Magistratura democratica

Tra gusci di noce e tende di cielo: un percorso per la tutela dei diritti dei detenuti

di Fabio Gianfilippi

La realtà penitenziaria mostra al magistrato di sorveglianza uno scenario non esente da criticità e mancanze che, incidendo su un panorama di forte disagio sociale, corre il rischio di tradursi in lesione di diritti fondamentali e di inibire perciò la funzione risocializzante della pena. L’ordinamento penitenziario, nella sua evoluzione quarantennale, ha apprestato strumenti giuridici sempre più efficaci per la tutela dei diritti delle persone detenute. La strada da compiere non è però priva di insidie e richiede, innanzitutto, di mettersi in cammino per conoscere direttamente chi vive e come si vive dentro le mura.

1. Il primo passo

La prima volta che sono entrato nel carcere di Terni, di cui allora iniziavo ad occuparmi come magistrato di sorveglianza di Spoleto, mi colpì subito un lungo corridoio che, tra gli altri, si attraversa per accedere alla zona delle sezioni detentive.

L’illuminato Direttore della Casa circondariale aveva favorito la realizzazione ad opera di detenuti di grandi murales, ancora oggi in molte parti visibili all’interno dell’istituto.

In quel corridoio su una parete era stata dipinta una enorme visione di un mare pieno di pesci di tutti i tipi e sull’altra una spiaggia tropicale selvaggia e assolata. Vi campeggiava al centro la scritta, di derivazione talmudica, moralistica, eppure così efficace: «Chi salva un uomo salva l’umanità ed anche se stesso».

Mi domandavo allora a chi si rivolgesse quella frase. Alle persone detenute, agli operatori che lavorano nel carcere, agli avvocati, ai giudici? A ciascuno, risponderei probabilmente oggi, come a ciascuno quella deserta spiaggia di sole credo evochi la libertà e la serenità dell’approdo dopo il lungo travaglio del mare.

In questi anni ho affrontato quel percorso in entrambi i sensi di marcia infinite volte e con stati d’animo molteplici. Si entra infatti in carcere, come forse accade per tutti i luoghi in cui l’umanità si mostra più scoperta e dolente, con una più acuta consapevolezza del proprio quotidiano, dei sentimenti, delle ansie e delle speranze, e li si espone inevitabilmente all’onda d’urto del confronto con le persone detenute e con il loro bisogno estremo di essere ascoltate, prima ancora che comprese ed esaudite.

2. Uno sguardo all’interno

La necessità dell’accesso alle strutture carcerarie, per effettuare visite alle sezioni detentive e per svolgere colloqui con i detenuti, discende direttamente dalle funzioni di vigilanza sulla organizzazione degli istituti penitenziari affidate al magistrato di sorveglianza dall’art. 69 dell’Ordinamento penitenziario, e dal diritto, riconosciuto ai detenuti e agli internati dall’art. 35 del medesimo testo normativo, di rivolgergli istanze o reclami non soltanto in forma scritta ma anche oralmente.

Se il quadro delineato dalla profetica ed attualissima normativa del ’75 non fosse stato abbastanza eloquente, il regolamento di esecuzione del 2000 esplicitò nel suo art. 5 il potere del magistrato di sorveglianza di assumere, per mezzo delle visite e dei colloqui, ma anche mediante visione di documenti, informazioni dirette sullo svolgimento dei servizi dell’istituto e sul trattamento dei ristretti. Nell’art. 75, infine, precisò che occorre dare agli stessi una periodica possibilità di entrare direttamente in contatto con il magistrato, individualmente ma anche quando questi visita i locali dove i detenuti trascorrono la giornata, consentendo così che anche oralmente possa darsi spazio ad eventuali istanze o reclami, che dovranno trovare nel più breve tempo possibile una risposta sempre motivata.

Le scrivanie della sorveglianza, ingombre di istanze di misure alternative, di liberazione anticipata e di permesso premio, di richieste di riesame della pericolosità ai fini dell’eventuale esecuzione di misure di sicurezza e di innumerevoli proposte di modifica di prescrizioni, hanno subito un progressivo drammatico ingolfamento. Di anno in anno si è avuto un incremento esponenziale delle iscrizioni, dei procedimenti decisi e purtroppo anche di quelli che restano pendenti, a fronte di un numero di detenuti per lungo tempo e sino a data assai recente in costante crescita, e di una messe di novelle normative, volte dapprima ad utilizzare il carcere come rimedio unico alle insicurezze sociali, e poi a tentare di contrastarne gli effetti, facilitando una deflazione il più possibile rapida del congestionato sistema penitenziario. Ciò è purtroppo accaduto anche a discapito della necessaria progressività ed individualizzazione del trattamento, scolpite con classico, efficace, nitore, dall’ordinamento penitenziario, come espressione dei principi costituzionali leggibili nell’art. 27 Cost.

In questa temperie, il momento del colloquio con il detenuto e quello della visita alle sezioni detentive hanno corso il rischio di apparire meno cogenti e meno direttamente produttivi di risultati.

In realtà, si tratta di una espressione fondamentale del ruolo del magistrato di sorveglianza, tanto nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, quanto per porsi ed essere riconosciuto quale magistrato di prossimità, che del ristretto in carcere non conosce soltanto ciò che può essere compendiato in un fascicolo pieno, e più spesso sguarnito o quasi, di documentazione, ma quel che deriva dall’averne ascoltato la voce e con essa le speranze ed i propositi, i rimorsi ed i rimpianti, le movenze giustificatorie a volte, e a tratti persino mistificatorie, l’immaturità e la successiva, sperata, maturazione, il poco ed il molto che sono il suo quotidiano e le sue aspettative di futuro.

Mario Gozzini, nel suo splendido libro La giustizia in galera?[1] ricorda l’Amleto di Shakespeare, che nel secondo atto sc. II, afferma: «Potrei vivere in un guscio di noce e sentirmi il re dello spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni».[2]

Ed i sogni cattivi sono nell’opera shakespeariana i sospetti, più o meno fondati, ed i pensieri che ossessivamente vi si avvitano intorno.

Anche per il detenuto potrebbe forse essere possibile la vita nel guscio di noce che è la sua cella, purché le sue notti fossero sgombre di cattivi sogni. Ed invece ne sono gravide.

Alcune nubi non possono che derivare dalla privazione stessa della libertà e, pur nell’indubbio dolore che ne deriva, può solo auspicarsi che trascorrano in fretta, riempiendo del massimo contenuto rieducativo il tempo altrimenti vano della carcerazione. In altri casi invece, sono le mancate risposte a domande legittime, per le più disparate ragioni, a confondere i pensieri dei ristretti in carcere e, di fatto, a sovrapporsi alle riflessioni critiche che opportunamente gli stessi dovrebbero sviluppare sui propri trascorsi antigiuridici[3].

Ad angustiare gravemente i detenuti sono perciò innanzitutto i ricordi, i rimorsi ed i rimpianti della vita libera, e soprattutto le condizioni delle famiglie, quando fortunatamente ci sono, e l’assenza, spesso realisticamente percepita, di credibili prospettive per l’avvenire.

La popolazione carceraria che ci è stata consegnata, non senza la responsabilità di leggi “carcerogene” in materia di stupefacenti, di immigrazione, di recidiva nel delitto, succedutesi soprattutto negli ultimi venti anni con ritmi e pervicacia solo a tratti contrastati dalle ferme reazioni della Corte costituzionale, è infatti nelle sezioni comuni dei nostri istituti penitenziari marcatamente segnata dal disagio sociale. Si compone, per una parte assai significativa, di stranieri privi di risorse esterne sul nostro territorio nazionale ed anche in quello di origine, e di cittadini italiani che, tra gli altri, affrontano gli anni della drammatica crisi economica vedendo intorno ridursi per se stessi e per i propri familiari le opportunità di far ritorno, o di far accesso per la prima volta, al mercato del lavoro.

Per i primi servirebbe più professionalità nella gestione di un contesto di fatto multiculturale e più capacità di confrontarsi, innanzitutto linguisticamente, con le nazionalità disparate che sono albergate nei nostri penitenziari. Per tutti occorrerebbero più risorse per favorire la professionalizzazione dei detenuti e per far sì che gli anni del carcere non ne impoveriscano ulteriormente il curriculum di competenze, ma si facciano momento di crescita e di formazione in vista del rientro nel contesto sociale.

Vi sono poi, specialmente negli istituti di dimensioni non particolarmente ampie, alcune sezioni, che hanno l’eufemistico nome di “protette”, dove si incontrano le marginalità meno riconosciute, giustapposte a situazioni tra loro diversissime. Vi vengono ristretti imputati e condannati (senza la prevista separazione) per reati di violenza sessuale o per fatti di pedofilia, collaboratori di giustizia, autori di reato appartenenti alle forze dell’ordine e, senza alcuna logica diversa dalla necessità di preservarli dallo stigma che si teme li colpisca se uniti ai detenuti comuni, persone transessuali e persino omosessuali che hanno soltanto il coraggio dignitoso di non voler tacere il proprio orientamento sessuale.

Da ciascuno di loro si leva un unanime coro che denuncia incomprensione, ed il rischio che l’individualizzazione del trattamento non trovi sufficiente spazio è qui più che altrove concreto. Qui, più che altrove, infatti, le iniziative sono difficili, per la necessità di mantenere la separazione di questi ristretti dal resto della popolazione detenuta. Eppure, qui soprattutto, per i sex offenders occorre realizzare percorsi di approfondimento psicologico che provino a garantire anche alla collettività una credibile riduzione della loro recidiva nel delitto, per i transessuali promuoverne la prosecuzione delle cure ormonali già intraprese in libertà, per tutti favorirne percorsi di monitorata, prudente, inclusione che scaccino i fantasmi del pregiudizio e della discriminazione, piuttosto che contribuire nei fatti ad alimentarli.

Ovunque, a prescindere dalle sezioni di appartenenza, si incontrano preoccupazioni per la salute, certo a tratti strumentalizzate, ma più spesso rispondenti nei fatti alla multiproblematicità dell’utenza media degli istituti penitenziari, segnata in larga parte dalle condizioni di disagio sociale cui già si faceva cenno e dalla dipendenza da sostanze stupefacenti, alcoliche e a volte da comorbilità psichiatriche che ne rendono ancor più difficile una congrua gestione penitenziaria.

Molti entrano in carcere senza aver conosciuto una assistenza sanitaria, senza che gli siano mai state apprestate, ad esempio, adeguate cure odontoiatriche, e perciò edentuli parzialmente e a volte totalmente, con patologie a lungo trascurate e perciò più difficili da risolvere.

Le problematiche psichiatriche, nel tempo in cui lodevolmente si va verso il superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario, vi hanno grande incidenza e, al di là dell’approccio farmacologico, non trovano spesso l’attenzione che meriterebbero, in assenza di aree sanitarie in cui l’esperto psichiatra sia presente per un tempo sufficiente ad occuparsi di tutti.

Vi è infine, da ultimo solamente perché in grado di amplificare le difficoltà e rendere più ardua la risoluzione di tutti gli altri problemi, la questione del sovraffollamento, che ha raggiunto negli scorsi anni, nel nostro paese, proporzioni solo parzialmente note all’opinione pubblica, nonostante il tanto parlare che se ne è fatto, e che vede oggi una fortunata attenuazione, pur sempre a rischio però di essere temporanea, legata com’è anche alle contingenti scelte di politica criminale che di volta in volta si facciano.

Questi, e molti altri, cattivi sogni “amletici” minano alla base la possibilità per le persone detenute di partecipare veramente all’opera rieducativa che l’art. 27 della Costituzione assegna alla pena. Quei sogni divengono domande di attenzione ossessive che si traducono, quando non trovano risposte, o le trovano ma in modo assai tardivo e parziale, in  senso di abbandono da parte delle istituzioni ed in una doglianza diffusa circa la disumanità delle condizioni detentive e la violazione dei diritti fondamentali.

Se per il primo l’ascolto attento degli operatori penitenziari, degli operanti di polizia penitenziaria, della Direzione dell’istituto, dell’area sanitaria e, seppur da ultimo, del magistrato di sorveglianza, può costituire un ristoro (e quante volte ho riscontrato piccoli e grandi miracoli compiuti dalla dedizione degli operatori a fronte di risorse scarse e in alternativa a più facili, ma dannose, scelte dettate da disimpegno burocratico), per gli altri cattivi sogni ciò può non essere sufficiente ed occorre valorizzare a pieno gli strumenti che la legge offre e di cui nel tempo si è progressivamente arricchita.

3. Un’analisi degli strumenti

L’ordinamento penitenziario parla di diritti delle persone detenute già dalle sue primissime statuizioni e nel suo art. 4 garantisce espressamente che le stesse possano esercitare personalmente i diritti derivanti da quella legge, anche quando legalmente interdetti.

Si tratta, all’evidenza, di dichiarazioni di principio di grande importanza, già per la loro collocazione sistematica.

L’art. 35 e l’art. 69 dell’ordinamento penitenziario, quest’ultimo come leggibile all’esito dell’intervento della cd Legge Gozzini, prevedono poi specificamente il diritto del detenuto di rivolgere reclami al magistrato di sorveglianza e il potere di quest’ultimo di impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati. Tuttavia, tali norme sono state ritenute, com’è noto, costituzionalmente illegittime dalla Consulta (sentenza 26/1999), nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale.

Nella pronuncia citata si esplicita come i diritti fondamentali dell’uomo, per come leggibili nell’art. 2 Cost., possono trovare limitazioni nella restrizione della libertà personale soltanto connessi alle finalità proprie della restrizione, ma non vengono annullati da tale stato ed anzi la dignità della persona (art. 3 Cost.) deve permanere pienamente lungo l’arco della detenzione.

Se ciò è vero, però, il riconoscimento della titolarità di diritti, potenzialmente lesi dall’agire dell’amministrazione a causa dello stato detentivo della persona, deve accompagnarsi ad un efficace strumento giurisdizionale mediante il quale farli valere dinanzi ad un giudice, ciò che difettava quando la Corte intervenne censurando, sì, le norme ma lasciando tuttavia al legislatore la scelta dei concreti strumenti per realizzare quanto necessario.

Nonostante il trascorrere degli anni, fu soltanto mediante un intervento giurisprudenziale che, tra le molte opzioni via via adottate dai magistrati di sorveglianza, la Suprema corte individuò (sentenza sez. un. n. 25079/2013), sino all’eventuale adempimento del legislatore, per sindacare i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria incidenti sui diritti soggettivi della persona in quanto detenuta, un procedimento, in realtà piuttosto semplificato, già presente nell’ordinamento penitenziario all’art. 14 ter per il reclamo avverso la sottoposizione al regime di sorveglianza particolare, introdotto dalla Legge Gozzini, e concludentesi con una ordinanza ricorribile per cassazione.

Si trattava di un procedimento non esente da difetti, soprattutto in tema di contraddittorio e più in generale derivanti dal modello camerale che, infatti, la Corte costituzionale ebbe modo di censurare in seguito (sentenza 341/2006), riconducendo al giudice del lavoro la competenza, in precedenza rimessa al magistrato di sorveglianza, a decidere sui reclami dei detenuti in materia di lavoro, riconoscendo che vi fosse una disparità di tutele offerte altrimenti al detenuto lavoratore rispetto al libero lavoratore.

A ben vedere, d’altra parte, quest’ultima era una competenza che non attingeva il proprium della tutela apprestata dal magistrato di sorveglianza, che non attiene, e non deve attenere, alla salvaguardia di qualunque diritto soggettivo di colui che è detenuto perché lo è, come se la detenzione determinasse una discriminazione o peggio una capitis deminutio del detenuto giustificante l’adozione di procedimenti meno garantiti di quelli che sono invece offerti al libero, ma che concerne la asserita lesione di diritti soggettivi che trovi la propria causa nello stato detentivo.

Nel corso di quasi quindici anni, sempre in assenza di una risposta da parte del legislatore, la giurisprudenza di sorveglianza ha utilizzato lo strumento procedimentale del 14 ter per riconoscere e tutelare diritti fondamentali delle persone detenute, dalla salute alla tutela della riservatezza in materia di dati sensibili come quelli sanitari o della corrispondenza, ed ancora di pieno esercizio della libertà religiosa e di espressione del pensiero, di informazione e di studio, di mantenimento dei rapporti con i familiari, di promozione dell’unità familiare, di corretto bilanciamento del diritto fondamentale alla dignità della persona  ed esigenze di sicurezza, ad esempio in materia di modalità di perquisizione  o di privacy durante le visite mediche.

Spesso tali questioni hanno riguardato proprio quei contesti detentivi dove più forte è la compressione dei diritti per ragioni di sicurezza e dunque in particolare la materia delle limitazioni al trattamento penitenziario di detenuti in regime differenziato ex art. 41bis ord. pen.

La Corte costituzionale, anche in questo ambito, è stata più volte chiamata ad esplicitare come le limitazioni a diritti di rango costituzionale garantiti in capo ad una persona detenuta siano costituzionalmente compatibili con l’art. 27 Cost., soltanto all’esito di un giudizio di bilanciamento tra valori che non le evidenzi come una afflizione supplementare rispetto a quella già dipesa dalla privazione della libertà personale, aggiungendo per altro che le stesse debbono essere attuate con modalità congrue e proporzionate allo scopo perseguito (da ultimo con la sentenza 143/2013).

Il cammino intrapreso, tuttavia, privo ancora di chiarimenti circa l’efficacia dei provvedimenti emessi dai magistrati di sorveglianza, non è stato sempre facile, tanto da costringere la Corte costituzionale ad intervenire con forza (sentenze 266/2009 e 135/2013) per ribadire che le disposizioni impartite dal magistrato di sorveglianza all’amministrazione non sono mere segnalazioni ma prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante è intrinseco alla finalità di tutela di diritti che la norma stessa persegue.

A fronte della rilevante complessità delle questioni che si erano poste, le condizioni di sempre più drammatico sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari, in particolare nel periodo successivo anche di pochissimi anni alla concessione dell’indulto del 2006, hanno visto aumentare grandemente i reclami alla magistratura di sorveglianza sulle condizioni di detenzione, e la sfiducia, o la poca conoscenza del rimedio apprestato in via pretoria da un così lungo numero di anni, hanno condotto i detenuti a chiedere sempre più di frequente un intervento diretto della Corte europea dei diritti dell’uomo che, com’è noto, ha più volte riconosciuto i nostri istituti penitenziari non in regola con il diritto convenzionale ed in particolare con l’art. 3 della Carta, che prescrive il divieto assoluto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti (tra le altre, molto commentate la sentenza Sulejmanovic c. Italia del 2009, la sentenza Torreggiani c. Italia del 2013 e tra le ultime, per la scottante materia della tutela della salute in carcere, la G.C. c. Italia dell’aprile 2014).

In questa chiave la Corte ha affermato che la persona detenuta non deve soffrire un disagio o sopportare una prova di intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza sottinteso alla detenzione e la sua salute ed il suo benessere, considerando le esigenze pratiche della reclusione, devono comunque essere adeguatamente assicurate.

La Cedu ha da ultimo dunque richiesto, nel corpo della sentenza Torreggiani, adottata con la forma della c.d. sentenza – pilota, che l’Italia, nel promuovere una strutturale risoluzione del problema del sovraffollamento, si dotasse di «un ricorso o di una combinazione di ricorsi efficaci al fine di consentire la rimozione delle condizioni di detenzione inumane e l’adeguato risarcimento per la detenzione subita in contrasto con le previsioni della Convenzione».

Non era dunque bastata la tutela apprestata in via inibitoria dalla magistratura di sorveglianza e si dimostrava insufficiente la possibilità di ricorrere al giudice civile per ottenere un risarcimento patrimoniale per i danni causati alla persona da una condizione di detenzione di fatto illecita, come pure pacificamente possibile anche a prescindere dalla sentenza della Corte europea.

É da questa storia, succinta a larghissime campiture, che origina l’introduzione del reclamo giurisdizionalizzato di cui all’art. 35bis Op (Dl 146/2013 poi convertito con l. n. 10/2014), volto alla rimozione delle inosservanze da parte dell’amministrazione delle disposizioni contenute nell’ordinamento penitenziario e nel suo regolamento esecutivo, tali da determinare un attuale e grave pregiudizio all’esercizio di diritti della persona detenuta.

É da questo monito europeo che nasce anche l’art.35ter Op (Dl 92/2014 poi convertito con l. 117/2014), disponente invece un rimedio risarcitorio principalmente in forma di riduzione della pena per i detenuti che abbiano subito condizioni di detenzione inumane e degradanti, per come definite dalla giurisprudenza della Cedu. Un monstrum giuridico che ha chiamato la sorveglianza a guardare non più soltanto alla rimozione in via inibitoria dei comportamenti lesivi di diritti ma a scandagliare le modalità detentive subite anche nel passato dal detenuto al fine di risarcire chi abbia ingiustamente patito una sofferenza più grande di quella che era legittimo attendersi dalla privazione della libertà per l’esecuzione della giusta condanna.

La magistratura di sorveglianza si trova oggi, dopo un lungo cammino a tratti poco compreso nel campo della tutela dei diritti del detenuto, con nuovi strumenti che dettano, in particolare nell’art. 35bis dell’ordinamento penitenziario, un procedimento giurisdizionale assai più garantito. Di più, tale strumento è dotato, in caso di mancata esecuzione da parte dell’amministrazione degli ordini impartiti, di un giudizio di ottemperanza che, seppur inopportunamente previsto soltanto a fronte dell’esperimento di tutti i rimedi impugnatori, e dunque sostanzialmente tardivo, dà comunque il segno concreto della volontà del legislatore di garantire la tutela dei diritti della persona in quanto detenuta con un procedimento in grado di raggiungere pienamente il risultato sperato, come molti anni fa la Corte costituzionale aveva richiesto.

Il ruolo del magistrato di sorveglianza continua ad essere quello della promozione della finalità rieducativa della pena, mediante il faticoso percorso che, in relazione ai detenuti in esecuzione di pena, conduce verso le misure alternative al carcere. In tal senso, anzi, sembra evidente come l’opzione volta a vedere nella restrizione carceraria l’extrema ratio dell’esecuzione inizi, pur con non poche e non inevitabili timidezze, a prendere maggior piede nella legislazione e nel dibattito scientifico e politico attuali. La recentissima normativa in materia di messa alla prova per adulti, da ultimo, ripropone le valutazioni prognostiche che sono state da sempre oggetto dei giudizi resi dalla sorveglianza (e dalla magistratura minorile), facendoli divenire propri del processo di cognizione, con una apertura alla valutazione della personalità e del contesto socio-familiare dell’autore di reato che non gli era propria e che dovrà necessariamente rimandare al bagaglio esperienziale maturato dalla sorveglianza.

Tuttavia, è sul piano della tutela dei diritti della persona detenuta che la normativa costituzionale, sovranazionale e, da ultimo, il legislatore ordinario del 2014, sembrano far convergere le maggiori attese sulla magistratura di sorveglianza, attribuendole un proprium che la sua originaria prossimità al mondo del carcere ed i suoi compiti di vigilanza naturalmente le consegnano.

D’altra parte, quando l’art. 27 della Costituzione, prima ancora della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, impone che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e riassume di seguito la finalità della pena nel suo tendere alla rieducazione del condannato, esprime un prius logico indefettibile, poiché nessuna pena inumana e degradante, nessuna pena in cui siano schiacciati i diritti fondamentali, può mai assolvere ad una funzione rieducativa.

Il guscio di noce shakesperiano in cui vivono i detenuti si affolla altrimenti di quei cattivi sogni di Amleto, ingiusti e perciò ancor più insopportabili, che per primi il magistrato di sorveglianza è chiamato a dissipare per liberare la potenzialità rieducativa della pena, che ne resta altrimenti del tutto compromessa e che invece rappresenta essa stessa, con la rinnovata responsabilità sociale che ne deriva a tutela anche della collettività, il più peculiare dei diritti del detenuto in esecuzione di pena.

4. Fuori le mura

Uscendo dal carcere quasi sempre si hanno più pensieri di quando ci si è entrati. Si sono accumulate storie da decrittare, problemi da superare, questioni piccole e grandi che devono trovare un canale tecnico-giuridico per poter essere trattate e, sperabilmente, risolte.

Si incontrano allora con lo sguardo, già nei cortili che precedono l’uscita, come anticipo di libertà, «la breve tenda azzurra che i prigionieri chiamano cielo e la nuvola errante che passa con argentee vele»[4]. Le descriveva così vividamente il condannato Wilde, nella sua celebre Ballata del carcere di Reading, il luogo ove rimase recluso due lunghi anni per essersi macchiato, nella “civilissima e progredita” Inghilterra vittoriana, del reato di sodomia.

E poi si è fuori. Ci si incammina verso l’ufficio e la scrivania, dove i detenuti non possono più tornare ad essere soltanto carte da smaltire e numeri per statistiche.

[1] M. Gozzini, La giustizia in galera?, Ed. Riuniti, 1997, pag. 16.

[2][2] «Oh God, I could be bounded in a nutshell and count myself a king of infinite space, were it not that I have bad dreams», W. Shakespeare, Hamlet, Act. II, sc. II, or. vers.

[3] M. Ruotolo nell’illuminante Dignità e carcere, ed. Scientifica, 2014, pag. 11 afferma che nella negazione del dialogo sta già la negazione della dignità e cita, per il tramite di Moni Ovadia, Primo Levi che chiede al suo carceriere nazista: «Perchè?», dopo che questi lo ha punito senza ragione e come risposta ottiene soltanto un: «Qui non c’è nessun perchè». É d’altra parte il tema del Cristo prigioniero e sotto processo che, schiaffeggiato, chiede al suo aguzzino senza ottenere risposte: «Se ho parlato male, dimostra il male che ho detto; ma se ho parlato bene, perchè mi percuoti?» (Giovanni, 18:23).

[4]Upon that little tent of blue/ Which prisoners call the sky,/ And at every drifting cloud that went/ With sails of silver by” O. Wilde, The Ballad of Reading Gaol, or. vers.. Il letterato irlandese fu recluso tra il novembre 1895 ed il maggio 1897. Due giorni dopo la sua uscita dal carcere scrisse la sua prima lettera al Daily Chronicle sulle condizioni detentive che aveva sperimentato insieme ai suoi compagni di pena. Il 23 marzo 1898 ne fece pubblicare un’altra dove, denunciando l’orrore delle carceri inglesi del suo tempo, propose riforme urgenti volte all’umanizzazione del sistema penitenziario, che sono oggi fatte proprie, almeno concettualmente, da tutti i paesi europei. (cfr. O. Wilde, Lettere, il Saggiatore, 2014, trad. italiana a cura di S. De Laude e L. Scarlini). Chi entra in carcere, si direbbe, ne esce sempre assetato di diritti per sè e per chi vi resta.