Magistratura democratica

Ai margini della pena.
Riflessioni su disuguaglianze e diritto penale

di Riccardo De Vito

In troppi casi il diritto e la giurisdizione penale scaricano i loro effetti a senso unico sui marginali, gli esclusi, i subalterni. Alcune fotografie della composizione sociale del carcere chiariscono l’affermazione in maniera plastica. Occorre indagare i nessi causali, dalle strutture normative, alle prassi giurisdizionali, dalle culture professionali ai modelli organizzativi.

L’inversione di rotta può nascere soltanto dalla rivitalizzazione di un modello di giudice e giurista che non si limiti alla contemplazione dell’esistente.

1. Disuguaglianze e penalità. Una delimitazione del campo

Il tema delle nuove e vecchie disuguaglianze deve essere affrontato anche e soprattutto sul terreno della penalità, vale a dire in quel campo dell’esperienza giuridica che sperimenta la sanzione dell’esclusione dalla società e che, in epoca contemporanea, corre il rischio di assumere sempre più marcatamente la fisionomia di strumento di lotta ai poveri e ai marginali. 

Si tratta, senza dubbio, di questione delicata, che coinvolge un potere di per sé tragico come la potestà punitiva, urta nervi scoperti delle democrazie occidentali e tocca direttamente, oltre che il problema dell’uguaglianza tra gli uomini, quello del rapporto tra autorità e libertà.

Possiamo permetterci, tuttavia, di partire avvantaggiati con riferimento allo scopo dell’analisi: come magistrati democratici sappiamo che serve l’«impegno di chi, riconoscendosi nei valori del costituzionalismo, rifugge dal comodo ruolo di contemplatore dell’esistente.»[1].

È indispensabile, pertanto, scrutinare l’argomento a partire dal punto di vista esterno al diritto positivo, coltivare dubbi e formulare proposte, non adagiarsi su visioni di comodo, tranquillizzanti per il mestiere di giudice, ma insensibili alle prescrizioni dell’articolo 3 della Costituzione.

In altri termini, è necessario tornare a fare il tradizionale lavoro di Magistratura democratica.

Conta anche avere a disposizione punti di osservazione favorevoli e questo spiega perché sia utile che le brevi considerazioni che seguono vengano svolte da un magistrato di sorveglianza.

Il magistrato di sorveglianza, in ideale contrappunto con quanto rilevato dal presidente Rordorf a proposito della giurisdizione civile, si trova nel quotidiano ad avere a che fare non con le maschere della giustizia, ma con la carne viva degli uomini della colpa e della pena. Sia chiaro: non si tratta di un demerito delle costruzioni civilistiche e di una virtù della penalità penitenziaria; quello della necessaria prossimità agli uomini condannati è, piuttosto, il codice genetico della giurisdizione rieducativa.

Da questa conoscenza occasionata dalla vicinanza, pertanto, può prendere le mosse l’analisi. La composizione sociale del carcere, infatti, costituisce un punto di vista privilegiato per interrogarsi sul funzionamento oggettivo del diritto penale e sulle disuguaglianze che esso produce o ri-produce.

Prima di affrontare questo sintetico percorso di osservazione, occorre delimitare il campo di indagine, escludendo dal fuoco dell’interesse di questa trattazione alcuni argomenti che, sebbene rilevanti per le implicazioni in termini di rapporti tra uguaglianza e diritto criminale, appaiono periferiche al vero obiettivo dell’esposizione: capire chi e come colpisce la giustizia penale.

Non verrà trattato, dunque, il complesso tema – di cui non deve sfuggire mai la portata decisiva – del rapporto tra democrazia, principio di legalità, uguaglianza e garantismo penale. Qui il monito, tuttavia, andrebbe rivolto al legislatore più che al giudice e in questa sede è sufficiente riportarsi alle parole di Dario Ippolito: «se i demoni incontrati a Gerasa erano Legione perché tanti, cosa dire delle tante fattispecie penali nell’epoca della decodificazione?»[2].

Altro tema sul quale si deve soprassedere è quello inerente alla relazione tra penalità, ordine pubblico, sicurezza e uso simbolico del diritto penale. La variegata discussione scaturita attorno alla categoria del “diritto penale del nemico”, tuttavia, attraverserà gran parte delle tesi trattate, con particolare riferimento alla sostituzione della sicurezza sociale (o sicurezza dei diritti) con la sicurezza tout court (o diritto alla sicurezza). Sarà facile constatare che, quanto più diminuiscono le risoluzioni dei conflitti sociali nelle camere di compensazione del welfare, tanto più si utilizza il diritto penale per neutralizzare chi è rimasto sconfitto ed è spinto ai margini.

Eccentrici rispetto al fine di questo dibattito sono poi gli interrogativi che riguardano uno dei futuri della giustizia penale, ovvero la giustizia riparativa. Non ne accenneremo, ma è innegabile che la restorative justice ponga sul tappeto, a livello filosofico, etico ed economico, indifferibili questioni di riconoscimento dell’altro e di uguaglianza.

Dopo aver delimitato gli argini, si deve a questo punto riprendere il filo del discorso e lo si deve fare, come ha osservato Roberto Riverso[3] con riferimento al mondo del lavoro, partendo non dal diritto, ma dalla realtà.

2. Istantanee dal carcere: i numeri della povertà

Nell’avviare questo approfondimento sulla disuguaglianza registrata dalla penalità, come detto, occorre coltivare metodologicamente il punto di visto esterno e tentare di decifrare il funzionamento oggettivo del diritto penale; non limitarsi all’esegesi delle fonti positive, dunque, ma affrontare la penalità materiale. Appare particolarmente proficuo, in quest’ordine di ragionamenti, passare in rassegna i tanti condannati, imputati e indagati della giustizia penale italiana: chi sono? Di cosa rispondono? Domande fondamentali per provare a capire se la giustizia penale si sottragga o meno a una distribuzione disuguale.

Naturalmente, i parametri per condurre una simile indagine sono molteplici, ma è opportuno iniziare il ragionamento partendo dai numeri del carcere, dalla fotografia della sua composizione sociale e dalla conseguente divisione della pena.

Le risposte che arrivano da una tale consultazione, possiamo anticipare, sono (purtroppo) in parte scontate e in parte provocatorie. Valgono ancora oggi, infatti, le conclusioni che nel 1976, Elvio Fassone traeva in un libriccino molto importante, con un sottotitolo significativo proprio per l’adozione di quello sguardo dal di fuori: Carcere e criminalità. Il cittadino interroga le prigioni (Editrice Esperienze, 1976).

Statistiche alla mano, Fassone concludeva che il carcere era destinato in prevalenza a utenti di una determinata classe sociale, quella emarginata, che nel «carcere trovava l’ultimo anello di un continuum di risposte negative ed escludenti ai problemi dell’esistenza».

Possiamo dire che oggi, a distanza di quarant’anni da quello studio pioneristico, il carcere sia diventato una realtà meno parziale e più conforme a Costituzione?

Al 30 settembre 2016 (ultimo dato a disposizione al momento in cui si parla) i detenuti ristretti nelle carceri italiane arrivavano a quota 54.465. I numeri, dunque, stanno di nuovo crescendo. A giugno 2015 i detenuti complessivi erano 52.754, mentre raggiungevano quota 54. 072 a giugno 2016.

Chi viene colpito da questi processi di ri-carcerizzazione?

Anche qui le statistiche – delle quali in questa sede si può solo offrire una lettura non raffinata –, permettono di cogliere qualche risposta a livello di trend.

Su 54.465 detenuti, 18.462 sono stranieri, pari a circa il 34% della popolazione carceraria. Si tratta, per lo più, di migranti economici privi di regolare posizione sul territorio dello Stato e costretti alla clandestinità, che occupano una porzione non trascurabile dell’area della detenzione sociale.

Proviamo anche – proprio seguendo le orme di Fassone – a interrogare la popolazione carceraria sulla base di altri parametri.

È interessante, ad esempio, provare a confrontare i più recenti risultati dei rapporti Istat sulla diffusione della povertà in Italia con le rilevazioni relative alla presenze negli istituti penitenziari. Emerge dai rapporti Istat che la povertà (intesa qui in accezione sociale e politica e non scientifica) colpisce in misura nettamente maggiore il Sud Italia e le Isole, come dimostra, tra i tanti criteri impiegabili, il picco dell’indicatore relativo all’accesso alle mense per poveri (anche in questo caso è preferibile genericamente utilizzare il termine povero, in quanto meno caratterizzato da connotazioni di classe/ceto). Ebbene, analizzando la popolazione detenuta in base al criterio della provenienza geografica sarà facile constatare la seguente distribuzione: 9.736 detenuti provenienti dalla Campania; 3.507 dalla Calabria; 3.934 dalla Puglia; 7.009 dalla Sicilia e, infine, 1.155 dalla Sardegna. Sul totale di 54.465 reclusi, ben 25.341 – circa il 46,50% dell’intera popolazione carceraria – provengono dalle regioni più marcatamente colpite dalla crisi e a più alto tasso di esclusione sociale. E, si badi bene, non è dato giustificabile o leggibile soltanto attraverso la cifra della criminalità organizzata, posto che le condanne per associazione mafiosa ammontano a circa 6.000.

Un maggior livello di approfondimento imporrebbe di mettere in relazione gli elementi statistici appena citati con i rilievi che hanno ad oggetto l’efficienza dei servizi sociali, il livello delle prestazioni pubbliche e, più in genere, gli indici sintomatici del benessere. Non è questa la sede per essere più analitici. È sufficiente anticipare che le conclusioni sono le medesime: per usare la metafora di celebre penologìa italiana, la geografia della anoressia sociale coincide con quella della bulimia penitenziaria.

Ai fini di questa veloce rassegna, viceversa, è senza dubbio di interesse porre l’attenzione sulla tipologia dei reati che, sulle gambe dei detenuti, abitano le prigioni nostrane.

Occorre ribadire che si tratta di indagine macroscopica, utile per capire alcune linee di fondo, ma che andrebbe nettamente raffinata per giungere a conclusioni più sofisticate sul piano epistemologico. Gran parte del carcere, comunque, è occupato da condannati per reati in materia di stupefacenti (18.941) e reati contro il patrimonio; sotto quest’ultimo profilo, in particolare, si deve evidenziare che ben 11.767 sono i detenuti che hanno commesso furto e 16.408 quelli che hanno la rapina tra i titoli in espiazione. Con riferimento ai delitti contro la pubblica amministrazione, invece, è di grande interesse rilevare che i condannati per violenza e resistenza a pubblico ufficiale ammontano a circa 6.400, mentre i condannati per reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione che scontano la pena in carcere sono circa 346.

Deve essere chiaro che quest’ultimo dato, relativo alla ridotta presenza carceraria di questa tipologia di criminalità, viene utilizzato soltanto per cogliere a contrario la vastità dell’area della detenzione sociale; nessuna intenzione, dunque, di fornire indicazioni sul trattamento penale dei “colletti bianchi” e, tanto meno, nessuno spazio alla demagogia dell’incarcerazione. Una risposta di politica criminale che si muova sul terreno del garantismo dovrebbe mirare ad alzare il livello di tutela e di garanzia dei sottoprotetti, non ad abbassare quello relativo alle forme elitarie di delinquenza.

Fatta tale precisazione, è necessario ora ragguagliare i dati relativi alla tipologia dei reati per i quali si sconta la pena in carcere all’indagine dei flussi delle denunce ricevute dalle agenzie di polizia. Scopriremo – al di là del consueto dato inerente alla ineffettività della risposta di polizia e della risposta giudiziaria, di cui ora non ci interessa indagare le cause – che la maggior parte dei 624 denunciati riguardano il furto di auto in sosta (ancora il reato maggiormente denunciato, con circa 253.000 denunce annue), il furto in abitazione (comprensivo di un grande cifra di furto in esercizi commerciali), il furto con strappo. Tale dato non viene, per così dire, corretto dall’attività giudiziaria, se è vero che l’88% cento delle condanne per furto riguarda casi analoghi.

Per completare questa breve inchiesta sul carcere appare necessario rivolgere l’attenzione ad altre forme di povertà, che quasi sempre si abbinano alla povertà materiale. Un criterio ragguardevole per esaminare la popolazione detenuta, ad esempio, è costituito da quello che, in via di estrema generalizzazione, potremmo definire di alfabetizzazione dei detenuti. Sotto questo profilo riscontriamo che i laureati in carcere sono appena 514; 16.300 detenuti hanno poi la licenza media, mentre 5.720 la licenza elementare e circa 600 sono del tutto privi di alfabetizzazione primaria. Nel complesso, 22.516 possiedono un livello di alfabetizzazione che non li rende competitivi nella vita e nel mercato del lavoro. Dietro le sbarre come fuori, dunque, la povertà è sempre anche povertà di relazioni, identità, cultura, oltre che di risorse economiche. E a questa constatazione non è indifferente un’altra considerazione statistica: il 50 % dei detenuti presenti all’interno degli istituti italiani assume terapia farmacologica per problematiche psichiatriche.

Torniamo ora alle domande. Cosa ci dicono questi dati? Una conclusione è lampante: il carcere rimane il luogo dove si confina e si chiude la marginalità sociale e il diritto penale, in gran parte, funziona ancora – Pavarini docet – come la “gazzetta della moralità media”, ossia il meccanismo per selezionare la povertà colpevole da quella incolpevole e neutralizzare la prima.

Sotto questo punto di vista, dal 1976 ad oggi, le cose non sono cambiate. La giustizia penale si scarica sulle classi subalterne molto più che su quelle egemoni. Il carcere è il luogo dei poveri. La disuguaglianza è racchiusa dietro le sbarre ed è sufficiente una semplice passeggiata nel corridoio di una sezione detentiva per verificare che il paesaggio umano è, in gran parte, analogo a quello delle aree periferiche delle città colpite dalle dismissioni delle fabbriche, dal tracollo del sistema di welfare e dal completo arresto di ogni meccanismo di ascensore sociale. Potranno essersi modificate alcune delle cause delle disuguaglianze – in qualche maniera è il compito di queste nostre discussioni scoprirlo – ma non sono cambiati i poveri; né, quel che è peggio, è cambiato il loro trattamento: un trattamento che mette al centro la rimozione della visibilità della povertà, più che la lotta alle sue cause.

3. I disuguali e la magistratura. Un problema culturale e politico

Una cosa, di certo, è cambiata: l’attenzione di noi magistrati a questi fenomeni. E se sentiamo oggi forte il bisogno di interrogarci sulle nuove disuguaglianze, forse, è perché siamo cambiati noi. Il pensiero va qui soprattutto alla magistratura progressista. È evidente come, nel corso degli anni e fatti salvi gli sforzi individuali, i soggetti collettivi della magistratura che si richiamano all’attuazione della Costituzione abbiano distolto l’attenzione dalla realtà sociale. In qualche maniera, abbiamo barattato lo sguardo sull’esterno con la riflessione sugli interna corporis.

Certo, abbiamo pagato un prezzo al contesto politico generale, ma è vero che l’impegno sulle problematiche dell’uguaglianza e della disuguaglianza si è andato sempre più diluendo; nonostante, come ricordava Bobbio e come dovremmo ricordare anche nella magistratura associata, il criterio più frequentemente adottato per distinguere la destra dalla sinistra sia proprio il diverso atteggiamento che «gli uomini viventi assumono di fronte all’ideale di uguaglianza».

Del resto, un dato inequivocabile conferma la tendenza sopra accennata: le ultime ricerche importanti e sistematiche, che hanno visto la magistratura engagé sul campo dei rapporti tra giustizia penale e disuguaglianze, risalgono ai progetti degli anni Novanta di Amedeo Cottino e Claudio Sarzotti, condensati in un convegno internazionale e in un libro intitolati Diritto, uguaglianza e giustizia penale (Torino, 21-22 aprile 1995, atti in edizione L’Harmattan, 1995). Vi è stato poi l’impegno militante di riviste come Questione giustizia e Diritto, immigrazione e cittadinanza, nonché il periodo del contrasto culturale alle derive carcero-centriche in materia di stupefacenti, immigrazione e recidiva. Negli ultimi anni, tuttavia, i sottoprotetti sembrano fuoriusciti dall’orizzonte politico della magistratura associata progressista.

È arrivato forse il momento, dunque, di invertire la rotta e di coinvolgere nuovamente Magistratura democratica – se tale vuole rimanere – in un’importante programma di ricerca che metta insieme soggetti collettivi, culture e saperi diversi. Un progetto ampio e strutturato che ci permetta di conoscere la reale distribuzione della giustizia penale, di articolare proposte di politica criminale e di riforma del diritto sostanziale e processuale non dettate dal sondaggio, di mettere in campo culture dell’organizzazione e culture della giurisdizione all’altezza della sfida dell’articolo 3 capoverso della Costituzione.

Una ricerca lunga anche, ma che ci permetta, come usa dire in sociologia, di spiegare i nessi causali, perché i nessi causali vanno spiegati e ad alcune domande occorre provare a dare risposte: perché a distanza di anni il funzionamento oggettivo della giustizia penale colpisce con maggior solerzia i poveri, vecchi o nuovi che siano? In termini più concreti: perché lo spaccio da strada di poche dosi di cocaina viene colpito da pene elevate nel minimo, con veloce ed inesorabile attivazione di tutti i meccanismi della repressione (dal sequestro alla confisca al carcere), mentre il fenomeno del cd. shadow banking, che pure consente di far girare denaro illecito in grandi quantità, sfugge anche ad una classificazione in termini di risposta penale e giudiziaria?

Giova ripetere che non si deve battere – e anzi, va contrastata culturalmente – la strada del “più carcere per tutti”. Questa è la via del populismo, che intacca pericolosamente la cultura del garantismo e che sposta il terreno di soluzione dei problemi. È la via, inoltre, che consente alla corporazione di autoassolversi in una percezione manichea del mondo: da una lato la magistratura, con le sue medicine di pena e carcere; dall’altro la politica e la società, con i suoi mali di criminalità.

È necessario, viceversa, ripensare la penalità nelle sue diverse forme (sostanziale, processuale, esecutiva) e, a livello di diritto positivo, implementare prassi che stimolino approcci riparativi, allochino diversamente la risposta carceraria, costruiscano un modello di carcere diverso.

Insomma, occorre tornare a un diritto penale minimo e, anche, a un diritto penale diverso e diversamente distribuito.

4. I disuguali, la legge, la risposta giudiziaria

Il funzionamento oggettivo in danno delle classi subalterne del diritto penale è chiaramente condizionato dalla struttura normativa delle fattispecie. Basti pensare al furto, reato predatorio per eccellenza che, per come è configurato a livello di previsione astratta, nella pratica al banco o si presenta pluriaggravato (con i conseguenti incrementi di pena e con l’apertura delle porte del carcere) o non è. Diversamente, molte delle fattispecie che tradizionalmente attribuiamo alla criminalità d’élite, quella economico-finanziaria e d’impresa – peraltro in grado di provocare danni sociali di estensione notevole – è spesso derubricata a contravvenzione, con contestuali problemi in termini di prescrizione e impossibilità di contestazione di un istituto antipatico quale la recidiva, ma che proprio nel campo della criminalità d’impresa (laddove le conseguenze di un illecito possono essere derubricate a costo di produzione messo in conto) potrebbe avere senso. In questa traiettoria, pertanto, possiamo dire che la giustizia penale disuguale è sicuramente un riflesso della struttura normativa.

Lo stesso va detto con riferimento alla configurazione delle norme processuali, soprattutto in materia di custodia cautelare, costruite in modo tale da favorire la prognosi di reiterazione per chi si è reso responsabile di reati da strada e tali da colpire in maniera più specifica chi non ha alternative abitative o chi è costretto alla violazione delle prescrizioni di misure sostitutive del carcere per necessità (fisiologiche, come l’abitazione appunto, ovvero patologiche, come quelle dettate dalla dipendenza; in ogni caso sintomatiche di marginalità).

Un caso paradigmatico della enfatizzazione delle disuguaglianze a livello normativo può essere scandagliato mettendo l’una accanto all’altra due figure di rei: il tossicodipendente (che reo non dovrebbe essere) e il corruttore.

Il tossicodipendente puro, come sappiamo, non è (non dovrebbe essere) preso in considerazione dal diritto penale in chiave di incriminazione. La condizione di tossicodipendenza può venire in rilievo in diversi momenti, ma non è prevista la punizione del consumatore puro e la sua condotta è sanzionata soltanto a livello amministrativo. Eppure, attorno a questa figura, vengono costruiti tanti e tali divieti (fino a quello che è stato acutamente definito delitto apparente, costituito dalla detenzione di una quantità di sostanza che appare e si presume incompatibile con l’uso personale) che diviene pressoché impossibile nel nostro ordinamento essere tossicodipendente, dunque malato e marginale, senza essere anche delinquente, criminale. Con contestuale risposta che invece di muoversi sul piano della cura si struttura in termini di pena, ulteriore esclusione, marginalizzazione.

Viceversa, con riferimento alla figura del corruttore e del corrotto (parto dalla figura del corruttore per un ribaltamento di prospettiva: il fatto che in indagini celebri tornino nomi di imprenditori già toccati da sentenze di condanna, induce a riflettere su come l’economia, lasciata a se stessa, possa determinare una competizione illecita i cui costi sociali si scaricano sui cittadini). Ebbene, non vi è dubbio che la figura del corruttore e del corrotto, non fosse altro che per l’entità delle pene edittali, è simbolicamente guardata con massimo disfavore dal legislatore. Allo stesso tempo, tuttavia, si può agevolmente verificare che vi è una sorta di lassismo nella incriminazione dei comportamenti prodromici alla corruzione, testimoniato, ad esempio, dalle soglie di punibilità in materia di evasione, dalla differenziazione nel regime punitivo delle false comunicazioni, dalle innumerevoli possibilità di costruirsi fondi da investire nel reato corruttivo. Insomma, la rete che si stringe attorno al tossicodipendente, non si stringe attorno al corruttore.

Come visto, dunque, la struttura normativa gioca un ruolo decisivo nella produzione e ri-produzione delle differenze sociali.

Occorre chiedersi ora se la risposta giudiziaria agisca da correttivo, in ossequio alla superiore legalità costituzionale, o se invece si adagi sull’esistente. Detto in altri termini, la giurisdizione attutisce o accresce le disuguaglianze?

La conclusione alla quale si può giungere è che la giurisdizione spesso, anche per cause oggettive e non certo intenzionali, rafforzi e non mitighi le differenze di condizione economico-sociale tra gli uomini, traducendole anche in differenze di accesso all’ordinamento e al processo e in diverso trattamento.

Per tentare un cambiamento di prospettiva occorre prendere definitivamente atto che la giustizia penale è gravemente scissa e che esistono oggi, al di là dei diversi riti, due macro-tipologie di processo: il processo dei ricchi e il processo dei poveri. Le riflessioni più approfondite in proposito sono state svolte dagli studi empirici di Cottino e Sarzotti sopra citati e le conclusioni sono valide ancora oggi.

Se l’ambito del processo dei ricchi è occupato dal modello accusatorio per eccellenza, con centralità della fase dibattimentale e difese attrezzate perché economicamente sostenute – quindi in grado di attivare un ampio spettro di risorse processuali – al centro del modello processuale dei poveri si collocano i riti alternativi (quello direttissimo soprattutto) e le difese d’ufficio.

Senza pretese di esaustività, le caratteristiche del processo dei poveri possono essere descritte proprio partendo dalle ricerche di sociologia già menzionate. In particolare vedremo che:

1) Gli imputati appartengono alle classi e ai ceti disagiati. È sufficiente una veloce statistica di un turno arrestati nei grandi Tribunali per verificare la provenienza per aree sociali dei prevenuti. Ma le stesse considerazioni possono essere immediatamente percepite con la presa in esame di ulteriori variabili, sulle quali come giuristi positivi non siamo abituati a porre mente: la tipologia di abbigliamento e il modo di parlare, ad esempio.

2) Sussiste una scarsa distanza (temporale e culturale) dell’attività giudiziaria dall’operato delle agenzie di polizia, le quali ultime tendono a riprodurre il punto di vista dominante e a indirizzare il loro intervento laddove è più facile e meno costoso trovare soggetti che commettono reati (ancora una volta, aree urbane povere).

3) È costante l’utilizzo del difensore d’ufficio e qui, nonostante l’impegno di molti difensori, siamo veramente al punto dolente. Il difensore d’ufficio, infatti, è ridotto ormai,  a comparsa rituale e tendenzialmente remissiva del processo. Da una difesa d’ufficio spesso sottodimensionata derivano: scarsa attivazione degli strumenti processuali e del codice di rito; scarso lavoro extragiudiziario; mancanza di scambio di informazioni difensore/cliente e, quindi, imputato/autorità giudiziaria; mancata coltivazione degli approcci giurisprudenziali più innovativi; sostanziale riduzione del contraddittorio ed emersione del ruolo del giudice “istruttore”; riduzione degli spazi del metodo falsificazionista e del controesame, scarsa correzione degli errori giudiziari attraverso impugnazioni. Il problema non è mitigato dal patrocinio a spese dello Stato, che si risolve troppo spesso in una farsa poco incentivante nei confronti dei legali e quindi non in grado di risolvere la questione dell’effettività dei diritti di difesa dei non abbienti. In questo delicato settore, inoltre va tenuto conto che il processo di impoverimento del ceto medio rende accessibile la difesa tecnica a un numero sempre più ridotto di persone.

Anche in questo campo, Magistratura democratica ha tanto da spendere, in particolare nel dialogo con il mondo più attento dell’avvocatura.

Una seria proposta di riforma della difesa d’ufficio e della difesa dei non abbienti è un tema di discussione con i principali attori del processo che non può vederci in futuro silenti. Così come, del resto un miglior uso della risorsa tempo e l’adozione di moduli processuali che possano favorire la trattazione di processi (anche quelli monocratici) in modo razionale e non dispersivo (sul tipo dell’agenda della Corte di assise) appaiono temi sui quali investire l’impegno di un soggetto collettivo.

Allo stesso tempo occorre ripensare al tema delle priorità nella trattazione dei processi. Con almeno due precisazioni importanti: ogni criterio di priorità dovrebbe essere il portato di una discussione trasparente sui valori in gioco e il rispetto di tale criterio dovrebbe poi essere oggetto di giudizio (e critica) dell’attività giudiziaria.

Sono solo proposte da coltivare e attualizzare per evitare che la distanza tra i due modelli di processo sopra evidenziati si allarghi e divenga non più colmabile. Anche perché, va detto, ad incanalare la risposta di polizia e quella giudiziaria verso la repressione del povero stanno alcune considerazioni di base non obliterabili: il ricco delinque sempre secondo modelli di riferimento nuovi e non anticipabili. Il povero è povero anche di cultura e, dunque, delinque sempre al solito modo e perseguirne la responsabilità è molto più facile.

A tacere del fatto, poi, che il processo ai poveri per il magistrato è facile, costa poco e rende bene in termini di statistiche e, quindi, di carriera.

5. Un ultimo accenno e le conclusioni

Prima di passare alle conclusioni, un ultimo accenno va fatto a tutti quei doppi binari che, nel settore penalistico, sono un campo di elezione della sperimentazione delle disuguaglianze. Si tratta, nel caso di specie, soprattutto di quelle differenze di trattamento che non sono registrate dal diritto penale, ma sono prodotte dallo stesso e, in particolar modo, dalla penalità esecutiva e penitenziaria.

Mi riferisco, naturalmente, ai molteplici doppi binari che, prima della riduzione dei danni operata da alcune sentenze della Corte costituzionale e poi dalla legislazione nazionale (decreto legge 78/2013, ad esempio), colpivano anche, e in maniera forte, l’area del disagio.

È sufficiente porre mente a tutta quella legislazione che, in materia di recidiva, ha importato il modello nordamericano del terzo strike, lo ha adatto al sistema italiano e ha determinato, ad esempio, la preclusione di accesso alle misure alternative per tutta una serie di autori di reato provenienti dalla marginalità (tossici, ladri, truffatori di bassa lega).

Piace citare, a questo proposito, Luigi Ferrajoli: si trattava di norme che punivano non solo azioni a-normali, ma persone a-normali; non solo tipi criminosi di atti, ma tipi criminali di autori; norme che non prevengono reati ma scoraggiano identità.

Non è questa la sede per trattare poi tutti gli intricati doppi binari che affiorano nell’ordinamento penitenziario, a partire dall’art. 4 bis Ord. pen. Si tratta di un sistema che crea pene disuguali, elimina gravemente il right to hope dall’ergastolo, determina torsioni del principio rieducativo. Anche questi temi potranno essere al centro di una controffensiva culturale di Magistratura democratica.

Ma torniamo al punto di partenza. L’analisi condotta ha messo in evidenza un dato di fatto difficilmente occultabile: la giustizia penale funziona soprattutto in danno dei poveri.

Ci sono prospettive che possono ribaltare questa traiettoria, sia mediante proposte di riforma sia mediante prassi della giurisdizione e giurisprudenze orientate in senso costituzionale.

Non c’è conclusione migliore, dunque, che quella programmatica, enunciata dalle parole di Elvio Fassone nella prefazione del libro Criminalità e carcere: «le parole sono stanche: E sono stanchi coloro che aspettano i fatti. Eppure, diceva, paradossalmente, dall’ascolto di certe parole talora nascono dei fatti».

E allora non resta che augurarsi che Magistratura democratica ritrovi e rilanci le sue parole e che con questo vocabolario costruisca pensieri e azioni critiche salutari per la giurisdizione e per la democrazia di questo Paese.

[1] M. Ruotolo, La detenzione e i diritti dei detenuti come tema costituzionalistico, in www.costituzionalismo.it, 2/2015.

[2] D. Ippolito, Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire, Donzelli, 2016.

[3] R. Riverso, Contro la disuguaglianza ripartire dalla realtà, in questo fascicolo di questa Rivista.