Magistratura democratica

Appunti sulla trasparenza bancaria, venticinque anni dopo

di Andrea Barenghi

A distanza di venticinque anni dall’introduzione della prima disciplina, la normativa di trasparenza bancaria, che per molti rappresenta oggi la “parte generale” dei contratti bancari, si è radicalmente trasformata qualitativamente e quantitativamente, e, risentendo anche dell’alluvionale produzione normativa europea, rappresenta un cantiere in perpetua riconformazione. Riprendendo, alla luce dei numerosi difetti e inconvenienti riscontrati nella legge vigente, la proposta di provvedere a un suo riconsolidamento e a una sua semplificazione, l’Autore mette in luce i legami tra la trasparenza in senso formale e la trasparenza in senso sostanziale, e, con ampia rassegna delle vicende giurisprudenziali della normativa di trasparenza e di riequilibrio, esamina le recenti tendenze normative e dottrinali ad andare “oltre la trasparenza”, per mettere in evidenza, con particolare riferimento alla distribuzione dei prodotti creditizi nel settore dei finanziamenti contro cessione del quinto, le aporie di una disciplina che si fondi solo sulla trasparenza in senso formale e sui problemi di drafting contrattuale.

1. Attuali confini della disciplina della trasparenza

Se si guarda alla disciplina della trasparenza, come la conosciamo oggi (nel Testo unico bancario - dPR 385/1993 e s.m.i., gli artt. 115 ss., nel d.lgs 27 gennaio 2010, n. 11, per quanto riguarda una larga parte della disciplina dei servizi di pagamento, nella l. 108/1996 per quanto riguarda la disciplina dell’usura, poi nella deliberazione Cicr del 4 marzo 2003 e s.m.i. e nei decreti Mef 30 giugno 2012 in materia di remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti e 29 settembre 2016 in materia di credito immobiliare ai consumatori, nonché nelle Disposizioni del 29 luglio 2009 emanate dalla Banca d’Italia, e s.m.i., per tacere di altre norme collegate), ecco se si guarda a tutta questa normativa, estremamente complessa, articolata, talvolta frammentaria e incoerente (quando non contraddittoria), minuziosamente dettagliata (anche sulla base di altrettante discipline comunitarie), e in perpetua formazione, non può non colpire la distanza che separa l’attuale configurazione quantitativa e qualitativa dell’ordinamento italiano in punto di disciplina dei rapporti tra le imprese creditizie e la clientela rispetto a quella originariamente introdotta nel 1992, e, a maggior ragione, a quella ad essa previgente.

La distanza, si vuol innanzitutto dire, che separa tale articolato complesso normativo – nel quale, dai più, si tende oggi ad individuare la “parte generale” che è sempre mancata nella disciplina statuale dei contratti bancari – dalla scarna configurazione che di tali contratti era contenuta nel Codice civile del 1942 (sono, come è noto, gli artt. 1834-1860), la quale, introducendone per la prima volta una disciplina legislativa, presupponeva la rimessione di gran parte dei contenuti disciplinari all’autonoma elaborazione delle imprese, svolgentesi in allora (a partire dal 1918, con la configurazione del cartello bancario e poi dagli anni ’30 con l’obbligo di adesione delle banche a tale cartello) e fino a pochi anni fa attraverso l’Associazione di categoria (che dell’originario cartello interbancario era stata del resto l’evoluzione istituzionale), delle Norme uniformi bancarie, che oggi non si chiamano più così, in ossequio ai nuovi valori che dominano la scena (la concorrenza, il divieto di intese, la partecipazione delle associazioni dei consumatori), ma che nella sostanza ancora contengono in grande misura la disciplina del rapporto tra la banca e il cliente e in quanto tali contribuiscono alla conformazione del mercato dei servizi bancari (e infatti da tempo la giurisprudenza ha riconosciuto, sia pure con riguardo a condizioni generali che non avevano formato oggetto di alcun tipo di contrattazione collettiva, la legittimazione passiva dell’Abi nelle azioni inibitorie inerenti le clausole vessatorie: v. Trib. Roma, 21 gennaio 2000, e poi sul punto Cass. 13051/2008, più di recente per la qualificazione delle deliberazioni Abi come intese ex art. 2 l. 287/1990, v. Agcm, 14 settembre 2006, n. 15908, in Giur.comm., 2007, II, pp. 274 ss., con il caustico commento di Ferro-Luzzi, il quale rileva che «nella visione di base dell’Autorità “intesa” a ben vedere è il fatto stesso di associarsi»).

Si intendeva, tuttavia, far riferimento anche alla distanza dell’attuale ordinamento della trasparenza rispetto all’introduzione della prima disciplina in merito, la disciplina delle relazioni tra banche e clienti in genere e tra banche e consumatori per quanto riguarda il credito al consumo in particolare, con le due leggi coeve n. 154 (sulla trasparenza bancaria) e n. 142 (legge comunitaria per il 1991, che alla sez. I del capo II del titolo II dava attuazione alla disciplina del credito al consumo, in conformità delle direttive 87/102/Cee e 90/88/Cee) dell’anno 1992, entrambe poi confluite nel 1993 nel Testo unico bancario agli artt. 115 ss.

Il quadro è oggi mutato radicalmente. Innanzitutto sotto il profilo quantitativo: rispetto alle disposizioni delle due normative appena richiamate (nel complesso si trattava di appena diciotto articoli di legge), e ad una relativamente scarna disciplina secondaria (e in dottrina si interpreta l’odierno diverso orientamento come collegamento della disciplina di trasparenza con l’attività di vigilanza: Nigro, 2011), abbiamo oggi un corpus normativo assai cospicuo di ben sessantasei articoli di legge nel Testo unico, cui devono sommarsi le fonti ulteriori in cui si raccoglie la disciplina di trasparenza: il d.lgs 27 gennaio 2010, n. 11, in attuazione della direttiva 2007/64/Ce (Psd), per i servizi di pagamento nella parte non trasposta nel Testo unico, la l. 108/1996 e l’art. 1815 cc per l’usura e i suoi rimedi civilistici, i decreti ministeriali e le disposizioni di trasparenza della Banca d’Italia, resesi autonome rispetto alle più generali Istruzioni di vigilanza a partire dal 2009, per non parlare del collegamento con la disciplina generale della trasparenza contrattuale, applicabile anche nel settore bancario e talvolta dotata di specifiche previsioni normative, come accade ad es. in materia di pratiche commerciali scorrette e di clausole vessatorie.

Contrariamente a quanto risulta da talune prese di posizione, infatti, la normativa “generale” di tutela dei consumatori trova applicazione, ove pertinente, ai contratti bancari, sovrapponendosi e concorrendo alla disciplina delle fattispecie regolate, per l’insieme della clientela o talora per i soli consumatori (e in tal caso con i problemi sistematici determinati dallo scopo di ‘massima’ armonizzazione delle corrispondenti direttive), dalla disciplina della trasparenza bancaria (del resto la disciplina sulla trasparenza della Banca d’Italia espressamente precisa che essa «si affianca alle altre disposizioni previste dall’ordinamento in materia di trasparenza e correttezza dei comportamenti nei confronti della clientela. Nello svolgimento delle proprie attività gli intermediari considerano l'insieme di queste discipline come un complesso regolamentare integrato e curano il rispetto della regolamentazione nella sua globalità, adottando le misure necessarie», e d’altra parte lo stesso art. 33, 1° co., lett. f) l. 7 luglio 2009, n. 88, delegava, tra altri, al Governo il compito di «coordinare il testo unico di cui al d.lgs n. 385/1993 e le altre disposizioni legislative aventi come oggetto la tutela del consumatore»).

Il quadro delle fonti, come si vede, si presenta assai articolato, lo si accennava poco fa, e altresì frammentario, talvolta anche incoerente e contraddittorio (ci tornerò brevemente più avanti), e come nel diritto europeo dei consumatori l’«attenzione per il particolare» rischia di far «sfuggire l’insieme» (Mucciarone). La disciplina della trasparenza viene comunque ormai individuata come sede della disciplina generale dei contratti bancari ed essa richiede perciò una particolare attenzione.

Rispetto alla prima normativa di trasparenza, quella attuale si è quindi enormemente sviluppata sul piano quantitativo, ma ha altresì subìto un mutamento, forse ancor più intenso, in termini qualitativi. La disciplina di trasparenza, rispetto a quella originaria, è oggi enormemente più sviluppata in termini di materie regolate (secondo quello che, nei settori soggetti a vigilanza, è stato individuato come un vero e proprio paradosso della regolazione, per cui i processi di liberalizzazione si accompagnano a un’inflazione regolativa), in termini di poteri di intervento (in particolare quanto ai poteri di public enforcement rimessi alle Autorità di vigilanza), in termini di segmentazione e settorializzazione degli interventi normativi, in termini di princìpi ispiratori, e infine in termini di rapporti tra trasparenza ed equilibrio delle condizioni contrattuali e di strumentazione rivolta al perseguimento dell’obiettivo della trasparenza (mi riferisco in particolare alle misure organizzative dell’attività di impresa).

La normativa europea ha introdotto nella disciplina della trasparenza i due elementi di frammentazione della disciplina intervenendo sui due settori di armonizzazione massima del credito ai consumatori e dei servizi di pagamento (mentre la disciplina del credito immobiliare è in parte di armonizzazione massima e in parte di armonizzazione minima), con tutti i problemi che l’armonizzazione massima comporta, e che nel caso particolare si sono tradotti in una ridefinizione del rapporto tra la parte generale contenuta nel Capo I del Titolo VI e le tre parti speciali in questione, nel cui ambito applicativo le norme di carattere generale possono ora applicarsi solo quando richiamate (art. 115, 3° co., Tub), mentre in precedenza esse si applicavano sempre salvo che fossero espressamente derogate (impregiudicato restando tuttavia il problema dell’applicazione analogica delle stesse, laddove, sussistendo una lacuna, si può dire di trovarsi al di fuori dell’ambito della materia armonizzata, e quindi del divieto di introdurre, legislativamente o interpretativamente, una disciplina nazionale confliggente: in questo senso ad es. Mirone, 2014).

Il mutamento di carattere qualitativo della disciplina di trasparenza non riguarda, tuttavia, solo la natura e l’organizzazione dei suoi contenuti, ma riguarda altresì, come si accennava, i contenuti normativi in quanto tali e gli scopi perseguiti dal sistema.

Fin dall’origine nella disciplina di trasparenza poteva individuarsi accanto e oltre alla materia dell’informazione, della forma, della stessa formazione del contratto, una disciplina relativa all’equilibrio o al riequilibrio delle posizioni delle parti e degli assetti di interesse determinati dalla stipulazione contrattuale (v. ad es. Dolmetta, 1992), mentre si sviluppano solo successivamente forme di intervento sulle strutture organizzative dell’impresa al fine di garantire il perseguimento degli scopi appena indicati.

In proposito, può dirsi tuttavia che, nel quadro normativo attuale, al quale sopra si è fatto cenno, questa molteplice intenzione del legislatore della trasparenza bancaria si sia accentuata, e abbia stretto sempre più significativi legami con l’attività di vigilanza, assurgendo peraltro a valore autonomo e a criterio ulteriore dell’esercizio di quest’ultima, che si compendia, peraltro, nella creazione di uno strumento di tutela come quello rappresentato dall’Arbitro bancario e finanziario, la cui missione istituzionale sembra oscillare, secondo prese di posizione più volte emerse in letteratura, tra metodo di definizione delle liti (e quindi, in ogni caso, strumento di attuazione del diritto della trasparenza bancaria, riservato alle relazioni con la clientela cui tale disciplina è destinata a trovare applicazione) e apparato funzionale, in via diretta o indiretta, alle attività di vigilanza.

Si accennava alla sensazione di vivo contrasto che l’osservatore può essere portato a rilevare nel momento in cui metta a confronto l’attuale disciplina della trasparenza e quella originariamente dettata nel 1992, per non dire di quella precedente in cui la prospettiva della trasparenza non era affatto presa in considerazione. La vecchia legge bancaria contemplava bensì la possibilità per l’Autorità di vigilanza – originariamente l’Ispettorato per il risparmio e il credito – di comunicare “istruzioni” alle banche in conformità delle deliberazioni del Comitato dei ministri in ordine «ai limiti dei tassi attivi e passivi ed alle condizioni delle operazioni di deposito e di conto corrente» nonché «alle provvigioni per i diversi servizi bancari» [art. 32, 1° co., lett. b) e c)], il che poi si sarebbe verificato attraverso l’adesione imposta alle banche al cartello dei principali Istituti di credito, anch’essi del resto risalenti alla mano pubblica, ma non nell’interesse della trasparenza quanto a fini di conformazione del mercato in chiave di stabilità e di standardizzazione oligopolistica, di cui l’Associazione bancaria italiana fu, dal suo sorgere, uno strumento.

Ma una sensazione di pari spaesamento può forse impadronirsi dell’osservatore quando metta a confronto l’orizzonte delle norme con quello della realtà effettiva dei rapporti, un confronto i cui risultati presentano singolari elementi se non di continuità quantomeno di reiterazione nel tempo, a dispetto dell’accresciuto e potenziato intervento normativo.

Certo, enormi progressi in termini di trasparenza (e di concorrenzialità del sistema) si sono fatti, il mondo delle relazioni banca-cliente quale si presentava all’osservatore ancora nel 1998, quando, a distanza di 5 anni dalla direttiva 93/13 e di due anni dalla sua attuazione in Italia, i formulari bancari e Abi erano ancora costellati di clausole vessatorie, anche delle più marchiane (come ha dimostrato l’esperienza del contenzioso consumeristico, in particolare nella decisione di primo grado di Trib. Roma, 21 gennaio 2000, che mi pare, se mi è consentito dirlo, resti uno dei migliori, e comunque rari, esempi di applicazione diffusa del private enforcement consumeristico in Italia), e di certo da tempo non si può più dire che la casistica sulle relazioni bancarie sia caratterizzata da una sorta di «immobilismo perpetuo» di «acque davvero stagnanti» (Portale e Dolmetta), bastando al riguardo considerare la massa del contenzioso che affluisce ogni anno all’Arbitro bancario e finanziario, che integra, con caratteri di immediatezza e di celerità, il quadro complessivo delle questioni critiche nelle relazioni del sistema finanziario con la clientela.

All’epoca dell’introduzione della disciplina della trasparenza bancaria e della disciplina consumeristica si poteva restare «allibiti» contemplando l’estremo ritardo con cui il settore bancario aveva reagito e cercava di reagire alle novità (basti, di nuovo, por mente al richiamato contenzioso sulle clausole vessatorie nei contratti bancari, che aveva dimostrato tutta l’indisponibilità o l’incapacità dell’industria bancaria di allora ad affrontare seriamente le novità).

Così, prendendo in considerazione il drafting delle Norme uniformi bancarie nelle varie versioni che si andavano succedendo nel tempo (cui Mario Porzio riservava l’espressione virgolettata) fino appunto all’inizio degli anni 2000, o riflettendo sugli stessi indirizzi giurisprudenziali che solo nel 1999 si liberavano dell’idea della sussistenza di un uso normativo inerente l’anatocismo bancario [una figura di cui sono ben noti, peraltro, i profili critici, e che ancora negli ultimi anni ha formato oggetto di ricorrenti e interventi del legislatore, la cui contraddittorietà sembra appunto riflettere lo stridore rilevato in dottrina (Ferro-Luzzi e altri) nella stessa categoria dell’‘anatocismo bancario’], abbandonando poi solo in seguito alla normativa di trasparenza l’idea del rinvio agli ‘usi di piazza’, una clausola che ancora nel contenzioso corrente capita di veder trattata e che dal contenzioso corrente si evince essere rimasta in vigore assai più a lungo di quanto le novità legislative avrebbero dovuto suggerire (rispetto a tali clausole, quindi, è quantomeno mancato un diffuso adeguamento spontaneo da parte delle imprese bancarie, spesso anche di quelle di maggiori dimensioni).

Com’è noto, ai soli servizi accessori, come quelli delle cassette di sicurezza, era stato riservato da parte della giurisprudenza un intervento più intransigente e improntato a severo rigore tecnico, e poi sempre confermato nel tempo rispetto alle succedentesi prassi contrattuali (prassi che ad ogni modo l’industria bancaria continuava a riproporre in almeno quattro successive generazioni di clausole regolarmente destinate a cadere sotto la scure dell’invalidità e della vessatorietà giudizialmente dichiarata).

Ma si pensi ancora al rilievo tutto sommato modesto (come l’Ombudsman-Giurì bancario) e in alcuni casi disastroso (come il Consorzio Pattichiari, che ancora pochi giorni prima del fallimento Lehman Brothers segnalava come non rischiosi i relativi titoli, nonostante i reiterati allarmi apparsi sulla stampa) delle iniziative spontanee di trasparenza e di autoregolazione assunte dall’industria bancaria, tali da disattendere largamente le aspettative delle autorevoli voci che avevano inizialmente messo l’accento sull’opportunità di affidare all’autoregolamentazione e all’autonomia collettiva la realizzazione delle istanze di trasparenza (Rescigno, Schlesinger).

A distanza di venticinque anni, nonostante dosi assai massicce di regolazione [considerata da taluna dottrina bancaristica (Ferro-Luzzi) una normativa «a dispetto», capace di introdurre significativi incrementi dei costi senza effettivamente veicolare una vera protezione della clientela, sulla quale tali costi finivano comunque per essere trasferiti], e un diffuso interventismo giudiziario, che ha cambiato completamente segno nei confronti dei rapporti bancari (tanto da esporsi in più occasioni all’accusa, a dire il vero non sempre infondata, di eccessiva indulgenza verso forme di vero e proprio populismo giudiziario), sussistono interi settori in cui l’osservatore rischia di restare ancora «allibito».

Si pensi all’intrasparenza delle spese e commissioni, spesso poco e male distinte e tutt’altro che trasparenti anche solo sotto il profilo dell’informazione resa alla clientela, oppure ai costi della distribuzione del credito, specialmente in prodotti che si rivolgono a settori particolarmente fragili ed esposti della popolazione come il finanziamento contro cessione del quinto della retribuzione, in cui si verifica (sia nel nostro che in altri paesi dell’Unione europea a dire il vero, come è agevole verificare nella lettura di talune decisioni della Corte di giustizia) un aumento spesso del tutto ingiustificato dei costi del credito e l’inserimento di voci di costo prive di qualsiasi collegamento con prestazioni rese a favore del cliente.

Sembra quindi potersi ravvisare, ancora oggi, nella situazione che si presenta all’osservatore dei rapporti contrattuali delle banche con la clientela, una distanza tra l’imponente apparato di regolazione e di intervento che è stato posto in essere per la disciplina dell’attività bancaria sub specie di relazioni con la clientela e la realtà del rapporto che nel Paese è dato constatare tra l’industria bancaria e la domanda di servizi bancari e finanziari, tanto da condurre nel corso del tempo anche a tentativi (pervero assai goffi) del potere politico di introdurre, quantomeno larvatamente, misure di controllo anche in ordine all’area della libertà e discrezionalità nell’erogazione del credito (mi riferisco all’art. 27-bis, co. 1-quinquies, del dl 24 gennaio 2012, n. 1 come successivamente modificato).

Per concludere queste prime osservazioni sullo stato della disciplina della trasparenza a distanza di venticinque anni dalla sua prima introduzione nell’ordinamento italiano, due proposte, più volte affacciate in passato, sembrano oggi doversi seriamente riprendere in considerazione.

La prima riguarda la disciplina codicistica dei contratti bancari, di cui da tempo si era proposto di riprendere in mano il dettato per collocare in tale sede una vera e propria disciplina generale dei contratti bancari (Portale e Dolmetta). Vi è da chiedersi oggi in che termini si possa riprendere tale spunto, e come risolvere il pluralismo delle fonti in materia di contratti bancari e di relazioni con la clientela (Codice civile, Testo unico e altre leggi speciali, Disposizioni delle Autorità di vigilanza), e definire le problematiche relazioni tra la disciplina del Testo unico e la disciplina del contratto in generale (su cui aveva messo l’accento Rescigno già al momento dell’elaborazione dell’originario testo di legge).

La seconda, che viene affacciata periodicamente e da più parti (ad es. Porzio, Sciarrone Alibrandi) fino a ipotizzarsi una vera e propria responsabilità del legislatore per ‘opacità’ del prodotto legislativo (Dolmetta, 2011), riguarda invece la stessa disciplina della trasparenza, introdotta, come si è detto, nel 1992, poi assoggettata a significative integrazioni nel 2006-2009, infine integrata e scomposta nel 2010-2016 con l’attuazione delle nuove direttive di massima armonizzazione, intervenute, more solito, senza alcun effettivo coordinamento, e invece aggravando la frammentazione e disarmonia del sistema. Quindi si tratterebbe di predisporre ora un nuovo progetto di consolidamento della disciplina vigente, che razionalizzi e semplifichi l’attuale e troppo articolato, frammentario, disarmonico quadro della legislazione speciale in tema di correttezza e trasparenza nelle relazioni con la clientela bancaria (nelle cui pieghe si annida spesso il duplice inconveniente di un innalzamento dei costi e di un valore spesso solo esteriore degli obblighi di trasparenza, che finiscono per tradursi in mere misure di esonero da responsabilità), che è condizione perché l’obiettivo di una maggior correttezza e integrità del mercato finanziario possa essere meglio perseguito.

2. Le novità normative: frammentazione della disciplina e conflitti interni

È sufficiente al riguardo considerare la frammentazione della disciplina e i frequenti conflitti interni introdotti attraverso i successivi interventi del legislatore nella disciplina della trasparenza bancaria.

Si consideri innanzitutto l’introduzione di tre discipline (quella del credito immobiliare ai consumatori, capo I-bis, quella del credito ai consumatori, capo II, e quella dei servizi di pagamento, capo II-bis). Si tratta di tre insiemi normativi introdotti con altrettanti strumenti di attuazione di direttive comunitarie, per giunta in gran parte caratterizzate, secondo il recente orientamento della Commissione rivolto ad eliminare nella maggior misura possibile gli spazi di disomogeneità normativa che ostacolano l’effettiva edificazione del mercato unico e soprattutto le transazioni transfrontaliere, dal principio di massima armonizzazione, che richiede di verificare se e in che misura al di là delle discipline introdotte sia possibile al legislatore interno (il quale d’altra parte si limita ineffabilmente a trasporre il contenuto della direttiva senza effettuare il sia pur minimo sforzo di adattamento e di armonizzazione del sistema previgente, se si eccettua la modifica dell’art. 115, 3° co., Tub, ove si prevede ora che le disposizioni del Capo I si applichino negli altri settori indicati solo ove espressamente richiamate) armonizzare dette discipline (in particolare in ossequio al principio di eguaglianza-razionalità: Sciarrone Alibrandi, 2011).

Ma la prospettiva dell’armonizzazione massima pone l’ulteriore difficoltà di individuare i limiti entro i quali è possibile introdurre precetti integrativi nelle aree non espressamente armonizzate, con particolari difficoltà di perimetrare queste ultime (v. in proposito ad es. Sciarrone Alibrandi 2011 p. 72, che considera ad es. non armonizzata la disciplina del recesso nel contratto a termine di credito al consumo, atteso che la direttiva armonizza solo l’area del contratto a tempo indeterminato, e ibidem p. 75 sembra ritenere necessario il giustificato motivo nel ius variandi «per tutti i contratti», e quindi pure per quelli relativi ai servizi di pagamento, ove l’art. 126-sexies invece non fa alcun riferimento al giustificato motivo) e di individuare l’area in cui può essere ammessa l’interpretazione analogica (al riguardo, v. anche Mirone 2014, pp. 388-389).

La frammentazione e la disarmonia della disciplina complessiva della trasparenza bancaria si manifestano poi in particolare nelle materie delle spese, del recesso e dello ius variandi.

Sulle spese, si è assistito, ma non senza contraddizioni e tensioni, negli ultimi anni a una serie di interventi di semplificazione dei rapporti e di razionalizzazione dell’attività.

Acquisita l’illegittimità della commissione di massimo scoperto, è stata introdotta una commissione che pareva doversi basare sulla disponibilità residua (cioè sull’accordato non utilizzato, così acquisendo una sua razionalità) ma che alla luce della normativa di attuazione è risultata riferibile invece all’intero accordato (indipendentemente, invece, dalla sua utilizzazione e quindi dalla sua remunerazione mediante la maturazione di interessi), e ciò verosimilmente in ragione dell’esigenza di chiarezza e confrontabilità dei costi.

Per altre prestazioni, le cd. attività “secondarie”, invece, il legislatore tende a introdurre divieti di applicare commissioni e talvolta anche spese (in quanto tali, nonostante una perdurante ambiguità del linguaggio della pratica e talora anche di quello normativo, riferibili ai soli costi vivi, ed eventualmente ai costi mediamente sostenuti): così non sono ammessi addebiti di spese per le informazioni precontrattuali, né per l’adozione di misure correttive e preventive di operazioni irregolari (art. 3, 1° co., d.lgs 11/2010 e artt. 126-ter e 127-bis Tub), mentre per gli sconfinamenti è oggi prevista l’applicazione di una commissione (c.d. commissione di istruttoria veloce) che deve appunto essere parametrata ai costi (mediamente) sostenuti, ed è come tale sindacabile nel suo ammontare.

In tale contesto si iscrive il problema delle spese di istruttoria, e della loro legittimità nella fase fisiologica del rapporto (oltre che della restituzione in esito all’estinzione anticipata, se non specificamente riferite a spese vive dettagliatamente indicate): la regola è contemplata in tali termini per le informative precontrattuali, e ribadita dall’art. 117-bis, co. 1, per i finanziamenti mediante apertura di credito nei quali, come già si ricordava, è ammessa solo la previsione di una commissione onnicomprensiva sull’accordato così come per l’ipotesi di surroga dall’art. 120-quater, 4° co., Tub, ma non vale invece per i finanziamenti diversi da quelli al consumatore [v. Disposizioni, sez. II, par. 6, n. i)].

Quanto al recesso, tralasciando il recesso di pentimento garantito entro 14 giorni in materia di credito ai consumatori dall’art. 125-ter, se l’art. 120-bis (come l’art. 125-quater in tema di credito ai consumatori) disciplina il recesso dai contratti di credito al consumo con riferimento esclusivo a quelli a tempo indeterminato «in ogni momento» «senza penalità e senza spese» (ma in effetti disciplina la forma del contratto, essendo in tal caso il recesso senza penalità ammesso per diritto comune: v. Sciarrone Alibrandi, p. 69, la quale giustamente osserva l’incongruenza della limitazione ai contratti a tempo indeterminato, visto che la norma vuole essere uno stimolo alla concorrenza e all’efficienza dell’offerta di mercato, come dimostra appunto la clausola «senza spese», e infatti nella versione originaria era stata riferita a tutti i contratti di durata, che fossero a tempo indeterminato o determinato), l’art. 126-septies (derogabile, questo, quando il cliente non sia consumatore o microimpresa, il che pure appare non coerente con le finalità della norma: v. ancora Sciarrone Alibrandi, p. 70) in materia di recesso «senza penalità e senza spese» dai contratti relativi a servizi di pagamento non presenta, invece, alcuna delimitazione temporale (con riguardo al tempo del recesso la direttiva prevedeva al contrario una differenziazione del regime delle spese).

Così la distinzione tra contratti a tempo indeterminato e contratti a tempo determinato incide anche sulla possibilità del cliente di estinguere anticipatamente il rapporto. Nei rapporti a tempo indeterminato, e nei servizi di pagamento anche a tempo determinato (artt. 120-bis, 125-quater, 126-septies Tub), secondo la regola generale il cliente può recedere in ogni momento gratuitamente. In taluni casi, poi, nel mutuo fondiario può essere convenuto liberamente il regime delle spese. È invece vietata qualsiasi forma di costo per il recesso nei mutui per l’acquisto o ristrutturazione dell’abitazione o della sede principale dell’attività professionale della persona fisica (art. 120-ter), e, in talune ipotesi (come nell’apertura di credito), per il credito ai consumatori (art. 125-sexies, 3° co.). Una soluzione intermedia si applica, poi, in via generale ai mutui ai consumatori (art. 125-sexies 1° e 2° co.) contemplandosi la possibilità di prevedere un equo compenso, purché abbia formato oggetto di previsioni contrattuali chiare e comprensibili. Un quadro, come si vede già da questo velocissimo ragguaglio, che certamente non brilla per chiarezza e comprensibilità.

Circa, invece, lo ius variandi, al di là di altri problemi di dettaglio e di coordinamento tra la disciplina consumeristica [art. 33, 2° co., lett. m), e 3°-4° co., c.cons.] e la disciplina generale del Tub (art. 118, nonché l’art. 125-bis, 2° co., che lo richiama in materia di credito ai consumatori in genere), innanzitutto in punto di individuazione della nozione di ‘giustificato motivo’ e del suo ambito di applicazione, è sufficiente considerare il rapporto tra la disposizione bancaristica generale, l’art. 118 appunto, e quella dettata, in seguito all’attuazione della direttiva sui servizi di pagamento, in quest’ultima materia dall’art. 126-sexies. Si deve intanto registrare una diversa impostazione di fondo in letteratura tra quanti considerano lo ius variandi ammesso (in linea generale, e poi nei rapporti bancari) solo a fronte di sopravvenienze imprevedibili ed eccezionali e quanti, invece, lo considerano un ordinario strumento di gestione delle sopravvenienze nella durata del rapporto, con la conseguente necessità di delimitare l’ambito dei rapporti bancari cui applicare la disciplina speciale anziché quella generale.

Su ciò si innesta l’ambiguità delle norme, che nel primo caso prevedono la necessità di una specifica approvazione per iscritto e di un giustificato motivo per la modifica delle «condizioni previste dal contratto» (quindi non delle condizioni «nuove»), da effettuarsi reciprocamente in termini bilaterali in dipendenza dell’andamento del criterio invocato (Sciarrone Alibrandi, Mirone), distinguendosi poi tra contratti a tempo indeterminato (per i quali è ammessa anche la variazione del tasso) e contratti a tempo determinato (per i quali la variazione del tasso non è ammessa), mentre in materia di servizi di pagamento è ammessa la deroga per i clienti diversi dai consumatori e microimprese, non è necessaria la specifica approvazione per iscritto (Mirone), né è richiesto il giustificato motivo, salvo per i consumatori in ragione dell’espresso rinvio all’art. 33, 3° e 4° co., c.cons. (e anche in questo caso la diversità di trattamento appare ingiustificata in dottrina, tanto più per chi ritiene che il giustificato motivo debba confinarsi all’area delle modificazioni imprevedibili: v. ancora, in questo senso, Sciarrone Alibrandi, p. 75; in senso contrario Mirone, 2014, pp. 409 ss.), la modifica è ammessa in linea generale con riguardo alle «condizioni contrattuali» (e non a quelle già previste in contratto) senza che sia necessaria, almeno secondo una parte della dottrina, la biunivocità delle modifiche (Mirone).

Si tratta, come è agevole rilevare, anche in questo caso di un quadro estremamente frastagliato e disorganico, che sollecita, è su questo punto che si è voluta richiamare l’attenzione, un intervento di semplificazione e di consolidamento della disciplina che si è depositata alluvionalmente nel Tub.

3. Origine e introduzione della disciplina di trasparenza

È ben noto il collegamento tra le trasformazioni profonde che il sistema bancario italiano ha conosciuto nel corso degli anni ’80 e ’90 del ’900 e l’introduzione di una disciplina della trasparenza bancaria, che nasce originariamente forse non solo ma innanzitutto per introdurre misure di razionalizzazione dell’offerta idonee a contribuire alla realizzazione del nuovo standard della concorrenza bancaria, introdotto in seguito al processo di liberalizzazione e di privatizzazione del settore provocato dall’attuazione della prima e della seconda direttiva in materia creditizia.

Il 1985 – con l’entrata in vigore del d.PR 27 giugno 1985, n. 350, di attuazione della prima direttiva in materia (dir. 77/780/Cee) – segna infatti l’avvio di una fase di privatizzazione e di liberalizzazione dei mercati, che supera la lunga fase precedente della “pietrificazione” del sistema, come si era detto allora (Amato), poi compiutasi con la consolidazione normativa nel testo unico bancario del 1993 (d.PR 1 settembre 1993, n. 385), e caratterizzata innanzitutto dall’affermazione del carattere di atto dovuto dell’autorizzazione a svolgere l’attività bancaria (sussistendone i requisiti di legge), dall’abbandono del carattere discrezionale (sulla base di considerazioni macroeconomiche) che l’autorizzazione rivestiva sotto la legge bancaria, e dalla de-funzionalizzazione dell’impresa bancaria rispetto agli obiettivi di politica economica del Governo.

È altresì ben noto che nel precedente regime, per un lungo tratto, l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali e l’apertura di nuovi sportelli per quelle preesistenti avevano formato oggetto di gravi restrizioni fino a un vero e proprio blocco delle autorizzazioni disposto dalle Autorità di vigilanza, e che solo sulla spinta dell’introduzione al livello europeo del principio del mutuo riconoscimento, con la seconda direttiva in materia bancaria, e quindi della circolazione delle autorizzazioni ottenute nel paese di origine dalle imprese bancarie comunitarie, il sistema italiano è potuto finalmente passare ad una fase di liberalizzazione dei mercati, di privatizzazione degli assetti proprietari e di introduzione dei princìpi della concorrenza anche nel settore bancario, princìpi che erano invece rimasti a lungo estranei e che anzi erano apertamente ritenuti, tanto sul piano teorico che su quello politico, di ostacolo alla tutela della stabilità del sistema, poiché, si diceva, l’introduzione della concorrenza avrebbe indotto le banche ad assumere oneri sproporzionati per conquistare nuova clientela, che si sarebbero tradotti in una minore accessibilità del credito (necessariamente più costoso), nella ricerca di impieghi più rischiosi che avrebbero determinato una minore stabilità (e un aumento dei costi del credito), in una scorretta allocazione delle risorse finanziarie e quindi, in definitiva, in una più debole tutela del risparmio a causa della maggior rischiosità degli impieghi cui le banche avrebbero dovuto far ricorso per sostenere il costo della raccolta.

Nella nuova fase, il principio della concorrenza è invece entrato a pieno titolo tra i princìpi fondamentali del diritto bancario come principio di efficienza dell’impresa e del mercato, e la vigilanza in materia, prima affidata alla Banca d’Italia appunto per le connessioni che presentava con la tutela della stabilità, a partire dal 2005, superando la precedente situazione (da più parti denunciata come anomala e sostanzialmente “protezionistica”), è ora affidata all’Agcm (con la cd. legge di tutela del risparmio 28 dicembre 2005, n. 262, art. 19, co. 11).

È innanzitutto in ragione di tali processi di riconfigurazione, impostati nei lineamenti fondamentali tra il 1985 e il 1993, che si è affermata anche nel settore bancario, parallelamente all’affermarsi della legislazione consumeristica, l’esigenza di disciplinare sotto il profilo della ‘trasparenza’ contrattuale l’attività di impresa delle banche.

Mentre si individua nella trasparenza contrattuale un ulteriore presidio per la concorrenzialità (e quindi anche per la stabilità) del sistema (nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia per l’esercizio 2007, Roma, 2008, pp. 17-18, così si legge: «anche se i fatti degli ultimi tempi sono tornati a ricordarci che la prima difesa dei risparmiatori è la stabilità del sistema bancario, la correttezza e la trasparenza dei rapporti con i clienti costituiscono un ulteriore, fondamentale presidio; sono condizione per il pieno agire della concorrenza»), si persegue in tali termini altresì il fine, per un verso, di ottenere un più equilibrato assetto contrattuale tra gli intermediari e i clienti, e, per altro verso, di contribuire alla conformazione del mercato bancario (impostato sulle nuove basi concorrenziali) con una normativa di trasparenza che assurge a valore a sé stante dell’ordinamento bancario, riportando gli obblighi di trasparenza innanzitutto a una questione «non di equilibrio o non solo di equilibrio, ma di efficienza dell’impresa» (Mucciarone), o in termini più comprensivi e generali, prendendo a prestito l’espressione che la legge impiega nel settore contiguo dell’intermediazione finanziaria, all’«integrità dei mercati» (Zoppini, 2011; Mirone, 2014, p. 395).

Il testo vigente dell’art. 127 Tub prevede, d’altra parte, che le Autorità creditizie esercitino i poteri previsti dal Titolo VI, dedicato alla trasparenza, «avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell'articolo 5», vale a dire alle esigenze di «sana e prudente gestione», di «stabilità complessiva», «efficienza» e «competitività del sistema», altresì «alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela» (la nozione di cliente esclude le banche e le società finanziarie, e si articola poi in diversificati sistemi di tutela nelle diverse aree in cui si suddivide la disciplina) e che «a questi fini la Banca dItalia, in conformità delle deliberazioni del Cicr, può dettare anche disposizioni in materia di organizzazione e controlli interni».

Nel sistema previgente, in cui l’attività bancaria era posta a tutela di interessi pubblici e governata dal principio dell’impresa-funzione, si può capire che la tutela del cliente, nella prospettiva pubblicistica della vigilanza, fosse assorbita dalla tutela della stabilità e dalla tutela oggettiva del risparmio (Zoppini, 2011) e chiarire che quindi «una linea di politica del diritto ispirata a una programmazione organica dell’economia e in cui l’iniziativa pubblica è molto rilevante, tende a velare, come di fatto sembra essere avvenuto, l’esigenza della tutela diretta del consumatore» (Nicolussi), giacché le condizioni vessatorie e la concertazione contrattuale, pur se di incerta legittimità, conducono comunque ad un rafforzamento delle imprese bancarie e quindi alla loro stabilità, con il che, fino a quando le imprese hanno operato «in regime di oligopolio territoriale, con limitazioni anche per quanto riguarda il numero e la localizzazione degli sportelli, si può comprendere che il sistema non si preoccupi di assicurare la libertà di scelta dei terzi contraenti» (Salanitro).

Ma con ciò non può certamente ignorarsi che nel sistema previgente la tutela della clientela finiva per risultare, anche sulla base di quella che forse può considerarsi una malintesa deriva del principio di stabilità, del tutto assente, e che gli strumenti di razionalizzazione e di organizzazione del mercato bancario non fossero rivolti, né direttamente né indirettamente, alla tutela contrattuale dei clienti, ma semmai a creare le condizioni di stabilità e di affidabilità che avrebbero consentito di realizzare l’imperativo costituzionale della tutela del risparmio e della promozione del credito (art. 47 Cost.). Ma il perseguimento con queste modalità di tali obiettivi, come nel tempo si è potuto ampiamente constatare, si traduceva, al contrario, in un formidabile incentivo all’inefficienza delle imprese (tra altri, v. ad es. Dolmetta, 2013, p. 3 ss.), che finiva invece per frustrare gli stessi obiettivi di stabilità e di tutela del risparmio cui sarebbero dovuti risultare strumentali.

La clientela si trovava di fronte ad un sistema di straordinaria opacità: si pensi ancora e per fare un solo esempio alla clausola di determinazione degli interessi per relationem al cd. “uso piazza”, che fino al 1992 costituiva la regola nei rapporti bancari (e introduceva di fatto un illimitato potere di modificazione unilaterale in capo alla banca), ma che di fatto è rimasto in vigore nei rapporti bancari assai più a lungo, ovvero alla prassi dei giorni-valuta il cui superamento è iniziato con la legge sulla trasparenza e si è concluso con la nuova disciplina dei pagamenti, o ancora alla circostanza che è stata necessaria una norma di legge per imporre l’obbligo di consegna di un esemplare del contratto al cliente.

Ora, se l’originario disegno del sistema della trasparenza era certamente funzionale all’introduzione del principio di concorrenza anche all’interno del settore bancario e quindi alla ricerca di un più soddisfacente quadro di efficienza nella gestione dell’attività di impresa e di relazioni con la clientela, oggi, con la nuova formulazione dell’art. 127, cui si è già fatto riferimento, può dirsi che la trasparenza (con il suo implicito riferimento all’equilibrio delle relazioni contrattuali) sia divenuto un valore in sé. L’Autorità di vigilanza nell’esercizio dei poteri previsti nel Titolo VI del Tub, oltre a quelli previsti nell’art. 5, e cioè alle esigenze di «sana e prudente gestione», di «stabilità complessiva», «efficienza» e «competitività del sistema», deve ispirarsi altresì «alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela», anche nel dettare«disposizioni in materia di organizzazione e controlli interni», benché sia ancora discusso se tale norma debba essere intesa, come a me sembrerebbe di dover concludere, in termini di riconosciuta autonomia del “valore” della trasparenza rispetto a quello dell’efficienza dell’impresa e del mercato concorrenziale (così Nigro, 2011, p. 31), ovvero se la trasparenza debba essere considerata ancora e sempre una funzione ausiliare di quest’ultima, come ritiene invece altra dottrina bancaristica (in questo senso, ad es., Mirone, 2014).

A me pare che anche la disciplina di trasparenza emanata dalla Banca d’Italia (sez. I, Disposizioni generali, par. 1.2, Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti, del 29 luglio 2009 e s.m.i.), sulla scorta delle disposizioni di legge, sia poi molto chiara nell’individuare l’autonomia della nozione di trasparenza, e allo stesso tempo nell’individuarne il contenuto sostanziale in termini che vanno al di là della nozione più restrittiva (che quasi la esaurisce sostanzialmente nei precetti, che ormai invero possono considerarsi davvero elementarissimi, di chiarezza e di completezza dell’informazione e nei diversi vincoli di forma in cui tali obblighi si articolano, ma sull’intreccio tra i due significati di ‘trasparenza’ tornerò brevemente tra poco) quando afferma bensì che «le informazioni previste ai sensi delle presenti disposizioni sono rese alla clientela in modo corretto, chiaro ed esauriente nonché adeguato alla forma di comunicazione utilizzata e alle caratteristiche dei servizi e della clientela», ma altresì che «in applicazione del principio di proporzionalità, la disciplina si articola secondo modalità differenziate in relazione alle esigenze delle diverse fasce di clientela e alle caratteristiche dei servizi», e che «la disciplina sulla trasparenza presuppone che le relazioni d’affari siano improntate a criteri di buona fede e correttezza» (sez. I, Disposizioni generali, par. 1.2, Principi generali).

4. Diversi significati del termine trasparenza. Oltre la trasparenza

Findagli esordi della disciplina della trasparenza bancaria l’accento dei commentatori è stato messo sulle diverse funzioni che tale normativa era intesa a perseguire, funzioni di informazione della clientela, di razionalizzazione dell’offerta, di efficientizzazione dell’attività di impresa, di confrontabilità dei prodotti bancari (che, poi, in larga misura, anche se non in modo completo come avviene tipicamente nell’assicurazione, coincidono con i contratti, piuttosto che riferirsi a ‘beni della vita’ ad essi esterni) nelle diverse offerte di mercato, ma è nel prosieguo del tempo e alla luce dell’evoluzione del sistema normativo di cui si è fatto cenno che l’interprete si pone espressamente di fronte all’interrogativo dei percorsi da definire ‘oltre’ la trasparenza, per la realizzazione degli scopi segnati dall’art. 127 Tub (in forma interrogativa, così s’intitolava infatti il Convegno promosso nell’ottobre 2010 dall’Associazione europea per il diritto bancario e finanziario).

L’espressione “trasparenza”, che è un’espressione comune tanto ai settori regolati quanto alla più generale disciplina dei rapporti con i consumatori, assume, come pure è noto, diversi significati.

In linea generale con l’espressione trasparenza ci si riferisce in senso proprio alla chiarezza e comprensibilità nella redazione del contratto (art. 35, 1° co., c.cons.), ma l’espressione si estende a contemplare, in termini già più lati, altri vincoli di forma (i vincoli di forma in senso proprio e i c.d. vincoli di forma-contenuto) e gli obblighi di comportamento (obblighi di informazione, di avviso, di salvaguardia).

Ma con l’espressione trasparenza contrattuale si fa anche riferimento, in termini ancor più estesi, all’intero complesso della disciplina della correttezza nei rapporti contrattuali con la clientela, e in proposito il Titolo VI e le Disposizioni della Banca d’Italia appaiono espliciti. In questo senso, con l’espressione trasparenza ci si riferisce direttamente anche al controllo del contenuto del contratto e alle misure di riequilibrio delle asimmetrie non solo di informazione ma anche di posizione, di potere contrattuale, di obblighi e diritti dal contratto scaturenti.

In altre parole non si dà trasparenza in termini di sola informazione, secondo l’idea di fondo che tutto sommato è passata nella percezione generale (Porzio) dell’idea di trasparenza contrattuale, ma essa deve estendersi altresì alla valutazione dei contenuti, e così del discorso della trasparenza contrattuale fa parte anche il sindacato che la legge e la disciplina secondaria introducono in termini di misure organizzative dell’impresa e di contenuti normativi (disciplinari) e altresì economici del contratto, come è chiaro se solo si considera la disciplina dell’usura, quella dell’anatocismo, quella delle commissioni di massimo scoperto, e poi delle commissioni di disponibilità fondi, di cui il legislatore fissa anche l’importo percentuale massimo ammesso.

Peraltro, è anche sul terreno più elementare della trasparenza, intesa quindi come insieme degli obblighi di informazione e di forma finalizzati alla razionalizzazione della disciplina del rapporto e alla confrontabilità delle offerte sul mercato, che negli anni più recenti si è assistito ad una parziale ridefinizione degli strumenti impiegati, sia nella direzione della acquisita consapevolezza dell’insufficienza dell’informazione, sia nella direzione del riconoscimento della reciproca influenza e necessaria complementarietà tra le misure di trasparenza in senso stretto e le misure di riequilibrio.

Se, infatti, la prima generazione di norme sulla trasparenza aveva comportato (e tuttora comporta) la produzione di una enorme quantità di materiali informativi, in epoca più recente, acquisito il carattere controeffettivo di simili apparati di regole, che producono un eccesso di informazione senza corrispondenti risultati vantaggiosi per il cliente (benché ritenga anche io che non si debba del tutto svalutarne in significato: v. in termini di rivalutazione dei requisiti formali Mirone, 2014; Rufini), che finisce per imporre costi transattivi (e di produzione) spesso inutili nella prospettiva della tutela del cliente, si è in parte seguita la strada della semplificazione informativa.

Oggi è consapevolezza diffusa, maturata sulla base degli studi sulla limitata razionalità del consumatore in chiave di economia comportamentale che in definitiva hanno rinnovato la consapevolezza del giurista secondo cui il cliente «è per definizione un uomo che ha fretta», che quindi non ha tempo di leggere i fogli informativi e lo stesso contratto (e d’altra parte se lo leggesse spesso non lo capirebbe, e se lo capisse verosimilmente non sarebbe in condizioni di ottenerne una modifica o comunque di sottoporlo a negoziazione, come ci viene ricordato riprendendo le parole di rara concretezza ed efficacia del giurista inglese), consapevolezza, si diceva, innanzitutto dell’insufficienza dell’informazione al fine di ripristinare l’equilibrio delle asimmetrie, e anche solo delle asimmetrie informative che corrono tra le parti, giustificando così, anche su questo primo terreno, l’introduzione di misure di controllo e di riequilibrio ulteriori (Gabrielli), ma altresì della necessità di rielaborare la teoria degli obblighi informativi nel senso della semplificazione, della mediazione delle informazioni al consumatore o al cliente al fine di consentire a quest’ultimo la percezione non tanto dei dati di fatto che si tratta di comunicare, quanto del loro significato in termini di valutazione del prodotto (e in questo senso si discorre di verifica dell’adeguatezza dei prodotti proposti al consumatore e di ampliamento della disciplina della trasparenza fino a comprendervi un vero e proprio obbligo di “assistenza” e “consulenza” da parte del professionista) e del prezzo del prodotto.

Alla prospettiva appena ricordata, si affianca poi l’esigenza di introdurre misure positive di semplificazione dell’informazione da trasmettere al consumatore o al cliente, come accade in ambito di intermediazione finanziaria nella disciplina del prospetto, ove si è rilevato che «il prospetto informativo ... non si è dimostrato un mezzo idoneo a fornire una risposta efficace al bisogno di conoscenza. Un eccesso di informazioni equivale quasi sempre a una carenza di informazioni ... Consob è stata fra le poche autorità europee a richiedere l’inserimento, nelle pagine iniziali dei prospetti, di uno specifico paragrafo, denominato “avvertenze per l’investitore”, che contiene una descrizione sintetica dei principali rischi legati all’investimento».

Una simile tendenza si manifesta nella recente risistemazione della materia dell’informazione in campo bancario.

Si pensi alla specificazione dell’obbligo di divulgazione delle condizioni contrattuali nelle filiali mediante pubblicazione di «fogli informativi» sull’«intermediario, sulle condizioni e sulle principali caratteristiche dell’operazione o del servizio» (Disposizioni, sez. II, par. 3), informazioni che sebbene possano essere predisposte in termini da rendere improbabile la difformità a svantaggio del cliente (che è espressamente vietata), determinandole in termini molto elevati, d’altra parte possono formare oggetto di divulgazione altresì da parte di terzi, anche mediante confronto con quelli di altre imprese bancarie e di conseguenza nuocere alla posizione di mercato della banca (Mirone).

Si pensi, poi, alla predisposizione di un documento di sintesi che deve essere allegato al contratto, di cui forma parte integrante solo in caso di accordo in tal senso tra le parti (Disposizioni, sez. II, par. 7), il che dovrebbe anche significare che il difetto di specifiche indicazioni previste tassativamente nel contratto, e quindi l’applicazione in difetto dei criteri suppletivi previsti dalla legge (art. 117, co. 7 Tub), non può, in difetto di specifico accordo in tal senso, essere colmato facendo ricorso al documento di sintesi (come talora invece accade nella giurisprudenza dell’Abf).

Si pensi, ancora, alla redazione delle “guide pratiche” che gli intermediari «mettono a disposizione della clientela» in materia anche di conti correnti «offerti ai consumatori» e di meccanismi di definizione stragiudiziale delle controversie oltre che di credito e di credito immobiliare ai consumatori (Disposizioni, sez. II, par. 2), all’obbligo di consegna di una copia del contratto «prima della conclusione» (Disposizioni, sez. II, par. 6), e così alla necessaria predisposizione di documenti informativi sintetici armonizzati su scala europea in materia di credito al consumo, come il modulo denominato “Informazioni europee di base relative al credito ai consumatori”, nonché l’estensione dell’”indicatore sintetico di costo” anche al di fuori del credito al consumo (art. 116, co. 1-bis, Tub).

Ma su questa linea è sembrato che il legislatore abbia talvolta spinto gli obblighi dell’intermediario sulla strada di un vero e proprio paternalismo, prevedendo una forma di consulenza sull’adeguatezza dello strumento contrattuale ai bisogni del cliente.

A tal proposito vengono richiamati l’art. 124, co. 5, Tub, ove si contempla l’obbligo del finanziatore di fornire al consumatore adeguati chiarimenti affinché possa valutare se il contratto di credito sia adatto alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria, e oggi l’art. 120-novies, co. 2, laddove prevede che l’intermediario fornisca al consumatore «le informazioni personalizzate necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato, valutarne le implicazioni e prendere una decisione informata», così come la sez., XI n. 2 delle Disposizioni, laddove si prevede che l’intermediario adotti procedure interne volte ad assicurare che «il cliente non sia indirizzato verso prodotti evidentemente inadatti rispetto alle proprie esigenze finanziarie».

In questa direzione possono valorizzarsi anche le modalità e i termini della verifica del merito creditizio prevista dall’art. 124-bis Tub e ora anche dall’art. 120-undecies Tub in materia di credito immobiliare, due disposizioni che, se non le si vogliono considerare un’inutile reiterazione di un precetto generale dell’attività bancaria di erogazione del credito, devono essere intese in termini di obbligo contrattuale, rivolto quindi alla controparte e non già alla «sana e prudente gestione». Se è così, allora la valutazione del merito creditizio va al di là della normale verifica che l’impresa bancaria deve sempre compiere prima di procedere all’erogazione estendendosi all’obbligo di assicurare un’erogazione (e, correlativamente, un’assunzione) responsabile del credito rivolta a prevenire situazioni di sovraindebitamento.

In questo senso l’art. 124-bis viene considerato in dottrina (ad es. Nigro 2011), anche in relazione alla disciplina delle direttive di cui è attuazione, e in particolare al considerando n. 26 (con rilievi che trovano più ampia conferma nel considerando n. 29 della dir. 2014/17 sul credito immobiliare ai consumatori), nella riflessione sullo sviluppo di obblighi di vera e propria consulenza incidentale a carico dell’intermediario, ed è quindi inteso come norma avente «rilievo negoziale» e civilistico (Dolmetta 2013, pp. 131 ss.), che entra a far parte del «contenuto dell’obbligazione privatistica» (Sirena, 2016, p. 233).

La prospettiva degli obblighi di assistenza o di consulenza nella individuazione del prodotto adeguato, adatto alle esigenze del cliente, apre quindi, come ancora si osserva in dottrina (Nigro, 2011), due scenari estremamente delicati: in primo luogo la costruzione del conseguente obbligo di astensione dell’intermediario in caso di inadeguatezza. Su questo tema può osservarsi che la riformata disciplina degli intermediari finanziari, pur rendendola inderogabile, ha ridotto l’ambito degli obblighi di astensione dell’intermediario al solo caso della consulenza e della gestione di portafogli. In precedenza, invece, la corrispondente previsione aveva carattere di generalità, per il caso in cui il cliente non fornisse le informazioni necessarie a valutare l’adeguatezza del prodotto o per l’evenienza che dalle informazioni fornite il prodotto risultasse inadeguato. Oggi, nei servizi diversi dalla consulenza e dalla gestione, l’intermediario può limitarsi a vagliare l’appropriatezza dell’investimento richiedendo al cliente le relative informazioni e informandolo dell’eventuale inappropriatezza (anche a mezzo di moduli standardizzati), senza che siano necessarie cautele ulteriori (e neppure questa disciplina si applica, poi, alla mera esecuzione per conto dei clienti o alla ricezione e trasmissione di ordini ricorrendo le condizioni previste dal Regolamento intermediari).

In secondo luogo, dalla prospettiva degli obblighi di “assistenza” e di “consulenza”, si apre il problema della responsabilità della banca che, in violazione dell’obbligo così individuato, abbia fatto acquistare al cliente un prodotto bancario non adatto alle sue esigenze, non adeguato.

Come è noto, il problema della responsabilità della banca per violazione dell’obbligo di erogazione “prudente” o “responsabile” del credito è un problema (collegato al divieto di concessione abusiva) che si è posto soprattutto nei confronti dei terzi che abbiano subìto un danno a causa dell’artificioso mantenimento in vita, appunto in virtù del credito indebitamente somministrato, dell’impresa in crisi. Mentre nella prospettiva che è ora in esame, il tema della responsabilità si pone in termini ancor più delicati, quelli della responsabilità della banca da illegittima concessione del credito nei confronti dello stesso prenditore, dato che alla luce della disciplina più recente si tende oggi a ritenere in letteratura la sussistenza di un vero e proprio obbligo di assistenza da parte del banchiere nei confronti del contraente (del solo contraente consumatore, cui si rivolgono espressamente le norme in esame sulla base della giustificazione della più agevole ponderabilità dell’accesso al credito per il cliente professionale).

Pur non conducendo ad un divieto di concludere l’operazione in caso di sua inadeguatezza, essendo l’ultima parola rimessa al cliente, può allora determinarsi (non già una nullità, non espressamente prevista, ma) una responsabilità del banchiere inaccorto, responsabilità che è rivolta a far fronte alle conseguenze pregiudizievoli che dalla successiva difficoltà di gestire il prodotto creditizio derivano in capo al consumatore stesso (inclusi, quindi, i pregiudizi determinati dalla conseguente qualificazione di “cattivo pagatore”), costituendo così, ove si ritenga di poter aderire a una simile prospettiva, un esempio quasi paradigmatico di intervento e di obbligazione paternalistica da parte del legislatore e in capo all’impresa bancaria, di cui si dovrebbe forse approfondire, tra l’altro, la capacità di determinare una contrazione delle erogazioni anche al di là della selezione creditizia richiesta dalla norma.

Due ulteriori prospettive devono essere qui registrate nella disciplina della trasparenza (in senso ampio), in quanto capaci di superare l’idea diffusa della trasparenza come mero sistema di informazioni e di formalità da rendere al cliente, di cui si è già accennata l’ineffettività.

La prima riguarda l’obbligo del banchiere di adottare determinate misure organizzative affinché al cliente vengano resi quei servizi di ragionevole consulenza non solo sull’effettivo significato del prodotto proposto ed eventualmente acquistato, e sulla sua adeguatezza alla situazione del cliente e ai suoi bisogni finanziari (anche qui la realtà supera sempre la fantasia, ed è sufficiente una scorsa alla casistica proposta dall’esperienza giurisprudenziale e a maggior ragione da quella più capillare ed immediata dell’Arbitro bancario e finanziario per rendersene conto: si pensi al caso della banca che propone a una coppia di pensionati l’apertura di credito garantita da titoli, e resta poi del tutto inerte al momento della scadenza dei titoli, quando il capitale investito si trasforma in pura liquidità a fronte della quale la sussistenza del prodotto finanziario “apertura di credito” diventa vieppiù incomprensibile, come i costi che questo meccanismo determina: è il caso deciso da Abf Milano n. 1272/2011, riportato da Dolmetta 2013, p. 126 nt. 13). È nei termini della prospettiva così delineata che la dottrina si chiede se sia configurabile la responsabilità della banca nei confronti del cliente, e una pretesa azionabile da quest’ultimo anche nelle forme delle azioni collettive ed esponenziali previste nell’ordinamento, per la mancata adozione di tali misure (Nigro, 2011).

La seconda invece concerne la stessa incidenza della disciplina di trasparenza e di riequilibrio delle relazioni banca-cliente sulla sana e prudente gestione (art. 5 Tub) cui si deve informare l’attività bancaria. Nella misura, infatti, in cui alla disciplina della trasparenza si riconosce, come dai più viene riconosciuta, la funzione di perseguire l’obiettivo «per il medio del cliente» dell’efficienza dell’attività bancaria (Dolmetta, Mucciarone), o dell’integrità dei mercati bancari e finanziari (Zoppini, 2011; Mirone, 2014), le pretese inerenti la trasparenza e l’equilibrio divengono anche pretese rivolte a sindacare le modalità di gestione delle risorse e di allocazione del credito (v., per uno spunto in tal senso, Dolmetta, 2011, p. 62).

5. Le ipotesi di disciplina dell’equilibrio accanto a quella della trasparenza

La trasparenza (intesa come trasparenza informativa, i.e.: obblighi di chiarezza, obblighi di informazione, obblighi di forma e di forma-contenuto) è strettamente intrecciata, e talvolta è complementare o strumentale all’equilibrio contrattuale.

Essa serve in primo luogo a ridurre gli effetti negativi delle asimmetrie informative, a favorire una scelta informata e ponderata da parte del cliente, a razionalizzare le offerte del professionista sul mercato e a favorirne la confrontabilità anche attraverso apparati informativi semplificati e omogenei rispetto ai quali agli operatori è fatto obbligo di adeguamento.

Tuttavia, come si è già notato in via generale, la trasparenza informativa di per sé non appare capace di mitigare le asimmetrie del rapporto banca-cliente, e per la verità neppure le asimmetrie specificamente informative. Si è già ricordata la tendenza a rivedere la versione solo “informativa” della trasparenza sulla base del conseguito convincimento che un eccesso di informazioni equivale a nessuna informazione, della relativa incapacità o impossibilità del cliente di recepire e di elaborare le informazioni che gli vengano trasmesse, del carattere spesso puramente virtuale (e in definitiva “burocratico”) del processo informativo.

In questo senso, ma per la verità non solo in questo, la disciplina della trasparenza informativa non è, fin dal momento della sua introduzione, autosufficiente, donde l’attenzione del legislatore (e degli interpreti) anche per la dimensione del riequilibrio delle relazioni contrattuali tra banche e clienti, che sia idonea a mitigare il tante volte additato “strapotere” delle banche nella relazione contrattuale, la particolarità dei prodotti bancari e finanziari in termini di informazione (l’idea che si tratti cioè di experience goods, o anche di credence goods, cioè di prodotti la cui adeguatezza e la cui qualità non può essere valutata che con l’esperienza, quindi a posteriori, e talvolta, come quando si tratta di effetti a medio o lungo termine o di effetti suscettibili di essere apprezzati solo sulla base di dispendiosi confronti ed elaborazioni di dati, neppure con quella, e quindi sulla base della sola fiducia corrente con l’intermediario).

Non è certamente casuale che i profili del riequilibrio siano quelli più ampiamente toccati nell’esperienza pratica, nella continua tensione legislativa, nelle riflessioni dottrinali.

Si pensi al tema dell’anatocismo bancario, toccato di recente da continui interventi normativi (che finiscono sempre per dover fare i conti con la circostanza, messa in luce, tra altre, da Ferro-Luzzi, che quanto viene maturato a titolo di interessi deve pure, a un dato momento, divenire esigibile e quindi o essere pagato o essere preteso, e come tale essere, sempre, “capitalizzato”).

Si pensi poi alla materia delle commissioni in generale e della commissione di massimo scoperto in particolare, che in sostanza rappresentava una voce aggiuntiva di remunerazione del fido, capace di sollevare riserve in punto di validità, e anche di acausalità dell’attribuzione (su questo v. ad es. Dolmetta), oggi come noto “sostituita” da una commissione di “messa a disposizione dei fondi” (da taluno definita come un «oggetto misterioso»: Sciarrone Alibrandi) di cui il legislatore fissa anche l’ammontare massimo (del che si sospetta l’illegittimità: Mirone), provocando verosimilmente anche effetti anticoncorreziali (Mucciarone).

Si pensi inoltre al tema delle spese e delle commissioni, su cui tornerò anche più avanti, che rappresenta un altro terreno di elezione del rapporto tra forma e sostanza dei rapporti banca cliente, terreno sul quale i passi avanti compiuti in venticinque anni di trasparenza bancaria non sembrano molto convincenti, se si considera l’indistinzione di remunerazioni e spese che spesso è propria delle operazioni e dei servizi bancari, e l’assoluta mancanza di informazioni cui si accompagna la relativa annotazione (e su questo terreno il legislatore è dovuto intervenire più volte di recente per specificare che in determinate circostanze, ferma restando la gratuità per il cliente ad es. dell’estinzione del rapporto, possono eventualmente addebitarsi solo le spese, purché tali spese corrispondano a quelle effettivamente sostenute dalla banca nella specifica situazione, ovvero nell’introdurre la cd. “commissione di istruttoria veloce”, che deve corrispondere ai costi effettivamente, e sia pure mediamente, sopportati, costi che tuttavia, per il carattere bagatellare delle relative questioni al livello individuale, ben difficilmente troveranno occasione di essere verificati e sindacati).

Si pensi all’usura, che rappresenta un settore in cui la confusione mi pare direttamente proporzionale all’incidenza sulla sostanza del rapporto, ma rispetto alla quale si dovrebbero meglio delineare, anche in giurisprudenza, i confini: essendo (o dovendo essere) chiaro che l’usura ha a che fare (solo) con i corrispettivi (e pertanto certamente non con gli interessi moratori, nonostante le diverse prese di posizione della giurisprudenza, né con le penali, come correttamente ritenuto, questa volta, dalla prevalente giurisprudenza) e che l’usura cd. in astratto non si applica al di fuori dei rapporti di mercato (trattandosi di una disciplina rivolta a regolare, appunto, il mercato del credito), mentre nei rapporti occasionali si deve far riferimento alla sola usura in concreto, che del resto caratterizza di per sé gli ambiti più propriamente “criminali” dell’usura (v. in questa direzione Ferro-Luzzi, 2011, Barenghi; diversamente, ad es., Mucciarone) e che una disciplina dell’usura in astratto come provvedimento di ‘calmiere’, sia pure autoreferenziale del mercato fosse non solo utile ma indispensabile può forse giudicarsi facendo riferimento a certe decisioni della Corte europea in casi di credito al consumo che presentano tassi effettivi superiori al 50% annuo (è il caso Pereničová, cit. infra).

Ma si pensi anche, quale ulteriore evenienza in cui si verifica un’interferenza tra trasparenza ed equilibrio, ai casi in cui, nella disciplina generale, il regime della trasparenza in senso stretto (nel senso di chiarezza e comprensibilità delle clausole e delle informazioni) si trasforma, sotto il profilo dei rimedi, in misura di controllo e di limitazione del contenuto degli atti di autonomia privata. Sotto un primo profilo occorre ricordare che secondo la giurisprudenza europea, la trasparenza obbliga quindi il predisponente a rendere edotta la controparte della portata, diretta e indiretta, dei diritti e degli obblighi assunti e sul piano strettamente giuridico e dal punto di vista economico: l’obbligo di chiarezza e di comprensibilità non si limita infatti al significato letterale e grammaticale del testo ma si estende al suo significato economico e giuridico, mentre per altro verso si sottolinea, sempre da parte della Corte di giustizia, che il controllo contenutistico si giustifica ogni qual volta la clausola non sia indispensabile ai fini della determinatezza o determinabilità del contenuto contrattuale (quindi la clausola è soggetta a sindacato quando, anche senza di essa, il contratto non sarebbe nullo), mentre il sindacato è da escludere solo per le clausole che «fissano le prestazioni essenziali dello stesso contratto e che, come tali, lo caratterizzano» ovvero che determinano la remunerazione del professionista («in quanto corrispettivo di una prestazione effettuata» dal professionista) per cui «non esiste nessun tariffario o criterio giuridico che possa inquadrare ed orientare un controllo siffatto» (Corte giust., 30 aprile 2014, in causa C-26/13, Kásler e Rábal).

Mi sembra che quelle qui sopra indicate siano tutte evenienze particolarmente chiare del legame sempre più complesso e profondo che si verifica tra intrasparenza e squilibrio.

6. Dove la trasparenza informativa non è sufficiente: il caso dei costi di distribuzione dei finanziamenti contro cessione del quinto

Un caso paradigmatico può essere assunto a modello delle ipotesi (che sono poi, spesso, ipotesi da perseguire applicando la disciplina delle pratiche commerciali scorrette) in cui la trasparenza, intesa come trasparenza formale, trasparenza informativa, quindi intesa nel senso di quella che è stata, almeno inizialmente, la principale funzione della trasparenza in seguito alla liberalizzazione/privatizzazione del settore, appare ancora deficitaria e in effetti incapace di incidere sull’effettivo squilibrio che si determina nei rapporti creditizi e che la reale configurazione del mercato (oltretutto in un settore che si rivolge a fasce particolarmente esposte della popolazione) alimenta piuttosto che mitigare.

Come è noto, l’art. 125-sexies prevede, in caso di estinzione anticipata del finanziamento, che il finanziatore abbia diritto a un equo compenso strettamente giustificato per i costi direttamente proporzionali all’estinzione anticipata del rapporto (che non sia superiore allo 0,5% del residuo per i contratti la cui vita residua sia inferiore a un anno e all’1% del residuo per gli altri contratti: e si è notato in dottrina, da parte ad es. di Mucciarone, come la fissazione di un massimale finisca per produrre un allineamento delle imprese e quindi per limitare gli effetti concorrenziali), e d’altra parte che al consumatore debba esser garantita una riduzione del costo totale del credito (interessi e altri oneri), proporzionale alla vita residua del contratto.

Dal principio di trasparenza deriva, d’altra parte, l’obbligo di chiarire nel contratto, con criteri rigorosi e ragionevoli, quali costi siano da qualificare come non ripetibili (cd. “up-front”) e quali debbano invece imputarsi ad un meccanismo di maturazione progressiva e siano come tali suscettibili di restituzione parziale in caso di estinzione anticipata (cd. “recurring”).

Il principio è stato espressamente chiarito nelle comunicazioni della Banca d’Italia del 10 novembre 2009 (Cessione del quinto dello stipendio e operazioni assimilate: cautele e indirizzi per gli operatori) e del 7 aprile 2011 (Cessione del quinto dello stipendio o della pensione e operazioni assimilate. Comunicazione), nelle quali, con riferimento alla «difficoltà, talvolta [al]l’impossibilità, per il cliente, di individuare quali oneri debbano essere rimborsati in caso di estinzione anticipata della cessione» determinata dalla «prassi, seguita dagli intermediari, di indicare cumulativamente, nei contratti e nei fogli informativi, l’importo di generiche spese, non consentendo quindi una chiara individuazione degli oneri maturati e di quelli non maturati», si legge, tra l’altro, quanto segue: «onde evitare la mancata conoscenza da parte del cliente del diritto alla restituzione delle somme dovute in caso di estinzione anticipata e la concreta applicazione di tale principio, si richiama l’attenzione a uno scrupoloso rispetto della normativa di trasparenza. In tale ambito è necessario che nei fogli informativi e nei contratti di finanziamento sia riportata una chiara indicazione delle diverse componenti di costo per la clientela, enucleando in particolare quelle soggette a maturazione nel corso del tempo» (Comunicazione del 10 novembre 2009), invitandosi quindi gli intermediari a «definire criteri rigorosi, legati a una stima ragionevole dei costi, per individuare eventuali somme da rimborsare ai clienti che abbiano in passato estinto anticipatamente le operazioni, valutando l’opportunità di utilizzare procedure informatiche per calcolare prontamente il quantum dovuto» (Comunicazione del 7 aprile 2011), con indicazioni poi ribadite, quanto ai costi assicurativi, nei regolamenti Isvap n. 35 del 26 maggio 2012 e n. 40 del 3 maggio 2012.

La consolidata giurisprudenza Abf afferma il carattere sostanzialmente ricognitivo delle norme in materia di rimborso degli oneri pagati anticipatamente e non espressamente riferiti a prestazioni esauritesi al momento della stipulazione (V. Abf Napoli nn. 2473/2011, 3195/2012, 2466/2011, tutte di Manzione); il rimborso parziale, pur se intervenuto in conformità con criteri ritenuti ragionevoli dall’intermediario (incluso il rimborso fondato sullo stesso criterio dell’ammortamento del debito, trattandosi di costi e non di interessi), ove tali criteri non siano stati chiariti ex ante, non è ritenuto idoneo a soddisfare l’obbligo restitutorio che insorge in base ai criteri generali (Abf coord., n. 6167/2014, Gambaro); delle somme versate a titolo di premio assicurativo per la stipulazione di polizze connesse al rischio del credito, in difetto di criteri di calcolo indicati nella documentazione contrattuale in conformità delle disposizioni sopra richiamate, risponde anche l’intermediario finanziario in caso di collegamento negoziale tra il contratto di finanziamento e la polizza assicurativa (ad es.: Abf Napoli, nn. 2441/2012, Manzione), legittimazione che non può ritenersi esclusa neppure dalla disposizione dell’art. 22 l. 221/2012, laddove impone all’impresa assicuratrice la restituzione della parte di premio non goduto precisando i criteri cui ci si deve attenere nella relativa liquidazione.

In questo contesto, le controversie tra clienti e intermediari relative all’attività di agenti e mediatori riguardano particolarmente la nullità del contratto per difetto di forma scritta (e tale eccezione viene per lo più disattesa dall’Arbitro quando la partecipazione del terzo intermediario risulti dal contratto di finanziamento: v. al riguardo Abf Napoli, 3 novembre 2014, n. 7265, Bartolomucci: «la sottoscrizione apposta dal mediatore al contratto costituisca di per sé la prova documentale del suo intervento, peraltro sintomatica della sussistenza di un rapporto negoziale, proprio finalizzato al collocamento fuori sede del finanziamento»), e la restituzione pro rata delle commissioni versate in unica soluzione in caso di successiva estinzione anticipata del rapporto (commissioni che se riferite ad attività relative all’esecuzione del rapporto devono essere restituite secondo criteri contrattuali trasparenti o, in difetto, secondo il criterio proporzionale Abf Napoli, 5 maggio 2015, n. 3528, Barenghi).

Ora, il punto sul quale si vuol qui richiamare brevemente l’attenzione è che l’obbligo di rimborso è sottoposto ad un’articolata disciplina dalla giurisprudenza dell’Abf, che appare tuttavia fondata su elementi formali e talora puramente estrinseci che finiscono per incidere solo marginalmente sul problema e per toccarlo, per così dire, solo dall’esterno, facendo dipendere la soluzione dei casi pratici dalle espressioni usate nella redazione delle clausole, con distinzioni talora molto sottili (e non sempre coerenti con l’esigenza di chiarezza e comprensibilità da cui pure simili ragionamenti prendono le mosse). Nel torrentizio contenzioso che affluisce a tale proposito all’Abf, è infatti agevole riscontrare un significativo deficit di trasparenza, che si traduce in una grossolana indicazione dei costi e delle commissioni come delle spese su cui agevolmente la giurisprudenza dell’Abf può far leva per stigmatizzare le prassi del settore, ma altresì evidenti squilibri nella rete di commercializzazione del credito costituita da agenti e mediatori, che si traduce principalmente nella parcellizzazione e nella moltiplicazione dei costi del credito, suddivisa tra una pluralità di soggetti, spesso, questo è forse il punto su cui maggiormente si dovrebbe far leva, senza che vi sia evidenza di un’effettiva corrispondenza con attività svolte in favore del cliente (ma solo con vantaggi di posizione), con conseguente innalzamento dei costi del credito, che giungono a rappresentare percentuali molto significative del capitale finanziato.

Ciò che si vuole mettere in evidenza, è che le Comunicazioni e la giurisprudenza dell’Abf, muovendo sotto questo profilo da una concezione tutta formale della trasparenza, e tutta fondata sull’informazione, sulla chiarezza e comprensibilità delle clausole contrattuali inerenti le spese e le commissioni, finiscono per indugiare su elementi puramente estrinseci, che in effetti non appaiono in grado di tutelare effettivamente il cliente, il quale si trova esposto a modalità non ben consigliate di scelta del prodotto, alla mancanza di una idonea assistenza da parte della rete distributiva in ordine all’adeguatezza dello stesso rispetto alla sua situazione economico-finanziaria e alla stessa convenienza intrinseca dello stesso rispetto ai suoi bisogni, e per la stessa configurazione della rete distributiva e a pratiche commerciali di carattere evidentemente “aggressivo”.

Solo in taluni casi la necessità di un sindacato sostanziale, di merito, emerge anche nella giurisprudenza Abf a questo proposito. Si tratta dei casi in cui, nella prospettivarisarcitoria, emerge la contestazione della stessa legittimità delle commissioni (che finivano per apparire sostanzialmente usurarie nel complesso dell’operazione), per difetto di causa nel concreto rapporto: così quando si rileva (come accade nella decisione di Abf Napoli, 1° aprile 2015, n. 2125, Conte) che «il valore medio per i compensi di intermediazione per il periodo di riferimento si attesta al 4,24%, mentre i compensi riconosciuti nel caso di specie sono pari al 12% del capitale lordo mutuato» e che «per quanto tale misura non sia censurabile di per sé, va però rilevato che l’intervento del mediatore non si è svolto nel segno della trasparenza e della piena correttezza», il Collegio, alla luce di specifiche circostanze del caso di specie, ha allora potuto giudicare fondata la pretesa risarcitoria del cliente: «per quanto l’ordinamento giuridico non consenta alcun diretto sindacato sulla misura della provvigione riconosciuta a quest’ultimo e, segnatamente, non abbia introdotto un parametro massimo quale limite all’esercizio dei poteri di libera autodeterminazione delle parti, un costo sì elevato dell’intermediazione rispetto alla media di mercato diventa un ulteriore elemento, insieme alle circostanze documentali sopra riferite, che contribuisce a rendere censurabile l’operato degli intermediari resistenti, i quali sono responsabili della violazione degli obblighi informativi e di una condotta contraria ai doveri di trasparenza e correttezza che debbono ispirare i comportamenti degli operatori professionali nelle operazioni di finanziamento».

È chiaro che per l’Abf, attese le caratteristiche puramente documentali del giudizio e il difetto quasi assoluto di evenienze istruttorie, si tratta di un terreno difficile da intraprendere, ed è quindi proprio in simili ipotesi che l’esperienza dell’Abf deve essere accompagnata da una rilevazione delle relative problematiche a fini di vigilanza sulla correttezza degli operatori e sulle pratiche commerciali dagli stessi poste in essere (ed è, d’altra parte, evidente l’importanza di ribadire la competenza Agcm nel controllo delle relative pratiche commerciali), perché possa essere effettivamente garantita l’«integrità del mercato» del credito anche in questo settore.

Nota Bibliografica

Sulla trasparenza bancaria in generale, le più ampie e recenti trattazioni sono quelle di G. Mucciarone, La trasparenza bancaria, in Tratt. Roppo contratti, V, Mercati regolati, Giuffrè, Milano, 2014, pp. 663 ss. (ed ivi, pp. 663 s. in nota 1, una rassegna delle principali modifiche legislative e regolamentari, nonché una dettagliata e minuziosa disamina della complessa e frammentata disciplina dei singoli limiti e delle diverse misure di trasparenza, che l’A. nel complesso tende a ricondurre ad obiettivi di efficienza), e di A.A. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Zanichelli, Bologna, 2013, che propone una complessiva riformulazione della teoria dei contratti bancari nella prospettiva della trasparenza (muovendo dalla regola di correttezza e buona fede e dalla ‘regola di protezione’ che ritiene non limitata alla rilevabilità della nullità quanto espressione di un precetto di protezione complessivo, da cui trarre una clausola generale «suscettibile di applicazioni ampie e utilizzi oggi neppure prevedibili», ivi p. 44), nonché quelle contenute nei contributi ordinati da E. Capobianco (cur.), I contratti bancari, in Tratt. contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Utet, Torino, 2016 (ed ivi v. spec. E. Capobianco, Profili generali della contrattazione bancaria, p. 5 ss.; E. Caterini, La trasparenza bancaria, pp. 135 ss.; P. Sirena e D. Farace, I contratti bancari del consumatore, pp. 226 ss.); sempre di recente, v. altresì A. Mirone, Sistema e sottosistemi nella nuova disciplina della trasparenza bancaria, in Banca borsa, 2014, I, pp. 377 ss. (nonché Id., La trasparenza bancaria, Cedam, Padova, 2012), ed ivi ampia letteratura (anche economica) e riferimenti ai precedenti scritti dell’A. Per una riassuntiva e sintetica trattazione dei principali temi della trasparenza bancaria e del credito ai consumatori, sia inoltre permesso di fare riferimento al mio Diritto dei consumatori, Cedam-Wolters Kluwer, Milano, 2017, pp. 405-491. Sui contratti bancari in genere v., di recente, anche A. Sciarrone Alibrandi, I contratti bancari: nozione e fonti, in Tratt. Roppo contratti, V, Mercati regolati, cit., pp. 639 ss., con riferimenti, ove considerazioni sul rapporto tra la disciplina codicistica e quella del Titolo VI e sull’impatto (o meglio, secondo l’A., sul mancato impatto) di quest’ultima sulla stessa configurazione della categoria dei contratti bancari.

L’opinione di Ferro-Luzzi che si trattasse di una disciplina «a dispetto», ispirata ad un «intento punitivo», in cui quindi faceva premio l’effetto “annuncio”, e di carattere sostanzialmente populistico, in concreto non solo inutile ma persino dannosa (in quanto capace di innalzare i costi dell’impresa senza arrecare alcun vantaggio ai clienti), si legge, ad es., in P. Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario3, I, Parte generale, Torino, 2012, pp. 167 ss., ed è, mi pare, indicativa delle difficoltà che gran parte del mondo bancario italiano ha risentito, e tuttora risente, nel comprendere ed adeguarsi al nuovo quadro normativo.

La prospettazione di Zoppini (suggestiva, in termini prospettici, ma non convincente e mi pare isolata, pur riflettendo considerazioni emerse, in tema di riparto di competenze tra Autorità amministrative indipendenti, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, oggi peraltro superata), sul ‘particolarismo’, e sulle sue conseguenze in termini di delimitazione dei confini tra disciplina consumeristica e disciplina della trasparenza nei settori regolati, fino a trarne la conseguenza di escludere l’applicabilità in questi ultimi campi di taluni rimedi previsti in via generale nella prima (tra cui la cd. class action), si trova in A. Zoppini, Tutela dei consumatori e regole di funzionamento dei mercati. I problemi aperti, relazione al convegno Il diritto dei consumatori nella crisi e le prospettive di evoluzione del sistema di tutela, Roma, Autorità garante della concorrenza e del mercato, 29 gennaio 2010 (si legge in www.agcm.it/component/joomdoc/eventi/ventennale/VEN-0129Intervento-Zoppini.pdf/download.html), in Id., Appunti in tema di rapporti tra tutele civilistiche e disciplina della vigilanza bancaria, cit., e poi in Id., Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti ai “codici di settore” (muovendo dal confronto tra nuovo contratto e modificazione del regolamento contrattuale nel codice del consumo e nel codice delle comunicazioni elettroniche), in Judicium, 20 aprile 2015 (che si legge su www.judicium.it/sul-rapporto-di-specialita-tra-norme-appartenenti-ai-codici-di-settore-muovendo-dal-confronto-tra-nuovo-contratto-e-modificazione-del-regolamento-contrattuale-nel-codice-del-consumo). Sul tema, in termini più generali, è da leggere L. Nivarra, Al di là del particolarismo giuridico e del sistema: il diritto civile nella fase attuale dello sviluppo capitalistico, in Riv. crit. dir. priv., 2012, spec. pp. 237 ss.

Sulla “lettura” dell’ipertrofia regolativa in termini di collegamento tra disciplina della trasparenza e funzione di vigilanza v. ad es. A. Nigro, Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla “consulenza” nell’erogazione del credito?, negli atti del Convegno promosso nell’ottobre 2010 dall’Associazione europea per il diritto bancario e finanziario pubblicati in Aa.Vv., Nuove regole per le relazioni tra banche e clienti. Oltre la trasparenza?, Giappichelli, Torino, 2011, cit., pp. 29 ss., spec. pp. 30-31, ove si sottolinea che una disciplina delle relazioni tra banca e cliente che si collochi sul terreno privatistico può essere limitata all’intervento legislativo e non richiede una diffusa disciplina secondaria, quale si è andata sviluppando con il compimento delle attuali Disposizioni, pur rilevando che la conseguita autonomia della trasparenza e correttezza delle condizioni contrattuali nel testo vigente dell’art. 127 Tub elimina il rischio di una subordinazione delle ragioni della trasparenza (in senso ampio) a quelle della stabilità, secondo il modello che, come si accenna nel testo, si era realizzato nel regime previgente rispetto al processo di liberalizzazione). In questo volumetto si trovano anche, con altri contributi, i saggi di Dolmetta, Ferro-Luzzi, Nigro, Sciarrone Alibrandi e Zoppini citati nel testo.

Sul cd. paradosso della regolazione, v. ad es. V. Ricciuto, Nuove prospettive del diritto privato dell’economia, in E. Picozza e V. Ricciuto, Diritto privato dell’economia, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 259 ss., pp. 272 ss.; v. altresì, anche sulle motivazioni di tale processo, F. Denozza, Mercato, razionalità degli agenti e disciplina dei contratti, in G. Gitti et al. (curr.), I contratti per l’impresa, il Mulino, Bologna, 2012, I, pp. 69 ss., spec. p. 81: «[l]e tesi neo-liberali non rinnegano – se non su un piano di teoria astratta, praticamente del tutto irrilevante – l’idea, dominante per la maggior parte del secolo scorso, che il mercato non sia un ordine spontaneo, che si afferma naturalmente quando siano eliminati gli impedimenti al suo dispiegarsi, ma sia una costruzione artificiale che deve essere continuamente sostenuta da interventi atti a prevenirne e a rimediarne i fallimenti. La differenza rispetto alle idee dominanti nei primi decenni del secondo dopoguerra, non sta nel ripudio dell’idea che i mercati possano dover essere in qualche modo controllati, ma nell’idea di poter controllare i mercati a partire dal governo degli individui invece che dal governo dei grandi aggregati. Si passa così dal controllo sul consumo e sugli investimenti complessivi, all’intervento sui diritti del singolo consumatore e del singolo azionista, dal controllo sulla massa monetaria in circolazione, alla disciplina degli intermediari, delle banche, ecc. Non stupisce allora il fatto che osservando il complesso della legislazione si possa notare (per quanto confronti di questo genere possano avere un senso) un aumento e non una diminuzione delle regole. Da questo punto di vista – entità, estensione e complessità della regolazione – il periodo neo-liberista mostra molte più affinità con quello immediatamente precedente di quante non ne mostri con la tramandata immagine del capitalismo manchesteriano. Nessuna sorpresa quindi che l’affermazione del modo di ragionare dell’analisi economica del diritto, versione giuridicamente rigorosa delle idee neo-liberali, non si sia tradotto in un ritorno ad un sistema armonioso, ma nella creazione di un sistema enormemente frastagliato lungo le faglie segnate dalle infinite ipotesi di fallimento del mercato di volta in volta configurabili».

L’espressione di Porzio cui si fa riferimento nel testo si legge in M. Porzio, La relazione tra banca e cliente nella recente evoluzione del diritto bancario, in Nuove regole, cit., p. 21 [«se leggiamo con gli occhi di oggi, per esempio, nell’appendice al classico libro di Molle sui contratti bancari (nelle molte edizioni negli anni Cinquanta e Sessanta) le norme bancarie uniformi allora vigenti per il conto corrente di corrispondenza, rimaniamo allibiti. Non si riesce a capire come si potessero tollerare certe clausole che oggi ci sembrano assolutamente inimmaginabili»].

Sulle Norme bancarie uniformi, sul loro sviluppo e poi adeguamento ai provvedimenti antitrust e sulle modifiche successive alla inibitoria dell’uso di condizioni vessatorie, nonché sulla concorrenza nel settore bancario, v. il libro di A. Mirone, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 1 ss., pp. 291 ss. e passim, e più di recente Id., Le “fonti private” del diritto bancario: concorrenza, trasparenza e autonomia privata nella (nuova) regolamentazione dei contratti bancari, in Banca borsa, 2009, I, pp. 264 ss.; F. Longobucco, Contratti bancari e normativa antitrust, in Capobianco (cur.), op.cit., pp. 319 ss.

Sull’ammissibilità, e sui limiti di ammissibilità, di un’interpretazione analogica delle norme contenute in direttive di massima armonizzazione ho fatto riferimento a Mirone, Sistema e sottosistemi, cit., pp. 388 ss.; sul tema della perimetrazione delle aree armonizzate, al fine di individuare i termini entro i quali il legislatore può procedere all’armonizzazione, e sull’esigenza prevalente del rispetto del principio di uguaglianza-razionalità, v. Sciarrone Alibrandi, Interventi normativi sul contenuto regolamentare dei contrati bancari: il diritto di recesso e lo ius variandi, in Nuove regole, cit., pp. 71-72 e 75. Sulla tendenza delle direttive di massima armonizzazione a costituire un sotto-sistema chiuso nel quale vige il principio “ubi lex noluit, tacuit”, v. inoltre S. Pagliantini, Sub art. 67, in G. D’Amico (cur.), La riforma del codice del consumo. Commentario al d.lgs n. 21/2014, Cedam, Padova, 2015, pp. 436 ss., e, sul punto cfr. ivi lo stesso D’Amico, Introduzione, p. 27 nt. 67.

La sottolineatura dell’assorbimento della tutela della trasparenza, in un sistema regolata di oligopolio pubblico, da parte della tutela della stabilità, come pure le riflessioni riportate nel testo in ordine alla funzione di tutela della integrità dei mercati che la normativa di trasparenza deve intendersi rivolta a perseguire, si trovano in A. Zoppini, Appunti in tema di rapporti tra tutele civilistiche e disciplina della vigilanza bancaria, (in Nuove regole, cit., e) in Banca borsa, 2012, I, pp. 26 ss. Il passo citato di Nicolussi sullo stesso tema si legge in A. Nicolussi, I consumatori, in L. Nivarra (cur.), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, a p. 417. Le considerazioni di Salanitro sul punto si leggono in N. Salanitro, Evoluzione dei rapporti tra disciplina dell’impresa e disciplina dei contratti nel settore creditizio, in Banca borsa, 1992, I, pp. 597 ss., alle pp. 600-601 e 606. Il riferimento all’efficienza dell’impresa (e del mercato) come scopo della disciplina della trasparenza si trova, tra altri, in Mucciarone, La trasparenza bancaria, cit., p. 670, e in Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari, cit., passim.

Gli scritti di Rescigno e Schlesinger in cui si poneva l’accento, tra l’altro, sulla preferibilità dell’autoregolamentazione rispetto alla normativa statuale in materia di trasparenza, sono P. Rescigno, «Trasparenza» bancaria e diritto «comune» dei contratti, in Banca borsa, 1990, I, pp. 927 ss.; P. Schlesinger, Problemi relativi alla «trasparenza bancaria», in Corr. giur., 1989, pp. 230 ss.

Sull’Arbitro bancario e finanziario, istituito nel 2010 dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 128-bis Tub, la letteratura è già fluviale. L’intera disciplina della trasparenza è passata in rassegna alla luce della giurisprudenza dell’Arbitro da Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari, cit.; si v. inoltre G. Carriero, Giustizia senza giurisdizione: l’Arbitro bancario finanziario, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2014, I, pp. 161 ss.; E. Minervini, L’Arbitro bancario finanziario, una nuova forma di Adr, Esi, Napoli, 2014; M. Rabitti, Soft law e governance: i fallimenti del mercato e l’esperienza dell’Arbitro Bancario Finanziario, in M. Nuzzo (cur.), Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, Giappichelli, Torino, 2014, I, pp. 623 ss.; P. Sirena, La disciplina delle clausole contrattuali abusive nell’interpretazione della giurisprudenza dell’Arbitro Bancario finanziario (Abf), in A. Bellelli et al. (curr.), Le clausole vessatorie a vent’anni dalla direttiva Cee 93/13, Esi, Napoli, 2013; G. Finocchiaro, L’Arbitro bancario finanziario tra funzioni di tutela e di vigilanza, Giuffrè, Milano, 2012; F. Capriglione e M. Pellegrini (curr.), Abf e supervisione bancaria, Cedam, Padova, 2011; G. Guizzi, Chi ha paura dell’Abf?, in Banca borsa, 2010, I, pp. 665 ss.; F. Auletta, Arbitro bancario finanziario e «sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie» , in Società, 2011, pp. 83 ss. (quest’ultimo, in particolare, legge il sistema come un’articolazione della funzione di vigilanza, rilievo condiviso da A. Antonucci, Diritto delle banche5, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 4 ss., e da Mucciarone, op.cit., p. 712, che ne rileva la natura bifronte); estremamente critico in proposito M. Stella, Lineamenti degli arbitri bancari e finanziari in Italia e in Europa, Cedam, Padova, 2016).

Rilevandosi diffusamente la profonda instabilità del quadro normativo, sull’esigenza, per converso, di una nuova e meno ‘opaca’ stesura della disciplina della trasparenza bancaria, v. tra tanti A.A. Dolmetta, Gli interventi normativi sul contenuto economico dei contratti bancari, in Nuove regole, cit., p. 57; A. Sciarrone Alibrandi, Interventi normativi, cit., p. 66. Sulla necessità di una revisione della disciplina codicistica sui contratti bancari («specchio di una prassi bancaria obsoleta», come viene ricordato usando le parole dettate da M. Porzio, I contratti bancari in generale, in Tratt. Rescigno, 12, Utet, Torino, 1985, p. 815, a proposito della sterilità di una prospettiva di studio dei contratti bancari che volesse risolversi nello studio della disciplina codicistica) parallelamente all’introduzione di una disciplina di trasparenza, v. G.B. Portale e A.A. Dolmetta, Recenti sviluppi del diritto bancario italiano, in Vita not., 1991, pp. 401 ss. (ove a p. 408 e a p. 415 si legge anche dell’«immobilismo perpetuo» e delle «acque davvero stagnanti» che all’epoca largamente caratterizzava il tema della trasparenza sotto il profilo della carenza di rilevante conflittualità e innovazione giurisprudenziale); A. Nigro, La trasparenza delle operazioni bancarie, in Dir. banca, 1989, II, pp. 229 ss.; sul faticoso attraversamento del ‘guado’ tra la vecchia e la nuova legge bancaria v. anche, sempre nella dottrina dell’epoca, Id., Relazione di sintesi, in A. Bronzetti e V. Santoro (curr.), Le direttive comunitarie in materia bancaria e l’ordinamento italiano, Giuffrè, Milano, 1991, p. 243.

Nel testo ho fatto più volte riferimento, per illustrare il punto dell’insufficienza della disciplina di trasparenza quando si risolva in meri requisiti informativi non corrispondenti a una più articolata conformazione dell’offerta ovvero a obblighi di assistenza ulteriori del professionista o ancora di ulteriori strumenti di controllo, al quadro preoccupante del mercato creditizio continentale che emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, come da quella dell’Abf in tema di costi di distribuzione del credito. Mentre quest’ultima è riportata nel testo, per la prima si può esemplificativamente ricordare che nel caso deciso da Corte giust., 15 marzo 2012, in causa C-453/10 (Safjan), Pereničová, la controversia era relativa, tra l’altro, alla falsa indicazione contrattuale del tasso annuo effettivo globale, pari in effetti al 58,76% anziché al 48,63% indicato in contratto senza considerare alcune voci di spesa che si sarebbero dovute invece includere nel conteggio (il che peraltro forse potrebbe indurre a giudizi più favorevoli di quelli che abitualmente si leggono sull’opportunità di aver introdotto nel nostro sistema una misura di ‘calmiere’ come quella rappresentata dall’usura cd. in “astratto”). Ancora dalla giurisprudenza dell’Abf emerge una varia casistica di scorrettezze nelle relazioni con i clienti, come il caso citato nel testo in tema di apertura di credito ed estinzione dell’investimento (Abf Milano n. 1272/2011, Lucchini Guastalla), ovvero quello deciso da Abf coord., 29 luglio 2015, n. 5866 (Massara), che giudica nulla per vessatorietà (da intrasparenza: sul che mi permetto di rinviare al mio Diritto dei consumatori, cit., pp. 270 ss.) la clausola di indicizzazione che prevede la conversione in valuta al cambio convenzionale e la riconversione in euro al cambio corrente della somma residua da restituire in caso di estinzione anticipata di un mutuo bancario; in proposito, v. anche Corte giust., 30 aprile 2014, in causa C-26/13 (Prechal), Kásler e Rábal, secondo cui la clausola che trasferisce il rischio di cambio sul consumatore può rientrare nell’oggetto principale se risulta essenziale nell’economia del contratto ma non rientra nel concetto di remunerazione, non corrispondendo ad una prestazione del mutuante.

Le sentenze richiamate nel testo in materia di clausole vessatorie nei contratti bancari sono le notissime Trib. Roma, 21 gennaio 2000 (Lamorgese), in Giur. it., 2000, c. 247, seguita da App. Roma, 24 settembre 2002 (Bernabai), in Giur. it., 2003, I, c. 119; e da Cass., 31 maggio 2008, n. 13051 (Salmè), in Foro it., 2008, I, c. 2474, dalle quali (soprattutto dalla prima, perché l’ambito del contenzioso si è poi andato progressivamente restringendo nei successivi gradi di giudizio) si può apprezzare, per un verso, il ritardo degli ambienti bancari nell’adeguamento, e, per altro verso, la rilevanza degli strumenti di private enforcement già in allora resi disponibili e per la verità troppo poco utilizzati in Italia da associazioni dei consumatori spesso sonnacchiose, fino all’introduzione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in cui il controllo amministrativo da parte dell’Agcm ha reso assai più incisivo e capillare l’intervento sull’attività commerciale delle imprese.

Per i successivi interventi giurisprudenziali in tema di limitazioni di responsabilità per furto nelle cassette di sicurezza, v. Cass., 29 marzo 1976, n. 1129, in Banca borsa, 1976, II, pp. 173 ss. (Bacconi); Ead., 7 maggio 1992, n. 5421 (Bibolini); Ead., 12 maggio 1992, n. 5617 (Bibolini), in Banca borsa, 1993, II, pp. 362 ss.; Ead., 1° luglio 1994, n. 6225 (Sgroi), in Foro it., 1994, I, c. 3422 (che, ove pertinente, riqualificano le clausole introdotte in termini di limitazione dell’oggetto del contratto in funzione del tipo contrattuale: sul che v. anche A. Gentili, Merito e metodo nella giurisprudenza sulle cassette di sicurezza: a proposito della meritevolezza di tutela del contratto “atipico”, in Riv. dir. comm., 1989, pp. 221 ss.); circa le clausole attinenti alla determinazione oggettiva del deposito nel contratto di cassetta di sicurezza, sotto il profilo della vessatorietà, v. anche la già citata Cass. 21 maggio 2008, n. 13051.

Sull’anatocismo, la vecchia impostazione della giurisprudenza è rappresentata da Cass., 15 dicembre 1981, n. 6631 (Cherubini), in Giust. civ., 1982, I, p. 380, mentre il nuovo orientamento, già in precedenza serpeggiante nella giurisprudenza di merito, si inaugura in sede di legittimità con Cass., 16 marzo 1999, n. 2374 (Salmè), in Giur. it., 1999, I, p. 1221. Sull’anatocismo, il riferimento, nel senso di considerare insussistente la stessa figura dell’anatocismo nel rapporto di conto corrente, a causa del carattere delle annotazioni, si trova nel noto scritto di P. Ferro-Luzzi, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: “l’anatocismo bancario”. Postulati e conseguenze, in Giur.comm., 2001, pp. 5 ss., ed ivi citati i precedenti scritti dell’A., nonché in U. Morera, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario, in Riv.dir.civ., 2005, II, pp. 17 ss. , e da ultimo in U. Morera e G. Olivieri, Il divieto di capitalizzazione degli interessi bancari nel nuovo art. 120, comma 2, Tub, in Banca borsa, 2015, I, pp. 286 ss. (in contrario sul punto v. per tutti A.A. Dolmetta, Sopravvenuta abrogazione del potere bancario di anatocismo, in Banca borsa, 2015, I, pp. 277 ss.). L’intera questione è esaustivamente ripercorsa (in senso adesivo alla tesi di F.-L., cui anche io sono sensibile) da C. Colombo, Gli interessi nei contratti bancari, in Capobianco (cur.), op.cit., pp. 460 ss.

In materia di clausola ‘uso piazza’, v. ancora una recente applicazione della nullità (per indeterminatezza), in Cass. 30 ottobre 2015, n. 22179 (Genovese). La sentenza cui si deve una prima messa in discussione del precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità [per il quale v. ad es. Cass., 14 febbraio 1984, n. 1112 (Cantillo), in Foro it., 1984, I, c. 1285] è Cass., 13 marzo 1996, n. 2103 (Bibolini), in Foro it., 1997, I, c. 1939 ss. la quale afferma: «fermo restando il principio secondo cui, fino all'entrata in vigore dell'art. 4 della L. 17 febbraio 1992 n. 154 e del d.lgs 1 settembre 1993 n. 385, la variazione dell'interesse nel corso di un rapporto bancario di durata può essere reso determinabile con riferimento, in scrittura negoziale, ad elementi estrinseci e futuri; si deve accertare se, in base alla situazione normativa e di fatto vigenti all’epoca del rapporto in contesa quale emerge dagli elementi probatori acquisiti, le tabelle prodotte potevano costituire l’elemento di riferimento indicato nel contratto in relazione alle condizioni praticate sulla piazza, relativamente al mutamento del tasso di interesse; si deve accertare, inoltre, se sussistevano originariamente tutti gli elementi (tra cui la qualificazione del cliente in relazione alla sua affidabilità) atti ad integrare la situazione di determinabilità oggettiva del tasso, senza alcuna successiva valutazione da parte della banca», cui ha fatto seguito la più ferma presa di posizione di Cass., 10 novembre 1997, n. 11042 (Marziale), e di Ead., 22 giugno 1998, n. 6247 (Milani), dalla quale è stata tratta la seguente massima «il principio secondo il quale la convenzione di interessi dovuti in misura extralegale necessita della forma scritta “ad substantiam” (art. 1284 cc) va interpretato nel senso che il requisito della necessaria determinazione scritta degli interessi ben può essere soddisfatto anche “per relationem”, attraverso il richiamo di criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obiettivamente individuabili. Non può all’uopo dirsi sufficientemente univoca la clausola che si limiti ad un mero riferimento “alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza” poiché ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di determinazione del tasso convenzionale, il riferimento “per relationem” può considerarsi sufficiente soltanto accordi contengano diverse tipologie di tassi o addirittura non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante (nella specie, con riferimento alla clausola contrattuale che richiamava genericamente il tasso di interesse usualmente praticato dalle banche sulla piazza, la suprema Corte ha ancora osservato come, in sede di merito fosse stata positivamente accertata la inesistenza di alcun parametro vincolante o di accordi di cartello su scala nazionale – limitandosi le rilevazioni effettuate e diffuse dall’Abi e dalla Banca d'Italia a recepire i tassi mediamente applicati dagli istituti di credito in virtù di un’autodisciplina liberamente adottata – inferendone conseguentemente, la nullità della clausola “de qua” per difetto di determinazione, preventiva e concorde, del saggio convenuto» (v. la rassegna dei precedenti in Colombo, Gli interessi nei contratti bancari, cit., pp. 436 ss.). Per una rassegna degli argomenti favorevoli e contrari alla validità della clausola, v. Portale e Dolmetta, Recenti sviluppi del diritto bancario italiano, cit., pp. 410 s.

Sullo ius variandi, sulle spese e sul diritto di recesso la letteratura è molto ampia. Nel testo ho fatto riferimento a Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., pp. 177 ss.; Sciarrone Alibrandi, Interventi normativi, cit.; Mirone, Sistema e sottosistemi, cit.; Mucciarone, La trasparenza bancaria, cit., p. 691 ss. Tra i contributi recenti, possono vedersi, senza alcuna pretesa di esaustività, anche S. Pagliantini, L’incerta disciplina del nuovo ius variandi bancario: tracce per una lettura sistematica, in Nuove leggi civ. comm., 2012, pp. 119 ss., e i contributi raccolti da A.A. Dolmetta e A. Sciarrone Alibrandi (curr.), Ius variandi bancario, Giuffrè, Milano, 2012.

Sull’impossibilità di rimediare sul versante informativo alle asimmetrie esistenti, nella misura in cui si tratti di asimmetrie strutturali rispetto alla forma o alle circostanze della contrattazione, e quindi sull’esigenza di interventi di controllo a valle dell’asimmetria informativa (recesso, controllo sul contenuto, disposizioni imperative di legge, nullità), v., per tutti, E. Gabrielli, Il consumatore e il professionista, in E. Gabrielli ed E. Minervini (curr.), I contratti dei consumatori, in Tratt. contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Utet, Torino, 2005, I, p. 33.

Per una posizione critica sulla svalutazione delle prescrizioni formali, v. D. Rufini, Banche (trasparenza delle condizioni contrattuali), in Dig. comm., agg., Utet, Torino, 2000, p. 93; Mirone, Sistema e sottosistemi nella nuova disciplina della trasparenza bancaria, cit., p. 381. Sulla razionalità limitata degli agenti nei contratti di massa, tuttavia, v., in una ormai vasta letteratura, R. Natoli, Il contratto “adeguato”. La protezione del cliente nei servizi di credito, di investimento e di assicurazione, Giuffrè, Milano, 2012, p. 16 ss., nonché G. Rojas Elgueta e N. Vardi (curr.), Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato, Roma Tre Press, Roma, 2014, passim; P. Giudici, La responsabilità civile nel diritto dei mercati finanziari, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 14 ss., pp. 89 ss., e nella letteratura straniera, ad es., O. Ben-Shahar, The Mith of “Opportunity to Read”, in Eur. Rev. Priv. Law, 2009, pp. 1 ss., nonché Id. e C.E. Schneider, More Than You Wanted to Know: The Failure of Mandated Disclosure, Princeton U.P., Princeton, 2014. Sulla nuova disciplina Consob del prospetto, che richiede l’introduzione di un paragrafo introduttivo, esemplificativo ed esplicativo, v. il discorso annuale del Presidente al mercato finanziario del 9 maggio 2016 (www.consob.it/web/area-pubblica/relazione-annuale), da cui (p. 22) il virgolettato nel testo (il riferimento è alla Raccomandazione Consob n. 0096857 del 28 ottobre 2016).

La celebre considerazione di Gorla sul cliente «che ha fretta», una bella sintesi del problema dei contratti di massa, si legge in G. Gorla, Condizioni generali e contratti conclusi mediante formulari nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 114, mentre l’ulteriore specificazione ripresa nel testo è tratta nella sentenza Suisse Atlantique della House of Lords: si tratta di un dictum di Lord Reid, riportato in epigrafe al volume di M. Farneti La vessatorietà delle clausole «principali» nei contratti del consumatore, Cedam, Padova, 2009 (che cita da [1966] 2 All.E.R. 61), in questi termini: «normalmente il consumatore non ha tempo di leggere le clausole standard e se lo avesse avuto probabilmente non le avrebbe capite, se le avesse capite e avesse obiettato su una qualsiasi di queste gli sarebbe stato detto che avrebbe dovuto prendere o lasciare, e a quel punto se fosse andato da un altro fornitore il risultato sarebbe stato lo stesso» [e da simili considerazioni può trarsi la conclusione che «i mercati degli scambi di massa sono estranei alla disciplina dei rapporti civili e nulla condividono con il romantico principio di autonomia», come fa M. Orlandi, Autonomia privata e autorità indipendenti, in G. Gitti (cur.), L’autonomia privata e le autorità amministrative indipendenti. La metamorfosi del contratto, Bologna, il Mulino, 2006, p. 89].

Per la riflessione sull’adeguatezza dei prodotti bancari e sull’obbligo di consulenza incidentale dell’intermediario ho fatto riferimento al saggio già citato di Nigro, Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza, cit., pp. 38 ss. (ed ivi, a pp. 41 ss., lo spunto sulla possibile responsabilità della banca in caso di violazione); in senso critico, v. N. Salanitro, Gli interventi normativi in materia di responsabilità della banca, in Nuove regole, cit., p. 81 (con riguardo all’art. 124 Tub). In linea più generale sul tema, v. l’ampia trattazione di Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., pp. 123 ss., nonché la monografia già citata di Natoli, Il contratto “adeguato”, pp. 135 nt. 9, pp. 136 ss. e passim (che conclude un articolato ragionamento, fondato principalmente sulla carenza di diverse sanzioni della violazione e per converso sull’esigenza, derivante dal testo della direttiva, di un effettivo rimedio, nel senso accennato nel testo), nonché, per uno spunto sull’obbligo di consulenza incidentale, R. Costi e L. Enriques, Il mercato mobiliare, in Tratt. Cottino, Cedam, Padova, 2004, p. 328.

Sul paternalismo nella riflessione filosofica, nella dimensione costituzionale, e nelle prospettive dell’economia neoclassica, per approdare infine alla scelta metodica dell’economia comportamentale del “paternalismo efficiente” e della protezione, che esso consente di assicurare, della libera autodeterminazione dei privati v. di recente K.U. Schmolke, Grenzen der Selbstbindung im Privatrecht. Rechtspaternalismus und Verhaltenökonomik im Familien-, Gesellschafts- und Verbraucherrecht, Mohr Siebeck, Tübingen, 2014, p. 1-270. La prospettiva di economia comportamentale è diffusa negli Stati Uniti e oggi altresì in Italia: v. nell’amplissima bibliografia che correda il volume gli studi assai noti di C.R. Sunstein e R.H. Thaler, Libertarian Paternalism is Not an Oxymoron, in Univ. Cal. law rev., 70, 2003, pp. 1159 ss., nonché, più di recente, C.R. Sunstein, Why Nudge? The Politics of Libertarian Paternalism, Yale U.P., New Haven, 2014, tr. it. Effetto Nudge. La politica del paternalismo libertario, Univ. Bocconi ed., Milano, 2015, e R.H. Thaler, Misbehaving. The Making of Behavioural Economics, Norton, New York, 2016; da noi v. ad es. R. Caterina, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2005, II, pp. 771 ss., e, più recentemente, gli scritti raccolti da Rojas Elgueta e Vardi (curr.), Oltre il soggetto razionale, cit., ed ivi in particolare A. Zoppini, Le domande che ci propone l’economia comportamentale ovvero il crepuscolo del «buon padre di famiglia», pp. 11 ss.).

In materia di responsabilità della banca e di erogazione del credito, oltre agli spunti contenuti nel già citato lavoro di Nigro, Linee di tendenza, cit., l’esperienza italiana ha tenuto presente soprattutto il tema della abusiva erogazione e della responsabilità nei confronti dei terzi. Oltre allo scritto seminale dello stesso A. Nigro, La responsabilità della banca per concessione «abusiva» di credito, in G.B. Portale (cur.), Le operazioni bancarie, Giuffrè, Milano, 1978, I, pp. 301 ss., v. di recente, R. Bocchini, Banca e credito. I profili di responsabilità nella concessione abusiva del credito, in A. Brozzetti (cur.), Riflessioni su banche e attività bancaria, immaginando il “futuribile”, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 135 ss.; A. Nigro, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito alle imprese in crisi, in Giur. comm., 2011, I, pp. 305 ss.; F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, Esi, Napoli, 2005.

Sulle considerazioni in tema di usura, possono vedersi P. Ferro-Luzzi, Introduzione, in Nuove regole, cit., p. 17, e Barenghi, Diritto dei consumatori, cit., p. 445 (mentre sul carattere non ‘bancario’ dell’usura in astratto può vedersi, al contrario, Mucciarone, op. cit., p. 685); sulla questione dell’usurarietà degli interessi moratori, è ben noto che la giurisprudenza [v. tra altre la nota decisione di Cass., 9 gennaio 2013, n. 350 (Didone), in Foro it., 2014, I, c. 128], ha affermato la sottoposizione di tali interessi allo scrutinio di usurarietà. I precedenti specifici sono citati, in senso critico su tale soluzione, da A.A. Dolmetta, Su usura e interessi di mora: questioni attuali, in Banca borsa, 2013, I, pp. 501 ss.

Un argomento contro l’inclusione degli interessi moratori nello scrutinio di usura per difformità rispetto al ‘paniere’ del tegm si ravvisa peraltro nella stessa giurisprudenza di legittimità quando esclude che la commissione di massimo scoperto possa rientrare nel calcolo dell’usura perché non conteggiata nel tegm [Cass., 22 giugno 2016, n. 12965 (Ferro), prima dell’intervento dell’art. 2-bis del dl 29 novembre 2008, n. 185, conv. in l. 28 gennaio 2009, n. 2, considerato non interpretativo ma innovativo, diversamente da quanto in precedenza aveva fatto Cass. II sez. pen., 12 febbraio 2010, n. 12028 (Gallo): quest’ultima questione è stata ora rimessa alle Sezioni unite con ord. della I sezione civile n. 15188 del 20 giugno 2017 (Dolmetta)].

Di recente la Banca d’Italia, pur ribadendo che il tasso di mora non rientra nel calcolo del Teg, ha riconosciuto (così finendo per superare l’argomento secondo cui alla stregua della stessa legge 108/1996 gli intermediari devono conformarsi alle disposizioni della Banca d’Italia, le quali in precedenza non si riferivano agli interessi di mora) che «anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura», chiarendo che l’usura andrebbe accertata sulla base della maggiorazione di 2,1 punti percentuali dei tassi globali medi periodicamente rilevati (Banca d’Italia, Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura, 3 luglio 2013), maggiorazione che corrisponderebbe a quella «mediamente stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento» (come emergerebbe da un’indagine statistica del 2002 della Banca d’Italia e dell’Ufficio italiano cambi).

Sull’inapplicabilità dell’art. 1815 cc alla clausola penale, v. Cass., II sez. pen., 25 ottobre 2012, n. 5683 (Taddei), in Foro it., 2013, II, c. 484 (che annulla la decisione di merito sul punto), sul medesimo profilo, v. anche Trib. Roma, I pen., 3 giugno 2014, n. 9577 (de Gioia), in www.dejure.it. Nello stesso senso Abf coord., 28 marzo 2014, n. 1875 (Gambaro); Trib. Roma, 7 maggio 2015 (Catallozzi), in www.dejure.it, secondo cui «la clausola penale ... non può essere considerata come parte di quel “corrispettivo” che previsto dall’art. 644 cp può assumere carattere di illiceità» per poi soggiungere che «anche l’interpretazione del dato normativo condotta sotto il profilo più strettamente economico conduce, dunque, alla conclusione dell’impossibilità di attribuire rilevanza, ai fini dell’usura, agli interessi moratori» (e ciò sulla notazione che il teg si basa sui soli interessi corrispettivi); v. anche Trib. Vercelli, 16 novembre 2011 (Aloj), in www.dejure.it.

Un’altra questione (di cui si occupa in questo stesso fascicolo il saggio di A.A. Dolmetta, L’usura sopravvenuta in Cassazione), relativa alla rilevanza dell’usurarietà sopravvenuta nel corso del rapporto (iniziato prima dell’entrata in vigore della legge ovvero successivamente ma in seguito divenuto eccedentario), era stata sottoposta alle Sezioni Unite dall’ordinanza di Cass., 31 gennaio 2017, n. 2484 (Acierno). Si erano infatti registrati contrasti giurisprudenziali tra le decisioni che ritenevano irrilevante l’usura sopravvenuta [Cass. 19 gennaio 2016, n. 801 (De Chiara), e precedenti conformi], e le decisioni maggioritarie che, invece, ritenevano variamente rilevante l’usurarietà sopravvenuta ma non in termini penalistici e neppure nella direzione della gratuità del rapporto, quanto nel senso dell’inefficacia o della sostituzione automatica con il tasso soglia [Cass., 12 aprile 2017, n. 9405 (Acierno), e precedenti conformi con varietà di motivazioni, nonché Abf Roma, 29 febbraio 2012, n. 620]. A tale contrasto la sentenza delle Sezioni Unite n. 24675 del 19 ottobre 2017 (De Chiara) ha dato soluzione nel senso della continuità con il primo orientamento in ragione del disposto dell’art. 1, comma 1°, dl 29 dicembre 2000, n. 394, conv. in l. 28 febbraio 2001, n. 24 (recante: Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, concernente disposizioni in materia di usura), secondo cui «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 cp e dell’art. 1815, secondo comma, cc, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento», per il necessario riferimento all’art. 644 cp ai fini della determinazione della fattispecie “interessi usurari” e quindi per l’impossibilità di distinguere tra conseguenze penalistiche e conseguenze civilistiche diverse dalla riqualificazione ex art. 1815, 2° co., cc.