Magistratura democratica

Quale giudice supremo in materia penale?

di Domenico Pulitanò

La custodia del nomos, affidata alla Corte di cassazione, riguarda la correttezza di decisioni che hanno ad oggetto fatti concreti, interessi e diritti in gioco nel processo. Importanti sentenze della Cassazione penale (le più famose) hanno a che fare con la razionalità del giudizio di fatto, collegata all’affermazione di un principio di diritto che costituisce la premessa del problema probatorio. Questa esperienza mostra che la custodia della razionalità della motivazione in fatto deve restare affidata a un giudice che ne sia all’altezza. C’è un’esigenza di stabilizzazione giurisprudenziale, che giustifica il rafforzamento della posizione delle Sezioni Unite. Ma per la custodia dei diritti delle parti è importante anche il limite dei poteri attribuiti ai custodi. Per qualunque giudice intenda disattendere un indirizzo già affermato, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 230/2012, ha additato la strada: un onere di adeguata motivazione; è anche un onere per le parti che chiedano una revisione di indirizzi giurisprudenziali; l’adempimento dell’onere dà diritto ad una adeguata risposta, non appiattita sulla mera riaffermazione dell’indirizzo sottoposto a critica.

1. Un vertice ambiguo?

Di quale giudice supremo ha bisogno la giustizia penale? L’esistente è stato definito un vertice ambiguo[1] tra funzione di tutela del diritto oggettivo (jus constitutionis) e tutela dello jus litigatoris, dei diritti delle parti nel processo. Il pacchetto di competenze comprende il controllo di legittimità (imposto dall’art. 113 Cost.) e il controllo sulla motivazione.Sovraccarico di lavoro, espansione numerica dell’organo, ingestibilità del sistema così com’è, sono lo sfondo di problemi ad oggi insoluti.

Come obiettivo in tempi medio-lunghi è stato autorevolmente (e ragionevolmente) proposto quello di pervenire a una Corte con un numero limitato di ricorsi e di giudici[2]. Ciò richiederebbe (si è ipotizzato) di rinunciare al controllo della Cassazione sulla motivazione “in fatto”[3], ragione dell’insostenibile aggravio di lavoro. La funzione del giudice supremo sarebbe il controllo in puro diritto.

Per i diritti delle parti nel processo penale, è decisivo il giudizio in fatto. È il giudizio sul fatto il compito proprio del giudice; compito esclusivo nella rappresentazione che ne fa Beccaria: «Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni dei cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sì del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti»[4]. Non è una descrizione della realtà, ma modello ideale, rappresentazione ideologica che definirei illuministicamente ingenua nell’azzeramento del problema dell’interpretazione del diritto; ma realistica nel sottolineare la centralità del fatto quale oggetto del giudizio affidato al giudice imparziale. La sostanza delle questioni di giustizia sta nelle mani dei giudici di merito.

La ineliminabile fattualità del diritto[5] si rispecchia nel principio penalistico di legalità, sotto il profilo che la Corte costituzionale italiana ha avuto occasione di additare nella famosa sentenza n. 96 del 1981 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 cp (delitto di plagio). Nell’onere di descrizione intelligibile della fattispecie astratta deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà. Il rapporto con il mondo dei fatti è costitutivo del diritto come ordinamento di fatti del mondo: questo ci ricorda la storica sentenza del 1981.

Il giudice supremo – che non è giudice del fatto – non è giudice pieno, a tutto campo. La sua superiorità lo sposta al di sopra del giudizio di fatto; il controllo sulla motivazione è l’unico aggancio.

Per una riflessione sul vertice ambiguo e sulle questioni di eventuale riassetto, ritengo utile uno sguardo, pur inevitabilmente sommario, agli attuali prodotti e problemi della giurisprudenza della Corte di cassazione.

2. Custodia del logos e del nomos

Importanti sentenze della Cassazione penale hanno a che fare con la razionalità del giudizio di fatto, collegata all’affermazione di un principio di diritto che costituisce la premessa del problema probatorio. Custodia del logos (della razionalità del giudizio) come completamento della custodia del nomos, di scelte normative di competenza del legislatore. Questo dato di fatto mi sembra meritevole di considerazione.

2.1. La sentenza forse più famosa della Cassazione penale in questo inizio di secolo[6] ha risolto un conflitto di giurisprudenza in tema di causalità omissiva, riaffermando un principio di diritto (il paradigma causale nei delitti d’evento, l’idea di causa come condizione necessaria) e traendone le conseguenze per l’impostazione del problema probatorio della causalità anche omissiva. Premessa giuridica del problema probatorio è la selezione normativa del tipo di fatto rilevante per il diritto: nella specie, la causalità come requisito oggettivo della fattispecie nei delitti con evento naturalistico, e quindi oggetto di prova. In questo quadro si inserisce il ruolo che compete alle scienze dure (al sapere scientifico in senso stretto): rilevanza del sapere nomologico disponibile, quale elemento necessario entro l’argomentazione probatoria. Il giudizio di causalità nel caso concreto va effettuato alla luce di una legge scientifica o una generalizzata regola d’esperienza; possono venire in rilievo anche leggi probabilistiche[7].

Ultimo decisivo anello probatorio, l’esclusione di ipotesi esplicative alternative: un concetto che la sentenza delle Sezioni Unite ripete più volte.È la razionalità probatoria richiesta dal principio normativo dell’oltre il ragionevole dubbio, applicata al caso in cui la prova ha bisogno di un sapere scientifico. Per la prova della causalità (da intendere come condizione necessaria) «non possono non valere gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che valgono per tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato». «Pretese difficoltà di prova non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore».

Tutto questo rientra nell’ottica della nomofilachia: è, per così dire, la cura dei confini fra ciò che compete al livello normativo del porre e dire il diritto, e ciò che compete al sapere sul mondo (in particolare alle scienze dure, le scienze della natura). Risponde all’esigenza che il giudice di legittimità – oltre ad affermare i pertinenti principi di diritto sostanziale e/o processuale – eserciti un controllo sulla correttezza epistemologica del giudizio di merito. I criteri di controllo, peraltro, hanno uno statuto che non è normativo (disponibile da parte del legislatore) ma logico o epistemologico.

Il modello di razionalità probatoria delineato dalla sentenza Franzese con riguardo al problema causale ha una valenza più generale, non ancora valorizzata a pieno: serve a controllare l’uso (e il rischio di abuso) di supposte massime d’esperienza, generalizzazioni fondate sui esperienze passate, usate come “ponti inferenziali”[8], premesse non implausibili (se correttamente individuate) di ipotesi d’indagine, di accuse da verificare.

È entrato in uso il concetto di abduzione: inferenza che formula un’ipotesi esplicativa[9]. La sentenza Franzese, in un passaggio in cui osserva che la conoscenza giudiziale del fatto è sorretta da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo, collega allo schema argomentativo dell’abduzione la formulazione di un’ipotesi ricostruttiva probabile, rispetto alla quale «i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento deduttivo, da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse». L’abduzione non garantisce le conclusioni ipotizzate; consente la formulazione di ipotesi meritevoli di verifica, e così può portare a incrementi di conoscenza. Un buon detective formula ipotesi per via di abduzione, e le mette alla prova con rigorose verifiche, per le quali vale la regola aurea dell’esclusione di ipotesi esplicative alternative.

Come il sapere scientifico (nomologico) consente di formulare un’ipotesi causale, così una buona regola generalizzata di esperienza può servire a formulare – per via di abduzione – un’ipotesi di reato come possibile spiegazione di quanto sappiamo all’inizio. Nell’uno e nell’altro caso, l’ipotesi iniziale va sottoposta a verifica: «per testare un’ipotesi si devono fare altre domande oltre a quelle iniziali»[10]. Questo modello di razionalità probatoria fa parte del sapere esigibile dal giudice, e il suo rispetto è sottoposto al controllo della Corte suprema[11].

2.2. Sugli aspetti sia normativi che epistemologici della prova scientifica, punto di riferimento importante è la sentenza Cozzini, in materia di esposizioni ad amianto e di prova della causalità in relazione al mesotelioma[12]. Lasciando da parte i problemi specifici di tale materia, interessa qui l’impostazione concettuale, che implica anche una presa di posizione in diritto, su ambito e limiti della funzione di nomofilachia: «La Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all'affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni Unite, se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata [...]. Tale valutazione attiene al fatto, è al servizio dell'attendibilità dell'argomentazione probatoria ed è dunque rimessa al giudice di merito che dispone, soprattutto attraverso la perizia, degli strumenti per accedere ai mondo dalla scienza. Al contrario, il controllo che la Corte suprema è chiamata ad esercitarne attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime».

Evidenziando i limiti del giudizio di legittimità, la sentenza Cozzini mette in guardia dall’attribuire il valore di precedente giuridico alle conclusioni raggiunte di volta in volta in singoli processi, relativamente allo stato del sapere scientifico su un dato problema: il sapere scientifico non è questione di nomos, di norme o di interpretazioni normative su cui possa essere esercitato il potere di nomofilachia della Corte suprema. È questione di fatto, che nel giudizio di cassazione può venire in rilievo se e in quanto si traduca in vizi di motivazione[13].

Sul crinale fra principi di diritto (nomos) e implicazioni probatorie (logos) si collocano sentenze relative a pressoché tutti i problemi di parte generale. Un esempio su un istituto cruciale: per precisare condizioni e limiti della prova del dolo, una nota sentenza[14] ha introdotto la formula segnali perspicui e peculiari, distinguendo fra segnali di diversa pregnanza. Da tempo era in uso una formula più generica: “segnali d’allarme”. La questione di segnali da riconoscere, e cui reagire adeguatamente, è questione centrale in tema di colpa: non avere riconosciuto o non avere compreso riconoscibili segnali d’allarme può essere inadempimento di un dovere di diligenza. Per la prova del dolo occorre qualcosa di più: il principio giuridico che sta alla base del problema probatorio è che il dolo è effettiva rappresentazione, e non mera conoscibilità del fatto illecito. L’idea del perspicere – intesa come vedere attraverso – bene esprime il senso del problema probatorio e della sua soluzione: segnale perspicuo è quello che consente, a chi lo abbia percepito e compreso, di perspicere (cioè di vedere attraverso di esso) qualcosa d’altro, e precisamente il fatto costitutivo di reato quale conseguenza d’una propria condotta.

La ricezione dei criteri di razionalità probatoria, additati dalla migliore giurisprudenza di Cassazione, è un mix di ossequio formale, di adeguamenti sostanziali, di resistenze. Sulla sentenza Cozzini, resistenze hanno trovato voce all’interno stesso della 4° sezione della Cassazione[15]: «non credo che il giudice di legittimità potesse indicare al giudice di rinvio un così rigido percorso»; «può il giudice di legittimità indicare al giudice di rinvio accertamenti palesemente impossibili da effettuare?». La sentenza Cozzini (questo mi sembra il succo della critica) avrebbe invaso un campo riservato al giudice di merito, eccedendo dai limiti del sindacato sulla motivazione, e arrivando a imporre un onere impossibile, preclusivo della possibilità di accertamento del nesso causale, ostativo dunque ad affermazioni di responsabilità.

Queste resistenze mostrano come la custodia del logos, della razionalità dell’approccio, rischia di essere messa in discussione da preoccupazioni ed esigenze legate ai conflitti e ai problemi probatori di vicende concrete. In situazioni di incertezza scientifica sull’esistenza di una ‘legge di copertura’, e ancor più in situazioni d’incertezza fra più ipotesi esplicative concorrenti, la mancata prova della causalità è un esito che non sappiamo se sia, nel singolo caso, tutela dell’innocente, o non invece mancato riconoscimento di come siano davvero andate le cose (con conseguente mancata tutela delle vittime). E ciò tocca proprio situazioni in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali, come la salute o l’incolumità personale, di fronte a fattori di rischio riconosciuti o comunque non implausibili.

Le critiche concettuali danno corpo a un disagio applicativo, visto dalla parte dell’accusa. Non hanno colto la continuità (di problemi e di approccio) della sentenza Cozzini con la Franzese, nella difesa di criteri di razionalità del giudizio. Additando i limiti del nomos e della funzione di nomofilachia, la sentenza Cozzini si è impegnata in una strenua difesa della cittadella dei giudizi di fatto[16], contro resistenze motivate da prese di posizione assiologiche. Il rigido percorso razionale dettato al giudice di merito (per qualsiasi giudizio di merito, non solo il giudizio di rinvio) è per così dire un percorso di interrogazione razionale dei saperi scientifici sul mondo dei fatti.

Sulla questione del dolo (dei requisiti minimi e della prova) il quadro è più complicato. La sentenza delle Sezioni Unite che rappresenta l’attuale punto di riferimento[17] ha osservato che «il momento dell’accertamento, pur essendo analiticamente distinto dalla struttura e dall’oggetto della fattispecie, tende a compenetrarvisi e ad assumere un ruolo in concreto cruciale». Questa realistica constatazione pone il problema se le definizioni della fattispecie (in particolare dei requisiti minimi: il dolo eventuale) forniscano criteri sufficientemente precisi, utilizzabili come premesse del problema probatorio; il rischio della retorica, ben evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza Thyssen, non è estraneo a certe formulazioni anche di questa ampia (forse troppo ampia) sentenza. Quanto meno precisa la fattispecie, tanto maggiore il rischio di slabbramenti applicativi. L’enunciazione di indicatori di dolo, tentata dalle Sezioni Unite, è tutta calata su questioni di accertamento, e rischia di appannare (invece che chiarire) i confini fra dimensione sostanziale e dimensione processuale.

Argomenti assiologicamente colorati, che pure si intersecano con problemi di fatto, possono e debbono essere tenuti fuori dalle questioni di accertamento fattuale, e vanno invece colti quali problemi di carattere normativo, entro il diritto condito o sul piano della politica del diritto. Una volta che sia stata fatta la scelta normativa, le conseguenze sul piano degli accertamenti fattuali sono questione di razionalità nell’accertamento di fatti che fanno ostinata resistenza[18] a opzioni di valore o di potere. Sullo sfondo, un principio che è anche normativo: in dubio pro reo.

Nella giurisprudenza di cassazione, i principi di razionalità riaffermati nelle sentenze più importanti convivono con decisioni relative a istituti (misure cautelari, o di sicurezza, o di prevenzione) per i quali gli standard di valutazione meno rigorosi di quello (l’oltre il ragionevole dubbio) che regge il giudizio sulla responsabilità penale. Tenere rigorosamente distinti questi campi nella fruizione della giurisprudenza, sarebbe necessario per evitare contaminazioni degli standard, a detrimento dello standard dell’oltre il ragionevole dubbio nei giudizi di merito. E nel giudizio di merito non ci si potrà coprire dietro motivazioni della Corte di cassazione che per definizione non riguardano il merito.

3. Ermeneutiche del diritto e del fatto

Sugli approcci ermeneutici del diritto giurisprudenziale, relativi a questioni di puro diritto, azzardo l’ipotesi che sul metodo vi sia un consenso di fondo, rivestito di linguaggi diversi (anche molto diversi). Consenso sulla priorità dell’interpretazione letterale, con la consapevolezza che un problema esegetico serio non può essere risolto con la lettura di un dizionario. Consenso sulla dimensione “di sistema” dell’interpretazione del diritto. Consenso sulla centralità dei principi costituzionali. Detto nel linguaggio dell’ermeneutica, «l’orizzonte generale dei valori-guida espressi nella Costituzione non può non divenire la precomprensione dell’interprete del diritto positivo» nell’accostarsi ai testi normativi[19].

Nelle più significative divergenze d’interpretazione sono leggibili precomprensioni divergenti sugli stessi principi costituzionali, e su funzioni e limiti del diritto penale. Hanno a che fare con la tensione di fondo del problema penale: garantismo liberale versus finalità di tutela “autoritaria”. I problemi ermeneutici più delicati coinvolgono concezioni relative ai principi materiali del sistema, al telos e ai confini degli istituti, ai significati della legalità, al principio di uguaglianza nelle sue varie dimensioni (ragionevolezza, proporzione).

3.1. Non è questa la sede per un’analisi degli indirizzi (o ideologie) che attraversano la giurisprudenza di legittimità e di merito. Vastissimo sarebbe il campo da esplorare, e sarebbe utile un lavoro sistematico di esplorazione, soprattutto sui modi e sulle difficoltà di ricezione ermeneutica di principi costituzionali.

Critiche dottrinali hanno da sempre posto in rilievo un’insufficiente considerazione del principio di legalità, in particolare sotto il profilo della determinatezza. Propongo un esempio relativo al profilo dell’irretroattività, che mi sembra idoneo a illustrare una defaillance ermeneutica del giudice di legittimità: sono applicabili all’autore o concorrente nel reato disposizioni sanzionatorie più severe, successive alla sua condotta ma anteriori all’evento o al momento consumativo del reato? Sentenze recenti hanno dato risposta affermativa[20]: sarebbe il momento consumativo il punto di riferimento della disciplina della successione di leggi, in qualsiasi caso e per tutti i concorrenti nel reato[21]. La dottrina è compatta nell’argomentare che, per la disciplina della successione di leggi, momento di riferimento sono le condotte, e non l’evento. È questa l’unica ricostruzione ragionevole sia nell’ottica della prevenzione generale, sia in ottica di garanzia: per ciascuno degli agenti è la legge del tempo in cui agisce, quella che è tenuto a rispettare e che lo ammonisce delle conseguenze dell’eventuale violazione. Negare rilievo a una disciplina più severa sopravvenuta alla condotta contraria alla legge, è la sostanza del principio di irretroattività: nessuno lo negherebbe per quanto concerne l’area del vietato, e non c’è alcuna ragione che giustifichi una lettura diversa in relazione ai profili sanzionatori.

Insomma: assumere per ciascun autore o concorrente le proprie condotte (non l’evento) quale momento di riferimento rilevante per la disciplina della successione di leggi, è l’esito ragionevole del procedimento ordinario di interpretazione, se fra le precomprensioni del sistema c’è la dimensione costituzionale del principio di irretroattività. Le sentenze citate sottendono una precomprensione diversa (è l’evento il momento consumativo) senza saggiarne la pertinenza al problema specifico (di carattere costituzionale) dell’irretroattività della lex gravior.

Altro capitolo cruciale, il principio di colpevolezza, punto decisivo per la decisione in un gran numero di processi; il secondo aspetto del principio di legalità, lo ha definito la Corte costituzionale nella sentenza n. 364/1988. Sui criteri d’imputazione soggettiva non è estraneo alla giurisprudenza un volto garantista (per es. le sentenze delle Sezioni Unite sull’art. 586 cp[22] e sul dolo eventuale[23]) ma persistono indirizzi tradizionali discutibili, per es. in tema di errore, o sull’art. 116, o sul delitto preterintenzionale. Sui requisiti minimi del dolo e della colpa, si confrontano nella giurisprudenza culture e sensibilità diverse.

3.2. Nel circolo ermeneutico, diritto e fatto si intrecciano. La materia del diritto è ritagliata nella realtà dei fatti del mondo e della vita: una realtà che accostiamo e comprendiamo mediante un apparato linguistico e concettuale pre-formato rispetto al diritto, nel quale il diritto innesta le sue tipizzazioni (le fattispecie di reato, la definizione dei presupposti della responsabilità penale)[24]. Quaestio facti e quaestio juris sembrano sovrapporsi, ma restano logicamente distinte: pensarle separate può apparire artificioso e falso, ma «negare la loro distinzione è falso e oscurantista»[25]. La qualificazione giuridica di un fatto presuppone l’accertamento dei suoi aspetti giuridicamente rilevanti: non solo aspetti materiali (per es.: quali parole l’imputato ha pronunciato?) ma anche significati culturali (sono parole offensive?). Anche la valutazione di offensività d’una manifestazione espressiva – come qualsiasi altra valutazione etico-sociale che possa interessare il diritto – ha una dimensione fattuale, radicata nel sentire sociale, alla quale la valutazione giuridica è agganciata.

Vi sono dunque problemi definibili di interpretazione del fatto: non di verifica materiale, ma di ricognizione di significati socioculturali di un fatto ben individuato nella sua materialità. L’esempio surriportato, relativo a una fattispecie costruita su un elemento normativo di valutazione culturale, pone in evidenza che l’ordinamento ha a che fare con un sostrato di concezioni culturali e normative, di cui la legge è specchio e prodotto, e che ciò ha rilievo sia per l’interpretazione (la ricognizione del significato della norma) sia per la ricognizione di profili non meramente naturalistici del fatto concreto.

Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma (della fattispecie) sono concettualmente distinguibili, ma la distinzione resta coperta da dimensioni culturali e valutative cui il diritto rinvia. Nelle usuali fotografie del diritto giurisprudenziale, la dimensione fattuale (socioculturale) appare assorbita nella qualificazione giuridica: nella conclusione (per es.) che una vignetta satirica è o non è un’offesa illecita della religione cattolica o di quella islamica. La sussunzione presuppone, da un lato, un’ermeneutica del diritto: a quali elementi o valori socioculturali la norma fa riferimento? Dall’altro lato, un’ermeneutica del fatto, alla stregua dei valori socioculturali di riferimento. Su questo tema furono avviate negli anni ’60, in un clima culturale che metteva in discussione la cultura giuridica tradizionale, indagini sui valori socioculturali nella giurisprudenza[26].

Ciò che fa problema è il retroterra culturale delle ermeneutiche sia del fatto che del diritto, fra di loro connesse ma concettualmente da distinguere. A quale sapere comune, a quale saggezza sulle cose del mondo attingono i giudici, sia di merito che di legittimità? La risposta a questi interrogativi, che pongono questioni di fatto, non può essere data una volta per tutte: le culture (e i limiti di cultura) di giudici e giuristi sono quel che sono. Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, c’è da prendere atto che il giudizio del giudice ha sempre bisogno di un sapere sul mondo, necessario alla stessa comprensione del diritto, oltre che all’accertamento e all’ermeneutica del fatto. Anche la giurisprudenza di legittimità si confronta con problemi di questo tipo. Per le ermeneutiche sia del fatto che del diritto c’è bisogno di un sapere non soltanto giuridico (humanarum rerum notitia, c’è ancora scritto sui muri di nostri palazzi di giustizia); e c’è bisogno di saggezza, fronesis. Di quale sapere e saggezza delle cose del mondo la giurisprudenza sia espressione, è problema che meriterebbe una rinnovata attenzione.

4. Dogmatica e retorica nella giurisprudenza di legittimità

La funzione di nomofilachia è controllo di principi giuridici: è esegesi e ricostruzione sistematica dell’ordinamento positivo, argomenta rationes decidendi. Lo studio del cd. diritto giurisprudenziale si interessa dei principi enunciati e delle applicazioni che ne vengono fatte. Può parlarsi di una dommatica giurisprudenziale? La questione concerne l’apparato linguistico e concettuale di cui la giurisprudenza fa uso: strumento neutro di comunicazione, o anche di argomentazione?

La costruzione di sistemi concettuali non è questione di dover essere, di nomos e nomofilachia. Sui concetti, il potere giudiziario non ha potere, se non quello legato all’interpretazione di norme di legge: esegesi, e nulla di più. La teoria giuridica può parlare linguaggi diversi.

Un buon linguaggio ha bisogno di concetti rigorosi, chiari, ben comprensibili. Parlare con parole precise[27] è un’esigenza che per la legge penale è addirittura vincolo costituzionale (principio di precisione come corollario del principio di legalità); è vincolo di razionalità per discorsi “scientifici”, e vincolo anche etico per discorsi che siano esercizio di potere.

L’uso della retorica è un rischio cui il linguaggio dei giuristi è esposto. Anche il linguaggio della giurisprudenza. Un esempio: la formula della probabilità logica, introdotta dalla sentenza Franzese, è stata piegata (come la sentenza Cozzini ha rilevato) a «degenerazioni di tipo retorico [...] si propone una qualunque argomentazione comune e si afferma apoditticamente che è, appunto, dotata di alta probabilità logica, così eludendo l'esigenza di una ricostruzione rigorosa del nesso causale».

Esigenza di precisione e rischio di usi retorici: poli opposti del problema del linguaggio di giuristi e giudici.

Formule dogmatiche sono disponibili per usi innocuamente scolastici, ma anche ad essere impropriamente calate nell’argomentazione in diritto. Un esempio è l’uso delle etichette di reato di pericolo, o di pericolo astratto o presunto: formule che si prestano a tramutarsi in retorica del pericolo, sostegno di interpretazioni e applicazioni espansive. Pura retorica (consapevole o inconsapevole) è l’uso della formula pericolo presunto, in casi in cui il problema ermeneutico è di ricostruire il tipo di fatto cui si vuol riferire la classificazione dogmatica (poniamo, il problema se sia bancarotta per distrazione l’operazione di cui si discuta nel processo). Parlare di presunzione ha senso là dove sia già compiutamente ricostruito, in fatto e in diritto, il presupposto su cui poggia la presunzione; se invece il problema in discussione è la ricostruzione ermeneutica del fatto tipico, introdurre l’etichetta di pericolo presunto non serve a risolverlo. Può però retoricamente suggerire uno slabbramento della fattispecie, atto a ricomprendere il fatto di cui si discuta[28].

Pressoché su tutti i problemi importanti, formule “dogmatiche” rischiano di coprire la sostanza di problemi che riguardano sia la ricostruzione concettuale della fattispecie, sia la conseguente impostazione dei problemi di accertamento: il complesso di problemi che abbiamo visto affrontati nelle sentenze che hanno davvero fatto giurisprudenza, e che attendono di essere affrontati in altri campi allo stesso livello, liberati dalla retorica di formule vuote.

5. Custodia del diritto, o dei diritti delle parti?

5.1. Ritorno al problema del vertice ambiguo: come debba essere il giudice supremo, la sua funzione, la sua struttura. Custodia del diritto oggettivo, o dei diritti delle parti? La questione va inquadrata nel modello istituzionale di cui si tratta di definire il vertice. La logica della funzione giudiziaria porta in primo piano il giudizio, la correttezza di decisioni che hanno ad oggetto fatti concreti, interessi e diritti di persone che attendono giustizia.

La custodia del nomos intende essere, nei contenuti, custodia di diritti in gioco nel processo. Il giudice supremo, che pure non è giudice del fatto, è il vertice del sistema che produce il diritto giurisprudenziale, l’insieme di decisioni su fatti e su eventuali responsabilità concrete. Un sistema di law enforcement che è fatto anche di iniziative investigative ed accusatorie, di ciò che la macchina giudiziaria seleziona o non seleziona; di sentenze di merito che seguono indirizzi consolidati e talora controversi. Le sentenze della Corte suprema sono solo una parte del diritto vivente, e solo in piccola parte sono di autentica nomofilachia.

La conoscenza della giurisprudenza di Cassazione è filtrata da meccanismi istituzionali (ufficio del massimario[29]) e dai circuiti dell’informazione giuridica. Le sentenze sono prodotte in condizioni di lavoro difficili, aggravate da troppi ricorsi che non hanno altro scopo se non dilatorio. È naturale pensare a una “stretta” delle condizioni di ammissibilità. Espungere il controllo sulla motivazione? La riflessione sulla giurisprudenza di Cassazione, di cui queste pagine sono un frutto, mi ha mostrato un quadro nel quale la custodia del logos non è meno importante della custodia del nomos, e a questa è intrecciata su punti decisivi per la tenuta delle garanzia fondamentali di affidabilità della giurisdizione nel suo complesso.

Dall’angolo visuale del cittadino, la tenuta di questo quadro ha bisogno di essere rafforzata. Se i fiori all’occhiello della Corte di cassazione sono sentenze come la Franzese e la Cozzini, la custodia della razionalità della motivazione in fatto deve restare nelle mani di un giudice che ne sia all’altezza. Non necessariamente accentrato a Roma; il custode della razionalità del giudizio di fatto, attraverso il controllo sulla motivazione, potrebbe essere un organismo ragionevolmente più ampio e articolato dell’organo titolare della funzione di nomofilachia in senso stretto.

5.2. La legge di riforma approvata nel giugno 2017, col prevedere in capo alle Sezioni semplici un obbligo di rimessione alle Sezioni Unite qualora non condividano il principio di diritto da queste enunciato (nuovo comma 1-bis inserito nell’art. 618 cpp), rafforza lo status delle Sezioni Unite quale giudice supremo, reale custode del nomos. È una scelta discutibile, nel senso letterale del termine: possono essere addotte buone ragioni a favore e contro. Di fronte alla scelta effettuata dal legislatore, ritengo ragionevole assumerla come un punto fermo, e ragionare sulle sue implicazioni.

La riforma ha affidato alla custodia dell’organo più autorevole un’esigenza di coerenza e stabilità giurisprudenziale. Un’esigenza particolarmente forte con riguardo alla definizione e alla garanzia dei diritti delle parti nel processo, e a problemi di diritto sostanziale sui quali sia in gioco la qualità di giustizia del sistema. Il rafforzato potere delle Sezioni Unite – da esercitare con parsimonia – dovrebbe concentrarsi su problemi davvero importanti.

Stella polare della nomofilachia in materia penale dovrebbe essere il modello di legalità e di rapporto giudice/legge delineato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 24/2017[30]. Nel dialogo con la Corte Ue (vicenda Taricco) è premonizione di un controlimite rispetto al dictum dei giudici di Lussemburgo. Vi si coglie un messaggio di portata generale, sintetizzabile come ripulsa dell’idea di un giudice di scopo[31]. Riguarda la tenuta delle garanzie di legalità, di cui il giudice è custode, dentro un sistema della cui razionalità è parte essenziale la complessa teleologia del diritto criminale/penale e dei meccanismi del law enforcement. Questa proiezione finalistica dell’istituzione nel suo insieme è in rapporto di tensione con l’imparzialità doverosa in ciascun singolo giudizio, che significa indipendenza del singolo giudizio da finalità ad esso esterne. È una tensione costitutiva dei sistemi di giustizia penale, che non può essere eliminata, e va tenuta sotto rigoroso controllo. Sta qui l’importanza – il valore di civiltà – della migliore giurisprudenza di cassazione.

Il volto più discutibile sta in indirizzi che riguardano il processo ed incidono su basilari garanzie formali del contraddittorio (contestazione dell’accusa e corrispondenza fra accusa e sentenza). Nella giurisprudenza anche di legittimità, decisivo rilievo viene dato a una asserita astratta possibilità di difendersi, in relazione a materiali comunque entrati e riconoscibili nel processo. La ragione sostanziale di critica (verso un legislatore distratto o verso la giurisprudenza) è che le interpretazioni e le prassi correnti non responsabilizzano fino in fondo il pubblico ministero rispetto alla sua principale responsabilità, quella di selezione precisa delle ipotesi d’accusa di cui si chiede la prova. Salvare contestazioni del tipo «colpa consistente fra l’altro in ...», o di concorso nel reato senza descrizione della ipotizzata condotta di partecipazione, danno copertura a prassi sciatte o spregiudicate dell’accusa, alleggerendone l’onere di precisione e di dare ragioni delle sue scelte. Siffatti indirizzi sono un obiettivo cedimento a ottiche “di scopo” sbilanciate verso il polo dell’efficienza repressiva.

Lo stesso è a dirsi di indirizzi relativi al diritto sia processuale che sostanziale, che di fatto tendono a restringere la portata di principi di garanzia (legalità, offensività, colpevolezza, prova d’accusa oltre il ragionevole dubbio). Sta qui l’autoritarismo ben intenzionato[32] nel quale da tempo ravviso il lato ambiguo della giustizia penale in azione.

Vi è infine il campo vastissimo della discrezionalità giudiziale in materia di sanzioni. Ci siamo assuefatti all’enorme potere del giudice nella gestione degli istituti del sistema sanzionatorio[33]: un potere sul quale il controllo di legittimità ha poca presa. Dubito che un recupero di legalità e razionalità sia possibile senza una revisione e semplificazione della disciplina legislativa.

5.3. Per la custodia dei diritti delle parti è importante anche il limite dei poteri attribuiti ai custodi, e il controllo sul loro esercizio, se vogliamo che si tratti di custodia del nomos, e non di creazione giudiziaria del nomos. Proprio nei casi di maggiore delicatezza, in cui l’interpretazione ha a che fare con questioni pregne di valori, e/o con la tenuta garantista della legalità penale, è più forte l’esigenza di un confronto dispiegato sulla legalità sostanziale, fino a rimettere in discussione la custodia del nomos, in nome di una migliore ermeneutica del nomos.

Per la parte del processo, che sostiene un’accusa o si difende davanti al suo giudice, il vincolo del giudice alla legge è il punto di forza che consente di argomentare sulla protezione del diritto, anche di fronte a indirizzi giudiziari autorevoli, ma ragionevolmente discutibili. Fonda il diritto della parte a una risposta del suo giudice, su tutti i punti di fatto e di diritto in cui si articola l’accusa o la difesa; una risposta che, in diritto, tenga conto delle ragioni introdotte; soprattutto se si tratta di ragioni nuove, nelle conclusioni o negli argomenti.

Per qualunque giudice intenda disattendere un indirizzo già affermato, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 230/2012, ha additato la strada: un onere di adeguata motivazione. È anche un onere per le parti che chiedano una revisione di indirizzi giurisprudenziali. L’adempimento dell’onere dà diritto ad una adeguata risposta, non appiattita sulla autoritaria riaffermazione di un indirizzo sottoposto a critica con argomenti nuovi. Un ipotetico vincolo rigido al precedente – negato dalla Corte costituzionale – mi parrebbe di dubbia compatibilità non solo con l’art. 101 Cost., ma anche con la sostanza del diritto di difesa.

Non è in discussione l’ovvia esigenza di stabilizzazione giurisprudenziale, della quale ha bisogno la tenuta di un sistema di legalità. Proprio il primato della legalità segna il limite anche di quell’ovvia esigenza: la norma generale e astratta come vincolo per tutti (per i consociati e per le istituzioni) e come garanzia anche di fronte all’autorità di nomofilachia. Di fronte ad ogni esercizio di potere c’è un’esigenza di controllo, che, se non può essere affidato ad un potere formale, è comunque affidato all’uso della libertà di pensiero e di parola, su cui non v’è una parola definitiva.

[1] G. Fidelbo, Sezioni semplici e Sezioni unite fra legge e precedente, in AA.VV., Cassazione e legalità penale (Convegno Parma, 9-10 ottobre 2015), a cura di A. Cadoppi, Roma 2017, p. 132.

[2] E. Lupo, Cassazione e legalità penale. Relazione introduttiva, in Cassazione e legalità, cit., p. 47.

[3] E. Lupo, op. cit., p. 48.

[4] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, § 4.

[5] Traggo questa espressione da R. Rordorf, Editoriale di Questione giustizia, n. 4/2016, numero monografico su Il giudice e la legge, in www.questionegiustizia.it/rivista/2016/4/editoriale_393.php. È usata in un diverso senso da P. Grossi, Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari 2015.

[6] C. cass. Sezioni Unite, 10 luglio 2002, Franzese (est. Canzio).

[7] «Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile».

[8] G. Tuzet, Filosofia della prova giuridica, Giappichelli, Torino 2016, p. 181.

[9] È la definizione di Peirce, riproposta da G. Tuzet, La prima inferenza. L’abduzione di C.S. Peirce fra scienza e diritto, Giappichelli, Torino 2006, p. 2. Sul ragionamento qui svolto, op.cit., p. 4-9.

[10] G. Tuzet, Filosofia, cit., p. 129.

[11] Su questi aspetti cfr. Cass. 22 ottobre 2014, n.49029; Cass. 28 marzo 1995, n. 4668.

[12] Cass., sez. 4°, 17.9.2010, n. 43786, Cozzini, in Cass. pen. 2011, p. 1679s., con nota di R. Bartoli. Fra i molti commenti, M. Barni, Il medico legale e il giudizio sulla causalità: il caso del mesotelioma da asbesto, in Riv. it. med. leg., 2011, pp. 489 ss.; P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica, in Dir. pen. e processo, 2011, pp. 1341 ss.

[13] Lascio qui fra parentesi la questione di come il giudice di merito possa riuscire a distinguere il sapere disponibile dalla scienza spazzatura, e le questioni relative al merito scientifico delle diverse tesi che si confrontano nei processi penali. La scienza giuridica non ha competenza in materia di scienze naturali, e può restare a guardare dalla riva la battaglia scientifica. Magistrati e avvocati, invece, sono nel campo di battaglia; debbono discutere anche di scienza, come di ogni altra questione di fatto.

[14] Cass. 4 maggio 2007, n. 23838, in Le società, 2008, p. 902 s., con nota di D. Pulitanò; in Cass. pen., 2008, pp. 103 ss., con nota di F. Centonze (caso Bipop-Carire).

[15] C. Brusco, Il rapporto di causalità, Giuffrè, Milano 2012, p. 180.

[16] Traggo questa espressione da G. Fiandaca, Sui giudizi di fatto nel sindacato di costituzionalità in materia penale, tra limiti ai poteri e limiti ai saperi, in Studi in onore di Mario Romano, I, Milano 2011, p. 268.

[17] Cass. Sezioni Unite. 24 aprile 2014 n. 38343, Thyssen. Fra i commenti dottrinali:. G. Fiandaca, Le sezioni unite tentano di diradare il mistero del dolo eventuale, e M. Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, pp. 1938 ss., 1953 s.; G. de Francesco, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, in Cass. pen.2015, pp. 4624 ss.

[18] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

[19] G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 98.

[20] Cass. 17.4.215, n. 22379, in materia di omicidio colposo. Cass. 13.3.2014, n.19008, in Cass. Pen. 2015, pp. 1872 ss.: è applicabile al concorrente una aggravante introdotta successivamente alla sua condotta, prima della consumazione del reato a seguito di condotte di altri.

[21] Le motivazioni richiamano la giurisprudenza su casi, come il reato permanente, in cui l’applicazione di questo principio ha fondato (giustamente) l’applicazione di norme più severe entrate in vigore dopo l’inizio ma prima della cessazione della permanenza. Poiché la prosecuzione della condotta costitutiva di reato permanente costituisce violazione delle disposizioni entrate in vigore durante la sua commissione, ciò ne fonda l’applicazione nel pieno rispetto della funzione garantista del principio di legalità; il decreto legge emanato pochi giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, i sequestratori lo hanno violato, mantenendolo prigioniero.

[22] Cass., sez. unite, 22 gennaio 2009, n. 22676, sull’art. 586 cp. Non allineata con questa impostazione è la giurisprudenza sull’omicidio preterintenzionale.

[23] La già citata sentenza Thyssen, nonché quella sul dolo di ricettazione, sezioni unite 26 novembre 209, n. 23.

[24] Cfr. K. Engisch, Vom Weltbild des Juristen, Heidelberg 1965, p. 9.

[25] G. Tuzet, La prima inferenza, cit., p. 136.

[26] Anche il sottoscritto ne è stato coinvolto: cfr. AA.VV., Valori socioculturali della giurisprudenza, Laterza, Bari 1970.

[27] Traggo questa espressione da uno scrittore che era stato magistrato: G. Carofiglio, Con parole precise. Breviario di scrittura civile, Laterza, Roma-Bari 2015.

[28] L’interprete della legge dovrà tenere conto della pregnanza semantica dei concetti usati dal legislatore: questa terminologia è stata da tempo introdotta dalla dottrina a proposito di figure di reato descritte dal legislatore con termini il cui significato è così pregnante, da consentire già sul piano letterale la selezione come fatti penalmente rilevanti dei soli comportamenti concretamente pericolosi. D. Petrini, Reati di pericolo e tutela della salute dei consumatori, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 37 ss.

[29] Meritevoli d’attenzione i rilievi di D. Micheletti, Le fonti di cognizione del diritto vivente, in Criminalia, 2012, pp. 619 ss.

[30] Dal § 9: «l’attività del giudice ... deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate. In questo principio si coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire».

[31] C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia, in Dir. pen. Contemporaneo, 3-4-2017, www.penalecontemporaneo.it/d/5317-tra-antigone-e-creonte-io-sto-con-porzia.

[32] Ho usato questa formula per la prima volta in D. Pulitanò, Supplenza giudiziaria e poteri dello Stato, in Quaderni costituzionali, 1982, pp. 93 ss.

[33] Una riflessione su questo tema è stata rilanciata, con riferimento a un istituto specifico, da F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv.it. dir. proc. Pen., 2015, pp. 1743 ss.