Magistratura democratica

Ripartire dalle disuguaglianze.
Giudici e nuovi disuguali. I compiti della giurisdizione

di Nello Rossi

Spesso le disuguaglianze non si “vedono”, perché ci appaiono naturali o almeno incancellabili ed inevitabili in quanto indistricabilmente connesse con gli assetti sociali, economici e culturali, e perché nascoste sotto la coltre dell’uguaglianza formale, sotto gli schemi dell’autonomia privata, sotto il peso del senso comune.

Si distinguono agevolmente gli “ultimi” – i migranti, i vecchi e nuovi marginali, i detenuti – i quali restano il metro della effettività dei diritti, che sugli ultimi appunto si misura. Ma occorre saper riconoscere anche i tanti “penultimi”, che alla giurisdizione si rivolgono nella speranza di ascolto o tutela: per esempio il risparmiatore, frastornato dalla complessità del mercato, non di rado ingannato e depredato; gli analfabeti di ritorno del digitale, divenuto indispensabile dalla stipula dei contratti di servizio al funzionamento degli apparati assistenziali e burocratici; i precari permanenti di una classe lavoratrice frantumata e dispersa.

1. Vedere le disuguaglianze

L’esordio del congresso è stato un atto di umiltà intellettuale di cui possiamo essere orgogliosi.

Abbiamo voluto un apporto di conoscenza e di analisi dall’esterno del nostro mondo sulla fisionomia e sulle dimensioni della moderna disuguaglianza.

Abbiamo chiesto un aiuto per capire, per penetrare, per “vedere” le nuove disuguaglianze.

Ritenendo che questa conoscenza e questa percezione siano la premessa necessaria per comprendere quali siano i nuovi compiti dei magistrati civili e penali nell’affermazione rigorosa del principio di uguaglianza formale e nell’opera di rimozione degli ostacoli all’uguaglianza sostanziale che si manifestano nel processo e nella realtà che nel processo si esprime e si riflette.

Guardate: io credo che non solo i magistrati di Md – che hanno sempre avuto nell’art. 3, secondo comma, della Costituzione la loro stella polare – ma tutti i magistrati degni di questo nome , quando “vedono” che determinate norme sostanziali o processuali danno vita ad asimmetrie nell’ambito dei processi o dettano regole che creano o mantengono squilibri nella vita economica e sociale delle persone, siano portati a compiere uno sforzo interpretativo e applicativo del diritto che cancelli o attenui quelle disuguaglianze.

Il punto è che spesso le disuguaglianze non si “vedono”, perché ci appaiono naturali o almeno incancellabili ed inevitabili in quanto indistricabilmente connesse con gli assetti sociali, economici e culturali e perché nascoste sotto la coltre della uguaglianza formale, sotto gli schemi dell’autonomia privata, sotto il peso del senso comune.

In passato è stata necessaria una opera di identificazione e di disvelamento per far emergere anche sul piano giuridico le tante disuguaglianze esistenti tra le parti nel rapporto di lavoro o per mettere in luce la condizione di minorità dei pazienti negli ospedali o l’impotenza dei singoli cittadini di fronte all’inquinamento ambientale o all’operato delle agenzie pubbliche erogatrici di servizi.

E la realtà di oggi ci dice che sono nate nuove forme di disuguaglianza cui i giudici di orientamento democratico devono rivolgere la loro attenzione ed il loro impegno.

Considerando questa attenzione e questo impegno come prioritari, quali che siano le forme associative e le modalità di presenza organizzata nella magistratura e nella società che sceglieranno nel corso del congresso.

2. Il primo compito: prendere sul serio l’uguaglianza davanti alla legge

In quest’ottica il primo compito è prendere sul serio l’uguaglianza davanti alla legge.

Il che significa portare in primo piano l’immenso valore dell’uguaglianza nel processo (ed in particolar modo nel processo penale così affollato di disuguali) e valorizzare la figura chiave nella quale questa uguaglianza si esprime, la persona.

Per spiegare meglio quello che intendo, attingo ad uno splendido romanzo di Antonio Tabucchi che si intitola: La testa perduta di Damasceno Monteiro.

«Nella città portoghese di Oporto vi è stato un orribile delitto.

Un giovane è stato ucciso e decapitato.

Ad occuparsi del caso sono un giornalista alle prime armi ed un maturo avvocato che tutti chiamano “Loton” per la sua straordinaria rassomiglianza all’attore Charles Laughton, indimenticabile protagonista del film “Testimone d’accusa” di Billy Wilder.

Del delitto, commesso da poliziotti corrotti per uno sgarro nel mondo della droga, l’avvocato scova un solo testimone oculare che ha visto tutto.

Si chiama Wanda ma in realtà è un uomo Eleuterio Santos: un travestito, con un passato in un ospedale psichiatrico, schedato per prostituzione.

Un testimone così, dice scettico il giornalista: “Figuriamoci”.

E l’avvocato replica severo: “è una persona… si ricordi questo, giovanotto, prima di tutto è una persona”.».

Ecco. Non dimenticare mai la persona che c’è nell’imputato, nel testimone, nella vittima è opera quotidiana di uguagliamento da fare nel corso delle indagini, nei dibattimenti, nelle sentenze.

Ricordandoci che giudichiamo “fatti” che possono essere sgradevoli, nocivi, perfidi, orribili.

Ma che abbiamo il diritto di giudicare esseri umani solo come autori di quei fatti, senza distribuire bollini di infamia, marchi di ignominia perché appunto si tratta di “persone” la cui dignità il processo non può né deve scalfire.

Ritorna qui il dualismo dell’idea di uguaglianza nel processo penale, che corre lungo tutta la storia di Magistratura democratica e ne ha ispirato il garantismo penale, peraltro non senza qualche sbandamento.

Parlo del fatto che c’è una idea di uguaglianza emancipatrice, in forza della quale nel corso delle indagini e nel processo ci impegniamo a trattare l’ultimo cittadino o straniero condotto nelle aule dei tribunali con le stesse garanzie e con lo stesso scrupolo che riserviamo al cittadino o straniero colto e potente incappato nelle maglie della giustizia.

E c’è un’altra concezione, sprezzante e punitiva, del canone secondo cui «tutti sono uguali davanti alla legge» che è diametralmente opposta: la pretesa di trattare, nel circuito della giurisdizione, il cittadino o lo straniero più colto o potente con la stessa sbrigativa disinvoltura e sottovalutazione delle garanzie che talvolta si riserva ai diseredati.

Nella stessa formula «tutti sono uguali davanti alla legge» sono racchiuse due idee opposte di uguaglianza: l’uguaglianza livellatrice che livella verso il basso le garanzie di tutti, tutt’altro che marginale nella pratica giudiziaria al punto che occorre darle incessantemente battaglia e l’uguaglianza emancipatrice che rivendichiamo.

È questo il garantismo penale di cui non abbiamo solo parlato ma che abbiamo tentato di mettere in pratica.

Dal nostro atteggiamento verso i fatti di protesta sociale ai difficili processi della stagione del terrorismo, dai tanti processi nei confronti di esponenti del potere economico e politico al caso Tortora , quando il segretario ed il presidente di Md, Franco Ippolito e Giovanni Palombarini, a nome di Md e sfidando la corporazione andarono a Napoli a criticare la conduzione di quel processo.

E poiché non dimentico che siamo in un congresso politico e non in un convegno di studi ricordo che, dopo quella iniziativa, l’unità associativa si ruppe (presidente dell’Anm era un magistrato di valore come Alessandro Criscuolo) per ricomporsi su basi più salde un mese dopo.

Segno, questo, che non è l’abdicazione, il silenzio, il mutismo di fronte ai dissensi interni che salva il grande valore dell’unità associativa ma la chiarezza ed il rigore dei principi e delle impostazioni di fondo di chi ha deciso di lavorare insieme nell’Anm.

3. Una nuova mappa delle disuguaglianze

Al di là di questa sfera che resta essenziale, ci sono altri compiti più sofisticati e complessi da svolgere per essere agenti – nell’interpretazione delle norme e nella risoluzione dei conflitti – di una uguaglianza sostanziale.

Compiti che per essere assolti reclamano una meditata visione della società in cui operiamo, una mappa delle disuguaglianze.

Quando è nata Md i protagonisti di quella stagione avevano in mente, insieme ad una idea forte della funzione del diritto e del giudice, una mappa delle disuguaglianze.

Non dico che fosse una mappa assolutamente precisa, dettagliata, veritiera.

In qualche punto poteva essere falsata da un di più di ideologia.

Ma era una mappa che individuava i soggetti in campo, le grandi strade da percorrere, le principali asperità del terreno, le mete possibili.

Oggi quella mappa occorre aggiornarla.

Non basta, lo dico francamente, parlare ed occuparsi degli “ultimi” – i migranti, i vecchi e nuovi marginali, i detenuti.

Beninteso gli “ultimi” restano il parametro indispensabile di ogni nostro ragionamento, il metro della effettività dei diritti che sugli ultimi appunto si misura.

Ma ci sono realtà più complesse, più articolate, più sfumate da conoscere nella vasta categoria degli svantaggiati, nella società delle molte minoranze.

Ci sono i tanti “penultimi” che alla giurisdizione si rivolgono nella speranza di ascolto o tutela.

Se questi penultimi li facciamo entrare nella nostra sfera privilegiata di osservazione, se li “vediamo” cercheremo e troveremo anche gli strumenti di intervento.

Ciascuno nel suo campo di intervento, sfruttando come forza i tanti mestieri che facciamo e le tante competenze che accumuliamo nel campo del lavoro, della famiglia, della economia, del contrasto al crimine in tutte le sue forme.

Per parte mia indico qui alcune di queste figure che equivalgono ciascuna a molti milioni di persone.

Il risparmiatore, frastornato dalla complessità del mercato e, come ci raccontano le cronache, non di rado ingannato e depredato, coinvolto in vicende finanziarie che lo sopravanzano e lo travolgono.

I nuovi semianalfabeti, gli analfabeti di ritorno del mondo digitale, sperduti nella complessità della vita sociale che si digitalizza nelle modalità di stipula dei contratti di servizio, nel funzionamento degli apparati assistenziali e nel processo.

I precari permanenti, ultimo approdo ed incarnazione di una classe lavoratrice frantumata nella sua unità, dispersa nei meandri dei mille rapporti di lavoro subordinato, parasubordinato, autonomo, divisa nel pulviscolo di organizzazioni sindacali aziendalistiche, corporative e settoriali che fondano il loro potere più sui veti che sui progetti.

A ciascuna di queste figure non posso che dedicare pochi cenni tratti dalla mia esperienza professionale, soprattutto negli ultimi otto anni trascorsi in una Procura della Repubblica ad occuparmi di criminalità economica ed informatica.

Soffermiamoci per un attimo sul piccolo risparmiatore figura centrale nel moderno assetto socio-economico del Paese.

Nell’epoca del capitalismo finanziario – il capitalismo del nostro tempo – l’asimmetria informativa del singolo rispetto ai soggetti che operano nel mercato finanziario è divenuta enorme.

Si ricorda spesso che gli italiani hanno un basso livello di conoscenze economiche; ma non si aggiunge che anche se essi disponessero di più ampie cognizioni sarebbero comunque disarmati rispetto alla complessità dei meccanismi societari e finanziari.

Eppure gli strumenti che il diritto penale tradizionale mette a disposizione del risparmiatore per crimini ai suoi danni sono dei ferri vecchi, come la truffa o l’appropriazione indebita.

Reati con pene edittali relativamente basse, che non permettono intercettazioni, spesso scoperti in ritardo rispetto alla loro consumazione e facili a prescriversi a fronte di agguerrite strategie difensive, che non ammettono il sequestro per equivalente.

Perfino le possibili ruberie ai danni dei fondi pensioni non meritano alcuna tutela speciale diversa da quella prevista per il reato di truffa.

La più efficace tutela penale che ha potuto essere offerta al piccolo risparmiatore, sia esso obbligazionista, azionista o depositante, è stata sino ad ora una sorta di tutela indiretta e riflessa, dipendente dalla attivazione delle più incisive forme di tutela apprestate per il corretto funzionamento del mercato: le sanzioni penali previste contro gli ingressi abusivi di soggetti privi di requisiti nel mercato finanziario, la norma incriminatrice dell’ostacolo alla vigilanza, le norme sulle manipolazioni del mercato e sull’insider trading.

Qualcosa di simile alle vecchie concezioni dell’interesse legittimo riconosciuto al privato rispetto all’interesse della amministrazione pubblica tutelato in via prioritaria.

È questo un terreno di iniziativa dei pubblici ministeri, di attenzione dei giudici, di proposta di nuove norme che non può essere affidato solo ai gruppi specializzati di pubblici ministeri di alcune grandi Procure o ai raffinati civilisti di alcuni Tribunali ma che dovrebbe essere assunto come prioritario da tutta l’area di magistrati di orientamento democratico.

E lo stesso vale per le difficoltà, talora enormi, che la digitalizzazione della società crea ad un’ampia cerchia di persone nello stesso momento in cui rende più ricca, colta, varia l’esistenza della parte più giovane, colta ed avvertita della società.

Il dramma – vividamente rappresentato nel film di Ken Loach – di Daniel Blake, il cittadino intelligente, ironico, orgoglioso che quando si ammala dopo una vita di lavoro, finisce stritolato dalla dimensione impersonale di una assistenza digitalizzata, dovrebbe essere oggetto di studio e di riflessione dappertutto: nelle scuole, nelle sedi delle associazioni, nei nostri convegni.

E deve essere tenuto presente anche nelle aule di tribunale nel misurare l’adeguatezza delle nostre condotte e nella revisione continua delle buone prassi che devono continuamente adeguarsi alle trasformazioni del processo e dei suoi modi di funzionamento nell’epoca della informatizzazione.

E infine nel mondo dell’economia e del lavoro, di cui parlerà il collega Riverso, occorrerà concentrarsi sulla forbice drammatica, sul dilemma che si ripropone quasi ad ogni passo della vicenda economica.

Se si vuole risanare una impresa – sia essa una banca, un’azienda di servizi o altro – si deve ridurre drasticamente il numero degli occupati e con esso la forza contrattuale di chi resta al lavoro.

Aumentando così il numero dei disoccupati effettivi e virtuali per i quali non basta a mio avviso postulare un reddito assistenziale che li mantenga nel numero dei consumatori e senza che siano alle viste politiche pubbliche che si facciano carico di questa drammatica forbice

Per affrontare questi ed altri temi non basta da sola la magistratura né è sufficiente l’opera giurisdizione.

Ma magistratura e giurisdizione saranno più utili e giuste se opereranno con la consapevolezza piena di queste problematiche, traducendo questa consapevolezza in soluzioni concrete dei casi giudiziari spinosi, in dubbi di costituzionalità delle norme in vigore, in motivi di proposta culturale, tecnica, politica al mondo del lavoro, dell’economia, della politica.

Aggiungo, infine, che per muoverci efficacemente su questo terreno avremmo un vitale bisogno della nascita o della rinascita di una “avvocatura democratica”, capace di organizzarsi per portare in giudizio tutta una serie di istanze, dagli small claims, i piccoli soprusi ai danni del consumatore o dell’utente, ai grandi interessi collettivi negletti o dimenticati e di essere parte civile rappresentativa nei processi per fatti di criminalità politico amministrativa.

Si tratta in definitiva di non restare da soli – né all’interno né all’esterno del mondo della giurisdizione – perché da soli si è destinati ad essere inutili o sconfitti e di non rinunciare ad idee che si sono affermate perché non sono rimaste solo idee ma sono divenute azioni, prassi e modi di intervento.

Non è poco, non è facile ma è possibile e perciò occorre farlo.