Magistratura democratica

Contro la disuguaglianza ripartire dalla realtà

di Roberto Riverso

Ripartire dalla disuguaglianza, per un giudice, significa in fondo ripartire dalla realtà, che registra nel nostro Paese un massiccio spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale e alla rendita e il forte indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali.

Questa realtà non è il frutto ineluttabile delle trasformazioni tecnologiche o della competitività giocata sul mercato globale, bensì il frutto di politiche del lavoro orientate alla flessibilità senza sicurezza.

Tocca a Md assolvere al compito di riagganciare la giustizia alla realtà, superando derive formalistiche e distorsioni burocratiche.

Un po’ di realtà

Chi è chiamato a discutere di uguaglianza oggi deve fare anzitutto i conti con la realtà. Cercare di descriverla. Orientarsi nel racconto quasi quotidiano dei numeri che non la raccontano (come quelli che vengono somministrati quasi quotidianamente in materia di occupazione); e delle parole che la capovolgono (come quando si chiama a tutele crescenti un contratto che riporta indietro le tutele di oltre 50 anni).

Per un giudice del lavoro, la realtà oggi sono anzitutto alcuni dati normativi incontrovertibili.

Il potere di licenziare una persona semplicemente contestandogli un “fatto materiale” (d.lgs 81/2015; da cui segue il dato che attesta 11mila licenziamenti per giusta causa nel 2016 in più rispetto all’anno precedente, pari al 28%). O anche di licenziarla senza alcuna crisi, «per ragioni di profitto» (come dice la sentenza n. 25201/2016 della Corte di cassazione).

Lo spostamento del maggior costo dell’esercizio illegittimo di questo potere sulla parte economicamente e giuridicamente più debole (perché la legge abolisce di fatto non solo la reintegra, ma anche il risarcimento del danno, sostituendolo con un indennizzo fisso di poche mensilità di retribuzione).

La totale liberalizzazione dei contratti a termine, del lavoro in affitto (somministrazione), dei buoni lavoro (più di 100 milioni i voucher del 2016 a 7,50 netto) che asserviscono chi lavora; la deregulation di appalti e subappalti, cessioni ed esternalizzazioni che producono frantumazione dell’impresa.

Lo svilimento della protezione contro la dequalificazione professionale, resa disponibile con atto unilaterale del datore di lavoro.

L’accresciuta invadenza dei controlli a distanza sulla persona stessa del lavoratore, anche senza accordi sindacali che tutelino i lavoratori dagli abusi.

Il costante indebolimento della contrattazione collettiva (in particolare del contratto nazionale) che riduce partecipazione e democrazia nei luoghi di lavoro, concentra il potere nelle mani dei più forti, impedisce un’adeguata difesa del reddito delle persone ovvero che si esplichi la funzione storica del Ccnl (ovvero la difesa della quota salari sul Pil, cioè della parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari).

La realtà del lavoro nel nostro Paese sono pure alcuni dati economici sotto gli occhi di tutti.

Una disoccupazione a due cifre: pari al 13% della forza lavoro, che per i giovani arriva al 40% (raddoppiandosi nell’ultimo decennio) e che al Sud è più che doppia rispetto al Nord: con punte di oltre il 60% per quella giovanile (ad es. in Calabria).

Sono i 100mila, per lo più giovani, che ogni anno lasciano il nostro Paese. La generazione più istruita dal dopoguerra; un patrimonio di conoscenze che si disperde ed alla quale viene prospettato non un futuro da cittadini ma da precari, assistiti male.

Un Paese diviso in due, con un Sud che peggiora ogni giorno di più; presentando un reddito pro capite che in alcune regioni è la metà di quello di altre del Nord.

I tanti soggetti privi di potere di negoziazione (individuale o collettivo) nei confronti di centri decisionali che stanno sempre più in alto e più lontano rispetto al luogo di lavoro. Perché mentre si frammenta il lavoro, si centralizza il potere (nelle mani di poche imprese dominanti da cui dipendono molte altre). Milioni sono ancora i lavoratori che lavorano in nero o in aree periferiche delle catene produttive, i lavoratori autonomi di seconda e di terza generazione, i cd. indipendenti (le nuove professioni legate alla comunicazione e all’informatica, free lance, partite Iva), esclusi dai diritti sociali, costretti a lavorare a qualsiasi prezzo e senza tutele (ferie, malattie, assegni familiari, tfr e senza alcun seria prospettiva pensionistica).

I tanti miliardi di sgravi contributivi (che si stimano tra i 22 ed i 14, a seconda del numero e della durata dei contratti) elargiti alle imprese per le assunzioni a tempo indeterminato ed utilizzati per lo più per assumere lavoratori che già lavoravano nelle stesse aziende, anche con contratti irregolari e che perciò avevano diritto, ex lege, ad un rapporto che doveva già essere a tempo indeterminato (senza alcuna incentivazione per il datore).

L'ideologia della flessibilità

Questa realtà che abbiamo sotto gli occhi, non può considerarsi tuttavia una conseguenza di natura, il frutto ineluttabile delle trasformazioni tecnologiche o della competitività giocata sul mercato globale (come qualcuno sarebbe portato a farci credere). No, è il frutto di una costruzione sociale in cui il ruolo decisivo appare svolto dallo Stato. È il prodotto di una politica, una cultura, di leggi (per l’appunto) varate a raffica negli ultimi venti anni.

Provvedimenti la cui cornice comune è stata la realizzazione di una sempre più accentuata dose di flessibilità immessa nell’ordinamento del lavoro: unico modello dentro cui i vari governi, aderendo alle richieste del mondo dell’imprese – vero protagonista della stagione – hanno saputo concepire la condizione dei lavoratori.

L’incapacità di costruire un più vasto programma economico e sociale, una sintesi politica diversa, fondata sui diritti individuali e collettivi e su una democrazia partecipata, ha finito per scaricarsi soltanto sulla condizione di chi lavora (e in Italia per decenni su temi simbolici come l’art. 18).

Di fronte ai nuovi scenari dell’economia, ai nuovi conflitti sociali, nessun nuovo welfare è stato invece sperimentato. Nessuna politica alternativa di difesa dei diritti e delle persone è stata mai veramente attuata. Neppure il modello della cd. flex security che presupporrebbe una maggiore protezione del lavoratore nel mercato (da parte di servizi sviluppati) nei più frequenti periodi di disoccupazione

Tanto meno è stata recepita la proposta, da più parti avanzata, di un reddito garantito per tutti come misura universale di protezione contro il rischio di esclusione sociale (capace di sostenere l’individuo nelle fasi di transizione lavorativa).

Il ritornello cui sono ispirate queste normative recita altro: più libertà per le imprese, meno diritti per i lavoratori, meno Stato. La giustificazione teorica su cui si fonda questo approccio, sostenuto con un martellante tam tam, è che un programma di riduzione dei diritti del lavoro avrebbe ridistribuito le tutele ed incluso nel mondo del lavoro garantito, vaste aree di lavoro sottotutelato, grigio, nero, autonomo di nuova generazione.

In Italia avremmo avuto la tanto attesa crescita economica, e l’arrivo in massa degli investitori stranieri.

La vittoria di una politica fondata sulla disuguaglianza

La risposta regolativa rispetto ai nuovi scenari globali, rispondente ad una chiara matrice ideologica, è stata presentata poi come risposta naturale, oggettiva, valida per tutti; ed assunta a paradigma anche da forze politiche vicine al mondo dei lavoratori. Le ultime leggi che hanno più a fondo modificato la condizione del lavoro in Italia sono state sostenute anche da forze di centro sinistra (come il Pd) ed approvate a larga maggioranza; e non hanno sostanzialmente incontrato alcuna opposizione sociale, com’è invece avvenuto in Francia.

In realtà il declino del lavoro come l’avevamo conosciuto che è divenuto anche declino del Paese (impoverimento sistematico della sua struttura produttiva e sociale), celebra la sconfitta di una politica e la vittoria di un'altra politica.

Ha perso la politica di difesa delle persone, del lavoro, del reddito e della dignità, intesi come elementi di aggregazione e di costruzione di una strategia diretta a governare il Paese. Ed ha vinto la politica distante dai luoghi di lavoro; quella che è diretta verso destinatari non identificabili e luoghi immateriali. La politica di svalutazione del lavoro. Che fa della supremazia della finanza e della rendita il proprio fondamento; che ha identificato i propri fini con l’economia finanziaria, adoperandosi con ogni mezzo per favorirne l’ascesa (liberalizzando i movimenti di capitali, eliminando ogni vincolo all’attività speculativa delle banche, alla produzione di strumenti finanziari sempre più sofisticati e complessi).

Gli effetti sociali ed economici di queste politiche sono evidenti. Li abbiamo visti anche ieri nella sessione di apertura di questo congresso che ci ha raffigurato un’Italia più povera e disuguale.

La crescita della disuguaglianza tra le classi ha in effetti raggiunto (in questo inizio del XXI secolo) livelli mai raggiunti prima nel nostro Paese (per quanto riguarda i redditi da lavoro). Perché la flessibilità ad oltranza ha agito anzitutto sul costo del lavoro; impoverendo i redditi da lavoro, ed attuando un trasferimento di ricchezza da una classe all’altra. Dieci punti di Pil ci è stato detto: una redistribuzione alla rovescia (perché si è preso ai poveri per dare ai ricchi).

Un ampliamento record della povertà con la cifra di 4,6 milioni di persone in povertà assoluta nel nostro Paese nel 2015 (dei quali quasi 1 milione sono giovani).

Una divaricazione mai raggiunta prima con i redditi delle gerarchie manageriali che arrivano a guadagnare più di 200 volte quel che guadagna un dipendente. Veri «compensi della fortuna» (sono stati chiamati), cifre stratosferiche che spesso non hanno alcuna connessione con la produttività e le performances dell’impresa alle quali sono preposti.

Nuove disuguaglianze di reddito si sono prodotte tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro; alle quali si aggiungono anche quelle a carattere territoriale, tutte prodotte dal progressivo indebolimento del Contratto nazionale di lavoro.

La redistribuzione dei diritti e di reddito che era stata promessa, non è stata invece attuata tra i lavoratori.

I sottoprotetti sono divenuti sempre più sottoprotetti: da cococo partite Iva o associati in partecipazione; ed ora sono divenuti sopratutto voucher da 10 euro all’ora tutto compreso. Ai lavoratori disoccupati si sono affiancati il lavoratore povero e senza diritti, con prospettive pensionistiche inesistenti; disponibili, sotto il costante ricatto dello spettro della disoccupazione, ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, anche quelle insicure o disagiate per la propria integrità psicofisica e dignità professionale.

La conseguenza della lotta contro le garanzie (dei cd. insider) che non ci sono più garanzie per nessuno, come ci ricorda la Sezione romana nel suo documento per questo congresso[1].

Altra amara constatazione è che dal punto di vista economico l’Italia sta nel complesso peggio di prima. Un sistema che sceglie di competere sul costo del lavoro è ovviamente destinato a finire male (come ammoniva Luciano Gallino); perché precarizzare il lavoro è foriero di sottosviluppo, ostacola fortemente la modernizzazione delle imprese, danneggia l’intera economia. A testimonianza del fatto che la scarsa competitività italiana ha a che fare non con la mancanza di flessibilità, ma con la scarsa capacità di innovazione, il basso investimento in capitale umano e in ricerca ed innovazione (anche da parte dello Stato, in scuola e formazione); ha a che fare con la mancata difesa del valore professionale del lavoro, del lavoro di qualità. Con una politica industriale ed un modello di sviluppo che nel nostro Paese non hanno saputo difendere la via alta dell’economia e dell’organizzazione fondata sulla valorizzazione delle capacità professionali. L’Italia non è stata danneggiata dalla globalizzazione per la produzione di manici di scopa o delle borse dell’acqua calda (come pure ci è stato detto ieri nell’intervento di Dario Di Vico[2]), ma ha perso in settori strategici della propria struttura produttiva (come l’informatica, l’aeronautica, la chimica, ecc.)

Precarizzare il lavoro e guadagnare in borsa

La globalizzazione e la crisi non è stata però uguale per tutti. Nel corso della crisi vi è chi si è arricchito (lo scriveva qualche anno fa l’attuale presidente dell’Inps, Tito Boeri). Perché c’è uno stretto rapporto tra la crisi che ha investito il mondo del lavoro (con la sua esigenza di investimenti e strategie di lungo periodo, per il “Futuro”) e la finanziarizzazione dell’economia (fondata sulla necessità di realizzare profitti a breve termine; la cd. preferenza per il “Presente”). Quando un’impresa annuncia tagli o delocalizzazioni o smembramenti, i guadagni di Borsa crescono. Il movimento finanziario cresce. Ed aumentano i guadagni dei manager che hanno in mano una quota importante delle partecipazioni azionarie delle loro imprese. Sono cose che non si vedono. Perché, mentre la povertà è sotto gli occhi di tutti (nel 2015, 4,6 milioni di individui in povertà assoluta il numero più alto dal 2005 ad oggi); i ricchi di oggi si vedono sempre meno; non stanno più in mezzo a noi; in fabbrica o nelle loro proprietà come quelli di una volta. Oggi i più ricchi sono le grandi finanziarie, i fondi sovrani, e veleggiano in rete. La ricchezza si è fatta invisibile e anche più ardua da contrastare.

Come scrive Luigi Ferrajoli, la ragione più importante della crisi attuale è di carattere strutturale e risiede nell’asimmetria tra il carattere sovranazionale dei mercati e il carattere ancora prevalentemente statale della politica, del diritto, delle istituzioni e quindi dall’assenza di una sfera pubblica all’altezza dei poteri economici e finanziari.

Questione sociale e questione democratica

Sul piano sociale le politiche di liberalizzazione (precarietà, povertà, potere concentrato nelle mani del più forte) hanno prodotto effetti rovinosi sull’assetto democratico dell’intera società; creando un blocco sociale e di potere, anche culturale; perché dove non funziona l’ascensore dell’art. 3, 2 cpv, della Costituzione e l’ascesa sociale di classi subalterne (perché chi nasce povero è destinato a rimanere tale) si impedisce che maturino sensibilità diverse, che si formi un sapere dialettico rispetto al potere dominante; ed in definitiva lo sviluppo di una democrazia più matura e partecipata (una più libera dialettica democratica). Lo status quo, la conservazione si impongono invece sulla mobilità sociale. Per dirla con T. Piketty, è il passato che divora il futuro; il capitale, la discendenza, l’eredità riacquista la stessa importanza che aveva per le generazioni del 1800. 

E questo è un male che rimette in discussione i valori sui quali si reggono le nostre società democratiche; che depotenzia la volontà di partecipazione. Le politiche subalterne all’economia (la concentrazione del potere) producono effetti profondi nei comportamenti delle persone, indotti all'adattamento passivo, all'obbedienza verso i poteri forti, alla perdita della cognizione di essere cittadini portatori di diritti fondamentali, alla  riduzione del potere di coalizione, di autotutela ed anche all’acceso alla giurisdizione (come i giudici del lavoro sanno bene).

Il crescente astensionismo elettorale è un indicatore palese di questo malessere rispetto al ruolo della politica come strumento di riscatto e di affermazione dei propri diritti; così come il voto conferito verso partiti populisti.

E l’acuirsi delle disuguaglianze, rischia di minare la solidarietà sociale e l’altruismo.

Si sono delineati in questi anni conflitti sociali sempre più diffusi ed evidenti tra chi ha pochi diritti e chi non ne ha affatto; contrasti generazionali attraverso cui si scaricano sui vecchi le mancate politiche del lavoro per i giovani; nativi contro migranti; migranti di diverse nazionalità ed etnie; cittadini nazionali contro altri cittadini europei.

Uno scontro di classe di nuovo tipo, orizzontale, che ben si può collocare entro lo scenario di una guerra tra poveri (“i penultimi contro gli ultimi” per l’appunto).

Che fare. Il giudice della flessibilità

Questa situazione pone il problema del “che fare”; perché una democrazia come la nostra vive secondo la Costituzione sulla partecipazione dei lavoratori e sulla lotta alla disuguaglianza. 

C’è bisogno quindi di nuovi contenuti, di un pensiero politico solidarista ed inclusivo; che sia in grado di associare la Costituzione di nuovo, nella vita reale e nel dibattito politico, non più ad un ferrovecchio da rottamare, ma alla protezione del lavoro in tutte le sue forme, senza distinzioni, alla dignità di tutte le persone, al diritto allo studio, alla sanità pubblica, all’ambiente.

A noi giudici tocca soprattutto riflettere più da vicino sul modello di giurisdizione che è andato delineandosi nel corso di questi periodi in cui i processi di trasformazione (economico-sociali e politico-istituzionali) hanno modificato nel profondo la legislazione sostanziale, senza lasciare indenne quella processuale. E non hanno certo risparmiato la figura del giudice del lavoro; che è stato anzi oggetto di una attenzione peculiare nel nostro Paese.

Si tratta di un tema che ha contenuti fortemente divisivi; sia all’esterno che all’interno della magistratura, come risulta dall’intenso dibattito che pure si è svolto in quest’anni sull’argomento, in varie sedi.  

Ad essere messo in discussione in questi ultimi vent’anni è stato l’intero assetto del diritto del lavoro, come diritto a vocazione disuguale. Quella che è stata chiamata la destrutturazione del diritto del lavoro è passata attraverso il superamento di due direttrici che sono strettamente connesse: la norma protettiva inderogabile (il carattere fondativo del diritto del lavoro); e la sua gestione applicativa (ovvero la sua effettività) ad opera di una magistratura del lavoro motivata ed indipendente.

L’intero progetto politico di stampo sociale e lavoristico delineato dalla Costituzione è stato minato; con uno scontro senza precedenti anche sulla giurisdizione del lavoro.

Tante sono state le norme introdotte nell’ordinamento in questi anni dedicate esplicitamente al processo, e direttamente al giudice del lavoro; con lo scopo di procedere ad una sorta di mutazione genetica di tale figura.

Si tratta di norme talvolta singolari in cui si dice al giudice cosa può fare e non può fare (ad es. per giudicare sulla legittimità di un licenziamento); con il parossismo che si era toccato alla Camera durante l’approvazione del cd. Collegato lavoro all’interno del quale era stata concepita (fino alla penultima lettura) persino una norma in cui si diceva che il giudice dovesse applicare anche «le regole del corretto vivere civile e della buona educazione» (… che evidentemente si riteneva fin lì non praticate dai giudici italiani).

La premessa, esplicitata nel libro Bianco del 2001 del ministro Maroni è che fosse certamente preferibile che i giudici del lavoro venissero sostituti da arbitri privati («anche per la scarsa qualità tecnica delle loro sentenze»). Si spiegano da allora una serie di norme intese a sostenere l’omogeneizzazione del giudice del lavoro ad una sorta di giudice commerciale o tribunale dell’imprese (come ebbe ad auspicare nel suo intervento uno dei relatori del collegato lavoro, alla Camera, l’on. Cazzola già vicepresidente della Commissione lavoro)

Norme dirette a promuovere un giudice demotivato, che non provi ad intaccare le prerogative dell’impresa, arrestandosi alla verifica «dei presupposti di fatto» dell’esercizio dei suoi poteri (come risulta esplicitamente detto in una norma più volte reiterata in varie leggi, e che può considerarsi un vero e proprio manifesto ideologico di questa epoca del diritto del lavoro; art. 30, 1 comma, L 183/2010).

Il legislatore della flessibilità mostra di preferire un giudice del lavoro asettico, che si appiattisca su certificazioni e qualificazioni operate aliunde, in varie sedi, tra parti contrattuali supposte su un piano di parità, in una rinnovata stagione di esaltazione del dogma della volontà (art.30, commi 2 e 3, L 183/2010): come ebbe a far notare (il 31.3.2010) lo stesso presidente della Repubblica Napolitano nel messaggio di rinvio alle Camere del cd. collegato lavoro, che introduceva, tra l’altro, la clausola compromissoria (per sottrarre le cause di lavoro alla giurisdizione); clausola liberamente concordata (… per così dire) proprio all’inizio della sottoscrizione contratto; e rispetto alla quale il Presidente dovette ricordare che la condizione di bisogno di chi lavora lo porterebbe ad accettare qualsiasi condizione contrattuale pur di lavorare.

Alcune di queste norme assecondano inoltre un modello di giudice produttivistico, che di norma deve decidere, scrivere e leggere subito dopo la discussione alle parti la propria sentenza (secondo una riforma valida chissà perche solo per il processo del lavoro; promossa con la legge 6.8.2008 n. 133 di conversione del dl 25.6.2008 che ha modificato l’art.429 cpc). 

Le nuove norme promuovono inoltre il giudice che – mettendo a rischio la propria imparzialità – si faccia mediatore più che risolutore dei conflitti: sicché (come prevede l’art. 31 legge 183/2010 di modifica dell’art.420) non soltanto tenti la conciliazione della lite, ma addirittura formuli subito alle parti una «proposta transattiva», avvisando la parte non aderente che ne terrà conto «ai fini della decisione» (non già solo delle spese), come si esprime la stessa norma, con una previsione dal sapore esplicitamente intimidatorio (se è vero che oltre che dalla propria condizione di bisogno, o territoriale, il lavoratore oggi dovrà sentirsi sotto pressione anche per il timore di avere detto no al giudice).

Si è andato soprattutto modellando in questi anni il giudice depotenziato, che non possa, più garantire, salvo eccezioni, la reintegra, né il risarcimento del danno procurato al lavoratore licenziato illegittimamente (anche solo per aver commesso «un fatto materiale»). Così come non può assicurare lo stesso risarcimento del danno al lavoratore precario, assunto illegittimamente con contratto a termine (ex art. 32, L 183/2010).

E qui le norme, predeterminando una misura massima del risarcimento del danno, neutralizzano anche il tempo del processo in favore del datore di lavoro soccombente, con un sorprendente rovesciamento della celebre massima chiovendiana (secondo la quale la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione); e dello stesso processo del ‘73 che, come osservato da Proto Pisani, era semmai rivolto a disincentivare l’interesse della parte economicamente e socialmente più forte alla durata del processo. 

Piace il giudice eclissabile a preferenza delle parti con le varie norme intese a potenziare arbitrati di tutti i tipi ed in ogni sede; anche arbitrati in deroga a norme inderogabili di diritto del lavoro.

S’avanza sempre in questa stagione un giudice che all’occorrenza, sappia perpetuare la disuguaglianza giuridica ed economica insita nel rapporto di lavoro; ad es. condannando il lavoratore soccombente alla rifusione delle spese (sempre ingenti per chi vive del suo lavoro) sostenute dal datore, secondo le varie riforme che hanno superato la gratuità del processo del lavoro da una parte; e dall’altra reso sempre più ardua la possibilità di una compensazione per giusti motivi (all’interno della quale ricondurre la speciale situazione di sottomissione, anche giuridica, del lavoratore in quanto parte esposta a poteri unilaterali attribuiti dal contratto all’altra parte). Una riforma, questa delle spese processuali, utilizzata talvolta da alcuni giudici in chiave di deterrenza, ai fini dell’amministrazione del dimensionamento dei propri ruoli processuali, sempre più inflazionati e gravosi.

I germi disseminati nell’ordinamento sono stati, pertanto, molti e pervasivi, tutt’altro che innocui, perché si tratta di norme che puntano ad influire, non solo a livello subliminale, sulle prassi giurisdizionali, sui poteri, sull’atteggiamento culturale dei giudici.

E le indicazioni normative nel senso del disimpegno e della superficialità sono difficili da contrastare, anche perché (come scrive G. Zagrebelsky) «la giustizia prima che una questione di legge e procedure, è anche, anzi molto di più, questione di giudici e di un ethos che essi portano addosso».  

È verosimile che pressioni di questo tipo non siano prive di influenza nella tendenza sempre più frequente nella giurisprudenza tanto lavoristica che previdenziale, a chiudere la contesa processuale con decisioni formalistiche, in rito (sentenze di inammissibilità, nullità, improponibilità, improcedibilità, ecc.). Si tratta di tendenze che tradiscono il principio di strumentalità del processo rispetto alla tutela dei diritti sostanziali; che si risolvono in una giustizia procedurale, indifferente al contenuto delle regole applicate. Sentenze talvolta ispirate anche da interessi di categoria, ammantati sotto temi come quello della velocizzazione e del razionale utilizzo delle risorse processuali sollevati strumentalmente, o a corrente alternata (come si è visto nell’applicazione pratica del cd. rito Fornero).

Sentenze di cui, giusto per fare un solo esempio concreto, riferito a persone in carne ed ossa, hanno fatto le spese migliaia di lavoratori esposti all’amianto: allorché è stato loro negato il diritto costituzionale ad un indennizzo di natura pensionistica – per sua natura imprescrittibile e non suscettibile di decadenza alcuna – assoggettandoli invece ad una inedita decadenza di carattere tombale.

Perciò, a fronte di queste nuove norme e tendenze giurisprudenziali, sorge naturale il timore che chi si affacci dentro un’aula di giustizia possa correre il rischio – oggi più di prima – di non incontrare il giudice dal volto costituzionale, proteso a disvelare l’ingiustizia presente nella realtà e che sovente si nasconde sotto le norme. Ed incontri invece  un giudice diverso, quello delineato dai fautori di queste norme secondo i quali il giudice del lavoro sarebbe oramai divenuto – così è stato scritto da Del Punta – «il garante del complesso dei valori espressi dall’ordinamento, a partire da quelli contenuti nella legislazione ordinaria in materia di flessibilità» (dei valori cioè espressi nella stagione della liberalizzazione, della sudditanza ai poteri forti, del predominio della finanza, del rigore finanziario e del fiscal compact). 

Se così fosse divenuto, saremmo davvero all’inizio di una nuova era. Un “dopo Cristo” che risponde ad un disegno politico certamente vagheggiato da tanti (ad es. con le ricorrenti tentazioni di rovesciare l’ordine dei valori stabilito nell’art. 41 Cost., anche con progetti di revisione costituzionale più volte discussi in Parlamento), ma che nel nostro Paese non si è ancora compiuto, perché rimane anzi irrealizzabile a Costituzione invariata (fino a quando sussisterà la gerarchia dei valori protetti dalla Costituzione, sub artt. 3, 32 e 41).

La missione di Md

Occorre allora riaffermare, lo ha detto bene ieri Franco Ippolito[3], che il compito precipuo della giurisdizione del lavoro è ancora quello di tutelare i diritti secondo la Costituzione. Ribadire la centralità costituzionale del giudice del lavoro; la cui essenza si esprime in una opera di continua tensione dialettica nei confronti del potere politico. In particolare, sottolineerei, quanto all’attuazione dei diritti sociali fondamentali; dei quali nessuno può mai avocare a sé il totale monopolio, pretendendo di assicurarne l’assetto in modo stabile e definitivo.  

Anche e soprattutto, in materia di diritti sociali, va negato che il discorso possa essere chiuso dalla legislazione ordinaria; la quale, al contrario, si pone soltanto all’inizio del lungo percorso interpretativo che occorre intraprendere nelle aule di giustizia.E ciò sia per la pluralità ed il carattere di compromesso degli stessi principi costituzionali in materia; sia per la provvisorietà dei rapporti sociali, sempre in movimento, che premono alla ricerca perenne di equilibri politici e giuridici nuovi. Questo pluralismo e provvisorietà non operano comunque in un campo aperto. Vi sono limiti da rispettare. Perché il bilanciamento normativo da realizzare alla luce della Costituzione, oltre ad essere equo e razionale (ai sensi dell’art. 3 Cost.), va operato nel contesto di riferimento, cioè senza astrazioni; avendo riguardo cioè alla realtà dei valori in conflitto, e partendo quindi dal dato di realtà.

È su questo terreno soprattutto, che opera l’art. 3, 2° comma, della Costituzione, la stella polare, è stato detto, per il giudice del lavoro, perché indica di guardare anche sotto le norme; alla loro effettività; a quello che producono nel loro impatto sulle persone.

Cosa ci insegnano in proposito, ad esempio, la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 dello Statuto nella parte in cui non consentiva il godimento dei diritti sindacali in azienda, ai sindacati effettivamente rappresentativi (anche maggiormente rappresentativi) che non avessero firmato un contratto applicabile nell’unità produttiva? O le altre sentenze che hanno dichiarato incostituzionale il blocco della perequazione automatica delle pensioni, il blocco della contrattazione collettiva e delle retribuzioni nel pubblico impiego (prorogato ad libitum per cinque anni, pur nel contesto di una grave crisi economica)? sentenze all’interno delle quali la Corte parla di «sacrifici non più tollerabili».

Non ci dicono forse proprio questo: che la legge non può trascurare la realtà delle cose, che il sindacato dei lavoratori, il conflitto immanente che esso esprime, il pluralismo dei valori presenti in una società, non possono essere tenuti in non cale in sede legislativa? 

Allora, certamente un giudice che abdichi allo svolgimento di questo compito dialettico nei confronti della mediazione politica, che si limiti ad una lettura formale delle regole, incapace di svelarne le contraddizioni, assume di necessità un ruolo di conservazione, che piacerà certo alle forze (dominanti) che esprimono quelle regole, Ma sarà anche un giudice che omette di assolvere al mandato affidatogli dalla Costituzione, reso ancora più complesso oggi in una fase in cui si manifesta quasi senza soste l’assalto neoliberista ai diritti individuali e collettivi (come ammoniva il compianto Sergio Mattone).

Ed è questa allora la mia conclusione: ripartire dalla disuguaglianza per un giudice significa in fondo soltanto partire dalla realtà. Capire che la giustizia, forse, non si può più fare partendo dal diritto ma partendo dal reale. Ed io penso che tocchi a noi, ad Md, assolvere a questo compito, ripensarlo in continuo nel quadro dei processi di cambiamento in atto; superare le derive formalistiche e le distorsioni burocratiche. È un compito essenziale che all’interno della giurisdizione io temo, e spero di sbagliarmi, o lo svolge Md o non lo fa nessuno.