Magistratura democratica

Carcere, droga e intervento penale in Usa.
Un dibattito aperto

di Luigi Marini

Le politiche criminali seguite a partire dagli anni '80 e, soprattutto, la cd «Guerra alla droga» hanno portato nelle carceri Usa milioni di persone, per la gran parte giovani appartenenti alle classi e ai gruppi marginali.

I costi economici e sociali sono oggi considerati insostenibili da rappresentanti di entrambi gli schieramenti politici e a livello federale si registrano progetti di legge e scelte di gestione dei reati che intendono invertire la tendenza.

1. Sono due milioni e duecentomila circa le persone detenute negli Usa nell’estate del 2015; e 207.600 di queste lo sono nelle prigioni federali.

Forse sorprenderà che il numero delle persone scarcerate in media ogni anno ammonti a 700.000, sorprenderà assai meno che il tasso medio di recidivanza (nel triennio) sfiori il 40%.

È con questi numeri che da pochi anni la politica americana sta facendoi conti, nel senso letterale del termine, visto che i costi sopportati dal sistema carcerario sono fuori controllo e ormai condivisibilmente ritenuti insostenibili.

Molto probabilmente è questa la ragione del cambio di prospettiva che ha condotto una parte significativa degli esponenti Repubblicani a proporre soluzioni vicine a quelle sostenute da una larga fetta dei Democratici e a dare ascolto a ricerche sociologiche importanti, come quella rilasciata nel 2013 dalla Rand Corporation al termine di un esame di 30 anni di politiche criminali e di soluzioni carcerarie, ivi comprese le misure educative fornite “dietro le sbarre”.

Se negli anni ’50 il sistema americano vedeva una quota di concittadini detenuti certamente alta, 170 per 100.000 abitanti, ma non troppo lontana da quella di altri Paesi occidentali, oggi esso deve confrontarsi con una quota di 750 per 100.000, incomparabilmente maggiore. Il primo cambio di paradigma viene ormai chiaramente individuato dai commentatori nella legge del 1986 che, per la prima volta e con ampio e trasversale consenso delle forze politiche, intese limitare la discrezionalità dei giudici e introdurre i minimi edittali di pena. Un secondo passaggio decisivo viene individuato nella legge del 1994 che innalzò ancora i livelli di pena sull’onda di un spinta securitaria che mirava a neutralizzare i colpevoli isolandoli il più a lungo possibile dalla vita civile.

Non sarà male ricordare che la riforma del 1986 si inseriva a pieno titolo nella politica di dichiarata «guerra alla droga» e che non a caso la grandissima parte dei destinatari delle nuove pene si erano resi responsabili di reati connessi all’uso di droghe. Ancora attualmente quasi la metà di coloro che occupano le prigioni federali sono detenuti per questa tipologia di crimini. Sarà bene non dimenticare, poi, che costoro sono per la maggior parte persone provenienti dalle classi sociali e dalle aree marginali, più facilmente vittime della spinta all’illegalità, mal assistite nei processi, prive di sostegno al termine della pena.

 

 

2. Questo sistema viene adesso valutato assieme alle politiche sui registri penali, che conservano a vita una traccia anche dei reati minori, e alle prassi che in caso di domanda di lavoro legittimano il datore e far firmare una dichiarazione sui precedenti penali. L’insieme di queste misure ha condotto a un ben noto e studiato circolo vizioso di emarginazione che ostacola il reinserimento sociale, impedisce la ricerca di lavoro ed esclude i condannati dalle politiche di “social housing”. Nulla di sorprendente, dunque, quanto all’elevatissimo tasso di recidivanza che abbiamo ricordato.

 

 

3. Ma come la guerra alle droghe è stato un elemento scatenante le durissime politiche criminali avviate negli anni ’80 e la conseguente bancarotta del sistema carcerario, il cambio di approccio cui si assiste in tema di droghe sta aprendo spazi impensati.

Da pochissimi anni, infatti, ampi settori dell’opinione americana considerano fallimentari quelle politiche e tale cambiamento di prospettiva sta facendo breccia anche nella parte meno conservatrice del mondo repubblicano. Non solo alcuni Stati, cinque per la precisione, hanno modificato la propria legislazione in tema di cannabis, regolamentandone la coltivazione e l’uso, in primis terapeutico, ma lo stesso Procuratore generale federale e molti procuratori a livello statale hanno impartito linee guida e istruzioni per un approccio morbido verso chi viene trovato con modeste quantità di sostanza, fino a indicare la strada della mancata incriminazione per i casi di detenzione di cannabis.

Questa nuova tendenza ha assunto ampio rilievo internazionale nel momento in cui viene rappresentata e sostenuta dai rappresentanti statunitensi presso gli organismi internazionali, dalla Commissione sulle droghe di Vienna ai dibattiti che stanno avendo luogo presso la sede newyorkese dell’Onu in vista della UNGASS 2016 (Sessione speciale dell’Assemblea generale dedicata al tema droga  che si terrà nel prossimo mese di Aprile 2016). Il fatto che gli Usa si esprimano con nettezza in favore di sanzioni penali comunque proporzionate ai fatti e in favore di misure alternative al carcere rafforza in modo significativo la posizione degli Stati che si pongono come punto di equilibrio fra le spinte marcatamente repressive di una parte della comunità internazionale (si pensi, ad esempio, a Cina, Russia, Singapore e Paesi africani e orientali) e le spinte di altra parte (in primis alcuni dei Paesi centro e sud-americani) che mirano alla dichiarazione di fallimento delle politiche repressive e al cambio radicale degli investimenti internazionali in favore della riduzione del danno, della tutela della salute, del progresso sociale.

Non è questa la sede per esaminare la collocazione dell’Italia, che oscilla fra le posizioni “mediane” e momenti di apertura verso politiche “nuove”. Mi limito qui a segnalare che nel dibattito newyorkese la nostra legislazione viene considerata con interesse a fronte di un numero elevato di Paesi che ancora adottano politiche puramente e severamente repressive, ivi compresa la previsione della pena di morte, effettivamente eseguita; interessano della nostra legislazione, in sintesi: la non legalizzazione e la contemporanea non criminalizzazione del consumo; la dichiarata e praticata proporzionalità delle pene; l’esistenza di effettive misure alternative al carcere; il contrasto netto ai fenomeni di crimine organizzato.

 

 

4. Tornando al tema iniziale, le proposte che mirano a un cambiamento di politica in Usa coinvolgono sia gli strumenti puntivi sia le modalità di espiazione della pena.

Sul primo versante, lo sforzo è quello di modificare le leggi federali in materia di “sentencing” e di farlo unificando le diverse proposte sul tappeto in un’unica previsione legislativa. La prospettiva è quella di eliminare i minimi legali di pena ed espandere quella che viene definita “safety valve” (valvola di sicurezza), consentendo ai giudici di trattare in modo proporzionato i reati di droga di minore gravità che vengono mandati a giudizio. In particolare, vengono all’attenzione i «reati di droga non violenti», che rappresentano una categoria finora punita con sanzioni molto pesanti e oggi avvertite come una criticità del sistema. Da questo punto di vista anche molti rappresentanti Repubblicani parlano apertamente di “overcriminalization” e non negano che negli scorsi decenni la discrezionalità dei giudici si è spesso trasformata in fonte di disparità di trattamento dal carattere discriminatorio. È proprio sul carattere non violento dei reati di droga minori che fanno leva, da un lato, le nuove linee guida del Procuratore generale federale e di molti procuratori e, dall’altro, i progetti di legge di modifica delle regole del “sentencing” di cui si è detto.

Sul secondo versante, l’approssimarsi fra loro della posizioni repubblicane e democratiche muove dalla constatazione, riconosciuta con toni peraltro diversificati, che l’aggravamento del sistema complessivo delle pene in materia di droga si è rivelato improduttivo.

Tre sono le conseguenze negative che molti richiamano: a) un accrescimento dei costi del sistema penitenziario fino ai livelli di bancarotta; b) una diffusa perdita di fiducia nella giustizia; c) una “decimazione” di intere comunità, con esclusione dei più giovani e del loro indispensabile contributo produttivo ed economico alla vita sociale. Questo richiede che a una diversa politica di incriminazione e “sentencing” si aggiunga un forte investimento sulle “Federal PellGrants”, che offrono ai detenuti la possibilità di studiare e di raggiungere un titolo che favoriranno il loro reinserimento. Come ha verificato anche la ricerca della “Rand Corporation”, un’analisi dei risultati della “Bard Prison Initiative”, lanciata nel 2001, dimostra che coloro che hanno frequentato i corsi di studio hanno sofferto di un tasso di recidivanza pari al 4% (contro il 40% di cui si è detto), tasso che scende al 2,5% fra coloro che hanno ottenuto un diploma di laurea. Risultati importanti sono stati ottenuti anche dai “Recidivism Programs” che, a fronte di una possibile riduzione del 25% della pena da scontare, hanno spinto molti detenuti a partecipare alle iniziative carcerarie messe a disposizione per fatti di contenuta gravità. I dati statistici valorizzati dai sostenitori di questa prospettiva mettono in evidenza come «per ogni dollaro investito nei programmi educativi carcerari si realizzi per i cittadini (“taxpayers”) un risparmio medio di cinque dollari».

 

 

5. Le impostazioni favorevoli al cambiamento trovano ampio spazio sui siti specializzati, o comunque dedicati ai temi sociali, e sulla parte della carta stampata più sensibile alle questioni della criminalizzazione e della pena. Il New York Times, ad esempio, presenta ai lettori le disfunzioni del sistema in modo quasi martellante.

Da un lato denuncia o rilancia i casi di cattiva amministrazione delle carceri, a partire dalle indagini sulle violenze nel carcere della citta di New York, e i casi di errore giudiziario; dall’altro ospita frequentemente interventi di esperti e uomini politici che spingono in favore di nuove soluzioni legislative e amministrative. Merita di essere segnalato, fra i tanti, l’articolo di poche settimane fa dedicato a New Orleans, una città che al momento dell’inondazione del 28 Agosto 2005 causata dall’uragano Katrina aveva nelle carceri più di 6.000 persone (la percentuale più alta del Paese in rapporto alla popolazione) e che dopo la distruzione delle strutture decise, bloccando i progetti di ricostruzione, di limitare a 1.400 i posti letto delle carceri rispetto ai 5.800 inizialmente previsti. Dieci anni dopo l’uragano i detenuti di New Orleans non superano i 1.800. La limitazione della capienza ha generato sul piano giudiziario e amministrativo una serie di cambiamenti significativi: una nuova politica della polizia, che privilegia i procedimenti a piede libero rispetto all’arresto; la decisione della Città di non riconoscere più all’ufficio dello Sceriffo la “Orleans Parish Sheriff”, e cioè una somma giornaliera per ogni persona detenuta (così rimuovendo un tradizionale incentivo al ricorso all’arresto); la creazione di un sistema di gestione della fase pre-processuale che non penalizza coloro che non possono pagare una cauzione (tema, questo, di grande attualità anche nella città di New York grazie all’iniziativa del sindaco De Blasio).

 

 

6. Se queste sono le tendenze in atto, non va dimenticato che lo sforzo bipartisan in atto dovrà fare i conti non solo con la diffidenza di una parte consistente dell’opinione pubblica, ma anche con la cultura di molti Procuratore generali, procuratori e giudici fortemente radicata nell’idea che le pene debbano essere severe e scontate per intero. Come ho già avuto modo di scrivere, negli Usa rimane diffusa tra procuratori e giudici l’idea che pene ridotte e misure alternative costituiscano un segnale di debolezza dello Stato e, insieme, un fattore diseducativo, oltre che un messaggio errato diretto alle comunità. Questo rende evidente che la semplice eliminazione dei minimi di pena obbligatori non inciderà su una parte delle decisioni e che anche la individuazione di misure alternative potrà trovare in parte del giudiziario un approccio pregiudizialmente contrario a riconoscere la sussistenza in concreto delle condizioni per la loro applicazione.

Queste ultime considerazioni non tolgono che, le nuove politiche statunitensi aprono importanti prospettive sia sul piano interno sia sul piano degli equilibri sovranazionali. Così come non va sottovalutato il fatto che più di un commentatore e giurista statunitense evidenzi oggi come la “overcriminalization” vada vista anche con riguardo ai costi umani e come l’“imperativo finanziario” sia ormai diventato un “imperativo morale”.

È, dunque, probabile che il percorso che conduce alla sessione speciale 2016 sulle droghe sará occasione per gli Usa di nuove riflessioni non limitate alla risposta al problema delle droghe e indirizzate alle scelte più generali in materia di ricorso alla sanzione penale.