Magistratura democratica

Danno antitrust, scopo della norma violata e funzioni della responsabilità civile

di Claudio Scognamiglio

La responsabilità civile per violazione della disciplina antitrust, nel quadro della regolamentazione della medesima contenuta nel decreto legislativo 3/2017, si delinea come un istituto suscettibile di essere ricondotto largamente alla disciplina generale del codice civile, benché in materia antitrust il procedimento valutativo che è imposto al giudice dall’articolo 2043 codice civile si svolga essenzialmente attraverso la tecnica della rilevazione dello scopo di protezione della norma violata.

1. Giudice e legge nel danno antitrust

Nell’ambito di una riflessione sulla fisionomia della responsabilità civile fra il giudice e la legge, secondo il titolo suggestivo che ci è stato proposto dal curatore di questo fascicolo, non poteva certamente mancare la trattazione dell’argomento del danno da violazione della disciplina antitrust: e questo per una duplice ragione.

Infatti, da un primo angolo visuale, è noto che, già in prospettiva generale, il procedimento valutativo nel quale si risolve la qualificazione del danno nel senso dell’ingiustizia interpella in pieno la questione dell’ambito dei poteri spettanti al giudice in sede di concretizzazione della clausola generale racchiusa nell’art. 2043 cc ovvero, secondo una diversa linea ricostruttiva circa la portata di questa disposizione, nella rilevazione della situazione giuridica soggettiva previamente riconosciuta dall’ordinamento, la lesione della quale possa innescare la tutela aquiliana[1]. Lo stesso procedimento – così come si avrà modo di verificare sinteticamente tra breve – pare in effetti delinearsi in termini ancora più articolati, e dunque per ciò stesso più suggestivi, in materia di danno antitrust: infatti, in quest’ultimo ambito, a voler condividere un’ipotesi ricostruttiva dottrinale già da tempo formulata, «l’ingiustizia del danno è affidata ad una più complessa valutazione alla stregua della quale il danno è contra ius se, e solo se, discende dalla trasgressione di norme poste a presidio di un bene irriducibile alla sfera giuridico patrimoniale del privato»[2]. Su questa premessa, l’attribuzione della tutela risarcitoria implica, nella materia del danno antitrust, una verifica preliminare, inevitabilmente affidata all’attività valutativa del giudice, quanto al contenuto di tutela della norma violata, secondo il modello dello Schutzgesetz, presente - com’è noto - nel sistema germanico di responsabilità civile (al § 823, Abs. II) oltre che specificamente nella materia concorrenziale (dove è contemplato dal § 35 GWB - Gesetz gegen Wettbewerbbeschränkungen)[3].

Se la notazione appena svolta si colloca evidentemente nel momento iniziale del giudizio di responsabilità civile, vi è un altro aspetto della questione del risarcimento del danno antitrust, pure attinente all’ambito dei poteri del giudice, ed ai rapporti tra questi e la disciplina normativa della materia, che si pone invece nel momento finale del procedimento che si chiude con la condanna risarcitoria: e cioè la quantificazione del danno, la quale, come affermato in un considerando della Direttiva 2014/104/Ue, «nelle cause in materia di concorrenza è un processo che richiede l’analisi di un gran numero di elementi fattuali e che può esigere l’applicazione di modelli economici complessi»[4]. Su questo secondo piano del discorso viene in considerazione, com’è noto, la disciplina del d.lgs 19 gennaio 2017 n. 3 che ha dato appunto attuazione alla Direttiva 2014/104/Ue: quest’ultima, a sua volta, si colloca, ed anche qui si tratta di un rilievo sufficientemente acquisito, nella prospettiva di agevolare le azioni civili volte ad ottenere il risarcimento del danno causato dalla violazione della normativa antitrust, sulla premessa che la repressione delle condotte anticoncorrenziali sia in grado di conseguire meglio gli obiettivi che si prefigge se quelle azioni civili si collocano accanto alle tecniche rimediali di natura pubblicistica promosse dalla Commissione europea o dalle singole autorità garanti dei diversi ordinamenti giuridici[5]. Da questo ulteriore angolo visuale, dunque, una riflessione sul risarcimento del danno antitrust intercetta anche l’argomento delle funzioni della responsabilità civile, che ha conosciuto, da ultimo, una ripresa di interesse soprattutto a seguito dell’intervento delle Sezioni unite sulla delibabilità della sentenza del giudice straniero recante condanna al risarcimento di danni punitivi[6]; e questo benché, com’è noto, la disciplina normativa del risarcimento del danno antitrust, così come racchiusa, sul punto, all’art. 1, co. 2° del d.lgs 19 gennaio 2017 n. 3, stabilisca senz’altro che «il risarcimento comprende il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi e non determina sovracompensazioni», in questo modo collocando in pieno il risarcimento del danno antitrust all’interno delle tradizionali coordinate della funzione compensativa della responsabilità civile[7].

Le notazioni introduttive fin qui svolte sono di per sé sufficienti a rendere evidente le ragioni di interesse di una riflessione che selezioni, in relazione alla prospettiva evocata nel titolo di questo breve scritto, gli spunti di maggiore significato della questione del risarcimento del danno antitrust: riflessione che muoverà dalla verifica circa le possibilità ricostruttive offerte, in generale e nello specifico settore del risarcimento del danno antitrust, dal modello della responsabilità per violazione di norme di protezione, per poi volgersi, anche alla luce delle indicazioni provenienti dal d.lgs 3/2017, ad alcune considerazioni sul modo in cui si inserisca nel sistema il rimedio risarcitorio che dallo stesso sembra accreditato.

2. Risarcimento del danno antitrust e norma di protezione

Nel solco di quanto da ultimo accennato, si delineano due questioni, la prima delle quali, che sarà affrontata in questo capitoletto, è attinente di nuovo ad una prospettiva ricostruttiva generale dell’istituto aquiliano, e cioè la stessa utilizzabilità, nell’ambito del sistema italiano di responsabilità civile, della tecnica dello Schutzgesetz o norma di protezione[8]; mentre la seconda si interroga circa la possibilità di configurare in tali termini le norme racchiuse nella l. 287/90.

Dal primo punto di vista, si deve riconoscere che la mancata previsione, nel nostro sistema di responsabilità civile, di una regola analoga a quella del § 823 Abs. II BGB – che appunto introduce, quale ulteriore possibile criterio di valutazione del danno risarcibile, l’ipotesi in cui il comportamento dell’agente, pur non incidendo su uno dei beni specificamente protetti in sede aquiliana, violi una norma posta a protezione dell’interesse di un soggetto - non può certamente condurre di per sé alla conclusione che la tecnica della norma di protezione sia affatto estranea al nostro ordinamento. Del resto, l’art. 185 cp, laddove accolla all’autore di un illecito penalmente rilevante l’obbligo di risarcire il danno patrimoniale o non patrimoniale che ne sia derivato, senza richiedere un’ulteriore qualificazione di ingiustizia di tale danno, sembra effettivamente riprodurre un assetto normativo analogo a quello che si realizza, nell’ambito del sistema tedesco, attraverso lo Schutzgesetz. E si è da tempo sottolineato in dottrina che la norma di protezione può costituire una tecnica di tutela di portata tendenzialmente generale ed antitetica a quella che si realizza attraverso l’attribuzione di diritti soggettivi, negandosi anzi che tale tecnica possa vedere “appiattita” la propria funzionalità sulle sole ipotesi di rilevanza penale della condotta del danneggiante[9].

Peraltro, la presenza – all’interno del nostro sistema di responsabilità civile – della qualifica di ingiustizia come peculiare parametro di rilevanza del danno nel senso della sua risarcibilità impone a questo punto di interrogarsi sulla relazione che si instaura tra tale criterio di qualificazione del danno e “norme” dell’ordinamento, di per sé intese alla tutela di un bene giuridico irriducibile a schemi appropriativi tradizionali di un singolo individuo, ma con riferimento alle quali sia dato ravvisare altresì uno scopo di protezione di una sfera patrimoniale individuale: cosicché dalla loro violazione si possa desumere la conseguenza della risarcibilità, in favore del singolo individuo, del danno che ne discende.

In realtà, come è stato dimostrato, la tecnica dello Schutzgesetz, nell’ambito del sistema germanico di responsabilità civile, integra una clausola generale di responsabilità (o, come pure è stato detto, una “mini”clausola generale), volta a temperare - insieme alla previsione del § 826 BGB in materia di danno cagionato dolosamente ed in maniera contraria ai buoni costumi - la rigidità della tipicità enumerativa degli illeciti affermata dal § 823 Abs. I BGB[10]: pertanto, non sembrano sussistere ostacoli di rilievo al suo innesto in un sistema che – secondo una linea ricostruttiva per molti aspetti persuasiva[11] – deve essere definito in termini di tipicità evolutiva degli illeciti.

Si vuol dire che, se la tecnica della norma di protezione ha potuto essere inserita senza difficoltà all’interno di un sistema di responsabilità imperniato sull’Enumerationsprinzip, tanto più essa potrà trovare concreta utilizzazione nell’ambito di un sistema a tipicità evolutiva, come tale non vincolato appunto ad una enumerazione dei beni protetti in via aquiliana, ma in grado di dare ingresso alla tutela risarcitoria tutte le volte che vi sia un indice normativo apprezzabile in tal senso[12]: infatti, da questo angolo visuale, il requisito dell’ingiustizia del danno – posto dall’art. 2043 cc come generale parametro di valutazione del danno ai fini della sua risarcibilità – potrà essere ritenuto sussistente proprio a seguito dell’individuazione dello scopo di protezione della norma (come accade, ad esempio, nell’ambito del già citato art. 185 cp ovvero all’interno della previsione dell’art. 872 cc[13]).

D’altra parte, la compatibilità della tecnica della norma di protezione con il nostro sistema della responsabilità civile è disposta empiricamente da alcune ipotesi nelle quali la giurisprudenza, ravvisando l’esistenza di una fattispecie di responsabilità aquiliana, ha finito per utilizzare, sia pure inconsapevolmente, proprio quella tecnica[14]. Il riferimento è, in particolare, a due casi di responsabilità di organi di vigilanza (il Ministero dell’industria, condannato a risarcire il danno derivato ai risparmiatori a seguito delle attività delle società fiduciarie facenti capo al finanziere Sgarlata[15], il Ministero della Sanità, chiamato a riparare il pregiudizio subito da soggetti che avevano contratto gravissime patologie a seguito del mancato o tardivo controllo espletato da parte di quest’autorità sulle modalità di produzione degli emoderivati[16]), in entrambi i quali la ratio decidendi delle sentenze si fonda sull’accurata individuazione degli ambiti di protezione di discipline normative, all’apparenza destinate soltanto a presidio di un indifferenziato interesse pubblico, ma in effetti ritenute dalle pronunce in grado di sporgersi al di là di là di quel livello, assicurando rilevanza anche all’interesse del privato[17]

3. Il danno antitrust tra specificità degli interessi tutelati e disciplina del codice civile

L’ulteriore aspetto dell’indagine è costituito dalla ricognizione degli interessi di cui la disciplina antitrust possa considerarsi presidio: snodo del discorso che ha trovato, in anni ormai non recenti, ampio sviluppo nell’ambito dibattito dottrinale e quello giurisprudenziale in materia, nel diritto italiano[18], per poi approdare ad una soluzione che può dirsi ormai consolidata e che trova ulteriori elementi di riscontro normativo anche nel d.lgs 3/2017.

Si rammenterà che, sul punto, nella elaborazione dottrinale alla quale si è fatto cenno l’alternativa ricostruttiva era stata netta. Alla stregua di un primo indirizzo, in particolare, si era ritenuto che la disciplina antitrust «è dichiaratamente rivolta alla concorrenza, che come tale è categoria dell’impresa»[19], da ciò traendosi il corollario che l’art. 33, 2° co., poc’anzi citato, dovesse vedere circoscritta la propria funzione alla individuazione del giudice competente: in altre parole, secondo questa impostazione «la dichiarata funzione processuale della norma non consente di attribuirle portata sostanziale», nel senso che «da essa non si possa ricavare il radicamento di una ipotesi nuova di responsabilità civile, diversa perciò da quella che può nascere per disciplina generale», mentre la norma dovrebbe essere interpretata «nel senso che, così come per la nullità, la competenza che essa attribuisce riguardo alle azioni di risarcimento del danno, si riferisce ai soggetti le cui condotte la legge intende regolare per il danno che a taluno di essi possa derivare dalla violazione della disciplina medesima contenuta nella legge»[20]. Pertanto, in capo al consumatore finale non potrebbe dirsi instaurata «la situazione soggettiva necessaria…a comporre la fattispecie di responsabilità extracontrattuale, sotto il profilo dell’ingiustizia del danno prevista dall’art. 2043 cc»[21].

Secondo un contrapposto orientamento dottrinale, invece, l’esclusione della posizione dei consumatori dal novero degli interessi tutelati dalla disciplina antitrust non sarebbe stata sostenibile alla luce della finalità sottesa al riconoscimento della libertà di impresa ex art. 41 Cost., riconoscimento che non sarebbe fine a se stesso, rappresentando, invece, lo strumento per consentire il raggiungimento del maggiore benessere collettivo, in coerenza con le coordinate fondamentali del pensiero liberale: in questa prospettiva, si dovrebbe affermare «la collocazione della legge antitrust fra le discipline che si legittimano costituzionalmente per la finalità di evitare che l’iniziativa economica privata si svolga in contrasto con l’utilità sociale” e sarebbe “coerente ritenere che, fra le ragioni di utilità sociale che giustificano i divieti antitrust alla libertà di comportamento delle imprese, vi sia l’interesse del consumatore a scegliere liberamente e consapevolmente nel mercato ed a massimizzare il proprio benessere»[22].

La considerazione della struttura normativa, oltre che della funzione, delle regole contenute nella l. 287/90 rendeva, in effetti, fin da subito più persuasiva la tesi che escludeva si potesse circoscrivere ai rapporti tra imprenditori il reticolo delle situazioni di interesse dalle stesse contemplate.

Appariva decisivo, in tale ordine di idee, e già prima dell’entrata in vigore del d.lgs 3/2017, il rilievo che la stessa sanzione di nullità delle intese in violazione della normativa antitrust costituisce il punto di emersione di una ratio normativa che trascende le tradizionali dinamiche “corporative” del diritto della concorrenza sleale[23] e rende evidente il configurarsi di quella disciplina normativa come «una serie di regole di diritto oggettivo che si impongono alle imprese nell’interesse collettivo al buon funzionamento del mercato»[24]: conclusione che è, del resto, rafforzata dalla previsione, di una sanzione di tipo affittivo che colpisce le intese vietate dalla norma[25].

Assunta questa premessa, il passo era breve, ed infatti è stato compiuto nei termini dei quali ora brevemente si dirà, per giungere ad affermare che la ratio di rilevanza sovraindividuale dell’interesse non si esaurisce in una generica esigenza di conservazione degli equilibri concorrenziali del mercato, appuntandosi, invece, e concretizzandosi, proprio sullo scopo di protezione dei consumatori, al soddisfacimento dei bisogni dei quali il mercato è, come sopra si osservava, funzionale.

Del resto, la consapevolezza che siano proprio i consumatori ad avere interesse, tra gli altri, se non soprattutto, a che la disciplina della concorrenza si svolga nel migliore dei modi, era propria anche della dottrina che escludeva, poi, che i consumatori stessi siano soggetti ai quali le disposizioni della l. 287/90 si applichi[26]: sennonché, una volta chiarito, alla stregua di un’interpretazione teleologica della legge, che la stessa era funzionale altresì alla tutela degli interessi dei consumatori, sarebbe stato solo un esplicito diniego, contenuto nella stessa, di legittimazione (sostanziale e processuale) dei consumatori ad avvalersi dei rimedi previsti da essa, che avrebbe consentito di circoscrivere lo scopo di protezione della medesima.

Non essendo tuttavia dato ravvisare un diniego di tale portata, si imponeva appunto la conclusione nel senso della configurabilità anche dei consumatori tra i soggetti destinatari della protezione somministrata dalle norme contenute nella l. 287/90. Questo è stato, infatti, l’esito ermeneutico cui è pervenuta, da tempo, la Corte di cassazione, affermando che «la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere»[27].

Può pertanto convenirsi con quell’orientamento dottrinale[28] che, già anni addietro, ravvisava tre categorie di soggetti, gli interessi dei quali possono dirsi pregiudicati da una condotta posta in essere in violazione della disciplina della l. 287/90: i concorrenti, in senso stretto, dell’impresa (o delle imprese) responsabili della condotta antigiuridica, i loro fornitori ed utilizzatori ed infine i consumatori finali, orientamento dottrinale che trova, secondo una notazione largamente condivisa, una conferma sufficientemente univoca proprio nella direttiva 2014/104/Ue e, poi, nella sua disciplina di attuazione[29].

Naturalmente, il discorso appena tratteggiato si ricollega, una volta di più, al problema del ruolo che possa essere attribuito al private enforcement in materia antitrust[30]: e da questo punto di vista la formulazione contenuta nell’art. 1 della direttiva 2014/104/Ue, e ripresa nell’art. 1 del d.lgs 3/2017, secondo il quale la regolamentazione da esso introdotta si riferisce a «chiunque ha subito un danno a causa di una violazione del diritto della concorrenza da parte di un’impresa o di un’associazione di imprese» è stata interpretata nel senso che la stessa assolverebbe senz’altro un ruolo sociale, configurandosi, cioè, come un apprezzabile strumento di protezione sociale dei cittadini dell’Unione, accanto al diritto dei consumatori[31].

Non mancano tuttavia, anche da ultimo, posizioni assai più scettiche circa l’effettiva idoneità degli strumenti della responsabilità civile ad essere utilizzati proficuamente quando si tratti di reagire a comportamenti posti in essere in violazione della disciplina normativa antitrust: da questo angolo visuale, si è sottolineato, ad esempio, che le conseguenze dannose che possono scaturire da comportamenti posti in essere in violazione della disciplina antitrust possono essere «conseguenze indirette, frazionate, in parte attenuate da aggiustamenti, di difficile valutazione: dunque con le caratteristiche, per lo più, della lesione di interessi diffusi, contro la quale la responsabilità civile non è lo strumento più appropriato e comunque opererebbe con difficoltà»[32].

Non sembra tuttavia che la posizione da ultimo evocata sia sostenibile fino in fondo in presenza delle soluzioni normative delineate dal d.lgs 3/2017, che, da un lato, rivendicano, come si è già più volte detto, un ruolo di significativa importanza per la responsabilità extracontrattuale nella costruzione del disegno complessivo della tutela a fronte delle violazioni della disciplina normativa antitrust, dall’altro, lo collocano in pieno all’interno della disciplina codicistica dell’istituto aquiliano anche per quello che concerne il problema, di particolare delicatezza nella prassi applicativa della materia[33], della quantificazione del danno. Infatti, una delle caratteristiche della disciplina di attuazione della direttiva 2014/104/Ue sulla quale è stato posto l’accento è proprio quella di avere ricondotto integralmente la regolamentazione della materia nell’ambito di quella dettata dal cc in punto determinazione del quantum risarcitorio, senza neanche raccogliere esplicitamente l’invito, pure formulato con la direttiva, a che gli Stati membri attribuissero ai giudici nazionali «il potere, a norma delle procedure nazionali, di stimare l’ammontare del danno se è accertato che l’autore ha subito un danno, ma è praticamente impossibile o eccessivamente difficile quantificare con esattezza il danno subito sulla base delle prove disponibili»[34]: questa esigenza non si poneva, infatti, concretamente proprio in relazione al fatto che il nostro sistema della quantificazione del danno contiene già una regola che attribuisce al giudice il potere di procedere alla liquidazione equitativa del danno e cioè, com’è ovvio, l’art. 1226 cc, puntualmente richiamato, accanto agli artt. 1223 e 1227 cc, all’art. 14, 1° co. d.lgs 3/2017.

Si può allora dire, volgendosi, a questo punto, alla conclusione del discorso, che la fisionomia della responsabilità civile per violazione della normativa antitrust che emerge dal d.lgs 3/2017, all’esito dell’evoluzione giurisprudenziale della quale si è cercato di dare molto sinteticamente conto in questa sede, è quella di una tecnica di tutela che si inserisce in pieno all’interno del sistema del codice civile: sia per quel che concerne il momento iniziale della valutazione del danno nel senso della sua risarcibilità, attraverso la concretizzazione del concetto di ingiustizia del danno affidata alla tecnica della norma di protezione, sia per quanto riguarda il momento finale della sua liquidazione, integralmente ricondotta alle corrispondenti regole del codice civile, al fine di assicurare l’obiettivo del pieno risarcimento contemplato dall’art. 1, co. 2° d.lgs 3/17.

[1] Cfr., per una ricostruzione delle linee generali del dibattito – particolarmente vivace fino alla fine del secolo scorso – circa l’alternativa, evocata nel testo, se il nostro sistema di responsabilità civile sia costruito secondo la tecnica della clausola generale o della norma generale, ci si permetta il rinvio al nostro L’ingiustizia del danno, in Tratt. Dir. priv. diretto da M. Bessone, Torino, 2005.

[2] Così L. Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali, Diritto antitrust italiano, a cura di A. Frignani - R. Pardolesi - A. Patroni Griffi - L.C. Ubertazzi, Zanichelli, Bologna, 1993, II, pp. 1452 ss.

[3] Per questa conclusione, cfr. L. Nivarra, Diritto antitrust, cit., p. 1452, nt. 6

[4] Cfr. il considerando 45 della Direttiva, che prosegue osservando che: «La quantificazione dei danni nelle cause in materia di concorrenza può quindi costituire un considerevole ostacolo che impedisce l’efficacia delle domande di risarcimento».

[5] Si vedano, per una prima individuazione delle linee di fondo della direttiva, G. Fonderico - M. Todino - E. Camilleri - C. Osti - M. Granieri - G. De Cristofaro - J. Drexl - B. Giliberti - M. Trimarchi - E. Arezzo - A. Giussani, in La direttiva enforcement antitrust (e la direttiva enforcement IP), in AIDA, 2015, 1 - 1257; G. Pulejo, Il risarcimento del danno antitrust alla luce della direttiva 2014/104/Ue, in Resp. civ. prev. 2016, pp. 1082 ss.; G. Villa, La direttiva europea sul risarcimento del danno antitrust: riflessioni in vista dell’attuazione, in Corr. Giur. 2015, 3, p. 301.

[6] La letteratura sull’argomento è ormai vastissima; ci si permetta il rinvio, per una prima rilevazione dei temi che, da questo angolo visuale, vengono in discussione, ai nostri Principio di effettività, tutela civile dei diritti e danni punitivi, in Resp. civ. prev., 2016, pp. 1120 ss.; Le Sezioni Unite e i danni punitivi: tra legge e giudizio, ivi, 2017, pp. 1109 ss.

[7] All’interno della disciplina del risarcimento del danno antitrust, la scelta di escludere l’ammissibilità di meccanismi di sovracompensazione appare di particolare interesse sistematico, perché la condanna al risarcimento del danno dell’imprenditore, il quale abbia posto in essere (per avere subito riguardo al tema specificamente oggetto delle riflessioni qui proposte) un’infrazione della disciplina antitrust, suscettibile di arrecare pregiudizio al consumatore finale, si risolve, altresì, in generale e dal punto di vista pratico, nella sottoposizione del responsabile ad un costo, destinato ad incidere sulla valutazione di convenienza dello stesso alla eventuale reiterazione dell’illecito: e produce, dunque, un effetto, se non specificamente sanzionatorio, certo configurabile in termini di deterrenza quanto alla ripetizione del comportamento vietato dalla norma. Su questi aspetti, ci si permetta il rinvio al nostro Danno da violazione della disciplina antitrust e rimedi, in Riv. dir. comm., 2006, pp. 727 ss. In sede di primo commento sul d.lgs 3/2017, osserva G. Villa, L’attuazione della Direttiva sul risarcimento del danno per violazione delle norme sulla concorrenza, cit., p. 442, che, con la precisazione contenuta nell’art. 1, comma 1° del d.lgs 3/2017, nel solco dell’espressa negazione, contenuta nella Direttiva, di ogni forma di “risarcimento punitivo” o “multiplo” (art. 3, comma 3, Direttiva), si sono conservate «all’azione le caratteristiche proprie di un rimedio destinato alla compensazione del danno, come è nella tradizione del diritto continentale della responsabilità civile, scartando così soluzioni di oltre oceano che fanno leva sulla triplicazione del risarcimento quale forte incentivo per privati affinché si sobbarchino i costi ed i rischi delle cause». Sull’approccio compensativo al risarcimento del danno, cfr. anche C. Carli, La quantificazione dei danni da illeciti antitrust nel d. lgs. 3/2017: istruzioni per l’uso, in B. Sassani (a cura di),Il private enforcement antitrust dopo il decr. lgs. 19 gennaio 2017 n. 3, Pisa, 2017, pp. 195 ss.

[8] Si veda, sul punto, quanto osservato da C. von Bar, Gemeineuropäische Deliktrecht, I, Muenchen, 1996, pp. 34 ss., il quale tende a svalutare - nella prospettiva della sua ricognizione comparata della struttura dei vari sistemi di responsabilità civile dei paesi europei - la circostanza che taluni contengano un esplicito meccanismo normativo che ricolleghi la conseguenza dell’obbligo risarcitorio alla violazione di ausserhalb ihrer selbst liegenden gestzlichen Bestimmungen, mentre altri non utilizzino espressamente una tecnica del genere.

[9] Cfr. A. di Majo, Il problema del danno al patrimonio, Riv. crit. dir.  priv., 1983, pp. 306 ss. Non sembra peraltro che l’intuizione, indubbiamente feconda, di quest’A. sia stata sviluppata nell’elaborazione dottrinale successiva: e ciò non può che destare sorpresa, ove si consideri che, come si vedrà infra nel testo,  sovente la giurisprudenza ha fatto invece ricorso ad una tecnica di giudizio molto prossima a quella della “norma di protezione”. Si considerino ad esempio, nell’ambito delle opere di carattere generale, Alpa, La responsabilità civile, cit., e  M. Franzoni,  Dei fatti illeciti,  Comm. Scialoja - Branca - Galgano (Bologna - Roma 1993),  alla cui impostazione pare radicalmente estranea ogni indagine sulla possibilità di utilizzare nel nostro sistema giuridico la tecnica della norma di protezione; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, 3ª ed., Cedam, Padova, 2005, la quale dedica un cenno al problema (p. 425), ma soltanto nella prospettiva dell’analisi del sistema tedesco. Maggiore attenzione dedica alla questione P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile a cura di R. Sacco, Giappichelli, Torino 1998, p. 225, nell’ottica della lettura dell’ingiustizia come “una teoria complessa”, ma accreditando la tesi - che non pare invece condivisibile - secondo cui tali norme potrebbero anche essere di fonte soltanto giurisprudenziale,

[10] Cfr., sul punto, C.W.  Canaris, Norme di protezione, obblighi del traffico, doveri di protezioneRiv. crit. dir. priv., 1983. pp. 572 ss.

[11] Si allude alla ben nota posizione di C. Castronovo, per la quale cfr., ad esempio, La nuova responsabilità civile, III ed., Milano, 2006, pp. 6 ss.

[12] Sulla base degli argomenti esposti nel testo, riteniamo pertanto di modificare, in parte, l’impostazione che avevamo sviluppato nel nostro Danno da violazione della disciplina antitrust e rimedi, in Riv. dir. comm., 2006, p. 727, cit., dove ci era parso che fosse pur sempre necessario, per integrare il requisito di ingiustizia del danno, che il fatto posto in violazione di norme antitrust, determinasse altresì la violazione di una specifica situazione giuridica soggettiva previamente riconosciuta dall’ordinamento.

[13] Disposizione che costituisce, infatti, uno dei “luoghi” classici di ogni riflessione su tecniche di tutela risarcitoria che non si risolvono nell’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive.

[14] Sempre che non si ritenga di poter qualificare quei casi, secondo quanto è stato prospettato di recente ed in generale con riferimento alla responsabilità civile della Pubblica amministrazione, in termini di inadempimento di un obbligo di protezione: si veda, infra, per l’illustrazione dei momenti principali di tale tentativo ricostruttivo.

[15] Cfr. App. Roma, sentenza del 20 giugno 1994, Giur. It., 1995, I, 2, p. 837, con nota di R. Weigmann.

[16] È la notissima decisione di Trib. Roma, 27 novembre 1998, Foro It., 1999, I, pp. 313 ss., con nota di richiami di U. Izzo.

[17] Senza poter qui affrontare, e neppure documentare attraverso un adeguato apparato di citazioni, un problema che meriterebbe ovviamente un’autonoma, specifica indagine, ci sembra che - a voler ragionare della responsabilità civile della Pubblica amministrazione in termini di responsabilità aquiliana - la presa di posizione delle Corte di cassazione a Sezioni unite (si tratta della notissima sentenza 22 luglio 1999 n. 500/Su: vedila, tra i moltissimi altri luoghi, in Europa dir. priv., 1999, pp. 1221 ss., con note di S. Agrifoglio, Le Sezioni Unite tra vecchio e nuovo diritto pubblico: dall’interesse legittimo alle obbligazioni senza prestazione e di C. Castronovo, L’interesse legittimo varca la frontiera della responsabilità civile), incline ad accreditare il danno ingiusto come clausola generale da intendersi come danno non jure avrebbe forse potuto più solidamente ispirarsi alla teorica della norma di protezione.

[18] Cfr., in particolare, i contributi di C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e responsabilità, 5/2004, pp. 469 ss.; Id., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, ivi, 12/2004, pp. 1165 ss.; Id., Sezioni più unite che antitrust, nota a Cass. S.U. 4-2-2005 n. 2207, in Europa dir. priv., 2005, pp. 444 ss.; M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, in Danno e responsabilità, 10/2004, pp. 933 ss.; Id., Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), 3/2005, pp. 237 ss.; G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, I, pp. 479 ss.; A. Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, pp. 321 ss.; G. Vettori, Consumatori e mercato, in Riv. dir. comm., 2004, II, pp. 330 ss.; A.M. Azzaro, Intese restrittive della concorrenza e (contr)atti a danno del consumatore, in Riv. dir. comm., 2004, II, pp. 339 ss.

[19] Così C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, cit., p. 469.

[20] In questi termini ancora C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, cit., loco cit.

[21] Cfr. C. Castronovo, op.cit., 470, con specifico riferimento critico alla tesi, sostenuta – prima della messa a punto della materia ad opera della sentenza delle Sezioni unite della quale si è già fatto cenno – da una parte della giurisprudenza della Suprema corte (si veda, in particolare, Cass. 11 giugno 2003 n. 9384, in Danno e responsabilità, 2003, pp. 1067 ss.) secondo la quale l’accordo in violazione della disciplina antitrust dovrebbe ritenersi nullo, mentre i contratti scaturiti in dipendenza di tale accordo manterrebbero la loro validità e darebbero luogo soltanto ad azioni di risarcimento.

[22] Così M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, cit., p. 935.

[23] Cfr., sul punto, M. Libertini, op. ult. cit., p. 936.

[24] Così, di nuovo, M. Libertini, op. loc. cit.

[25] Come sottolinea M. Libertini, op. cit., p. 935.

[26] Così, infatti, C. Castronovo, Sezioni più unite che antitrust, cit., p. 445.

[27] Cfr. Cass. sez.un. 4 febbraio 2005 n. 2207, in Foro It., 2005, I, pp. 1014 ss. nonché in Europa e dir. Priv. cit., pp. 435 ss. Nello stesso senso, più di recente, Cass. 2 febbraio 2007 n. 2305, in Corr. Giur. 2007, pp. 641 ss., con nota di S. Bastianon.

[28] Il riferimento è ancora all’indagine di L, Nivarra, La tutela civile cit., pp. 1454 s.

[29] Cfr., sul punto, in particolare, G. Pulejo, Il risarcimento del danno antitrust alla luce della direttiva 2014/104/Ue, cit., 1086, la quale nota che «il riconoscimento di un’ampia platea di soggetti tutelati dal diritto antitrust si iscrive perfettamente nella lunga evoluzione della giurisprudenza europea», posto che «già nel 2001 la celebre sentenza Courage aveva sancito il diritto di chiunque di chiedere il risarcimento del danno derivante da un contratto o da un comportamento idoneo a restringere o falsare il gioco della concorrenza». Cfr. anche, in epoca più risalente, E. Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, in nota a Cass. 9 dicembre 2002 n. 17475, in Foro it., 20013, I. 1, pp. 1127 ss., per alcuni spunti sulla rilevanza anche in materia degli elementi di novità introdotti dalla sentenza Cass. sez. un. 500/99.

[30] Afferma, da ultimo, R. Pardolesi, Il private enforcement del diritto antitrust: un animale fantastico, e dove trovarlo, in B. Sassani (a cura di), Il private enforcement antitrust, cit., 15, con accenti di scetticismo sul ruolo del private enforcement in materia, e che rimandano anche al problema generale delle funzioni della responsabilità civile, che «il private enforcement della disciplina antitrust dovrebbe essere in grado di vendicare torti con le caratteristiche su indicate: dispersione su grande numero di vittime, con incidenza individuale sovente limitata, ma portata complessiva a tanti zeri. Quello capace di sortire un risultato di tal fatta e, all’evidenza, un animale fantastico. Che non abita, e con ogni probabilità non abiterà dalle nostre parti. Come si è già anticipato, chi voglia proprio trovarlo deve rassegnarsi a traversare l’Atlantico». La posizione di questo Autore sembra evocare, per certi aspetti, quella di P. Trimarchi, della quale si dirà infra, nota 32.

[31] Cfr., sul punto, M. Barcellona, Responsabilità extracontrattuale e vizi della volontà contrattuale, in Judicium.it., il quale sottolinea – e si tratta di rilievo importante anche al fine di delimitare puntualmente l’ambito di operatività in materia dell’istituto della responsabilità civile – che la ratio sociale in questo modo individuata per la disciplina antitrust «non sempre attraversano la responsabilità civile e, comunque, mai la attraversano in un modo che possa sensatamente investire il pregiudizio subito dal consumatore per essersi ritrovato a concludere un contratto a condizioni diverse e peggiori di quello che avrebbe concluso in una condizione di “concorrenza perfetta”».

[32] Cfr. P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Giuffrè, Milano, 2017, p. 238.

[33] Alla luce della considerazione, anche da ultimo proposta in dottrina, secondo la quale «gli effetti di una qualsiasi condotta lesiva della concorrenza non sono (direttamente) osservabili. Il solo scenario osservabile è quello nel quale avviene (o che incorpora) la condotta»: così C. Carli, La quantificazione dei danni da illeciti antitrust ecc., cit., p. 205.

[34] Cfr. l’articolo 17 comma 1 della Direttiva.