale. Ci interpella il carcere sovraffollato, che cresce continuamente, che continua ad avere, come componenti trainanti della crescita, stranieri e tossiccodipendenti e devianti in genere. Ci interpella poi anche il carcere invivibile di cui dobbiamo parlare a un certo punto.

Gli indirizzi espressi in passato, sia in sede nazionale, che in sede europea, insistono sul non privilegiare la soluzione carceraria e sul dare spazio alle misure alternative. Ma come seguire tali indirizzi? Come prendere atto che è qui, nella realtà carceraria, che la domanda che sempre mi ripeto, trova un suo rilancio insistente? È una affermazione abbastanza ovvia e ripetuta che il carcere è, e credo sia sempre stato, una discarica sociale. Ma allora se la pena più dura e simbolica, quella detentiva, diviene prevalentemente lo strumento con cui si consuma il rifiuto delle fasce sociali emarginate, quale giustizia è quella che pratichiamo?

Qui la risposta degli studiosi americani, citati da Pavarini, (vedine i riferimenti al n. 4 della prima parte) è istruttiva. Se l’area del carcere si identifica con l’area della precarietà sociale, non siamo più davanti a un carcere, ma a un campo di concentramento. Non siamo più davanti alla espiazione di una pena, ma ad una operazione di pulizia sociale.

Dobbiamo trovare risposte che siano in grado di modificare questa realtà. Diciamo meglio: qualunque risposta deve essere valutata in base alla efficacia di incidere sulla stessa. Faccio  allora una ricognizione.

 

A) Hanno dimostrato di non incidere su tale realtà, ma anzi di concorrere ad aggravarla se non a produrla, quelle teorie che, rifiutando la ideologia trattamentale, hanno ispirato riforme del sistema sanzionatorio volte alla affermazione della meritevolezza del castigo e della inflessibilità della pena in fase esecutiva. Le aspettative: certezza della pena e carcere come extrema ratio; il risultato: pene più alte, blocco delle anticipazioni delle uscite, carceri pieni e in condizioni sempre peggiori.

 

B) Le proposte della Commissione Grosso, come già quelle della cd bozza Pagliaro, ed anche le osservazioni della relazione Maccora-Monteleone, non sono lontane da quelle teorie e ne assumono molti degli spunti, che si imperniano, soprattutto, sulla esigenza della certezza della pena e del recupero di un sistema penale, che ritrovi ordine, anche a prezzo di riportare rigidità e di eliminare buona parte della flessibilità acquisita. Ma, se valutiamo queste proposte nei termini della loro incidenza sulla riduzione o sulla incentivazione dell’area concreta della carcerazione, nonostante la consueta dichiarazione del carcere come extrema ratio, e la individuazione di una nuova tipologia sanzionatoria non carceraria, vediamo bene che è da escludere che le stesse porteranno alla riduzione, mentre è molto ragionevole supporre che porteranno ad un aumento, e non lieve, del numero dei detenuti.

Sulle proposte della Commissione Grosso, si può osservare:

  • che è probabile che vari interventi portino ad un aumento delle pene inflitte e da eseguire in concreto (riduzione della discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena,  nuovo regime della sospensione condizionale, disciplina sanzionatoria del concorso dei reati, riduzione degli effetti delle circostanze del reato, con il recupero, in particolare, della obbligatorietà della recidiva);
  • che la previsione della applicazione, con la stessa sentenza, di pene diverse dalla detenzione in carcere, inevitabilmente legata a fatti poco rilevanti, è destinata a essere gestita senza conoscenza delle situazioni concrete e può comunque approdare, in sede esecutiva, a nuova esecuzione di pena detentiva (la detenzione domiciliare, ad esempio, proposta fra i nuovi tipi di sanzione, è oggi una fabbrica di denuncie per evasione e di revoche con ritorno in carcere);
  • che quelli che vengono chiamati «cenni sulla revisione delle misure alternative alla reclusione» contengono un arretramento molto notevole rispetto al regime attuale di flessibilità della esecuzione: se si vuole, ci si riavvicina, per molti aspetti alle prime previsioni dell’Ordinamento penitenziario del ’75 e, per qualche aspetto (v. la previsione di un limite al residuo pena per la ammissione alla semilibertà), a una restrizione delle stesse.
  • E alle conclusioni della Commissione Grosso si riporta anche la relazione Maccora-Monteleone di cui ho già parlato in precedenza. Quelle a cui si è ora accennato sono le proposte concrete avanzate per le modifiche del sistema penale e penitenziario. Altra commissione sta ora lavorando e non conosco i risultati del suo lavoro. Non credo che saranno migliori: anzi.

 

C) Su un piano meno concreto si muovono altre proposte, che prospettano impostazioni diverse della pena, nelle quali prendono particolarmente rilievo le finalità riparative che la stessa dovrebbe avere. Un saggio di Grazia Mannozzi (su Rass. penit e criminol., 2000, n. 1-3, p. 1) inizia così: «Parlare di “giustizia riparativa” significa occuparsi di un tema , per così dire, à la mode». E ha ragione, perché anche i magistrati di sorveglianza e gli operatori penitenziari ne sono attratti e sono anche stati chiamati, in sedi seminariali, ad occuparsene attivamente. Il saggio ora citato «si riferisce alle due risoluzioni adottate dalla Nazioni Unite con la dichiarazione di Vienna (…scaturita dai lavori del decimo Congresso Internazionale della Nazioni Unite…. svoltosi dal 10 al 17 aprile 2000), che specificamente incoraggiano i modelli di intervento sul conflitto fondati  sulla riparazione delle conseguenze dannose del reato e orientati sulla riconciliazione fra autore e vittima». In “Postfazione” Livio Pepino, con un discorso molto articolato, osserva: «La retribuzione – la pena, il carcere – ha giustificazioni etiche, ma, anche sotto il profilo della utilità sociale e della tutela della vittima, si dimostra inadeguata. Non si tratta di negarle legittimazione, ma di porne in discussione i risultati. Ed è qui che si affacciano altre risposte, alternative o concorrenti, a seconda dei casi: non forme di lassimo o di sottovalutazione, ma tessere di una politica sociale e criminale insieme più mite e, auspicabilmente, più efficace. Questo è il punto di discussione: se in vista di una maggior utilità sociale, è opportuno e affiancare alle tradizionali risposte retributive interventi riparatori o conciliativi. Difficile contestare l’opportunità, quantomeno, di una sperimentazione».

Dunque: nuovi possibili aspetti della pena, alternativi o concorrenti, attraverso interventi di riparazione, conciliazione o anche mediazione. Se si guarda la relazione della Commissione Grosso (paragrafo VIII°, n. 2, in fine, e soprattutto n. 13), si può pensare che anche qui si porti particolare attenzione all’aspetto riparativo della pena. Ed a questa impostazione della pena si riporta la riflessione di molti altri studiosi. Anche qui, però, bisogna chiedersi se le soluzioni proposte in termini che prescindono, almeno di regola, dalla pena detentiva, possano intervenire nella casistica ordinaria che porta in carcere oggi e che rischia di portare in carcere anche domani. Ben vengano interventi di questo genere, ma essi non contrasteranno che marginalmente l’allargamento dell’area della detenzione.

Fatemi dire qualcosa di più. Sinteticamente:

c1) è vero che il discorso sulla pena ha posto l’accento sul colpevole e in qualche misura ha perso di vista la vittima. Ma si può ben dire che la «giustizia riparativa», ponendo l’accento sulla vittima, si dimentica del colpevole, se non per costruire un suo senso di colpa e su questo un intervento riparativo da parte sua, oltre ai suoi obblighi risarcitori, mai negati. In altre parole, la funzione riabilitativa della pena, intesa come lo sviluppo di un percorso di reinserimento sociale del condannato, esce fuori dal quadro, sembra non interessare più;

c2) accentuare la funzione riabilitativa nella esecuzione della pena può, è vero, fare perdere di vista che siamo in presenza di una pena inflitta per un reato, per una colpa. Dirò fra poco che una pena puramente rigida ed afflittiva rende il colpevole, rispetto a sé, innocente, mentre proprio una esecuzione partecipata dal colpevole, volta al suo reinserimento nella società, dovrebbe comportare una riflessione sul reato. Aggiungere a tale riflessione un intervento riparativo può completare e approfondire la riflessione, ma si dovrà valutare se tale intervento giovi o nuoccia al percorso riabilitativo che la persona deve compiere. Si pone un problema di compatibilità, che il discorso sulla giustizia riparativa non so quanto abbia presente, una volta che pensa essenzialmente alla riparazione della vittima e alla riconciliazione col colpevole e non alla riabilitazione di questi. E si tratta di sapere se interessi che il colpevole riparatore e riconciliato non commetta più reati e sia anche riabilitato. Il disinteresse per le indicazioni costituzionali mi sembra abbastanza evidente;

c3) le teorie hanno spesso la caratteristica di creare problemi dove non ce ne sono. La vasta area dei condannati su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione e quella corrispondente delle vittime dei loro reati sono realmente motivati alla costruzione di questo rapporto riparativo? Se non è così, non serve a molto costruire delle liturgie non necessarie e non richieste. Se il colpevole avrà posto le basi per inserirsi correttamente nella società, sarà relativamente utile e spesso anche abbastanza difficile che egli si impegni nella riparazione ad una vittima, che spesso lo ha dimenticato. E viceversa la vittima avrà ormai razionalizzato l’accaduto, salvo che non sia ancora estremamente sensibile allo stesso e abbia solo il pensiero di una condanna esemplare per il colpevole, non della riconciliazione con lui;

c4) concludendo, a mio avviso, l’applicazione della giustizia riparativa: - sarà utile come sostitutivo di pene che non sarebbero state detentive; - potrà solo affiancare la esecuzione delle pene detentive e, in tal caso, non dovrà ignorare i percorsi riabilitativi che la pena deve sempre avere e non dovrà nuocere agli stessi; - come si è già accennato non rappresenterà una risposta utile alla domanda di giustizia posta a base di queste pagine per contenere la dinamica di discarica sociale del carcere.

Devo aggiungere che sono, invece, da cogliere nelle due risoluzioni delle Nazioni unite gli aspetti attinenti al coinvolgimento della collettività e alla predisposizione di interventi a favore delle vittime. Al riguardo del secondo dei due punti, la nostra legge penitenziaria prevede interventi in materia all’art.76, del tutto assenti, allo stato, ma resi ora possibili dalla previsione dell’art. 129 del Regolamento esecuzione alla legge stessa, che, per vero, non è stato fatto ancora funzionare, come potrebbe. Quanto al primo, ci ritornerò quando parlerò di sicurezza o, meglio di sicurezza sociale.

Si è già visto che l’aumento del numero dei detenuti nel nostro paese si inquadra in processi di ricarcerazione, che raggiungono limiti estremi negli Stati Uniti, dove si opera una vera e propria mutazione della funzione della pena. Ora, a me pare che la resistenza e il contrasto ai processi di ricarcerazione in atto non possa rinvenirsi nelle teorie cui abbiamo accennato, che, sia pure con le migliori intenzioni garantiste, ripropongono sistemi penali con maggiori quote di rigidità e minori livelli di flessibilità. Queste posizioni cercano la validità dei principi e la coerenza del sistema, ma non si misurano con il carcere che cresce sotto i nostri occhi. Non basta enunciare il principio che il carcere deve essere la extrema ratio, quando risulta chiaro che lo stesso rappresenta lo sbocco ordinario delle decisioni penali, particolarmente nelle materie che interessano la emarginazione sociale.

Riportarsi agli indirizzi costituzionali in materia di flessibilità della esecuzione penale è l’unico modo di reagire al processo di crescita dell’area della detenzione. È l’unico modo concreto di porsi davanti a quel processo e di contrastare lo stesso. E, se dobbiamo constatare, che la crescita si verifica egualmente, dobbiamo cercare di operare con maggiore efficacia. È l’unico modo di non lasciare senza risposta l’interrogativo che ripeto, come ritornello di questa mia riflessione: quale giustizia? Interrogativo che trova senso e conferma quando vediamo quale ne è la conclusione: colpire e ricarcerare una parte sempre più vasta della area della precarietà sociale, produrre, in questo ambito, sempre più emarginazione ed esclusione.

3. Pausa di riflessione nella riflessione

Ho bisogno, come si dice, di una pausa di riflessione nella riflessione. Per capire, al solito, se diciamo le stesse cose, se ci poniamo le stesse domande, se ci interessano le stesse situazioni e se ci rifacciamo agli stessi valori o principi o idee generali, come li si voglia chiamare: insomma, se ci interessa di rispondere o non rispondere alla domanda che ho appena ripetuto, in chiusura del numero precedente.

La questione focale è posta dalla realtà rappresentata da questa massa di detenuti in crescita, che rispecchiano essenzialmente la crescita della risposta carceraria alle aree emarginate ovvero la crescita della funzione di discarica sociale del carcere. Ci interessa di intervenire su questa realtà o la questione non ci appartiene e fa parte delle dinamiche sociali che non ci riguardano o che pensiamo comunque di non potere controllare?

Può darsi che sacrifichi la ricchezza di un discorso, ma l’essenziale della riflessione di Maccora e Monteleone è il richiamo ai principi della pena certa, pronta, indefettibile («inderogabilmente applicata una volta comminata»: cito letteralmente dalla loro relazione), la contestazione del mancato rispetto di tali principi, dello svuotamento di contenuto della esecuzione della pena, il senso di insicurezza che tale situazione produce e al quale si deve rispondere. Le proposte della Commissione Grosso, sempre seguendo Maccora e Monteleone, possono essere una risposta adeguata ad una tale situazione. Ora, tali proposte porteranno, secondo un calcolo non molto ragionato, ma non irragionevole, ad un dimezzamento  delle misure alternative. Le quali, poi, nel nostro sistema, non sono una esagerazione, se Livio Pepino, nell’intervento citato in precedenza, ci ricorda che le stesse sono, oggi, circa un quarto di quelle concesse nei paesi europei a noi più vicini.

Devo pensare che siano le questioni di principio indicate che interessano e che la realtà del carcere quale è non interessa o, comunque, non riguarda una riflessione, che va tenuta stretta ai principi, anche se le sue conclusioni avranno ricadute sicuramente nefaste sulla realtà, rafforzando, senza alcun dubbio, l’area della detenzione e la funzione di discarica sociale del carcere.

La mia domanda era: quale giustizia? E voleva dire: ma che giustizia è quella che produce sempre più emarginazione e non si preoccupa in alcun modo di intervenire con efficacia sul  processo che la produce? La domanda che colgo in tutte le varie posizioni e teorie che ho richiamato è questa ed è ben diversa: quale giustizia è quella che sacrifica i principi della certezza, della effettività, della coerenza nella applicazione e nella esecuzione delle sanzioni e lascia che per molte persone, quali che siano (sono pur sempre autori di reati), non si applichino le pene detentive, così come inflitte?

E, allora, perché sia chiaro che ci si può benissimo interessare ai principi, ma in modo da non disinteressarsi alla realtà che si è richiamata, devo cominciare un lungo percorso intorno ai pregiudizi e alle volute sottolineature critiche di varie questioni relative alla flessibilità, dimostrando, dal mio punto di vista, che questa è perfettamente in regola con i principi. Diversi, ovviamente, da quelli cui si richiamano i critici della stessa.

Primo. I  principi costituzionali

Chi sostiene incertezza e ineffettività della esecuzione penale non tiene conto che ciò che viene chiamato in questo modo è il risultato della flessibilità nella esecuzione della pena affermato in modo incontestabile dalla Corte costituzionale. Non si è disarticolato il sistema penale (un sistema, in particolare, che, da più di 50 anni, sarebbe pacificamente da rifare), non lo si è balcanizzato. Si sono introdotti nuovi principi, in attuazione di un precetto costituzionale, nella materia della esecuzione della pena, che è la sola e la essenziale su cui pongo l’accento (anche se, come sappiamo, la Corte costituzionale, con la sentenza 313/1990, ha detto qualcosa di significativo e di coerente con i principi della flessibilità anche in materia di commisurazione della pena in sentenza). Non dubito che il sistema positivo che si è determinato in materia di esecuzione flessibile, per la sua storia contrastata e contraddittoria, possa essere utilmente riordinato. E questo è stato anche oggetto di progetti legislativi purtroppo non arrivati a conclusione (su proposte avanzate in un seminario del Csm fra magistrati di sorveglianza, era stato elaborato un progetto con primo firmatario Ersilia Salvato, che, se non ho perso il filo della vicenda, è confluito in una ricca serie di proposte legislative stralciate dai lavori della legge Simeone-Saraceni-Fassone e seguite, dopo la approvazione della legge, durante la legislatura conclusa, da Elvio Fassone). È fuori dubbio la perfettibilità del sistema normativo esistente, ma ciò che dovrebbe essere pacifico è che il perfezionamento non dovrebbe ridurre gli spazi di flessibilità che il sistema ha guadagnato. La lezione in tal senso ci viene dalla Corte costituzionale, che ha difeso tali spazi in ogni occasione, mentre ha costantemente colpito, quando ne ha avuto occasione, gli spazi di rigidità rimasti. Ricordiamo che, a suo tempo, la Corte riconobbe anche la costituzionalità della ammissione alle misure alternative senza passaggio dal carcere, eliminando inoltre l’esigenza della pregressa custodia cautelare (questioni oggi superate dal riferimento normativo al residuo pena, che, anche questo, discende, però, dalle iniziali indicazioni della Corte nella sentenza 386/1989).

Non si può ragionare di sistema della esecuzione penale senza tenere conto di questi principi. Con questi il sistema non è stato disarticolato, ma è stato riarticolato in conformità di quanto la Costituzione voleva. Per vero la Costituzione avrebbe voluto un altro sistema penale, ma, almeno nella fase esecutiva penale, il sistema che si è determinato è conforme alla Costituzione e legittimato dalle ripetute indicazioni della Corte costituzionale. Con tutto il rispetto per la cd bozza Pagliaro, su cui ha lavorato la Commissione Grosso, e per le conclusioni di questa, la restrizione della flessibilità in sede esecutiva, nettissima nella bozza Pagliaro, ma quantitativamente rilevante anche nelle conclusioni della Commissione Grosso, non ha tenuto conto, a mio giudizio, di queste indicazioni, che non possono non essere ritenute fondamentali.

Secondo. Il senso delle parole

Come diventa la pena, eseguita nel modo, costituzionalmente ineccepibile, difeso al punto primo? Secondo i suoi critici diventa: ineffettiva, diseguale, incerta. Ho già detto in altre occasioni come le parole possono essere usate per designare cose molto diverse e come il senso di esse si ricostruisce in base alla visione delle cose di coloro che usano quelle parole. Posso dire che la pena eseguita come detto al punto primo non è ineffettiva, diseguale e incerta, ma esattamente il contrario. Cerco di approfondire i diversi significati possibili di tali parole: secondo la mia visione delle cose e cercando di capire la visione delle cose altrui. Mi scuso se ripeto considerazioni fatte in altre occasioni, ma ho la ragionevole convinzione che non siano particolarmente note e ricordate (la cosa è più che legittima).

Ineffettività-effettività della pena. Si parla di pena, ma, in sostanza, di pena detentiva. Ebbene due parole sul carcere, come è in buona misura ancora, nonostante le contraddizioni che il riformismo penitenziario (cioè, proprio il contrastato sistema della flessibilità) vi ha introdotto; sul carcere, come sicuramente sarebbe senza incertezze, se quelle contraddizioni venissero liquidate o ridotte al minimo. Non badiamo alla ideologia degli architetti che, secondo la analisi foucaultiana, avrebbero voluto sostituire, alla presa sul corpo dei vecchi supplizi, la presa sull’anima del carcere come coazione finalizzata alla trasformazione personale del condannato. Invero, ciò che resta concreto e reale nel carcere di ieri e di oggi è la presa sul corpo, l’unica che riesce bene e agevolmente: la presa sul corpo è la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, in uno spazio e in un tempo artificiali. Ma la invalidazione del corpo diventa inevitabilmente invalidazione della persona, deresponsabilizzazione, rimozione della colpa. Nelle mani degli altri per tutto, il detenuto si sente vittima, non colpevole, ricrea la sua innocenza. Questa è effettività della pena, questa sofferenza senza echi, questa riduzione dell’esistenza sul piano delle funzioni di sopravvivenza? La sola afflizione non produce comprensione della colpa, né della pena: non interpella il colpevole, non ne cerca risposte. In che senso questa pena è effettiva? Perche non viene modificata, perché resta quella che era: ma, per la sua effettività, è sufficiente questo essere, la pena, referente solo a se stessa? Quale è la pena che trova la sua legittimazione nella giurisprudenza costituzionale sulla esecuzione flessibile? Non si tratta della presa sull’anima, come la intende Foucault, ma della costruzione di un rapporto con la persona detenuta: la ricognizione della sua storia, la rilevazione dei suoi problemi, la ricerca delle sue prospettive, l’attuazione di queste, in quanto possibile. Se il lavoro in tal senso è insufficiente, è perché, da quando c’è la legge penitenziaria, le risorse necessarie sono state  mobilitate solo in misura minima. Ma, pure insufficiente e incompleta, l’attività svolta ha consentito «quantomeno di contenere l’insopportabile disumanità del carcere» (v. Pavarini, L’esperienza italiana di riformismo penitenziario, pg. 144, in Il vaso di Pandora, Ist. Enciclopedia It., 1997). Questa pena sarà meno effettiva se in parte potrà svolgersi in carcere nel modo ora detto e in parte (o anche totalmente) all’esterno, nella «prova assistita e controllata» (v. la sentenza costituzionale n. 343/87) costituita da una misura alternativa? E tutto ciò non può contribuire a ricostruire in chi sconta la pena il senso della propria responsabilità, responsabilità per quanto si è fatto di antisociale e per quanto si deve fare di sociale? Non è dare effettività alla pena il ricostruire il senso di responsabilità di una persona? Allora, tenendo conto della necessaria finalizzazione riabilitativa-risocializzativa della pena, così come sottolineata dalla Costituzione e dalla Corte che la interpreta, quale pena è effettiva e quale ineffettiva?

Disuguaglianza-eguaglianza della pena. Se la pena cambia nel corso della esecuzione, se diventa diversa nelle sue modalità esecutive, questo comporta diversità di trattamenti per chi ha la stessa pena (evidentemente non interessa molto come si è arrivati a quella pena e se la sua inflizione e commisurazione rispetti criteri di eguaglianza). Anche qui le parole – eguale-diseguale – assumono significati diversi rispetto a parametri diversi. Chi considera diseguale il sistema introdotto dalla flessibilità della esecuzione, mi pare parta da una nozione di eguaglianza formale, che nasce dal considerare il reato e il suo autore fuori dalla loro storia. In sostanza: va punita la colpa per avere commesso un atto antigiuridico: la pena deve cogliere, il più oggettivamente possibile, gli estremi dei fatti ed essere adeguata a tale valutazione. C’è stata una colpa e va punita: non conta ciò che c’è prima o dopo di essa. Ma esiste un’altra nozione di eguaglianza, reale, sostanziale, dinamica, che ci consegna il comma 2 dell’art. 3 Costituzione. Questa norma impegna a costruire eguaglianza. Le vicende individuali delle persone giudicate mostra quanto differisca in ciascuna il livello di responsabilità, quali siano stati, per molti, i pesanti condizionamenti e i fragili livelli di libertà propri della loro storia e dei loro ambienti. L’esecuzione della pena deve essere, secondo il precetto costituzionale dell’art. 27, lo strumento della risocializzazione di tali persone dopo il reato e la condanna. Essa deve, quindi, servire ai condannati per esprimersi come persone libere e riassorbire le diversità rispetto agli altri, diversità che hanno in tanti momenti caratterizzato la loro vita: questo è dare eguaglianza, un eguaglianza, che mi sembra più giusta rispetto a quella di cui parlano i critici della esecuzione flessibile della pena. Chi teme che la flessibilità della pena possa violare l’eguaglianza parte da un rispetto incondizionato della libertà delle persone, dal loro diritto di scegliere la devianza come la propria strada. Ma c’è anche chi sostiene, al contrario, il diritto di potere scegliere davvero responsabilmente, evitando i condizionamenti inesorabili a scegliere la via peggiore. Queste due posizioni si basano ciascuna su una particolare visione della vita. Per la prima il rispetto dell’altro è tale da impedire che ci si preoccupi dei suoi percorsi sbagliati, se non eventualmente, per punire le sue condotte illecite: no n ci si vuole intromettere nella sua vita. Per la seconda, le opportunità che si offrono all’altro, diverse da quelle offertegli dalla sua esistenza, servono ad aiutarlo a ricostruire il suo rispetto di sé e degli altri,a rendere davvero libera la sua libertà.

Certezza-incertezza. Mentre la effettività della pena attiene alla corrispondenza della sua esecuzione al concreto precetto sanzionatorio enunciato, la certezza riguarda l’essenza di tale comando: eseguire un’altra pena, modificando quella enunciata, vuol dire porre fine a questa, che o resta la stessa o cessa di essere l’univoco e solenne sigillo della condanna. Anche qui non sarebbe male ripetere che una esecuzione dinamica e modificativa della sanzione originaria discende dalla Costituzione e dalla interpretazione che la Corte competente ne ha dato. Ma vorrei, comunque, osservare, in presenza di questo martellamento costante sulla certezza della pena (non solo degli addetti ai lavori, ma anche di qualunque politico, giornalista o benpensante, che metta bocca in materia), che tale esigenza viene da quella che vorrei chiamare pedagogia della chiarezza e della definitività, che si pensa debba accompagnare le sentenze: si ritiene che queste caratteristiche siano il sostegno della autorità delle medesime. La esecuzione non  dinamica, cioè l’immobilismo esecutivo, si muove in un’ottica di questo tipo: chi sbaglia paga e solo dopo avere pagato potrà rientrare nella società. Il problema è la sua colpa e viene risolto dalla pena: unico problema, unica risposta. Se la sua storia e i suoi problemi si manifesteranno nuovamente in una nuova colpa, non ci sarà che da irrogare nuove pene. L’ottica sociale sottostante vede solo il rapporto fra norma violata e colpevole, la società è l’arbitro della giusta pena: la legge sarà eguale per tutti, ma le diverse storie e le diverse collocazioni sociali delle persone, faranno si che la legge sarà più uguale per alcuni e meno per altri. L’ottica sociale costituzionale, di cui si è già detto, è ben diversa: l’esecuzione della pena pone all’attenzione i problemi del soggetto ed è l’occasione per cercarne, con la sua partecipazione, la soluzione. Si noti che nella esecuzione flessibile, la pena, così come irrogata, resta, comunque, il quadro giuridico di riferimento entro il quale la esecuzione si svolge, in particolare quando la misura alternativa dovrà essere revocata e riprenderà la esecuzione detentiva. Quale incertezza della pena è dunque quella che, fermo il quadro giuridico della stessa, utilizza, secondo le indicazioni costituzionali, elementi di dinamismo nella esecuzione? E quale certezza è quella che non ha altra preoccupazione che di definire il passato e di sigillarlo? Lasciatemi ripetere domande-provocazioni già fatte. Questo bisogno di certezza, questa irresistibile nostalgia della certezza, si basa su due pilastri: la sacralità del giudicato (nulla di male nel parlare di sacralità: la parola jus ha origini sacre e furono sacerdoti i suoi primi interpreti: è vero che è passato un certo tempo da allora) e la preoccupazione, particolarmente dei giudici, di doversi misurare con le storie e i problemi concreti delle persone. È possibile che si tema di mettere in crisi l’imperturbabilità del giudice? Ma mi si può chiedere: è un buon giudice quello che non è imperturbabile? Io credo che lo sia, purché sappia governare i propri turbamenti, che rappresentano sempre una chiave di comprensione della realtà che deve giudicare.

Conclusione. Non ci persuade il significato che viene dato alle parole: effettività, uguaglianza, certezza, dai critici del sistema attuale di esecuzione flessibile della pena. Secondo il significato che si è cercato di spiegare per tali parole, questo sistema non attenta alla effettività, alla eguaglianza e alla certezza della pena, ma le persegue nel modo più adeguato in conformità con le indicazioni costituzionali.

Terzo. Fallimenti ed equivoci

È necessario chiarire che le ripetute affermazioni sul fallimento dell’ideologia rieducativa  (si dice «illusorio lo scopo socialpreventivo della pena», sostenuto «attraverso la pietosa bugia del trattamento penitenziario»: v. i passi riportati in precedenza di Pavarini) non hanno nulla a che vedere con la pena e con il sistema della sua esecuzione, come descritti nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

Due osservazioni al riguardo. Chiedo scusa se ripeto alcuni passi delle sentenze costituzionali già citati e dei concetti che esprimono, ma non sono riuscito a farne a meno per fare “filare” il discorso.

Prima osservazione. Nella sentenza costituzionale n. 343/1987 si legge: «L’introduzione … di misure alternative alla detenzione, genericamente definibili di “prova controllata” … trae origine, come è noto, dalla congiunta crisi della pena e delle misure clemenziali (la sentenza le indica più oltre: sospensione condizionale della pena, amnistia, indulto e grazia condizionata), rivelatesi inadeguate, la prima a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde a promuovere reali manifestazioni di emenda». Dunque: la Corte aveva ben presente un fallimento, ma era appunto quello della pena rigida e delle misure clemenziali e ha indicato le misure alternative e, quindi, il sistema della flessibilità nella esecuzione della pena, come lo strumento per superarlo.

Seconda osservazione. Nella relazione della Commissione Grosso (paragrafo VIII, n. 16) si legge, sotto il titolo «La funzione rieducativa della pena»: «Si tratta di principio fondamentale, che deve connotare la intera disciplina della pena, nella fase della sua previsione generale astratta, come in quella della sua commisurazione ed esecuzione». Dunque: anche la Commissione Grosso, che pure propone un recupero di rigidità della esecuzione ed un notevole ridimensionamento degli spazi di flessibilità, non considera tanto inattuale il discorso sulla funzione rieducativa.

Credo che, quando si parla di fallimento della ideologia rieducativa della pena, si pensi ancora alle teorie più datate che supponevano di indurre il mutamento morale della persona attraverso la sofferenza della pena, affiancato da trattamenti operati nella stessa direzione, oppure l’acquisizione di un maggiore adattamento alle regole attraverso l’effetto dissuasivo della sofferenza della restrizione, accompagnato anche questo da una pedagogia purificatrice. Ma pure - e mi ci soffermerò più oltre - la convinzione del fallimento della funzione riabilitativa della esecuzione penale e della riduzione a interventi amnistiali delle misure alternative è molto diffuso: in proposito, basta leggere la relazione Maccora-Monteleone e il contributo di Lino Monteverde.

Prima di contrastare tale convinzione, sarebbe bene chiarire i concetti. La sentenza costituzionale n. 343/87, nella stessa parte citata, dopo avere rilevato «la crisi congiunta della pena e delle misure clemenziali, rivelatesi inadeguate», prosegue: «Di qui la tendenza a creare misure che, attraverso la imposizione di prescrizioni limitative – ma non privative – della libertà personale e l’apprestamento di forme di assistenza, siano idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione», misure, queste, che sono ovviamente, come già accennato, le misure alternative della legge penitenziaria. E la sentenza osserva ancora: «Giova ricordare che sul legislatore incombe l’obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle». Non si può non rilevare la concretezza con cui la sentenza richiama a questo obbligo, osservando che sarà anche possibile che le misure in questione manchino di efficacia quando scontino «le ben note carenze strutturali e finanziarie», inerenti al sistema organizzativo che deve seguire e fare attuare le misure, e le «oggettive difficoltà di attuazione della prescrizione relativa al lavoro, non corredata da strumenti atti a fornirne la disponibilità»; ma ciò non toglie che quella strada vada perseguita, eliminando carenze e inadeguatezze del sistema operativo.

Quello che va rilevato, quindi, è che la Corte costituzionale indica per le misure alternative un sistema di prova controllata ed assistita, che agisce verso la ricostruzione del ruolo sociale della persona non attraverso una modifica morale, puramente soggettiva, ma attraverso l’intervento assistito sulle sue relazioni e le sue condizioni, fortemente oggettivo, anche se richiede la indispensabile partecipazione, controllata e sostenuta, si ripete, dell’interessato. Che poi la persona che recupera socialità, recuperi anche responsabilità nelle relazioni con gli altri, è un effetto abbastanza inevitabile di un certo processo.

Ora: se noi ragioniamo in generale, una linea riabilitativa di questo tipo non può non essere di gran lunga più efficace, sul piano del recupero sociale,  della esecuzione di una pena rigida. Le opinioni dei teorici e dei pratici in materia, per quanto ne ho potuto ricavare, coincidono. Non c’è dubbio, a mio avviso, ma anche ad avviso di molti altri, che “accompagnare” (col sostegno e col controllo) il rientro sociale di una persona condannata serva a ridargli una normalità di esistenza, che, diversamente, dallo “sbatterla fuori” a fine pena, può contribuire ad evitare sue possibili recidive.

Al riguardo, le conclusioni della Commissione Grosso possono in qualche misura, se mi è consentita questa osservazione, avere eluso il senso effettivo ed operativo, in termini costituzionali, di ciò che viene chiamato funzione rieducativa della pena. Mi riferisco ancora al paragrafo VIII, n. 16, nel quale si accenna ad una riserva, durante i lavori della Commissione, sulla esigenza di «prestare particolare attenzione alla realizzazione di questo principio». La conclusione della Commissione è stata che il principio è stato tenuto presente. Ma il problema vero non è il principio, ma il suo significato costituzionale e i suoi concreti meccanismi operativi. Sotto tale profilo, si sarebbe dovuto concludere il contrario di quanto concluso: che le misure alternative alla detenzione e,cioè, i concreti meccanismi operativi della risocializzazione, non erano potenziati, ma fortemente ridotti. E si è già accennato alle ragioni per cui la loro previsione in sentenza non potrà avere alcun reale effetto sulla riduzione dell’area detentiva.

Quarto. Le misure alternative sono amnistiali: un altro cavallo di battaglia della critica

Ma come sono state e come sono, nel concreto operativo di questi anni le misure alternative alla detenzione? La risposta dei colleghi di cui ho già parlato in precedenza sono nette: si tratta di interventi amnistiali, acqua fresca, per dirlo con chiarezza. La mia impressione è che essi cerchino  quello che, a mio avviso, non ci deve essere: l’afflittività, la rigidità delle prescrizioni, in una parola: la “penosità” di quella che è e deve restare la esecuzione della pena. E si può aggiungere che, siccome non viene trovata questa “penosità”, è necessario inventarsela e inserirla attraverso le prescrizioni, per dare, così si dice, un contenuto al “vuoto” che la misura rappresenta. Per continuare a riferire la mia impressione, pare che essi non cerchino affatto ciò che nella misura alternativa ci deve essere e cioè un processo, lo sviluppo di un percorso di riacquisizione di un ruolo sociale, fatto del recupero di relazioni e condizioni (responsabilità familiari, risorse formative, intellettuali e pratiche, lavoro, con processi adattivi a ritmi e modalità di rapporti, e così via dicendo). Certo che questo processo non è facile da sviluppare e da realizzare, ma se non lo si cerca (o se non ci si crede, che è, più o meno, lo stesso), non lo si trova certamente. Anzi: accadrà questo che, rafforzando afflittività e penosità, si riuscirà a ostacolare il processo e il percorso che si sono detti. Dando alle misure il contenuto che non devono avere, si riuscirà a rendere più difficile o ad impedire che le misure acquisiscano e realizzino il contenuto che devono avere.

Ripeto: è difficile trovare ciò che non si cerca e, perdonatemi, ma è difficile cercarlo se non ci si crede e non ci interessa. Non sono qui a negare che il sistema dell’area penitenziaria esterna, come si chiama quello delle misure alternative, sia tutt’altro che efficiente e abbia bisogno di completamento (è in atto un inserimento massiccio di assistenti sociali, quasi un raddoppio di quelli attuali, ma il completamento del sistema avrà bisogno di molto altro, anche sul solo versante esterno, a prescindere dalla costruzione del sistema di preparazione in carcere, nel caso di detenuti), ma è ingiusto dire che è inesistente o del tutto non operativo. Nell’attuale insufficienza del sistema, vi saranno misure che vengono seguite di più ed altre di meno. Ho lavorato in una realtà in cui le misure non erano poche, ho lavorato con vari centri di servizio sociale, ho potuto constatare che, sovente per le situazioni più difficili, l’intervento e l’apporto dei centri e dei servizi ai quali si raccordavano, erano tutt’altro che da disprezzare. E lo sforzo era quello che doveva essere: seguire, sostenere il processo di socializzazione della persona. Poteva esserci anche la esigenza di aggiungere elementi di controllo, se erano insufficienti quelli esistenti, ma spesso era la ricerca di una risorsa che mancava: la bussola era comunque orientata per proseguire quel percorso di cui abbiamo parlato.

Ricerca, convinzione, interesse. Ho parlato di questi aspetti del nostro lavoro, che possono apparire anche metagiuridici. Se è metagiuridico perseguire il risultato (previsto dal sistema normativo) della nostra attività, credere che sia possibile, essere coinvolti nel processo che dovrebbe produrlo. È proprio metagiuridico tutto questo? È arbitrario chiamarlo motivazione del nostro lavoro o, per esprimere altrimenti lo stesso concetto, è arbitrario parlare della esigenza di motivazione nel nostro lavoro? Motivazione è certo parola equivoca. La motivazione non deve essere quella propria, la più varia, quella che esprime la propria visione delle cose. La motivazione di cui parlo deve essere quella volta a realizzare le finalità del sistema normativo, che è dato da gestire alla magistratura di sorveglianza. Capisco che, nel succedersi di interventi legislativi, alcuni con intenti dissuasivi rispetto alla continuità ed incisività della nostra azione, possa essere calata un po’ di nebbia su quelle finalità. Credo sia necessario diradarla, perché non si può agire con finalità dubbie e incerte, senza conoscere la rotta e la meta: e le indicazioni costituzionali continuano ad essere lì a indicarci con coerenza l’una e l’altra.

Permettetemi di fare una sorta di riconvenzionale. Si parla di intervenire sul sistema della esecuzione penale, di sbarrare la strada alla flessibilità con cui si è caratterizzato. La strada non va sbarrata perché è quella costituzionale. Quella che va rivista è la normativa complementare, se si può chiamarla così, che è rimasta ancorata alle vecchie linee del codice Rocco o che, anche negli interventi democratici, ne ha seguito l’ispirazione. Parlo di pene accessorie, di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di esecuzione delle pene pecuniarie e di conversione delle stesse in sanzioni sostitutive, di effetti penali della condanna: complessivamente, di quella specie di corsa ad ostacoli che il condannato che ha concluso la esecuzione, anche in misura alternativa e con esito positivo, deve cominciare ad affrontare per uscire definitivamente dall’ambito della esecuzione penale. Non credo che progetti normativi in proposito siano arrivati anche soltanto ad iniziare un percorso legislativo. Ma questo sarebbe un discorso da fare, se volessimo dare stabilità agli esiti dei percorsi riabilitativi compiuti attraverso una esecuzione corretta della pena, in particolare quando questo sia avvenuto in una misura alternativa conclusa positivamente. Mi chiedo: perché si parli così poco di questo. Non  credo sia un giudizio temerario supporre che ciò che interessa è che la esecuzione della pena e dei suoi aspetti accessori abbia il suo corso, mentre non interessa il risultato effettivo della stessa, il sostenerne il suo esito di riabilitazione sociale. Il primo tipo di interesse mi pare si possa chiamare burocratico e la motivazione nel nostro lavoro, di cui ho parlato sopra, dovrebbe essere quella che ci protegge da quel rischio.

4. Problemi e diffidenze: discrezionalità e terzietà

Discrezionalità

Quando si lamentano gli inconvenienti della flessibilità, si arriva inesorabilmente al discorso sulla discrezionalità delle decisioni che la gestiscono: delle decisioni, cioè, della magistratura di sorveglianza. La possibile e incontestabile diversità di decisioni e di giurisprudenze porta con sé un rischio di imprevedibilità e di disuguaglianza nel trattamento dei destinatari. Anche qui, nella questione generale, si manifestano tante questioni specifiche, che sintetizzo in alcuni punti.

 

A) La prima questione è molto semplice: la discrezionalità è necessaria. Se le decisioni della magistratura di sorveglianza fossero vincolate a dati aritmetici di pena espiata o ad altri dati rigidi,verrebbe meno il fine della sua attività: che è quello di seguire i percorsi individuali e di dare risposte in relazione agli stessi. Si tratta, quindi, di una necessità costituzionale, legata, come si è detto, alla flessibilità nella esecuzione. Ma, nel momento in cui si deve prendere atto che il compito del giudice, non solo nella materia della sorveglianza, è quello di rapportare le indicazioni generali della legge ai casi concreti su cui interviene, si deve rilevare che la discrezionalità inerisce inevitabilmente ad ogni attività giudiziaria: essa è l’altra faccia del libero convincimento del giudice. Posso osservare che la discrezionalità caratterizza tanto la commisurazione della pena (precedente immediato della discrezionalità della sua gestione esecutiva), che una parte considerevole delle conclusioni della Commissione Grosso è destinata a ridurre anche questa discrezionalità, con effetti che credo inevitabili: la impossibilità di dare pene minime per fatti insignificanti e pene elevate per fatti molto significativi: e, complessivamente e inevitabilmente, il risultato di fare lievitare la entità delle pene e, in particolare, di quelle minime. Altro meccanismo, quindi, che parrebbe aumentare, non certo diminuire, l’area della detenzione. Questo accade quando si teme la discrezionalità come un inconveniente della giurisdizione, mentre la stessa rappresenta, a mio avviso, un controllo di razionalità (che è il cuore della funzione del giudice) nell’esercizio della giurisdizione. Se si cambierà, si constaterà domani che gli inconvenienti sono maggiori dei vantaggi e si dovrà tornare indietro.

B) È fuori discussione che la gestione di tale discrezionalità debba essere del giudice. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime tutte le competenze di organi amministrativi in materia: sentenza 110/1974 per la revoca anticipata di misure di sicurezza; sentenza 204/1974, già citata, per la liberazione condizionale; sentenza 274/1990, per il differimento della esecuzione della pena; in tutti i casi viene dichiarata incostituzionale la competenza del ministro: oggi la competenza è della magistratura di sorveglianza. Se vogliamo comunque individuare le  ragioni  sostanziali, che stanno accanto a quelle di legittimità costituzionale indicate, è facile trovarle nelle maggiori garanzie di difesa degli interessati e di oggettività e indipendenza che l’intervento giudiziario assicura. È vero che vi sono state richieste di maggiori spazi di intervento da parte degli operatori penitenziari, particolarmente in materia di permessi premio, ma, se è vero che, in certi istituti con operatori attenti e impegnati, vi potrebbero essere risultati soddisfacenti e magari migliori degli attuali, in molti altri non sarebbe così. E inoltre tutto si svolgerebbe senza garanzie di difesa e con la possibilità di impedimenti posti dagli organi gerarchicamente superiori. È chiaro, inoltre, che gli operatori sono in contatto così ravvicinato e stretto con gli interessati che può mettere in crisi la loro oggettività. È vero che anche il magistrato di sorveglianza è “coinvolto” nella gestione delle esecuzioni penali che esamina e decide, ma intanto dobbiamo vedere sempre questo “coinvolgimento” come gestione dei mezzi per il raggiungimento del fine riabilitativo della pena: anche questo, cioè, un coinvolgimento necessario, strettamente connesso alla funzione. E, inoltre, le caratteristiche di giudiziarietà e, quando c’è, di giurisdizionalità della sua attività (anche la difficile materia dei permessi è diventata, per così dire, a giurisdizionalità eventuale, per la giurisdizionalizzazione del reclamo al tribunale di sorveglianza contro i provvedimenti del magistrato e conseguente ricorribilità in cassazione) garantiscono un tasso di oggettività maggiore di quello che può essere proprio degli organismi penitenziari. E la sentenza costituzionale 26/99, che indica la necessità di regolare con legge ordinaria (tutto tace, in proposito, da parte del legislatore) la giurisdizionalizzazione del reclamo al magistrato di sorveglianza, da parte dei detenuti e internati, ex art. 35, n. 2 legge penit., contro gli atti dell’amministrazione penitenziaria, aprono un nuovo fronte. Con più giurisdizionalità, quindi, più discrezionalità, ma anche più garanzia di legalità contro la dinamica dell’anomia, propria del carcere.

C) È chiaro che fra il giudizio in sede di cognizione e quello in sede di esecuzione della pena intercede una differenza significativa, rappresentata dall’oggetto, che è, nella cognizione, un fatto e il rapporto con quel fatto di una persona e, in caso affermativo la inflizione di una pena, mentre, nella esecuzione, l’oggetto è la situazione di quella persona, prima e dopo i fatti per cui è stata condannata, e la evoluzione del suo percorso penitenziario ed esistenziale. Questa seconda cognizione ha meno agganci dell’altra alla verifica di fatti oggettivi, è più soggettiva, con qualche elemento divinatorio? Si tratta di intenderci, perché anche nel processo di cognizione è presente una componente di soggettività (particolarmente nel momento in cui si trae la conclusione in termini di commisurazione della pena dalla complessiva ricostruzione e valutazione dei fatti, cioè nel momento riassuntivo dell’espletamento della funzione; e, ad esempio, nella concessione o meno della sospensione condizionale della pena, emerge un momento di diagnosi); e, d’altronde, nel processo di sorveglianza, è necessario agganciare le valutazioni ai fatti, emersi per l’interessato, nel corso della esecuzione e ricavabili, anche, dalla evoluzione della sue condizioni esterne. Valutazioni, si noti, di cui il giudice di cognizione non disporrebbe se si  volesse assegnare allo stesso la decisione sulle misure alternative con la stessa sentenza.

D) Se il problema della discrezionalità è quello della garanzia di serietà e di obbiettività del giudizio, tale problema non  va collocato nella discrezionalità, che è necessaria, ma nella qualità dell’esercizio della stessa. C’è, insomma, una discrezionalità vuota, che qualche volta interessa anche il procedimento di cognizione, particolarmente, ripeto, nella inflizione della pena, la cui commisurazione è spesso povera o del tutto priva di motivazione, e che può indubbiamente ritrovarsi anche nelle decisioni della magistratura di sorveglianza. Questo, però, non è inevitabile. Anzi è proprio ciò che deve essere evitato.  La discrezionalità della magistratura di sorveglianza deve essere ancorata alla costruzione di un sistema di informazioni e di valutazioni, la cui incompletezza attuale non è certo una buona ragione per sopprimere una funzione che è costituzionalmente necessaria: sarà invece buona norma quella di completare il sistema. E, per le singole decisioni attuali, con qualche sforzo, si può ottenere comunque un materiale decisorio accettabile, coinvolgendo organi penitenziari, di polizia, dei servizi pubblici, depurando le risposte di tali organismi della loro visione delle cose e ricordando, comunque, che è anche funzione della magistratura di sorveglianza quella di richiamare alla necessità di completare il sistema penitenziario incompleto e di stimolarne il funzionamento.

Terzietà

Ma perché non si accetta o si è estremamente diffidenti verso la discrezionalità, pur necessaria e necessaria secondo Costituzione, nelle posizioni, pur autorevoli, anche all’interno della magistratura di sorveglianza?

Credo che il timore di fondo sia la perdità della terzietà. Ma anche qui dobbiamo intenderci. Nella funzione della magistratura di sorveglianza la terzietà assume un suo proprio significato, inevitabilmente diverso da quello che assume nel giudizio di cognizione. Non potrebbe essere altrimenti. Come si è accennato, il magistrato di sorveglianza deve verificare che funzioni il sistema della osservazione e del trattamento penitenziario e la risposta allo stesso dell’interessato: questo fa parte del suo controllo di conformità alla legge della attività penitenziaria. È, quindi, suo compito quello di stimolare l’avvio del percorso riabilitativo del soggetto e di seguirne l’evoluzione. Sono del magistrato di sorveglianza le prime risposte a tale evoluzione. Saranno sue le decisioni sui permessi premio, che, se positive, rappresenteranno il primo riconoscimento significativo, nonché a decidere sulle ulteriori concessioni degli stessi. Dovrà essere lui a comporre il Tribunale di sorveglianza (salvo non si tratti di uno dei casi di reclamo, nel quale è espressamente prevista la non-partecipazione), che decide sulle istanze di competenza di questo (v. il comma 6 dell’art. 70 della legge penit.). È indubbio che, nella attività monocratica, egli porta la conoscenza che deve avere del caso, le sue stesse valutazioni della evoluzione del percorso penitenziario dell’interessato, e questo accade anche, nella attività collegiale del Tribunale di sorveglianza alla quale parteciperà. Il suo contributo è dunque quello di una conoscenza che si è formata, tanto più significativa quanto più si è espressa in provvedimenti precedenti e nell’approfondimento del caso. È chiaro che, nel procedimento di cognizione, tutto ciò non è possibile perché turberebbe l’oggettività del giudizio. Ma, invece, nel procedimento di sorveglianza è inevitabile, necessario e fisiologico perché l’accertamento che si svolge è del tutto diverso e consiste proprio nell’avere dati, il più possibile completi,  sul percorso di riabilitazione compiuto dall’interessato e i dati e anche le valutazioni conseguenti (ovviamente sempre rettificabili e completabili) si acquisiscono proprio sulle conoscenze precedenti. Nel processo di cognizione, ciò che importa è la massima obbiettività  in ordine ad un fatto storico e alle sue circostanze, nelle procedure di sorveglianza interessa stimolare, seguire e trarre le conclusioni sul percorso esistenziale di un soggetto e il significato riabilitativo che ha assunto.

Questo non significa che, anche nella procedura di sorveglianza, non ci sia una esigenza di terzietà, che si pone, però, rispetto agli interessi personali diversi da quelli attinenti alla funzione e che vanno ovviamente esclusi. Ma l’interesse a che il processo di riabilitazione proceda, il coinvolgimento del magistrato in questo, nello stimolarne e favorirne gli sbocchi, tutto ciò fa parte dell’interesse che riguarda la funzione e non attenta alla terzietà. Se la vogliamo chiamare una terzietà speciale, possiamo farlo, ma è in effetti la terzietà naturale e logica, misurata su una funzione, quella di sorveglianza, che presenta caratteri propri e diversi da quelli del processo di cognizione.

La diffidenza verso questa terzietà, rispecchia la diffidenza verso tuttociò che è inevitabilmente connesso alla flessibilità della esecuzione penale, ma si tratta di diffidenze che si mettono di traverso rispetto a un percorso normativo costituzionale, che va reso, al contrario, più completo e funzionale.

Mi permetto, a questo punto, di fare delle considerazioni, non so quanto puntuali. Mi pare di trovare qualche parallelismo in altre situazioni con la situazione e la discussione, su cui mi sono, ormai troppo a lungo, soffermato.

Giustizia minorile. Dire di questa non è impertinente, perché la magistratura di sorveglianza ha utilizzato molti modelli della giustizia minorile. Orbene, parecchi anni fa, un gruppo di magistrati, legati da convinzioni comuni, prese in consegna una situazione caratterizzata da una forte istituzionalizzazione, battendosi per il quasi azzeramento della stessa. I grandi contenitori vuoti, che accoglievano tanti ragazzi, sono il monumento a questo percorso e a questa storia, scritta da persone che considero maestri. Essi erano profondamente coinvolti in quella storia, non temevano di compromettere il loro ruolo. Pensavano, anzi, che  lo avrebbero affermato, non riempiendo, ma vuotando le carceri a loro disposizione, affrontando i problemi di quei ragazzi all’esterno e non sequestrandoli all’interno per completare il percorso di diseducazione già iniziato. Che ne era del loro ruolo? Qualche scricchiolio si avvertiva. Le galere hanno sempre avuto la funzione di difese per chi si deve misurare con il disagio delle persone. Sono dighe. Se le si aprono può prevalere il timore di affogare. Posso sbagliare a valutare il processo in atto, in parte della giustizia minorile (con una partecipazione trasversale, cui non è estranea Md), di recupero del ruolo, di ripresa delle distanze dal disagio, di difenderci dal coinvolgimento, di riconsiderare centrale la giurisdizionalità, di tornare ad una più riposante terzietà?

E dirò di più, scomodando anche i percorsi di Magistratura democratica. Sbaglio o si è persa la ricerca di una giustizia diversa (con quella domanda iniziale, che ripropongo ogni tanto in queste pagine)? Nel timore delle forzature del periodo della giurisprudenza alternativa, si è tornati alla difesa del ruolo, innanzi tutto e soprattutto, con il rischio di approdare ad una sorta di neo-neutralità, che assomiglia molto al punto di partenza, nel quale era stato posto l’interrogativo “quale giustizia?”.

Pongo queste domande perché mi pare che incrocino i temi che ho cercato di mettere in evidenza. Ma resta la impressione della diffidenza ad essere coinvolti in processi sociali, difficili da controllare e gestire, controllo e gestione che si considerano non di nostra competenza. Ma possiamo davvero restare sordi alla domanda più volte ripetuta? Non ci riguarda affatto? Ho cercato di dimostrare che è assolutamente vero il contrario.

5. Varie ed eventuali: garanzie, garantismi

Prima della parte conclusiva e propositiva, mi azzardo ad abusare ancora della vostra pazienza, con tre messe a punto.

La prima. Mi sembra chiaro (e l’ho già detto all’inizio del n. 3 di questa parte, ma credo utile sintetizzarlo ed esplicitarlo meglio qui) che in quello che scrivo vi sono preoccupazioni sociali, che possono non sembrare pertinenti ad una riflessione giuridica, preoccupazioni nelle quali, verosimilmente, non si vuole rimanere impigliati da parte di chi ragiona diversamente da me. Se è vero che le preoccupazioni sociali occupano la prima parte di questa mia riflessione, mi pare che affrontarle non sia affatto sbagliato e non pertinente e dia forza al riproporsi della domanda del titolo per non restare, al contrario, impigliati in una giustizia ingiusta quale è quella che ci si rivela. Ma, come si è dimostrato nella seconda parte, è la stessa normativa, anzi la stessa normativa costituzionale, a dare validi argomenti alle preoccupazioni di tipo sociale, poste in evidenza. Per rispondere a queste preoccupazioni e alle domande che pongono non c’è che da cercare un migliore funzionamento della normativa esistente: non c’è, invece, da cambiarla per congelarla.

La seconda messa a punto. Mi chiedo come possa essere complessivamente valutata questa mia rivendicazione di  una giustizia, altra da quella che si manifesta. Non mi interessa affatto una giustizia più morbida e distratta. Mi sono limitato a interessarmi di quella che riguarda la esecuzione della pena e, se una conclusione devo trarre da quanto ho detto, è proprio di avere una giustizia assolutamente presente al concreto e capace di intervenire sullo stesso, di fare tutto il possibile per modificarlo. Se c’è una richiesta insistente è quella di attuare una legge che c’è e che si fa funzionare così poco in carcere e che ci si preoccupa di fare funzionare meno o molto poco fuori del carcere, nell’area delle misure alternative. Chiedere la garanzia che una legge sia rispettata e funzioni non ha nulla a che vedere con queste sterili distinzioni fra garantismi e giustizialismi, costruite dai birbanti per avere la garanzia di restare tali senza spese. La garanzia del rispetto della legge, questo è ciò che si chiede. Ma la situazione che abbiamo di fronte ha una caratteristica: una giustizia inesorabile e severa nei confronti dei deboli di questo mondo, ma facile a eludere per i forti di questo mondo. Nessuna preoccupazione per la custodia cautelare rovesciata sui poveracci e confermata al momento di eseguire la pena. Ma grande scandalo per la stessa custodia cautelare per i forti (in tutte le forme di detentori o di rappresentanti dei poteri che contano) e una estenuante corsa ad ostacoli per arrivare alla pena, se ne è il caso, e alla sua esecuzione nei loro confronti. È possibile che questo sia sempre stato, ma cogliamone la ragione. Se la giustizia è quella che raggiunge e rinchiude in carcere l’area della precarietà sociale, essa sarà discreta e rispettosa nei confronti dei garantiti, superbenigna nei confronti dei supergarantiti. I due meccanismi si tengono nell’unico quadro di una giustizia ingiusta. Ed è giusta, quindi e all’opposto, quella che cerca di rispondere allo stesso modo nei confronti di tutti, di non rendere beffarda la scritta sopra gli scranni dei giudici. E così mi riconosco pienamente nella giustizia affermata nei confronti dei forti, resistendo alla loro forza, la giustizia che ha conosciuto la grande stagione della magistratura italiana negli ultimi anni; nel mentre mi auguro che la stessa giustizia sia riconosciuta ai deboli, tenendo conto della loro debolezza.

Una terza messa a punto. Se c’è una indicazione conclusiva e decisiva che va ribadita, superando ogni timore di travisare il ruolo, ma, anzi, attuandolo in pieno, è quello della presenza attiva del magistrato di sorveglianza in tutti i momenti del suo lavoro, a cominciare dal carcere. Mai come in questi ultimi anni, ho toccato con mano come i singoli istituti, nonostante le povertà organizzative e le difficoltà relative alle risorse esterne, possano cambiare, quando si da e si riceve collaborazione, sulla base di un’ottica comune, di finalità condivise: che sono, poi, quelle della legge penitenziaria. L’esperienza di tale situazione consente davvero di conoscere i singoli casi direttamente, nell’incontro con la persona anziché attraverso la astrazione delle carte. Intanto si individuano casi che non sarebbero mai venuti in evidenza: nonostante la buona volontà degli operatori trattamentali, che, per la loro scarsità, non sono in grado di conoscere tutti. Il problema del soggetto viene assunto in carico, coinvolgendo anche gli operatori, che potevano non essere stati in grado di conoscere e tantomeno di agire: con una condivisione che valorizza la struttura penitenziaria e suscita la sua disponibilità. E alla individuazione dei casi può seguire la individuazione delle soluzioni, anche fuori dal carcere. Anche qui vi è una ricerca e, quindi, una finalizzazione comune e una comunicazione di conoscenze comuni, che rilanciano la capacità di interpretare i ruoli: del magistrato e degli operatori. É possibile che la soluzione non sia visibile o praticabile, ma che debba essere costruita e questo allarga le alleanze e le disponibilità, coinvolge più soggetti, mobilità ulteriori energie, chiama il volontariato. Costruzione delle possibilità, rottura delle indisponibilità di alcuni, costruzione comune di livelli di umanizzazione, di livelli di diritti, contro le dinamiche opposte, proprie del carcere, e che sono: chiusura, assenza di risposte, muro della rigidità, rialzo dello scontro, caduta verso la rottura e la violenza. Da in lato, la disponibilità di realizzare un servizio e, dall’altro, la indisponibilità a questa strada e la scelta dell’altra: l’imposizione della autorità, il rifiuto di costruire il rapporto con chi è detenuto, la cui giornata e i cui ritmi di vita dipendono proprio dal carcere. Eppure c’è chi pensa che questa seconda strada, negativa, favorisca l’ordine e la sicurezza del carcere, mentre è solo la prima che è utile alla sua gestione e conforme alla legge: e questo non vuol dire garantismo, ma vuol dire legalità. Né questo approccio e coinvolgimento dell’istituto, attuando la legge, è l’unico effetto sullo stesso, perché prepara, nel medesimo, interventi diversi e più generali: il carcere ha idee, cammina, vive, non è più congelato nel suo immobilismo, considerato da sempre il sommo bene. Anche su questo, però, non vi è un grande accordo, non dico soltanto operativo, ma anche del riconoscimento di questo aspetto del ruolo. Lavarsene le mani è meglio?

Finiamo questa parte con la solita domanda: quale giustizia? E aggiungiamo: quale carcere?

Parte terza
Proposte e conclusioni: e adesso?

1. E adesso?

Il momento politico attuale ci deve indurre a un realistico silenzio? No, sarebbe una realistica resa. Ed è invece importante cercare di chiarirsi le idee, perché resta, ad avviso mio e forse solo di pochi altri, un forte dissenso nell’area a cui tutti apparteniamo.

Parto da due riflessioni.

Anche se la diversità degli strumenti rende difficile una comparazione dei vari sistemi penitenziari nazionali, il numero delle misure alternative nel nostro sistema è ancora molto basso. Si deve, quindi, aumentarle prendendo atto che molte delle persone che sono in carcere sono ammissibili alle stesse, ma restano in carcere. Occorrono, per questo – è chiaro – grandi sforzi per mobilitare le risorse necessarie all’inserimento esterno costruttivo di tali persone. All’atto della approvazione della legge Simeone, furono già sensibilizzati i Centri di servizio sociale adulti per la individuazione delle risorse esistenti con il coinvolgimento degli enti locali e soprattutto del volontariato. Bisogna fare funzionare questo sistema, tenendo conto che oggi i Centri servizio sociale adulti sono stati potenziati. 

Bisogna aggiungere un’altra considerazione, che può anche non essere condivisa. L’evocazione della sicurezza in questa materia è ricorrente, ma un riferimento esplicito e insistito sulle misure alternative è poco frequente e escluderei la percezione che le stesse abbiano raggiunto un punto di saturazione.

E allora proviamo a toccare alcuni aspetti della questione.

2. Gli aspetti normativi

Primo. Credo di essere stato chiaro: non si deve, a mio avviso, ridurre il livello di flessibilità raggiunto nella esecuzione della pena. Si devono, sempre a mio avviso, rifiutare tutte le soluzioni in questo senso. Può accadere diversamente, ma essere consapevoli che l’unica via che può contenere il processo degenerativo della giustizia penale con l’aumento inarrestabile del carcere è quella di difendere la flessibilità.

Secondo. Nessuna contrarietà a quel riordino della materia di cui si è parlato, per arrivare, però, ad un livello di razionalità maggiore, senza ridurre, insisto, i livelli di flessibilità acquisiti. Si parla di razionalità e si deve aggiungere che il recupero della stessa, dopo le numerose sentenze costituzionali che hanno colpito le inammissibilità introdotte dall’art. 4 bis, edizione 1992, dovrebbe occuparsi anche di questa parte. Le differenze applicative in materia sono un esempio di cattiva discrezionalità, indotta da una situazione normativa-interpretativa difficilmente gestibile.

Terzo. Si è detto che, alla fine della esecuzione della pena detentiva, eventualmente in misura alternativa, comincia, per completare il reinserimento sociale del condannato, una specie di corsa ad ostacoli fra conversione pene pecuniarie, pene accessorie, misure di sicurezza, misure di prevenzione, effetti penali della condanna, preclusioni  amministrative al rilascio di patenti di guida: e chi più ne ha, più ne metta. L’osservazione principale da fare è che tutta questa materia non è stata scalfita in alcun modo dalla nuova finalizzazione e dalla nuova sostanza della esecuzione della pena detentiva, mentre è necessario che vi sia una armonizzazione in proposito. Credo, d’altronde, che la irrazionalità dell’esistente, tra sovrapposizioni e casualità, non abbia bisogno di dimostrazione.

3. Gli aspetti procedurali-applicativi

Mi pare che gli sforzi formativi, sia dei magistrati di sorveglianza, sia del personale penitenziario, siano stati concentrati in questi anni più su ipotesi relative alla utilizzazione della pena (riparazione, mediazione, etc.), che a rendere operativo il sistema esistente previsto dalla legge e basato sulle indicazioni costituzionali.

Oltre alle specifiche riflessioni che farò successivamente per i vari aspetti del sistema operativo complessivo, voglio segnalare che una questione fondamentale sulla quale si doveva soffermare la formazione degli operatori era quella dei tempi delle istruttorie e delle decisioni sulle varie istanze, caratterizzati da non brevi attese (talvolta l’unità di misura di queste non è quella dei mesi, ma degli anni):

  • sia di quelle di coloro che si trovano in stato di detenzione, perché prolungano tale stato, che potrebbe invece avere una esecuzione alternativa;
  • sia quelle di coloro che si trovano in stato di libertà, perché la tempestività delle esecuzioni è elemento indispensabile della efficacia del sistema. La  situazione di attesa è nociva sotto ogni profilo: se si arriva alla decisione dopo molto tempo, la situazione che si è avviata e che la misura alternativa dovrebbe consolidare, può essere ormai superata (è un classico l’avvenuta conclusione del programma terapeutico per tossicodipendenti, quando si deve decidere sulla misura alternativa per l’attuazione dello stesso).

E allora? Certo si lamenta da sempre e, in genere, fondatamente che, nei tribunali e uffici di sorveglianza, vi sono grossi difetti di risorse (personale e mezzi), ma le larghe differenze di efficienza fra i vari uffici dimostrano che vi è qualcosa di più e di diverso, su cui bisognerebbe soffermarsi in sede di formazione o in un’altra sede capace di impegnare maggiormente, su questo tema, gli uffici interessati.      .

Posso aggiungere che l’efficienza è necessaria, ma non è sufficiente. Fissare presto l’udienza per decidere e valutare il caso in base ai soli dati raccolti  e trarre le conclusioni, generalmente negative, da questi, non è il modo di attuare la funzione, perché un modesto allungarsi dei tempi per il concretarsi di un accettabile percorso riabilitativo esterno deve essere favorito.

Devo dimostrare ancora (credo di averlo già fatto) che la funzione è stata prevista per la concessione delle misure alternative, se manchino serie ragioni contrarie?

4. Gli aspetti penitenziari: il carcere al servizio del sistema costituzionale, resistenze, perplessità

Riprendiamo il filo. Contro il carcere che cresce e al contempo peggiora, in una spirale che non sembra reversibile, bisogna contenere le entrate delle persone condannate e incrementarne le uscite. Quindi: un’area penitenziaria interna (quella del carcere, appunto), che deve trovare dei meccanismi di riduzione o rendere, comunque, più efficienti quelli esistenti e un’area penitenziaria esterna (quella della misure alternative), che deve divenire più grande ed efficiente.

Cominciamo dalla prima.

Nel sistema che si è descritto nella Seconda Parte, il carcere che funziona deve produrre libertà: prima attraverso  la preparazione dei permessi premio, poi con l’attuazione degli stessi e, ancora, con la preparazione e attuazione delle misure alternative. E’ impossibile?. No, è faticoso, ma possibile, anche se è essenziale la comunità di vedute dei vari agenti di questa operazione. Si veda quanto detto nell’ultima pagina della parte precedente (n. 5).

Bisogna farsi forti della Legge penitenziaria e del nuovo regolamento di esecuzione della stessa, entrato in vigore alla metà del 2000, in sostanza con il richiamo ad un forte rilancio e alla indicazione degli strumenti per l’attività trattamentale, oggi fortemente carente.

La situazione  complessiva è, però, di forte resistenza a questo. E sconta, in particolare, le distorsioni del sistema organizzativo, su cui ci si deve soffermare.

In Europa, il personale di polizia penitenziaria del nostro Paese è il più numeroso, con forti differenze, rispetto agli altri paesi, anche quelli con un numero di detenuti superiore al nostro. Per effetto delle modalità di assunzione è in gran parte proveniente da alcune regioni del nostro Paese. Se ne continua a lamentare, da sempre, la insufficienza ed è paradossale che ciò avvenga sia nelle regioni del nord, dove il rapporto agente-detenuto si avvicina allo 0,50, sia in quelle meridionali dove lo stesso rapporto è vicino e qualche volta superiore a 1. L’organico totale di questo personale si era fermato, qualche anno fa,  a 44.500 unità.

Eppure, l’unico intervento attuato negli ultimi anni è stato quello di assumere in misura consistente nuovo personale di polizia penitenziaria, sempre con le modalità prevalenti nel passato e, quindi, con una procedura di reclutamento e senza concorso, portando l’organico a circa 47.000 unità (non conosco con esattezza i dati più recenti).

Di fronte a questo, il personale civile, e in particolare quello trattamentale, è rimasto lo stesso, in numero estremamente modesto. Il numero dei funzionari direttivi è insufficiente a coprire tutti gli istituti ( un solo funzionario ne deve sovente coprire più di uno); il numero degli educatori irrisorio rispetto alle esigenze delle c. d. aree trattamentali, che dovrebbero avviare e sostenere quei percorsi riabilitativi che portano verso l’area penitenziaria esterna.

Di fronte alla veloce copertura dei nuovi organici della Polizia penitenziaria, non vi è stato alcun aumento del personale educativo-trattamentale interno, che doveva essere triplicato, secondo le indicazioni già acquisite. Nessuna procedura di concorso è stata nemmeno avviata in tale settore.

Il personale realmente operativo all’interno degli istituti è, quindi, quello di Polizia penitenziaria, che, anche per la formazione avuta negli anni più duri, particolarmente dai quadri, attua una custodia capillare, con  lunghe chiusure in cella e una difficile compatibilità alle attività fuori cella. La gravissima insufficienza del personale trattamentale non rende lo stesso una presenza reale e costante nella vita quotidiana degli istituti.

Risultato: in generale e salvo eccezioni, chiusure in cella di 20 ore giornaliere, 90% dei detenuti non lavorano. C’è un certo risveglio nel settore della scuola, ma non sempre riesce a trovare gli spazi di tempo nella giornata, di cui ha bisogno.        

È in questa situazione che si è fatta strada una richiesta di sicurezza come condicio sine qua non delle attività trattamentali e di una autonomia negli istituti e nel sistema penitenziario complessivo del Corpo di Polizia penitenziaria come gestore della sicurezza degli istituti e di tutto il sistema. Si giuoca qui non semplicemente la rivendicazione di un ruolo centrale da parte di una sola delle componenti del personale, ma il fine generale del sistema, che è descritto dalla legge penitenziaria e che prevede  come centrale l’attività trattamentale e riabilitativa. Ogni ruolo è esaltato e non diminuito da questa finalizzazione e tutti i ruoli devono contribuire al raggiungimento del fine generale. La sicurezza guadagna da un sistema che deve rendere attiva la vita dei detenuti e che non li rinchiude nell’inerzia delle gabbie-celle.

Non riesco a tacere, e me ne scuso, su un aspetto personale. Sbagliavo quando cercavo, nel mio periodo al Dap, di seguire questa strada, che mi si è impedito di seguire? Sbagliavo quando segnalai il pericolo della strada opposta, della sicurezza innanzitutto, e che questa avrebbe favorito una ricerca della forza da chi aveva la forza e una facile degenerazione di questa nella violenza? Sbagliavo quando cercavo semplicemente di fare rispettare la legge penitenziaria e non cercavo di affermare illusioni buoniste?

Mettiamoci anche qui l’interrogativo cruciale: quale carcere? E anche su questa domanda la sinistra si divideva in pieno ed è stata seguita e si continua a seguire la via opposta a quella della legge.

5. Ancora sul carcere: i regimi differenziati

Devo parlare di un tema, quello dei regimi carcerari differenziati, che condiziona gli altri e anche qui molte voci forti e significative appartengono all’area della sinistra. Si integrano col  discorso sulla sicurezza, indicato in fine del numero precedente, ed hanno una ricaduta negativa sul pensare il carcere come una istituzione riabilitativa.

Quali, dunque, i regimi differenziati?

C’è quello introdotto dalla Legge Gozzini, che non ha mai negato la esistenza di un’area della detenzione che richieda la massima sicurezza, esigendo però regole e controlli per la stessa, del tutto assenti negli istituti di massima sicurezza degli ultimi anni ’70 e dei primi anni ’80. Si tratta della sorveglianza particolare di cui all’art. 14 bis legge penit.. La norma non ha mai avuto troppo fortuna, forse (lo dico senza ironia) per un eccesso di garanzie. Va solo detto che l’attuale gestione penitenziaria l’ha rilanciata male, non per i casi per cui è nata e cioè per detenuti di un certo livello che cercavano di interferire nella vita degli istituti, ma per quelli che non tollerano le rigidità della vita carceraria e avrebbero bisogno di maggiore attenzione sanitaria e psichiatrica (questa gente, con l’applicazione dell’art. 14 bis, va a finire in un sostanziale regime di isolamento, dopo avere esaurito varie osservazioni in Opg, regime di isolamento che non può che accrescere la loro intrattabilità). Posso dire che gli ultimi reclami avanzati contro questi provvedimenti (della Direzione generale Dap) sono stati tutti accolti.

C’è poi la cd AS (alta sicurezza), prevista con circolari Dap. Non modifica il regime penitenziario, ma crea solo un circuito separato per i condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis, comma 1, prima proposizione (si tratta dei reati più gravi, di solito espressione della criminalità organizzata). Ne ho parlato citando Pavarini, che prospetta per questi casi una sorta di pena indeterminata, sul genere delle misure di sicurezza. Nella mia esperienza recente, invece, tenuto anche conto che i detenuti in questione sono spesso in carcere dai primi anni ’80, si è potuto intervenire con benefici penitenziari (grazie a sentenze costituzionali); sono state numerose le declassificazioni e il passaggio alla MS (media sorveglianza), operate dalle direzioni degli istituti, competenti in proposito. Temo sia viva, per questa area della detenzione, l’intenzione di arrivare a un ulteriore regime differenziato per legge: ho perso qualche battuta, ma credo sia stato anche formulato un progetto in proposito: e non ora, ma al tempo del governo precedente. L’idea mi allarma, perché i detenuti compresi nel circuito AS sono circa 7000 e rappresentano, quindi, una parte significativa dell’area stabile della detenzione con pena più lunga, un’area nella quale l’azione penitenziaria deve svilupparsi con maggiore continuità e con qualche prospettiva. Ed è in effetti così perché anche su tali persone si è lavorato e si può lavorare. Un regime speciale in proposito rilancerebbe risorse di sicurezza (che non è affatto assente oggi nell’AS) e specifiche restrizioni, che sacrificherrebro le attività trattamentali. E l’irrigidimento in una parte così significativa e stabile del carcere (circa il 15%) avrebbe gravi rischi di ricadute su tutto il carcere, come è sempre accaduto.

Ed eccoci al 41 bis, comma 2. Nei giorni scorsi tutte le parti, politiche e non, hanno detto la loro, facendo una bella figura senza grande fatica, ed hanno reso definitiva questa norma provvisoria, vigente da 10 anni. Vorrei porre alcune domande:

  • è vero o non è vero che la norma originaria del 1992, passata senza modifiche attraverso gli anni, non prevedeva alcun limite alle modifiche della legge penitenziaria con decreto ministeriale e alcun controllo sulla applicazione agli interessati e che la norma stessa è sopravissuta, a seguito di eccezioni della magistratura di sorveglianza, soltanto attraverso una interpretazione della Corte costituzionale, che imponeva e i limiti e il controllo? È o meno meritato il rimpianto per il 41 bis delle origini espresso da molti?
  • è vero o non è vero che la  Corte costituzionale, sempre su eccezioni dei tribunali di sorveglianza, tornò a pronunciarsi con la sentenza 376/1997, chiarendo che: il controllo giurisdizionale poteva intervenire e modificare anche le restrizioni attuate con i decreti ministeriali e queste dovevano limitarsi a quelle relative ai collegamenti degli interessati con l’esterno e rispettare i diritti dei detenuti, compreso quello alle attività trattamentali e riabilitative, e non potevano avere finalità afflittive, ovvero realizzare un regime di carcere duro?
  • è vero o non è vero che si continua a parlare con tranquillità del regime 41 bis come di regime di carcere duro e che si sostiene che è quel regime ad avere prodotto i tanti collaboratori della giustizia, che sono stati utili nei processi ai mafiosi?

Non rispondo alle domande retoriche precedenti e vi aggiungo alcuni rapidi chiarimenti.

L’unico temperamento al regime 41bis è stato dato con circolare Dap 20 febbraio 1998, che non faceva altro che trarre le conseguenze dalla sentenza costituzionale 376/1997. Il dato rilevante della circolare era che, durante la giornata, i detenuti dovevano avere due ore in più fuori cella per partecipare ad attività trattamentali (in conformità delle indicazioni della Corte): restavano in cella 20 ore al giorno. E si deve aggiungere che tale circolare venne emessa in contemporanea alla legge 7 gennaio 1998, n.11, che prevedeva la partecipazione a distanza nei procedimenti penali per i detenuti in regime 41bis, comma 2, normativa che interruppe i continui spostamenti di tali detenuti, con costante rientro degli stessi nei luoghi delle loro aggregazioni criminali e conseguenti collegamenti tra loro nelle udienze comuni.

La mia impressione è che il 41bis, nonostante quanto si sostiene, non abbia contribuito che in casi molto rari a convincere i detenuti a collaborare con la giustizia: in proposito credo sia indubbio che sia stata la legislazione premiale molto ampia a farli decidere. La carota era piuttosto appetibile, anche senza il bastone. Però, il discorso non mi piace troppo. Il carcere come “persuasore” delle collaborazioni, non mi pare cosa di cui vantarsi. Il carcere dovrebbe essere neutrale rispetto alle scelte processuali di chi è affidato alla sua custodia.

Se  volete, leggete il Rapporto 5 settembre 2000 al Governo italiano del CPT (Comitato prevenzione tortura e trattamenti contrari al senso di umanità) del Consiglio d’Europa: Parte II, lettera C, n. 5, lett. c: osservazioni generali; Allegato I, lettera C, n.3: sia sul ruolo del personale speciale di Polizia penitenziaria  (Gruppo Operativo Mobile - GOM), sia sulla applicazione effettiva della circolare 20 febbraio 1998, ricordata sopra.

Forse ho speso troppo tempo su questo argomento. Ma è forse un nodo critico fondamentale di pensare al carcere come al luogo dove si incapacità un uomo, per pericoloso che possa essere, negandogli che possa mantenere relazioni di vita (il che resta, poi, inevitabilmente teorico), e supporre, nel contempo, che altri uomini possano trovare nel carcere occasione di riabilitazione. Ed un altro punto che vorrei si chiarisse è che si sovrespone il carcere se si pensa che lì si battono la mafia e le altre aggregazioni criminali, che possono soccombere solo, a mio avviso, se sono battute sul territorio di cui si sono impadronite; battute, questo è il senso del mio discorso, da uno Stato credibile, che si fa reale carico delle proprie responsabilità sociali.

6. Un tentativo di rafforzamento della Riforma penitenziaria: il nuovo Regolamento di esecuzione 30 giugno 2000, n. 230

La vicenda della Riforma penitenziaria si è svolta in questi 27 anni dalla entrata in vigore della legge in modo sovente contraddittorio. Abbiamo visto al numero precedente le resistenze e le perplessità, ma in sostanza vi sono stati, anche recentemente, segnali diversi. Uno è stato rappresentato dal nuovo regolamento di esecuzione alla legge penitenziaria.

Non credo sia inutile ricordare che il testo inizialmente preparato dal Ministero della Giustizia ha subito degli arretramenti, di cui il più significativo è stata la soppressione della parte relativa alla affettività (permessi per incontri con le famiglie senza controlli visivi in apposite strutture degli istituti), su cui si era discusso a lungo, dimostrando che non era necessaria una modifica legislativa. L’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia aveva riconosciuto la legittimità di tale scelta. La scelta politica finale fu quella di accettare l’opinione del Consiglio di Stato, secondo cui occorreva la modifica normativa, ovviamente non arrivata.

Resta, però, nel nuovo regolamento di esecuzione, la scelta del rilancio delle attività trattamentali e la individuazione di strumenti che dovrebbero consentirla: lavoro organizzato dalle cooperative sociali e anche da imprese private, sostenuto anche dalla legge Smuraglia, nel frattempo approvata; rapporti con le organizzazioni scolastiche, con gli enti locali, con il volontariato.

Il carcere è interrogato da queste possibilità: di eliminare le patologiche permanenze in cella di 20 ore al giorno.

Non è impossibile, fare muovere passi concreti alle soluzioni che il nuovo regolamento di esecuzione prospetta, per attuare essenzialmente la Legge penitenziaria, eventualmente anche (con finalità sperimentali) in aree limitate, regionali ad esempio (vi è  la competenza del provveditorato regionale, che coordina l’attività delle varie direzioni), del sistema penitenziario  nazionale.

L’art. 115 dello stesso consente:

  • un sistema integrato di istituti, che attui un criterio di territorializzazione; v. comma 1;
  • una distribuzione della sicurezza, individuando aree in cui la stessa sia attenuata e sia dato invece ampio spazio alle attività trattamentali: v. comma 1,2 , 3 e 4, recuperando per tale via personale di Polizia penitenziaria;
  • avviare anche la individualizzazione del trattamento.

Ovviamente, occorre che siano organizzate attività trattamentali negli istituti, di formazione-lavoro e di lavoro, di studio, di rapporti con la famiglia ed altre, per le quali possono essere realizzati rapporti con organizzazioni della cooperazione sociale o delle altre organizzazioni del lavoro, con gli organi scolastici, con gli enti locali e con i servizi territoriali, nonché con il volontariato, particolarmente attivo e attento in molte realtà. Vi sono sedi territoriali, recettive dove ciò può avvenire e che possono essere stimolate ad agire anche dalla presenza della magistratura di sorveglianza.

Le contraddizioni di cui si è parlato nei numeri precedenti non sono invincibili se si vuole svolgere, con la collaborazione di tutti, l’attività penitenziaria che la legge prevede, che può sostenere quei percorsi riabilitativi, di cui abbiamo parlato e che dovrebbero favorire il passaggio dall’area penitenziaria interna a quella esterna. Si può dare una risposta diversa da quella indicata alla fine del n. 4. Ci sono condizionamenti viziosi e virtuosi: si tratta di scegliere.

7. L’area penitenziaria esterna

C’è stato un potenziamento significativo del singoli Centri servizio sociale adulti. Se l’Amministrazione penitenziaria lo vorrà, il personale assunto per i vari territori regionali, dovrebbe restare presso gli stessi e gli organici stabiliti dovrebbero assicurare una certa funzionalità a tutte le sedi. Un primo rilievo si può fare: i nuovi organici delle singole sedi e la loro copertura consentono di ripristinare l’intervento del Servizio sociale negli istituti, quasi abbandonato, provvedendo in qualche misura a supplire alla mancanza degli educatori.

Dato l’argomento che sto esaminando, ricordo qui l’incarico dato ai Centri Servizio sociale adulti, all’epoca della entrata in vigore della legge Simeone, di organizzare uno “sportello” nelle loro sedi, coinvolgendo in particolare il volontariato, per la individuazione delle risorse necessarie per la ammissione alle misure alternative dei destinatari della legge.

Questo non vuol dire che i Centri abbiano raggiunto una funzionalità piena. Più l’area penitenziaria esterna si fa consistente e più risulta chiaro il bisogno di altre professionalità. Bisognerà risolvere il problema del controllo degli affidati in prova con operatori che affianchino quelli di Sevizio sociale e che non appartengano a ruoli di polizia. Già ora si constata una certa non fruttuosa invadenza delle forze di polizia del territorio, che ritengono di avere una funzione di controllo che non hanno e denunziano come reati, mentre non lo sono, le violazioni delle prescrizioni, talvolta non esistenti.

Importante, per la efficacia del sistema, definire le modalità dei rapporti con i servizi pubblici territoriali, particolarmente con i Sert e i servizi di psichiatria, con le comunità e con la magistratura di sorveglianza.

8. La magistratura di sorveglianza

Non ne avrò parlato anche troppo?

Faccio solo una osservazione. L’equivoco in cui può cadere il magistrato di sorveglianza è quello di elevare a criterio decisivo, per decidere l’ammissione ai benefici penitenziari, la valutazione della pericolosità degli interessati, su cui è richiamata l’attenzione dagli artt. 4 bis e 30 ter, comma 1, Legge penit.. Ora è vero che tali norme non vanno ignorate, ma, nel momento in cui, si dispone di valutazioni penitenziarie aggiornate, sono queste il dato su cui essenzialmente lavorare. Tale dato non può essere contrastato che da notizie altrettanto attuali, non già dai soli riferimenti di condotte pregresse, che sono poi quelle che hanno portato la persona in carcere. Voglio dire che la funzione del magistrato di sorveglianza è quella di sostenere e verificare la partecipazione del condannato ai percorsi riabilitativi (si rileggano le sentenze costituzionali 445/1997 e 137/1999). La decisione si deve formare su questa funzione e il discorso sulla pericolosità del soggetto non può bloccare la decisione favorevole se non quando si basi su dati negativi attuali e seri, che solo raramente emergono dalla informazioni di polizia, richieste ex art. 4 bis, e che, nella gran parte dei casi, non rappresentano che pareri (non richiesti) formulati sulla  condotta passata.

Il ruolo del magistrato di sorveglianza resta centrale per il funzionamento efficiente del sistema costituzionale, che è quello di dare ai condannati le opportunità di reinserimento sociale.

9. La sicurezza sociale

Sono alla conclusione. Mi sono riservato di parlare di sicurezza sociale. Perché è così che si è cominciato a parlare di sicurezza, molti anni fa quando ogni ente locale aveva un assessorato per la sicurezza sociale e perché vorrei se ne tornasse a parlare negli stessi termini. Una sicurezza positiva, che affronta le situazioni di disagio dei quartieri e delle città e cerca di superarle per il bene di tutti, non quindi una sicurezza negativa, che si propone essenzialmente di soffocare quelle situazioni, di difendersi dal disagio, anziché di cercare di superarlo.

Il diritto alla sicurezza, propagandato da tutte le parti, con poca fantasia e minore spesa, può solo aumentare le aree di precarietà con la risposta della galera, ma non conta sulle difese immunitarie che ogni società ha e che consistono nella capacità di partecipare al proprio miglioramento. Come? Con la politica, che è volontà costruttiva di cambiare e che è schiacciata oggi dalla sola preoccupazione di difendersi.

Occorrerebbe un discorso disteso su questo tema, che ora non è possibile. Ma quando ho formulato la domanda “quale giustizia”, pensavo, proprio a un quadro del genere: al recupero della città solidale, che cerca di migliorarsi e di risolvere i problemi dei garantiti e dei non garantiti, cercando la inclusione anche di questi ultimi; anziché alla affermazione della città ostile, che sa solo difendere i garantiti, col rifiuto e la esclusione degli altri.

É per questo che tornare a parlare di sicurezza sociale è un altro modo di sostenere una esecuzione della pena che risponde ai principi costituzionali: recupero e inclusione di chi ha sbagliato con la mobilitazione delle risorse necessarie a questo fine. Questa sicurezza sociale può essere capace di rispondere anche sul fronte delle vittime e di cercare la strada di una maggiore legalità complessiva  di un dato ambiente sociale (come si è osservato nella parte finale del n. 2 della Seconda parte).

Conclusione

Non mi nascondo la impressione di un notevole tasso di illusione in quello che dico, ma ripeto quanto ho già detto. Se i giuochi sono fatti, noi dobbiamo accettare che la giustizia sia ingiusta. La domanda era: quale giustizia? La risposta è: questa. La morale: siamo spacciati.

Credo si debba insistere nel cercare una giustizia giusta e ho cercato di indicare la strada, che è la stessa legge ad indicarci. Ma ho anche rilevato che non c’è affatto consenso fra di noi.

Devo smettere di tediarvi. Lo faccio con due citazioni e un’ultima domanda.

La prima citazione è da Igino Cappelli, Gli avanzi della giustizia. Diario del giudice di sorveglianza, Roma, 1987, p. 151-152. Igino scriveva sulla sua esperienza conclusa nel 1982 (salvo errore). Le sue conclusioni nascevano dalla insoddisfazione per le ingiustizie della giustizia che aveva sperimentato. Scriveva, nella conclusione del suo splendido libro: «Ho lasciato il carcere peggiore di come era anni prima della riforma. Fu un errore di stampo illuministico credere che una legge potesse, per virtù propria, trasformare realtà sociali e istituzionali, deviare il destino di uomini e donne. Il carcere poteva cambiare solo nel senso delle linee generali di tendenza prevalenti nella società, e dunque in peggio. Né si poteva pretendere che proprio la galera fosse un’isola di legalità e di decenza, se poi le sue vittime… sono troppe volte le vittime della giustizia. E se la logica del lager è vincente, non c’è posto per un giudice impotente alla tutela dei diritti umani più elementari. Non deve esserci posto. La galera basti a se stessa». Igino mi smentisce, smentisce il mio percorso di magistrato di sorveglianza impenitente, smentisce i miei discorsi, le mie illusioni di ieri e di oggi. Ma ciò su cui mi ritrovo in pieno è la sua tensione a rifiutare la ingiustizia della giustizia, la “logica del lager”. Di là dai dissensi, anche strategici, ritrovo il consenso di fondo, per cui sono stato sempre al suo fianco.

Ma mi piace anche ritornare, con la seconda citazione, ad un testo recente, che mi ha colpito, e del quale voglio cogliere un’idea: è il libro di Marco Revelli, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Torino, 1999, p. 88. Questa area della precarietà che finisce in galera e che ne rappresenta circa i 3/4 – tossici, extracomunitari, giovani marginali – risponde a un mondo (l’area della precarietà sociale) che non ha caratteristiche e appartenenze particolari nelle quali possiamo identificarci. Essi sono una massa che ha dalla propria parte il solo fatto di essere umani, di rappresentare solo la “nuda vita”. Eppure essi e quanto possiamo fare per loro rappresentano il parametro della nostra giustizia, misurano la giustizia, e la ingiustizia, della nostra giustizia.

La domanda che faccio a me stesso e a tutti gli amici e, in primo luogo, a quelli con cui ho polemizzato, è la seguente: questo lungo discorso che vi ho inflitto: è una lunga affabulazione che non significa nulla (timore che avevo anticipato fin dall’inizio al n. 1 della Parte prima); oppure è una manifestazione di paranoia, la ripetizione ossessiva di cose dette da tanto tempo; oppure è una tesi eretica, anche nel senso migliore, che, cioè, riporta all’attenzione un aspetto della verità, oscurato dall’ortodossia; oppure è il ritorno e la riaffermazione di una ortodossia dimenticata?