Magistratura democratica

Riforma della responsabilità civile dei magistrati e dubbi di legittimità costituzionale dell’eliminazione del filtro di ammissibilità dell’azione risarcitoria

di Giovanni Amoroso

La recente riforma della responsabilità dei magistrati ha, tra l’altro, eliminato il cd “filtro” già previsto dall’art. 5 della legge n. 118 del 1988, ora abrogato, che prescriveva, in via preliminare e con rito camerale, la previa verifica dell’ammissibilità della domanda risarcitoria. Ci si interroga in ordine alla legittimità costituzionale di tale abrogazione esprimendo dubbi - alla luce della giurisprudenza costituzionale in materia - in ordine alla compatibilità con le garanzie della giurisdizione: soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) e terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.).

1. La legge 27 febbraio 2015, n. 18, che ha modificato la disciplina della responsabilità civile dei magistrati, è stata occasionata - e formalmente giustificata - dalla decisione della Corte di giustizia 24 novembre 2011, c-379/10, che, pronunciandosi nella vicenda che riguardava la liquidazione della società Traghetti del Mediterraneo, ha accolto il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana ed ha affermato che quest’ultima ― escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ai sensi dell’art.2, commi 1 e 2, della legge n.117/1988 ― è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.

La Corte di giustizia ha così confermato il proprio orientamento secondo cui, in ragione di un generale principio di responsabilità degli Stati nell’attuare il diritto dell’Unione, è azionabile nell’ordinamento nazionale una pretesa risarcitoria nei confronti dello Stato per violazione del diritto dell’Unione a seguito di pronunce giurisdizionali anche del giudice di ultima istanza e quindi anche in caso di formazione del giudicato secondo le regole processuali nazionali (come già affermato in generale da Corte giust. 30 settembre 2003, c-224/01, Köbler c. Repubblica d’Austria, e da Corte giust. 13 giugno 2006, c-173/03, Traghetti del Mediterraneo c. Repubblica italiana).

A tale sentenza della Corte di giustizia del 2011 si è dato seguito con la cit. legge n. 18/2015 prevedendo però non già l’autonoma azionabilità di una pretesa risarcitoria nei confronti dello Stato, bensì agganciando quest’ultima alla disciplina della responsabilità dei magistrati, di talché è stata introdotta espressamente la violazione del diritto comunitario nel catalogo delle ipotesi di “colpa grave” del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni (art. 2, comma 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117, come sostituito dall’art. 2, comma 1, delle legge n. 18/2015); catalogo che ora prevede appunto “la violazione manifesta [...] del diritto dell’Unione europea”.

In realtà non era proprio questo che voleva la Corte di giustizia, la quale anzi aveva ammonito che la responsabilità dei giudici, più o meno ampia che sia secondo gli ordinamenti nazionali, è altra cosa, affermando in termini inequivocabili (cfr. Corte giust. 30 settembre 2003, c-224/01, Köbler c. Repubblica d’Austria): «Per quanto riguarda l’indipendenza del giudice, occorre precisare che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato».

2. Ma tant’è: la responsabilità dei magistrati è stata ampliata alla violazione manifesta del diritto dell’Unione europea e, con l’occasione, anche ad altre fattispecie (tutte quelle del nuovo catalogo introdotto dall’art. 2 l. n. 18/2015 che ha novellato il terzo comma dell’art. 2 l. n. 117/1988).

Va però sottolineato che la responsabilità per violazione del diritto comunitario e più in generale l’allargamento della responsabilità dei magistrati sono rimasti comunque nell’alveo dei principi portanti della legge del 1988 sia quanto al canone dell’azione risarcitoria diretta solo nei confronti dello Stato (secondo l’art. 7il magistrato risponde non già direttamente nei confronti del danneggiato, ma solo in sede di rivalsa azionata dallo Stato che, in forza di un titolo giudiziale o stragiudiziale, abbia risarcito il danno provocato a terzi dal provvedimento del giudice), sia quanto al carattere necessariamente sussidiario di tale azione risarcitoria (prescrive l’art. 4, comma 2, che l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno). Principi questi che, unitamente al cd “filtro” (previsto dall’art. 5, ora abrogato, che prescriveva, in via preliminare e con rito camerale, la previa verifica dell’ammissibilità della domanda risarcitoria), realizzavano il bilanciamento - costituzionalmente necessario, come ritenuto dalla Corte costituzionale - tra responsabilità dei giudici e garanzie costituzionali della giurisdizione.

Già in sede di ammissibilità del referendum abrogativo degli artt. 55, 56 e 74 cpc la Corte costituzionale (sent. n. 26 del 1987) ebbe ad affermare che «la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni»

Anche successivamente C. cost. 19 gennaio 1989 n. 18, ribadendo C. cost. 15 maggio 1974 n. 128 e 3 aprile 1969 n. 60, ha sottolineato che «la disciplina dell’attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest’ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla “libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza”».

Insomma la previsione di un’azione di responsabilità civile con siffatte connotazioni peculiari costituiva (e costituisce) attuazione ― nei limiti della specialità dell’attività del giudice ― del precetto costituzionale (art. 28 Cost.) che vuole che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici siano direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti, mentre allo Stato e agli enti pubblici si estende tale responsabilità civile; norma questa che la Corte costituzionale ha ritenuto essere applicabile anche ai magistrati con rinvio alla legge ordinaria (C. cost. 14 marzo 1968 n. 2, 3 febbraio 1987 n. 26, 19 gennaio 1989 n. 18, 5 novembre 1996 n. 385). La specialità del regime della responsabilità civile dei magistrati rispetto a tale canone (art. 28 Cost.) si giustifica perché esso entra in bilanciamento con i valori del Titolo IV della seconda Parte della Costituzione nella misura in cui tra i principi fondamentali che governano la magistratura vi sono quello della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), quello dell’indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) e quello della terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.).

3. Questo bilanciamento (art. 28 Cost. versus artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 108 secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.) si reggeva su tre pilastri (azione solo di rivalsa e non già diretta; sussidiarità di quest’ultima e quindi anche della prima; filtro di ammissibilità), dei quali quest’ultimo - il filtro di ammissibilità - è ora venuto meno a seguito dell’abrogazione dell’art. 5 l. n. 117/1988 ad opera dell’art. 3, comma 2, l. n. 18/2015.

L’ago della bilancia si è spostato accentuando la responsabilità dei giudici ed arretrando rispetto alle garanzie costituzionali della giurisdizione.

Ci si chiede allora, in particolare, se sia legittima, in termini di legalità costituzionale, l’eliminazione del “filtro” che concorreva a realizzare quel bilanciamento in passato realizzato tra responsabilità dei giudici e garanzie costituzionali della giurisdizione, ritenuto adeguato e quindi legittimo dalla giurisprudenza costituzionale (a partire da C. cost. n. 18 del 1989, cit.).

4. La finalità protettiva del filtro era realizzata mediante l’emersione rapida dell’eventuale inammissibilità della domanda per difetto dei presupposti processuali o per manifesta infondatezza (la cui non ricorrenza era prevista anch’essa come preliminare valutazione di ammissibilità). Il procedimento, in camera di consiglio, aveva una scansione precisa incentrata su uno snodo iniziale: il giudice istruttore, alla prima udienza, rimetteva le parti dinanzi al collegio che era tenuto a provvedere entro i successivi quaranta giorni deliberando sulla ammissibilità/inammissibilità della domanda.

Se la domanda era ritenuta ammissibile perché erano stati rispettati i termini e le condizioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 l. n. 117/1988 (all’esito della verifica in rito dei presupposti processuali) e se la domanda non poteva ritenersi manifestamente infondata (secondo una delibazione sommaria e preliminare del merito), il tribunale dichiarava ammissibile la domanda e disponeva la prosecuzione del processo. La fase della verifica dell’ammissibilità si chiudeva qui non essendo possibile alcuna impugnazione nei confronti del decreto che avesse dichiarato ammissibile la domanda (C. cost., ord., 29 gennaio 2005 n. 67).

Se la domanda era invece ritenuta inammissibile dall’adito tribunale (per difetto dei presupposti processuali o perché ritenuta, in limine, essere manifestamente infondata), l’inammissibilità era dichiarata con decreto motivato, impugnabile nei modi e con le forme di cui all’art. 739 cpc (quindi nel termine di dieci giorni) innanzi alla corte d’appello che si pronunciava anch’essa in camera di consiglio con decreto motivato entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo; il termine per proporre ricorso per cassazione era ridotto a trenta giorni; la Corte di cassazione era tenuta a decidere entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti.

Questo era in sintesi il meccanismo del filtro, ossia della necessaria previa verifica dell’ammissibilità/inammissibilità della domanda.

Cosa cambia ora per il giudice una volta eliminato il filtro di inammissibilità?

Fermo restando che il giudice non poteva essere chiamato in causa - e non può esserlo tuttora come continua a prevedere l’art. 6 l. n. 117/1988 ― ma ha diritto alla previa comunicazione del procedimento da parte del presidente del tribunale e gli è riconosciuta la facoltà di intervenire, si ha però che prima della modifica in esame, quando si distingueva tra la fase dell’ammissibilità e quella del merito, il giudice poteva valutare in modo differenziato la sua esigenza difensiva e poteva ben rimanere alla finestra, senza intervenire nella fase dell’ammissibilità, perché questa era appunto riservata alla sola valutazione dell’ammissibilità della domanda, rinviando il suo possibile intervento alla eventuale fase successiva, quando, dichiarata ammissibile la domanda, questa era destinata alla valutazione nel merito (di accoglimento o di rigetto della pretesa risarcitoria), senza peraltro che fosse precluso il riesame dell’ammissibilità. Ciò comportava che inizialmente ― e per tutta la fase preliminare dell’ammissibilità ― il giudice ben difficilmente assumeva la qualità di parte nel giudizio di responsabilità civile e che la controversia fosse effettivamente, in questa fase iniziale, res inter alios.

Nella seconda fase, ove il tribunale avesse ritenuto la ammissibilità della domanda, non essendo questa impugnabile, si schiudeva l’iter di un giudizio ordinario e prendeva corpo per il giudice il rischio di dover subire un’azione di rivalsa. In questa fase ― ed essenzialmente solo in questa fase ― l’interesse all’intervento del giudice, al quale si addebitava dalla parte attrice la causazione di un danno ingiusto per colpa grave (o dolo), diventava concreto e la causa, una volta spiegato l’intervento (adesivo rispetto allo Stato convenuto e resistente nel giudizio avente ad oggetto la pretesa risarcitoria), cessava di essere res inter alios. Infatti è comunque parte nel giudizio l’interveniente adesivo, che sostiene le ragioni di una delle parti in causa e segnatamente, nella fattispecie, della parte convenuta contrastando le ragioni della parte attrice; si determina in ogni caso la situazione di una “causa pendente” che costituisce presupposto dell’astensione obbligatoria del giudice (art. 51, primo comma, n. 3, cpc), ed, in sua mancanza, della possibilità di ricusazione (art. 52 cpc), in ogni causa civile in cui il giudice possa trovarsi ad essere chiamato a pronunciarsi sulla parte attrice. Parallelamente anche nel processo penale si determina una situazione altresì valutabile al fine dell’astensione obbligatoria del giudice (art. 36, comma 1, lett. d ed h, cpp), ed, in sua mancanza (quanto alla lett. d), della possibilità di ricusazione (art. 37 cpp), in ogni processo in cui il giudice possa trovarsi ad essere chiamato a pronunciarsi sulla parte attrice nei limiti in cui, per essere il giudice intervenuto in causa ed aver contrastato la pretesa della parte attrice, la pendenza della causa civile con l’indagato o l’imputato possa qualificarsi come situazione di “grave inimicizia”.

L’eliminazione del filtro di ammissibilità ha ora l’effetto di rendere immediata, per qualsiasi iniziativa giudiziaria diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, anche se manifestamente infondata o inammissibile per difetto dei presupposti processuali, ed in ipotesi meramente pretestuosa e strumentale, la possibilità dell’insorgere di questa situazione rilevante al fine della astensione o ricusazione del giudice, a seguito del suo intervento in causa, anche se la parte attrice non può chiamare in causa il giudice asseritamente autore del danno ingiusto.

Nel regime precedente la legge n. 18/2015 - quando c’era il “filtro” - si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 22 luglio 2014, n. 16627) che ha affermato che la “causa pendente” tra giudice ricusato e danneggiato ricusante non può essere costituita dal giudizio di responsabilità di cui alla legge n. 117/1988, che non è un giudizio nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato, e che quindi «non può ritenersi ricorrente l’ipotesi di cui all’art. 51 cpc, comma 1, n. 3, in quanto non può tecnicamente affermarsi la pendenza di una causa tra la parte ricusante e il giudice ricusato».

Analogamente – nel nuovo regime della legge n. 18/2015 – la Sesta sezione penale (Cass. pen., sez. VI, 18 marzo 2015, n. 16924) ha ritenuto che «il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria ex lege n. 117/88 non assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l’assorbente ragione che la domanda (anche dopo la legge n.18/2015) può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi i casi di condotta penalmente rilevante, art. 13). Né la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell’originaria azione si sia conclusa con la condanna dell’Amministrazione, muta la conclusione, perché i presupposti e i contenuti dell’azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell’azione diretta della parte privata nei confronti del solo Stato (art. 7; artt. 2 e 3)».

In realtà nel momento in cui il giudice spiega intervento (adesivo) in causa ex art. 105, secondo comma, cpc si determina una situazione di “causa pendente” che riguarda il giudice interveniente e la parte attrice, entrambi parti della stessa causa. L’interveniente adesivo diventa parte del giudizio ed anzi a seguito dell’intervento adesivo volontario si configura un litisconsorzio necessario processuale sicché - si è ritenuto in giurisprudenza (Cass., sez.I, 3 aprile 2007, n.8350) - la causa deve considerarsi inscindibile nei confronti dell’interveniente. Consegue che la controversia civile promossa dal danneggiato che faccia valere nei confronti dello Stato la pretesa risarcitoria per il danno ingiusto asseritamente subìto a causa dell’attività del giudice è sì res inter alios, ma solo inizialmente se (e fin quando) non c’è l’intervento del giudice.

Insomma la mancanza del filtro di ammissibilità ex art. 5 ha come conseguenza che anche in riferimento ad iniziative concretantisi in azioni risarcitorie inammissibili (perché mancanti dei presupposti di legge o perché manifestamente infondate) si ha un processo ordinario che pone subito al giudice l’alternativa tra intervenire nel giudizio ― determinando quella situazione di “causa pendente” con la parte attrice con le rilevate conseguenze in termini di astensione obbligatoria o di ricusazione nel giudizio civile (seppur con i temperamenti che discendono dall’interpretazione adeguatrice dell’art. 51, n. 3, cpc indicata da C. cost. 1 luglio 1993 n. 298 che ha escluso un rigido automatismo), e con conseguenze che potrebbero essere non dissimili nel processo penale nei termini suddetti in ragione dell’esigenza di interpretazione adeguatrice dell’art. 36, primo comma, lett. d) ed h), c.p.p. alla luce del novellato art. 111, secondo comma, Cost., che pone la terzietà ed imparzialità del giudice come un diritto fondamentale della parte, il cui rispetto è imprescindibile per garantire l’attuazione del giusto processo (cfr. C. cost. 20 aprile 2000 n. 113) ― oppure non intervenire astenendosi dall’esercitare la facoltà che l’art. 6 l. n. 117/1988 gli accorda così da lasciare che la causa di responsabilità civile rimanga res inter alios, ma in tal modo rinunciando ad esercitare il suo diritto di difesa (pur presidiato dall’art. 24 Cost.) a fronte di una domanda inammissibile

Né la necessaria postergazione dell’azione di responsabilità civile all’esaurimento dei mezzi di impugnazione (secondo il canone di sussidiarietà di cui al cit. art. 4, comma 2, l. n. 117/1988) argina questo effetto. Essa appartiene alle condizioni di ammissibilità della domanda; sicché un’azione “prematura”, promossa ad arte prima della proposizione e dell’esaurimento dei mezzi di impugnazione e prima che si esaurisca la fase in cui l’attività del giudice è stata posta in essere, è sì inammissibile, ma, in mancanza di filtro di ammissibilità, dà comunque luogo ad un ordinario giudizio in cui il giudice può intervenire; giudizio che nei suoi vari possibili gradi ha una durata certamente maggiore di quello mirato (nel precedente regime del filtro) alla sola previa verifica dell’inammissibilità della domanda ex art. 5 l. n. 117/1988.

Astrattamente c’è quindi la non remota possibilità per la parte di porre i presupposti, ove il giudice intervenga in causa, per rendere incompatibile, in senso lato, e quindi ricusabile il giudice “non gradito”.

5. Gli effetti dell’eliminazione del filtro di ammissibilità quanto al verificarsi dei presupposti dell’astensione e della ricusazione del giudice appaiono tali da alterare il bilanciamento tra il principio di responsabilità del giudice per i provvedimenti che emette (art. 28 Cost.) e le garanzie costituzionali della giurisdizione (artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 108 secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.).

Oltre a richiamare la giurisprudenza costituzionale sopra citata, mette conto evidenziare in particolare che C. cost. n. 18/1989 cit. ha precisato: «la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione». L’agevole argomento a contrario che se ne può trarre già conduce a ribadire l’indispensabilità del filtro.

Anche C. cost. n. 298/1993 ha ritenuto che la previa delibazione prevista dall’art. 5 cit. circa la eventuale inammissibilità per manifesta infondatezza della domanda di risarcimento dei danni assertivamente provocati nell’esercizio della attività giurisdizionale trova la sua ragione d’essere nella peculiare ed autonoma esigenza di evitare che la possibilità di un indiscriminato ingresso di pretese risarcitorie (seppur nei confronti dello Stato, ma con azione di rivalsa nei confronti del giudice) induca remore o timori nell’esercizio dell’attività giurisdizionale per il rischio di azioni temerarie od intimidatorie.

In più occasioni quindi la giurisprudenza costituzionale, vuoi riferendosi direttamente al filtro in termini di indispensabilità del presidio processuale, vuoi sottolineandone la funzione di garanzia dell’indipendenza del giudice, ha mostrato di ritenere che esso costituiva un elemento importante e decisivo per l’adeguatezza del bilanciamento tra responsabilità civile del giudice e garanzie costituzionali della giurisdizione.

Ciò è emerso con evidenza ancora maggiore quando, in passato, la Corte è stata chiamata a scrutinare una fattispecie di responsabilità civile senza filtro qual è ora quella attualmente vigente.

Rileva, al fine della verifica di compatibilità dell’art. 3, comma 2, l. n. 18/2015 con le garanzie della giurisdizione, soprattutto la cit. sentenza n. 468 del 1990 della Corte costituzionale perché è una pronuncia dichiarativa di illegittimità costituzionale che si riferisce proprio ad una fattispecie di responsabilità civile senza filtro, quale era quella che connotava il periodo ante 16 aprile 1988, data di entrata in vigore della legge n. 117/1988; periodo in cui infatti non operava alcun filtro né quello poi previsto dall’art. 5 l. n. 117/1988 (perché introdotto successivamente con effetti ex nunc), né il vecchio art. 56 cpc abrogato per effetto del referendum del 1987 (perché ― secondo l’interpretazione che ne diede C. cost. n. 468 del 1990 cit. troncando il dibattito che pure si era subito aperto sulla questione ― tale disposizione non poteva conservare una sua residuale applicabilità dopo il referendum del 1987). La Corte, che si è appunto pronunciata in riferimento alla disciplina dei giudizi promossi dopo l’effetto abrogativo del referendum (differito al 7 aprile 1988 ex art. 2 l. n. 332/1987) per fatti anteriori al 16 aprile 1988 (data di entrata in vigore della l. 117/88), ha riconosciuto il rilievo costituzionale di un meccanismo di “filtro” della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle «condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati» che «la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono» (cfr. anche C. cost. n. 2 del 1968 e n. 26 del 1987, cit.).

La Corte pone in rilevo di aver ribadito già in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo la indispensabilità di un “filtro” a garanzia della indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale; sicché ― osserva la Corte ― la mancata previsione, nel contesto dell’art. 19 della legge n. 117 del 1988, di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101-113 della Carta costituzionale determina un vulnus ― prima ancora che dei suddetti parametri ― del principio di non irragionevolezza implicato dall’art. 3 della Costituzione.

La conclusione è stata che l’art. 19 cit. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva che il tribunale competente, con rito camerale e conseguente applicazione degli ordinari reclami ed impugnazioni, verificasse la non manifesta infondatezza della domanda ai fini dell’ammissibilità dell’azione di responsabilità nei confronti del magistrato promossa successivamente al 7 aprile 1988, per fatti anteriori al 16 aprile 1988, data di entrata in vigore della legge n. 117/1988.

In tal modo la Corte, con una pronuncia additiva, ha costruito un “filtro” laddove mancava, peraltro in un contesto in cui la responsabilità civile del giudice era configurata in termini assai restrittivi per essere ancora operante, ratione temporis, l’abrogato art. 55 cpc, norma questa che invece, per la sua natura sostanziale, continuava ad applicarsi, in ragione del regime della successione delle leggi nel tempo, alle condotte e alle attività pregresse poste in essere dal magistrato prima dell’entrata in vigore della legge n. 117/1988: la responsabilità era diretta sì, ma limitata alle sole ipotesi dell’art. 55 cpc (dolo, frode o concussione e denegata giustizia a seguito di apposita istanza).

Ora che la responsabilità del giudice, seppur indiretta in via di rivalsa dello Stato, è configurata in termini decisamente più ampi per essere stati estesi i casi di colpa grave (quelli di cui al novellato art. 2 della legge n. 117/1988, ora comprensivi anche del “travisamento del fatto o delle prove”), la mancanza di un filtro di ammissibilità induce ― a fortiori rispetto alla fattispecie scrutinata da C. cost. n. 468/1990 ― quanto meno a dubitare della legittimità costituzionale della norma abrogatrice (art. 3, comma 2, l. n. 18/2015) in riferimento alla garanzia di terzietà ed indipendenza dei giudici di cui agli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 108, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.. In tal senso peraltro la questione di costituzionalità risulta essere già stata sollevata dai giudici di merito (Trib. Treviso 8 maggio 2015, in Federalismi.it, 2015, n. 1, e Trib. Verona 12 maggio 2015, in Questionegiustizia.it.).

L’ammissibilità della questione di costituzionalità per essere “a rime obbligate” il petitum del giudice rimettente in termini di auspicata reductio ad legitimitatem ― requisito richiesto dalla giurisprudenza costituzionale ― sarebbe comunque avvalorata anche dalla considerazione che un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, l. n. 18/2015 ― per avere tale norma una portata meramente abrogatrice (e non già sostitutiva o modificativa) dell’art. 5 l. n. 117/1988 ― avrebbe come conseguenza quella di far rivivere la norma abrogata.

[1] Questo scritto riprende la tematica trattata nella relazione presentata per la tavola rotonda sulla responsabilità civile dei magistrati, organizzata dall’Ufficio dei referenti per la formazione decentrata, tenutasi il 27 maggio 2015 nell’aula magna della Corte di cassazione.