Magistratura democratica

La buona fede nel recesso della banca nei contratti di apertura di credito

di Azzurra Fodra

Il controllo giurisdizionale delle modalità di recesso nei rapporti tra banca ed impresa. La clausola generale della buona fede come strumento prioritario di tutela dell’imprenditore, funzionale non solo al rimedio risarcitorio ma anche all’intervento cautelare immediato ed urgente che eviti il pregiudizio irreparabile.

Premessa

 

Nell’ambito della disciplina codicistica dei contratti bancari, ed in particolare del contratto di apertura di credito e delle operazioni bancarie in conto corrente, è prevista una specifica disciplina in tema di recesso.

 

L’art. 1845 cc prevede, infatti, per l’ipotesi di contratto di apertura di credito a tempo determinato, che la banca, salvo patto contrario, non possa recedere dal contratto prima della scadenza del termine previsto, se non per giusta causa. In tal caso si determina l’immediata sospensione dell’utilizzabilità del credito. Per l’ipotesi di contratto a tempo indeterminato, invece, la norma prescrive la facoltà di ciascuna delle parti di recedere dal contratto ad nutum, purché ne venga dato preavviso alla controparte nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni.

 

Analogamente per le operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 1855 cc sancisce che se l’operazione è regolata a tempo indeterminato ciascuna delle parti può liberamente recedere dal contratto, purché vi sia il rispetto del termine di preavviso suddetto.

 

Com’è noto dette previsioni normative trovano la loro ratio nella esigenza di tutelare, da un lato, l’interesse di ciascuna parte del contratto di durata all’esercizio della facoltà di recesso, facoltà che le permette durante l’attuazione del rapporto di verificare il permanere della rispondenza ai propri interessi del contratto in essere, dall’altro, lo specifico interesse del debitore a riporre affidamento sul credito concesso dalla banca per un apprezzabile lasso di tempo nell’ambito dei rapporti di finanziamento.

 

È infatti noto, sotto questo secondo specifico profilo, che l’interruzione della erogazione del credito da parte della banca genera molteplici, ulteriori e dirette conseguenze dannose per il debitore, quali l’impossibilità di eseguire transazioni in conto corrente fino all’apertura di un nuovo rapporto presso un altro istituto bancario, la difficoltà di saldare i debiti esistenti con soggetti terzi, il blocco di alcuni servizi prima concessi da parte della banca, quale il servizio Rid. Dette conseguenze sulla capacità operativa del debitore, evidentemente, quando il contratto di apertura di credito è stato stipulato in funzione strumentale all’esercizio della attività di impresa, come usualmente accade per tale tipo di contratto, non possono che riverberarsi negativamente sulla medesima attività, ostacolandone il normale svolgimento. Senza considerare l’effetto domino sugli eventuali altri rapporti bancari ed in generale commerciali che il recesso anche solo di una impresa bancaria produce come conseguenza dello scambio di informazioni ormai rapidissimo.

 

A conferma di ciò si deve evidenziare che negli ultimi anni, contrassegnati da una situazione di crisi economica e di difficoltà del tessuto imprenditoriale ad accedere al credito bancario, la giurisprudenza di merito ha spesso dovuto affrontare il tema della legittimità del recesso operato dalle banche nell’ambito dei contratti di apertura di credito o di altre forme di finanziamento, sempre regolate in conto corrente, quale quello di anticipazione delle fatture. Lo stesso dicasi per l’Arbitro finanziario e bancario, il cui contenzioso è dato per lo più da controversie tra consumatore e banche, ma che negli ultimi anni si è occupato ripetutamente di liti aventi ad oggetto la violazione della disciplina del recesso da parte degli istituti bancari nell’ambito del contratto di apertura di credito (cfr. in particolare Relazioni Abf 2012 e 2013).

 

Ciò posto appare utile esaminare separatamente le ipotesi in cui il recesso della banca può presentare profili di illegittimità e, quindi, essere o privo di effetti giuridici o comunque foriero di una obbligazione risarcitoria a carico della banca ed in favore del debitore.

 

1. Recesso: obbligo della forma scritta

 

In primo piano sicuramente si pone il caso in cui la banca non rispetta il requisito della forma scritta per la manifestazione di volontà di recedere dal contratto.

 

Ed invero la manifestazione di volontà dell’istituto di credito di recedere, oltre ad essere un atto recettizio che, quindi, produce effetti solo al momento in cui è portato a conoscenza del suo destinatario, è altresì un atto sottoposto alla forma scritta ad substantiam. In tal senso si è da tempo espressa la giurisprudenza di merito in materia secondo cui, poiché dall’art. 117 del Tub è sancita la forma scritta dei contratti bancari a pena di nullità, detto requisito formale non può che vincolare anche la manifestazione di volontà con cui le parti pongono nel nulla il medesimo vincolo.

 

Le medesime conclusioni possono essere tratte anche dalla sentenza della Corte di cassazione n. 17090 del 2008  che, pronunciandosi su un caso avente ad oggetto un contratto di apertura di credito stipulato prima della entrata in vigore della l. n. 154 del 1992 art. 3, che per prima introdusse la forma scritta ad substantiam per i contratti bancari, ha escluso, nel caso di specie, in ragione della data di stipulazione del contratto, l’obbligo della forma scritta per la comunicazione del recesso, confermandone, invece, per i contratti stipulati dopo l’entrata in vigore della succitata norma l’obbligo del requisito di forma per la manifestazione del recesso.

 

Pertanto ove il recesso dal contratto non venga comunicato alla controparte nella dovuta forma scritta lo stesso sarà nullo e dunque improduttivo di effetti giuridici.

 

2. Recesso: obbligo di preavviso

 

Altra ipotesi in cui la manifestazione di volontà della banca di recedere non può essere considerata legittima può riscontrarsi quando la banca stessa viola l’obbligo di preavviso previsto dall’1845 comma 3 cc per i contratti di apertura di credito a tempo indeterminato.

 

Detta violazione sicuramente ricorre sia quando la banca non rispetta il termine di preavviso sia quando la comunicazione inviata dall’istituto di credito non contiene l’esplicita manifestazione di volontà di recedere dal contratto in corso ed il termine entro cui il rapporto deve intendersi cessato. Sul punto merita di essere ricordata una decisione dell’Arbitro bancario e finanziario, secondo cui, ad esempio, non costituisce idoneo preavviso il messaggio di posta elettronica, inviato dalla banca al correntista, nella quale questa manifesti l’urgenza di un “contatto” da parte del cliente, senza esplicitare la volontà di porre fine al rapporto, che è invece indispensabile affinché un recesso sia valido ed efficace (Abf, Collegio di Roma, Decisione n. 5680/2013).

 

Con riguardo all’obbligo di preavviso, la giurisprudenza si è poi particolarmente interrogata sulla portata della autonomia negoziale rimessa alle parti dall’art. 1845 cc.

 

Ed infatti, ad avviso della giurisprudenza di legittimità in materia, la norma in esame, contenendo un esplicito rinvio alla volontà delle parti in ordine alla durata del preavviso, lascia alla loro privata autonomia, non solo la scelta inerente la durata del termine di preavviso, ma anche la scelta di derogare pattiziamente a detto obbligo.

 

In particolare, secondo l’orientamento consolidato della Corte di cassazione, il termine previsto dall'art. 1845 cc per il preavviso di recesso può essere fissato, salvo il rispetto della buona fede nell’esecuzione del contratto, anche in un solo giorno e, trattandosi di un termine relativo allo svolgimento di un rapporto di carattere patrimoniale tra privati, il relativo obbligo può essere convenzionalmente derogato dalle parti e, quindi, anche escluso (cfr. Cass. n. 2642 del 2003; Cass. n. 9307 del 1994 e Cass. n. 11566 del 1993).

 

Tuttavia a tale ultimo riguardo va segnalata una recente decisione dell’Abf Collegio di Roma n. 4155 del 2015 di diverso avviso.

 

Il Collegio, difatti, in consapevole contrasto con l’orientamento della Suprema corte, ha sostenuto in tale decisione che l’art. 1845 cc consente sicuramente alle parti di decidere autonomamente il termine concreto entro cui il preavviso va comunicato, mentre non permette loro di eliminare in toto il medesimo obbligo. Secondo gli arbitri, infatti, una diversa interpretazione della norma non sarebbe conforme ai principi generali che regolano l’esercizio del diritto di recesso nei contratti di durata, in cui il recesso unilaterale è normalmente consentito, se il rapporto è a tempo determinato, solo per giusta causa e con effetti immediati, se il rapporto è, invece, a tempo indeterminato, anche senza giusta causa, ma con preavviso.

 

Nell’apertura di credito a tempo indeterminato, infatti, sempre secondo la decisione dell’Abf di Roma, il terzo comma dell’art. 1845 cc menziona il contratto unicamente per affermare che con esso si può variare (aumentandolo o diminuendolo) il termine del preavviso, senza che sia però contemplata l’ipotesi della sua esclusione. Tale conclusione, si legge nella motivazione della decisione, risulta inoltre del tutto coerente con gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di buona fede nella esecuzione del contratto, la quale ha anche un ruolo integrativo delle obbligazioni derivanti dal contratto, e garantisce l’esigenza, particolarmente rilevante in un settore, quale quello dei rapporti tra banche e clienti, di un’equa ripartizione dei rischi tra le parti di un contratto. Il recesso ad nutum della banca con effetto immediato si risolverebbe, dunque, secondo il Collegio arbitrale, in una grave ed irragionevole penalizzazione per il cliente, che si troverebbe ad essere esposto, senza alcun preavviso e anche in mancanza di una giusta causa di revoca del fido, alla privazione istantanea del credito e dunque dell’ossigeno per vivere. Sulla scorta di tali considerazioni il Collegio di Roma ha, pertanto, deciso, malgrado la previsione pattizia che esonerava la banca dall’obbligo di preavviso, di non poter riconoscere operatività immediata al recesso ad nutum manifestato dalla medesima banca, ritenendo, invece, applicabile in luogo del patto di esclusione il termine legale dei quindici giorni.

 

In ogni caso va evidenziato che la giurisprudenza di merito, di legittimità e dell’Abf risulta, invece, del tutto conforme in ordine alle conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di preavviso, la quale può dar luogo solo ad una responsabilità risarcitoria della banca, ma non rendere privo di efficacia lo scioglimento del contratto.

 

3. Recesso per giusta causa e obbligo di buona fede

 

Il terzo ed ultimo profilo di valutazione della correttezza e della legittimità del recesso operato dalla banca dal contratto di apertura di credito è quello della giusta causa.

 

Ed infatti nel contratto di apertura di credito a tempo determinato, salvo diverso accordo, la banca può recedere solo in caso di giusta causa, mentre nel contratto a tempo indeterminato la giusta causa esonera la parte dall’obbligo del preavviso; in entrambi i casi, comunque, il recesso manifestato da parte dell’istituto bancario sul presupposto della sussistenza della giusta causa determina l’immediata sospensione dell’utilizzazione del credito, salvo il termine c.d. di rientro stabilito dall’art. 1845 cc, co.2, secondo cui al debitore deve essere garantito un termine di almeno 15 gg per la restituzione delle somme utilizzate e degli accessori.

 

In generale si ritiene che ricorra giusta causa del recesso ogni volta in cui emergono, rispetto alla condizione patrimoniale del debitore, indici sintomatici dello stato di insolvenza – inteso come seria difficoltà di assolvere alla obbligazione restitutoria assunta verso la banca – dello stesso debitore. Alla banca, infatti, nel corso del rapporto spetta sempre la valutazione imprenditoriale del cliente e della sua capacità di fare fronte al debito maturato e, ove detta valutazione abbia un esito negativo, la banca stessa, in conformità ai principi generali in tema di contratti di durata, può legittimamente recedere dal contratto con effetto immediato.

 

Tuttavia la valutazione della capacità imprenditoriale del cliente non è rimessa alla mera discrezionalità della creditrice, ma deve essere svolta secondo il canone della buona fede contrattuale ex art. 1375 cc e, in caso di violazione di detto canone, l’istituto di credito può incorrere, a titolo di responsabilità contrattuale, nella obbligazione risarcitoria in favore del debitore a cui l’utilizzazione del credito è stata indebitamente sospesa.

 

Rispetto a tali casi, nell’ambito della giurisprudenza di merito e anche delle decisioni dei Collegi Abf, è stata enucleata per descrivere l’illecito condotto dalla banca che recede dal contratto senza che ricorra una effettiva giusta causa l’espressione, sicuramente evocativa, della cd. rottura brutale del finanziamento.

 

Sul punto merita di essere da subito ricordato quanto affermato dalla Corte di cassazione sin dalla nota sentenza n. 21250 del 2008 in cui la stessa Corte, proprio in un giudizio di risarcimento del danno per improvvisa revoca da parte della banca di un affidamento, affermò quanto segue: «Il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato».

 

Secondo il Collegio, dunque, la clausola di buona fede opera nella esecuzione del contratto come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti un dovere giuridico autonomo di preservare gli interessi della controparte nei limiti del cd. apprezzabile sacrificio.

 

Il dovere di correttezza e buona fede grava inoltre, avendo portata di carattere generale, sulla banca anche nei casi in cui le parti nel contratto bancario hanno tipizzato i casi di giusta causa che legittimano la banca stessa al recesso immediato. Secondo la Corte di cassazione il giudice, infatti, non può limitarsi ad un mero controllo in ordine all’avveramento del fatto che costituisce giusta causa in base al contratto, ma è tenuto ad una valutazione complessiva delle circostanze del caso concreto e alla verifica del rispetto da parte della banca del canone di correttezza ex art. 1375 cc. In particolare l’interprete, sempre secondo la Corte, è tenuto a verificare se il recesso operato dalla banca, anche se giustificato dal verificarsi di una circostanza contemplata in contratto come giusta causa, non abbia invece costituito «una reazione sproporzionata rispetto a quanto in concreto accaduto e rispetto al contemperamento degli interessi sottostante alla astratta previsione contrattuale»; perché il recesso possa essere considerato legittimo, dunque, va sempre appurato se le sopravvenienze poste a giustificazione del recesso stesso abbiano fatto o meno sorgere nella banca la necessità di esercitare un legittimo potere di autotutela privata, o se, piuttosto, le medesime circostanze si siano tradotte in un mero pretesto per reagire a decisioni non gradite del cliente, intervenute ad esempio in altri rapporti, o per liberarsi improvvisamente dal vincolo negoziale (cfr. in particolare Cass. n. 6923 del 2005).

 

In sintesi il recesso della banca può essere considerato legittimo purché, e a prescindere dal contenuto del contratto stipulato tra le parti, sia stato in concreto esercitato dalla banca per soddisfare un interesse meritevole di tutela della banca stessa e, segnatamente, l’interesse a non continuare il rapporto di finanziamento ove vi siano indici sintomatici della incapacità del debitore di fare fronte alla obbligazione restitutoria.

 

A conferma di tali conclusioni appare utile ricordare una recentissima sentenza del Tribunale di Roma, la n. 4104 del 1.3.17. In tale pronuncia il Tribunale, chiamato ad indagare sulla natura abusiva o meno del recesso operato dalla banca nell’ambito di un contratto di apertura di credito a tempo indeterminato, ha escluso che la condotta dell’istituto di credito fosse stata posta in essere in violazione del canone della buona fede contrattuale, in quanto la volontà della banca era stata comunicata al cliente in ragione dei plurimi elementi sintomatici della incapacità di insolvenza del debitore di cui la banca stessa era venuta a conoscenza. Detti elementi sintomatici, nel caso di specie, altro non erano che l'avvenuto scioglimento e messa in liquidazione della società debitrice principale, la trascrizione del pignoramento immobiliare a carico del garante e un rilevante superamento del limite del fido per apertura di credito concesso originariamente.

 

Sul punto merita di essere precisato che la giurisprudenza di merito chiamata di volta in volta e secondo le circostanze del caso concreto a verificare , da un lato, la violazione del canone della buona fede da parte della banca e, dall’altro, la lesione della legittima aspettativa del debitore rispetto alla prosecuzione del rapporto di apertura di credito, si è trovata a dover svolgere detto controllo anche in casi in cui il recesso della banca, giustificato dallo sconfinamento del cliente rispetto al fido concesso, era stato preceduto da lunghi periodi in cui lo stesso istituto di credito aveva invece consapevolmente tollerato il superamento del fido.

 

Il Tribunale di Reggio Emilia, con una recente pronuncia del 22.4.14., in maniera del tutto condivisibile e richiamando un principio di diritto già espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n.2477 del 2004, ha escluso che in tali ipotesi sussista una legittima aspettativa del debitore rispetto ad un fido di fatto superiore a quello effettivamente accordato. Secondo il Tribunale, infatti, la tolleranza degli sconfinamenti da parte della banca non integra una manifestazione di volontà idonea a superare le clausole pattuite dalle parti, tanto che l'aspettativa originata dal fatto che l'istituto di credito paghi assegni anche quando l'esposizione creditoria superi il limite del fido concesso non è di diritto, ma di fatto, e quindi priva di giuridica rilevanza.

 

Anche se la condotta della banca che di fatto accetta per lungo tempo il superamento del fido formalmente concesso non può non avere un rilievo nella valutazione, secondo buona fede, della condotta della banca che esiga improvvisamente il rispetto del fido formalmente pattuito.

 

4. Recesso immediato senza giusta causa e obbligo di buona fede

 

Da ultimo, per apprezzare appieno quanto il principio della buona fede contrattuale abbia trovato, nell’ambito che ci occupa, applicazione quale strumento di tutela degli interessi del debitore-imprenditore, la cui capacità e forza imprenditoriale necessariamente dipende dal margine di credito concessogli dalla banche e dalla possibilità di fare legittimo affidamento sulla durata della erogazione del credito, deve essere presa in esame la giurisprudenza di legittimità che si è occupata dei casi di recesso senza giusta causa da contratti, in cui erano state le stesse parti ad avere accordato alla banca la possibilità di recedere ad nutum.

 

Ed infatti l’art. 1845 cc, co. 1, prevede espressamente per i contratti di apertura di credito a tempo determinato che le parti possano derogare in via pattizia alla medesima norma e che, quindi, nel contratto la banca possa legittimamente riservarsi la facoltà di recedere ad nutum prima del termine pattuito e senza giusta causa.

 

Tuttavia anche in tale ipotesi la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la banca non possa esimersi dal rispetto del principio generale di buona fede contrattuale.

 

Ed infatti, secondo le pronunce in materia della Suprema corte, il giudice, ove venga lamentato l’esercizio del diritto di recedere in maniera abusiva, deve in ogni caso verificare, anche ove siano state le parti stesse ad accordare alla banca la facoltà di recedere liberamente dal contratto, se il recesso sia stato esercitato dalla banca con modalità imprevedibili ed arbitrarie. Secondo la Corte, infatti, il recesso è da considerare comunque abusivo tutte le volte in cui lo stesso risulti in contrasto con la ragionevole aspettativa del debitore che confidi nei rapporti usualmente tenuti fino a quel momento con la banca e nella assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, tanto da riporre il proprio legittimo affidamento sia sulla esistenza della provvista creditizia per il tempo previsto e sia sul fatto di non dover sempre essere pronto alla restituzione delle somme utilizzate (Cass. 21 maggio 1997, n. 4538; 14 luglio 2000, n. 9321 e Cass. N. 6186 del 2008).

 

Tali principi risultano ribaditi anche nella giurisprudenza dell’Abf, tra cui, per concludere, merita di essere rammentata la decisione del Collegio di Roma n. 284 del 2010. Il Collegio, occupandosi di una controversia in tema di cd. rottura brutale del finanziamento, ha infatti, nell’esercizio dei suoi poteri, segnalato alla banca la necessità di adeguare il proprio comportamento nei rapporti con la clientela a criteri di buona fede e correttezza, ritenendo che l’istituto di credito avesse esercitato il diritto di recesso in assenza di giusta causa, sebbene secondo le modalità previste in contratto, ma in maniera del tutto imprevista ed arbitraria, ledendo la legittima aspettativa del cliente sulla esistenza della provvista creditizia per il tempo previsto.

 

Conclusioni

 

L’esame della tematica del recesso dai contratti di apertura di credito da parte della banca porta certamente a ritenere che il canone della buona fede contrattuale, precipitato del principio solidaristico di cui all’art. 2 della Cost., sia divenuto nella elaborazione giurisprudenziale il principale strumento di tutela del debitore e dell’aspettativa che lo stesso ha, in particolar modo nel settore del finanziamento alle imprese, alla stabile utilizzazione del credito concessogli dalla banca.

 

In tale ambito la tutela del debitore, quindi, risulta perseguita non tramite discipline di settore volte a riequilibrare le posizioni contrattuali, quali quelle dettate in tema di subfornitura o di transazioni commerciali in cui il legislatore ha introdotto specifici rimedi per superare l’asimmetria esistente nei rapporti contrattuali tra imprenditori, ma, in maniera particolarmente efficace, mediante l’applicazione di una clausola generale, capace di integrare in base alle circostanze del caso concreto il contenuto obbligatorio del contratto e far sorgere in capo alla parte più “forte” doveri specifici di protezione e salvaguardia in favore del contraente debole.

 

In questo contesto resta aperta la domanda se il controllo giudiziale attraverso il canone della buona fede apra la porta solo alla tutela risarcitoria o consenta un intervento più radicale ed efficace. Non può infatti dimenticarsi che l’abusivo recesso può avere conseguenze esiziali per l’attività di impresa non riparabili ex post. E non può tacersi il fatto che a posteriori risulta particolarmente arduo ricostruire la catena causale degli eventi dannosi connessi all’eventuale illecito recesso.

 

Perciò, particolarmente delicata si presenta la risposta alla domanda di tutela giudiziale non di rado invocata in sede cautelare (ex art. 700 cpc) quando al giudice è richiesto di intervenire in vario modo sugli effetti del recesso asseritamente abusivo allo scopo di evitare il prodursi di pregiudizi irreparabili per l’attività economica.

 

Al giudice è anche in questo caso richiesto di sindacare la condotta della banca, di conoscere ed utilizzare anche in questo caso regole tecniche proprie dell’esercizio dell’impresa bancaria.

 

Una pretesa particolarmente esigente.