Magistratura democratica

Il danno alla persona tra essere ed essenza

di Giacomo Travaglino

Lo scritto ripercorre le tappe più significative della storia del danno alla persona. Dalla sua nascita, negli anni ’70, nelle Corti genovesi, al suo approdo in Cassazione, rammentando i complessi, e talvolta accidentati sentieri della sua complessa e contrastata ricostruzione in dottrina e in giurisprudenza, per proporne, alfine, una lettura “fenomenica” e non categoriale, anche alla luce delle recentissime modifiche normative degli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni private.

Al principio del quarto millennio (se mai il genere umano sarà sopravvissuto a tutti i Trump ed ai Kim del pianeta) un archeologo del diritto sfoglia una polverosa enciclopedia, e si sofferma sulle voci Illecito civile - Danno non patrimoniale.

Grande sconcerto al cospetto dell’accanimento con cui i giuristi di mille anni prima si cimentavano su quel tema per lui così ovvio.

Si immerge, soavemente curioso, nella lettura dei titoli di alcune tra le più note riviste giuridiche dell’epoca, soffermandosi, in particolare, sull’anno di grazia 2006.

I titoli.

 

1. Le nuove regole in tema di danno esistenziale e il futuro della Responsabilità civile: Il presente: la consacrazione del danno esistenziale da parte delle Sezioni Unite

(Commento del giurista P.G. Monateri alla sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione italiana 24 marzo 2006 n. 6572, anno domini 2006)

2. La Cassazione censura la risarcibilità del danno esistenziale, pur riconoscendo la diretta risarcibilità del bene vita.

(Commento del giurista Giulio Ponzanelli alla sentenza 12 luglio 2006, n. 15760 della Terza sezione civile della Corte di cassazione italiana).

3. Il danno esistenziale e il nuovo danno non patrimoniale!

(Commento del giurista Massimo Franzoni alla sentenza 12 giugno 2006, n. 13546 della Terza sezione civile della Corte di cassazione italiana).

4. La lettura costituzionale dell’art. 2059 esclude il danno esistenziale!

(Commento del giurista Giulio Ponzanelli alla sentenza 9 novembre 2006, n. 23918 della Terza sezione civile della Corte di cassazione italiana).

 

Cosa era accaduto?

Lo sventurato non rispose, chiudendo il ponderoso volume[1], e osservando malinconicamente la preziosa incisione in oro sul frontespizio (che spreco).

Così, prima di tornare ai suoi sofisticatissimi apparecchi che confezionavano risposte perfette ad ogni questione giuridica in tempo reale - sollevando gli umani dalla ormai obsoleta attività del pensare, del decidere, dello scegliere con l’uso della ragione – si chiese, con un sospiro di malinconia, cosa potesse mai essere accaduto negli anni precedenti a quel lontanissimo 2006.

Poi, sospirando di nuovo, si ripromise di non occuparsi mai più dei danni alla persona del terzo millennio (meglio rileggere la dicotomia gaiana o il Digesto).

Al giurista del terzo millennio questa malinconica rinuncia non è consentita.

A lui è consentito soltanto il sospiro.

Ritessere la tela di Penelope del danno alla persona (sperando alfine nel riposo notturno della sposa di Ulisse, che purtroppo assume, in questa vicenda, le assai meno fascinose sembianze degli estensori e degli annotatori delle tante sentenze degli anni 2000), impone la ricerca di un serio punto partenza per una analisi, per quanto possibile, fenomenologica e non categoriale del danno alla persona.

In medias res, due sentenze della Terza sezione civile della Cassazione, una della Corte costituzionale, dell’anno 2003.

Riannodare i fili di quelle fondamentali pronunce può sembrare oggi un noioso fuor d’opera. In realtà, tornando con il pensiero alle re-interpretazioni, alle ri-letture, ai ri-tocchi che dottrina e giurisprudenza successive riterranno di operare su quei testi cristallini, ciò che ancor oggi genera un profondo senso di smarrimento e confusione è proprio la scarsa fedeltà di quelle riletture (perché non con-dividere è ben altro che ri-scrivere testi e contesti secondo i propri desiderata: questione di onestà intellettuale).

Nella ampia motivazione delle sentenze di cui a Cass. 8827 e 8828 del 2003 si evitò di attribuire autonomo rilievo semantico alla categoria del danno esistenziale - che pure è stato, nell’ultimo decennio, il vero protagonista del dibattito culturale sul contenuto ultimo del danno non patrimoniale, segnando profondamente buona parte del cammino verso l'approdo al "nuovo" sistema risarcitorio.

Così, al folio 24 di entrambe le pronunce, si legge che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona», e poche righe dopo, si discorre ancora «di una tutela riconosciuta al danno non patrimoniale nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica» (la Corte utilizzò, del tutto consapevolmente, il sintagma “valori/interessi” della persona, piuttosto che quello “diritti soggettivi inviolabili”). Poco innanzi si precisa che «non sembra proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione al risarcimento, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica».

Bocciatura della fenomenologia del danno alla persona?

Ecco che la sentenza prosegue: «si risarciscono così danni diversi da quello biologico e da quello morale soggettivo, pur se anch’essi, come gli altri, di natura non patrimoniale», il che «non impedisce che la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una distinzione – bensì opportuna, ma non sempre indispensabile – tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo, quanto a titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto, se una lesione dell’integrità psico-fisica sia riscontrata, e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica», e ciò perché «il danno biologico non è configurabile se manchi una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica: in tal senso si è orientato il legislatore con gli artt. 13 del decreto legislativo 23.2.2000 e 5 e 38 della legge 57001, prevedendo che il danno biologico debba essere suscettibile di accertamento o valutazione medico-legale»[2].

Dal suo canto, la Corte costituzionale, pochi mesi dopo, farà espressamente cenno ad una nuova categoria di danno, in un passaggio della sentenza 233, tributandogli, in seno al “nuovo” art. 2059 cc, un espresso riconoscimento, anche semantico, al fianco del danno biologico e del danno morale subbiettivo, in un sistema risarcitorio dei danni indiscutibilmente bipolare (danno patrimoniale/danno non patrimoniale), nelle sue articolazioni lucro cessante/danno emergente; danno morale subbiettivo/danno biologico in senso stretto/danno “derivante da lesione di altri interessi costituzionalmente protetti”.

Il giudice delle leggi, diversamente dalla Corte suprema, discorrerà espressamente di un danno, «spesso definito in dottrina e in giurisprudenza come esistenziale», derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (diversi da quello all’integrità psichica e fisica conseguente ad un accertamento medico, ex art. 32 della Costituzione).

Sono altrettanto noti i (non sempre benevoli) commenti[3] riservati a questa sentenza[4] dai molti e molto autorevoli tortswomen e tortsmen italiani.

Ma all’indomani di quella sinergia di Corti (talvolta vissuta e interpretata con occhiuto sospetto), ci si sarebbe aspettato – al di là delle questioni terminologiche, al di là delle radicate e radicali posizioni espresse dalle diverse scuole di pensiero sulla categoria del danno esistenziale – immaginare l’anno 2003 come l’alba di una nuova stagione, non soltanto per l’art. 2059, amico risanato (e in realtà trasformato da Cassazione e Corte costituzionale in un vero e proprio art. 2059 bis del codice civile), ma anche per quello che apparve il vero tertium genus di danno non patrimoniale, la cui esistenza e la cui autonomia appariva ormai poco seriamente contestabile.

Alla luce dei condivisi approdi di entrambe le Corti[5], pareva (e pare ancor oggi) oltremodo difficile, se non impossibile, predicare, nella (finalmente riattivata) dimensione bipolare del danno così come scolpita ai massimi livelli giudiziari, il totale ripudio di quella nuova categoria di danno, la radicale e definitiva smentita alla stessa “esistenza” del danno esistenziale[6].

Ecco che a quel tempo gli sforzi ermeneutici avrebbero potuto più serenamente volgere verso quei nuovi approdi già prefigurati dalle sentenze di quell’anno:

  • l’esatta identificazione di una tavola di “valori/interessi” costituzionalmente protetti e degni di risarcimento[7];
  • l’altrettanto rigorosa individuazione di regole probatorie il più possibile certe, funzionali al riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno esistenziale inteso come vulnus alla dimensione relazionale della vita del soggetto;
  • la (non agevole) determinazione di criteri non arbitrari (e comunque equitativi) di quantificazione complessiva del danno.

La realtà è stata diversa.

Anziché avvicinarsi all’inquietante monolite rappresentato dal vulnus, più o meno intenso, arrecato al “modo di vita” della persona danneggiata, anziché trarre insegnamento dall’analisi storica della fattispecie del danno da illecito extracontrattuale, si è assistito, in dottrina e in giurisprudenza, ad ulteriori (quanto sterili) ripiegamenti, a progressivi (quanto preconcetti) arroccamenti, ad irredimibili (quanto antistorici) irrigidimenti su steli concettuali del genere analitico a-priori, postulati di conoscenza indipendenti dall’esperienza[8], quasi che il danno esistenziale, in guisa di categoria metagiuridica del pensiero, dovesse ossessivamente corrispondere all’idea che ciascuno degli abituali frequentatori del pianeta dell’illecito civile si era comunque formato “a prescindere”, piuttosto che rappresentare il terreno di coltura e di analisi, sul piano positivo (e sulla base dell’esistente, del de iure condito, del diritto vivente), di una nuova categoria di danno del terzo millennio[9].

Conoscere e dar corpo al concetto di danno esistenziale significava, intanto, approfondire, sul piano storico, la stessa genesi del danno non patrimoniale.

Un danno che, al termine di una lunga e faticosa navigazione, non più figlio di un Dio minore dell’illecito civile, vide alfine disgelata la sua pari dignità rispetto al (da sempre) deificato gemello del Vermoegenschade, in una dimensione di ormai riconciliate voci risarcitorie, mercè il ritorno alla nuova, indiscussa dimensione bipolare del sistema della responsabilità civile[10].

Storicamente, l’idea di persona intesa come portatrice di “valori” interiori non è stata né cara né nota al diritto romano e a quello intermedio[11]. Gaio, opinando che «cicatricium aut deformitatis nulla fit aestimatio», darà inconsapevolmente voce alla stessa pandettistica tedesca, che colloca ogni remedia doloris in seno non al diritto civile ma penale[12], anche se questo non significherà totale assenza di tutela, anche civile, della persona, poiché il vulnus arrecato all’integrità morale soggiace al rimedio dell'actio iniuriarum, intesa, peraltro, come una vera e propria pena privata (e come tale destinata a durare nell’immaginario dello stesso legislatore tedesco fino al 1871).

Ma già alcuni più accorti commentatori medievali evocheranno una scissione tra corpo e persona - il primo, non la seconda, oggetto di rapporti patrimoniali.

Nei secoli a venire, una più attenta analisi dei rapporti di lavoro condurrà al primo, significativo iato tra oggetto e soggetto del rapporto interpersonale scaturente dal fatto illecito, in un filone nuovo di pensiero figlio del giusnaturalismo mitteleuropeo. Sarà Ugo Grozio (1583-1645), nel diversificare tra loro il maleficium e il damnum, a dar vita a quelle che rimarranno le fondamentali categorie moderne dell'illecito[13], seguito da Samuel Pufendorf (1632-1694), ritenuto[14] a ragione il primo autore che leggerà il danno morale nella dimensione destinata poi a divenire classica, commisurando il risarcimento alla somma per la quale il danneggiato sarebbe stato disposto a sopportare il dolore che gli è stato cagionato, così estrapolando per la prima volta il relativo concetto dall'area della pena privata, eredità ormai obsoleta della tradizione romanistica[15].

Compito della dottrina moderna diviene, allora, quello di ricondurre ogni valutazione strettamente pecuniaria del danno solo e soltanto ad una “prestazione”, sussumendo nella sfera del giuridicamente rilevante il vulnus alla persona sotto il (solo) profilo dell’economicamente valutabile[16]. Sono tempi in cui la tutela patrimoniale del danneggiato trova asilo nel sistema dell’illecito civile, mentre quella non patrimoniale è riservata al diritto penale, ed echi cospicui di tale concezione «a competenza ripartita e concorrente» si ritroveranno ancora nel nostro codice attuale, che, pur superando apparentemente il concetto puro e semplice di pena privata (e ammettendo il danno non patrimoniale alla corte del danno risarcibile), pone alla risarcibilità confini rigidi, segnati dal collegamento necessario con la fattispecie del reato.

In questi termini, si osserva[17], i fatti-reato stanno al danno morale (benché su un piano diverso) come la conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento di cui all'art. 1223 cc sta al danno patrimoniale.

Figlia dei suoi tempi, la Relazione al codice civile del 1942 identificherà tout court i “casi determinati dalla legge” con i fatti di reato, in non casuale sintonia con la versione originaria del § 253 del BGB[18].

Non è questa la sede per ripercorrere funditus le singole tappe, segnate in specie dalla giurisprudenza costituzionale, a far data dalla sentenza Maccarone del 26 luglio 1979, passando attraverso la pronuncia Dell’Andro del 1986[19], sino alla già ricordata pronuncia Marini del 2003,[20] senza dimenticare la altrettanto fondamentale pronuncia del 27 ottobre 1994, n. 372, che per prima «ripescò l'art. 2059 dal ricettacolo delle anticaglie nel quale sembrava ormai relegato dalla giurisprudenza e dalla dottrina»[21].

Basti qui rammentare che, dopo il 1994, le posizioni delle varie scuole di pensiero italiano tenderanno sempre più a divaricarsi, mentre il danno esistenziale vede la luce (ne sarà amorevole levatrice la scuola triestina) «per rispondere all'idea di un danno non patrimoniale che, diversamente dal danno biologico, non si identifichi con la lesione della salute e, diversamente dal danno morale, sia in grado di guadagnare una tutela liberata finalmente delle insufficienze risarcitorie di cui è causa il dettato dell'art. 2059 cc»[22].

Per una migliore intelligenza della vicenda che, come poche, ha scatenato nel microcosmo del diritto italiano tempestose crociate di pensiero, sarà allora opportuno un sintetico (e giocoforza incompleto) cenno alle diverse posizioni assunte dalla dottrina italiana sul tema del danno esistenziale[23].

Tutti rammenteranno che, antecedentemente alle pronunce del 2003, si confrontavano (non sempre in punta di fioretto, sul piano dialettico) tre distinte correnti di pensiero, due ad esso favorevoli (la scuola triestina e la scuola torinese, sia pur con un diverso tasso di gradimento), una nettamente contraria (la scuola pisana)[24].

Per la scuola triestina, predicata la “onnicomprensività” del danno esistenziale come macrocategoria unificante del danno alla persona e formante unico di un’unica posta risarcitoria, le conseguenze esistenziali di segno negativo gravitanti nell’orbita della lesione all'integrità psicofisica andavano senz’altro ascritte alla categoria del «danno esistenziale-biologico»; quelle non dipendenti dalla menomazione della salute, bensì conseguenti alla violazione di situazioni soggettive d'altro genere (reputazione, onore, ambiente, privacy, libertà di locomozione, ecc.) andavano di converso a collocarsi nella dimensione del «danno esistenziale non biologico», entrambi sempre risarcibili ex art. 2043 cc.

La nuova figura di danno assurge a dignità di macro-categoria dell’illecito, in una nuova ontogenesi risarcitoria ove il danno biologico «altro non è se non un danno esistenziale», «un sottotipo o un emisfero di quest'ultimo»[25]. La nuova categoria espunge dal suo ambito, e senza appello, il danno morale soggettivo (il dolore interiore, la sofferenza, il patema dell’anima, risarcibile, esso sì, ex art. 2059 cc), attesane la (ritenuta) insuperabile disomogeneità genetica e la (conseguente) irriducibilità concettuale rispetto al nuovo danno non patrimoniale: il danno esistenziale, in positivo o in negativo, sul piano morfologico si sostanzia, identificandovisi, con il «fare a-reddituale» della vita; il danno morale soggettivo è invece altro, è il «sentire», dimensione e attitudine intimistica dell’anima del danneggiato, vulnus (temporaneo?) al sacrario della sua coscienza, avvertito come sensazione soggettiva di disagio turbamento dolore ansia disperazione[26].

Così, «i riflessi negativi che coinvolgono la psiche del soggetto possono - come tali - essere presi in considerazione esclusivamente sotto il profilo del danno biologico, quando la modificazione negativa è tale da ingenerare una lesione della salute, ovvero di quello morale, ove essi si mantengano entro limiti che possono essere considerati fisiologici. Soltanto conservando ben nette queste distinzioni è possibile mantenere intatta l'identità del danno esistenziale, che risulterebbe invece inevitabilmente compromessa da qualsiasi tentativo di far confluire in quell'ambito le conseguenze di ordine psicologico della lesione"[27].

Rimaneva così assegnato al (vecchio) art. 2059 cc un ruolo residuale, cioè quello di occuparsi del danno morale soggettivo inteso come molteplicità del "sentire", conseguente ad un evento illecito ingiusto, sempre che non si fosse superata la doppia soglia della patologia clinica e del riflesso sulla vita esterna.

La scuola di Torinosi caratterizza per un approccioal danno esistenziale che non ne postula, in limine, il carattere di macrocategoria necessariamente comprensiva anche del danno biologico, al quale viceversa esso si affianca onde abbracciare qualsiasi vulnus di genere non-economico (non altrimenti risarcibile), comprese eventuali ripercussioni di ordine psichico confinate al di qua dell’uscio della malattia (id est del danno biologico psichico).

Si disegna così un’architettura normativa funzionale alla reazione ad ogni aggressione ingiusta e foriera di un mutamento in negativo dei valori dell'individuo, produttrice del cd. "danno X", la cui dimostrazione nell'an grava pur sempre sul soggetto leso.

Il danno esistenziale, in guisa di "danno non patrimoniale civilistico", si svincola così dai limiti tradizionali dell’art. 2059, distinguendosi dal "danno morale da reato", frutto della malinconica sinergia giuridico/algebrica: art. 2059 cc + art. 185 cp.

A differenza della scuola triestina, per gli autori torinesi il danno esistenziale copre ogni distonia accertata sulla doppia frequenza sia del "fare" che del "sentire," purché collegata alla lesione ingiusta di un interesse del danneggiato, mentre il danno morale da reato subìto evoca piuttosto la condotta tenuta dal danneggiante (tanto da ricondursi pur sempre al concetto di sanzione penale/pena privata).

Anche quello che, per la scuola triestina, restava confinato nella dimensione intimistica del danno morale subiettivo, e cioè il coacervo di dolori e patemi individuali non destinati a oltrepassare la soglia esterna del giuridicamente rilevante incidendo sulla vita del danneggiato, doveva ritenersi pur sempre risarcibile ex art. 2043 cc.

Questi autori non annetteranno mai, in realtà, particolare rilevanza alla questione terminologica, perché, al di là del nomen attribuito alla categoria descrittiva dell'obbligazione risarcitoria non patrimoniale, essi ritengono essenziale soltanto l’attivazione di un sistema funzionale a reagire al fatto illecito riconoscendo un risarcimento tout court dei danni subiti dal soggetto leso (pur non negandosi che, per motivi anche solo di “ordine lessicale”, potesse risultare opportuno collocare i diversi pregiudizi di danno in una categoria unitaria, quella del danno esistenziale)[28].

La scuola pisana[29], viceversa, si attesterà ab imo su posizioni nettamente ostili alla categoria. Il modello risarcitorio immaginato in contrapposizione al danno esistenziale[30] viene strutturato in negativo attraverso una dura contestazione della “mutazione genetica” postulata da questa nuova figura di danno (ritenuta “meramente descrittiva”), alla quale si nega qualsivoglia ius soli nell’ambito dell’art. 2043 cc. Questi autori caldeggeranno a più riprese il ripristino del cd. “doppio binario", onde, da un canto, restituire "dignità contenutistica" all'art. 2059 cc, dall'altro, limitare la portata dell'art. 2043 cc al solo danno ingiusto patrimoniale[31].

 

Quanto alla giurisprudenza "esistenzialista", una parte delle Corti aveva aderito all’idea di danno esistenziale come categoria aperta anche ai disagi, ai turbamenti psichici e agli stress, talvolta spingendosi ad individuare nella lesione della serenità personale e nella violazione in sé di un bene costituzionalmente tutelato (la personalità, l'immagine, la reputazione, l'autostima) la prova dell'esistenza di quel danno.

Su questo versante sembrano collocarsi alcuni arresti della stessa Suprema Corte. Tanto la prima sezione, quanto la sezione lavoro, ricondurranno il danno esistenziale «a tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (impedimenti alla serenità familiare, godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, sereno svolgimento della propria vita lavorativa)[32]».

Al pari dei pregiudizi alla salute, i pregiudizi attinenti alla dimensione esistenziale della persona, comprensivi dei «disagi e turbamenti di tipo soggettivo», non venivano lasciati privi di tutela risarcitoria sulla scorta della «lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile».

Dall'impostazione sposata dalla Cassazione prima del 2003, sembrava doversi ritenere che la categoria del danno esistenziale potesse rendere risarcibile cc ogni pregiudizio, anche solo soggettivo, che riguardasse la sfera della persona e derivasse dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante: «l'art. 2043 cc, correlato agli artt. 2 e ss. Cost., va così necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana»[33]. Unico limite che la Cassazione, in particolare la sezione lavoro, poneva, sotto il profilo naturalistico dei pregiudizi risarcibili sub specie del danno esistenziale, era il mero patema di animo interno, distinto però dai disagi e turbamenti di tipo soggettivo, risarcibili entro i confini la nuova figura.

Il danno esistenziale si strutturava così come una sorta di "danno morale civilistico", sempre di più ispirato al modello del francese dommage moral.

In molte sentenze della giurisprudenza di merito l'apertura della categoria del danno esistenziale a disagi, stress e turbamenti risulterà ancora più evidente[34].

Sul versante opposto, due pronunce della Corte Suprema si dichiareranno nettamente contrarie alla figura del danno esistenziale[35], mentre, con riferimento alla perdita del rapporto parentale, il giudice di legittimità preciserà che l’interesse al risarcimento del danno da uccisione del congiunto[36] si concreta nell’interesse alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29, 30 Cost.: esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 e si distingue sia dall’interesse al bene “salute” (protetto dall’art. 32 e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico) sia dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art. 2 della Costituzione e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo).

 

Dopo le sentenze 8828/2003 e 8827/2003 della Cassazione, la dottrina tornerà ad  interrogarsi (talvolta, con toni ed atteggiamenti da habitueès del settore curve di uno stadio di calcio, piuttosto che da pensosi esegeti della materia) sul se il "nuovo" art. 2059, così come rimodellato nella fucina costituzionale, fosse o meno il frutto di una implicita adesione dei giudici di legittimità (e della Consulta) al modello anti-esistenzialista (inteso secondo la costruzione “pan-esistenzialista” della scuola triestina)[37].

Le polemiche ripresero, in un clima di “caccia alla differenza e alla similitudine” onde dimostrare, ciascuna delle “scuole”, la bontà delle proprie tesi, nell’ottica adolescenziale del “chi vince, chi perde” (in realtà, come sovente accade quando le precomprensioni si sostituiscono ai fenomeni[38], non vince e non perde nessuno, se non, talvolta, l’eleganza e il buon gusto).

Vero è che tutti i tentativi degli interpreti di ricondurre a razionalità il pianeta dell’illecito civile, sino alla vigilia delle sentenze del 2003, parevano inevitabilmente destinati ad infrangersi sul disposto di quella mesta norma di chiusura, l'art. 2059, che, disciplinando, alla fine del libro IV del codice civile, il danno non patrimoniale, era soltanto la figlia cadetta del suo tempo (siamo nel 1942, epoca di guerra e di sopravvivenza, momenti in cui era difficile anche soltanto immaginare lesioni e risarcimenti di un improbabile “fare a-reddituale” che non fosse il restare in vita), disposizione funzionale esclusivamente a disciplinare un danno morale concepito in inscindibile ed ancillare connessione con il reato.

L’evoluzione del concetto (e la proliferazione delle voci) del danno non patrimoniale (che, non trovando asilo nella angusta cittadella dell’art. 2059, verrà per lungo tempo allocato entro le ampie praterie offerte dall’art. 2043, trasformando questa norma in una sorta di Lampedusa del danno ingiusto, e di primo motore immobile di un improbabile sistema monocentrico di responsabilità), ha inizio nel 1975, ad opera della scuola genovese, per giungere, attraverso itinerari spesso carsici (ma inevitabilmente destinati all’estuario del bipolarismo del danno) all’approdo epocale del 2003, che vedrà Consulta e Cassazione recepire in realtà i suggerimenti di tutte e tre le scuole di pensiero, elaborando un nuovo “sistema” di responsabilità con al centro la persona e i suoi diritti fondamentali.

Di quelle sentenze, colpì favorevolmente la rigorosa attenzione al profilo storico/evolutivo delle norme, il sostanziale riconoscimento di un indiscutibile ius soli al danno esistenziale, rigorosamente circoscritto nel suo ambito applicativo (al pari del danno morale) entro il non opinabile e non valicabile confine del sintagma “valori/interessi” costituzionali, e nel suo ambito normativo, in seno al “novellato” art. 2059.

Questa nuova, coerente architettura dell’illecito troverà una ulteriore, autorevole conferma nella sentenza delle sezioni unite della Corte suprema del marzo 2006[39], che, sia pur in relazione ad una specifica e peculiare vicenda come quella del demansionamento e della dequalificazione di un lavoratore subordinato, affermerà (in una linea di ideale continuità con le pronunce del 2003, benché a livello di obiter dictum) che «il danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro è tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione»; specificando, in relazione a tale vicenda di danno, che esso consiste «in ogni pregiudizio che l’illecito (datoriale) provoca sul fare a-reddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno»; ed aggiungendo ancora che «il danno esistenziale si fonda, peraltro, sulla natura non meramente emotiva e interiore propria del cd. danno morale, ma oggettivamente accertabile del pregiudizio», per concludere, avuto riferimento al profilo probatorio in relazione al quale era insorto il contrasto di giurisprudenza, che «non è sufficiente la prova della dequalificazione dell’isolamento e della forzata in operatività… ma è necessaria quella di tutto ciò che concretamente ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore», con la sola differenza, rispetto al danno biologico, che, «mentre questo non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva che dimostri, nel processo, i concreti cambiamenti che l’illecito ha apportato in senso peggiorativo della qualità della vita del danneggiato: non meri dolori, ma scelte di vita diverse».[40]

Sembrava a questo punto inevitabile convenire, anche se solo in parte, con chi[41], aveva opinato che i giudici di legittimità, non avendo mai negato rilievo giuridico ad una certa area ricoperta dal danno esistenziale, avessero ritenuto che questa doveva essere sistematicamente ridefinita, accogliendone un’idea in termini di aspetto relazionale del danno alla salute[42] anche in mancanza del suo presupposto legale, e cioè di una lesione accertata sul piano medico legale: una definizione, dunque, di danno alla salute complessivamente inteso in termini sempre più omogenei a quelli affermati dall’organizzazione mondiale della sanità, «uno stato di completo benessere psico-fisico inteso non soltanto come assenza di malattia».

Sembrava altresì inevitabile che l’intero pianeta dell’illecito, così come rimodellato dagli interventi dei giudici di legittimità e costituzionali con le sentenze del 2003 e del 2006[43], potesse a quel tempo strutturarsi secondo un generale criterio di razionalità e omogeneità.

Non era ancora chiara la relazione tra danno biologico e danno esistenziale, la tripartizione del 2003 avrebbe ingenerato non pochi equivoci ricostruttivi, la fenomenologia del danno ancora presentava contorni sfumati e in parte contraddittori, ma i principi che sembrarono chiari a quel tempo furono:

  1. che il danno patrimoniale è risarcibile ex art. 2043 cc, quello non patrimoniale ex art. 2059 cc in una interpretazione costituzionalmente orientata;
  2. che la categoria del danno patrimoniale si articola nelle due sotto-voci del lucro cessante e del danno emergente;
  3. che la categoria del danno non patrimoniale si articola a sua volta in un sottosistema composto dal danno biologico in senso stretto, dal danno esistenziale, dal danno morale soggettivo;
  4. che il danno biologico e il danno esistenziale hanno morfologia omogenea (entrambi integrando una lesione di fattispecie costituzionali, quella alla salute il primo, altri “valori/interessi” il secondo) ma funzioni diversificate (anche per volontà del legislatore ordinario);
  5. il danno morale soggettivo si caratterizza invece per una diversa ontogenesi, restando circoscritto nella sfera interiore del sentire, mai destinata all’obbiettiva esteriorizzazione;
  6. tanto il danno esistenziale quanto il danno morale soggettivo sono incondizionatamente risarcibili entro i limiti della riserva di legge di cui all’art. 2059 cc;
  7. tanto il danno esistenziale quanto il danno morale soggettivo sono risarcibili anche oltre quei limiti se (e solo se) il comportamento del danneggiante leda valori/interessi costituzionalmente tutelati (e il superamento del limite della riserva di legge vale tanto per l’una quanto per l’altra categoria di danno, come si legge testualmente nella sentenza 8828/2003 della S.C.);
  8. tanto il danno esistenziale quanto il danno morale soggettivo sono risarcibili se (e solo se) di entrambi il danneggiato fornisca la prova, non esistendo “danni in re ipsa[44];
  9. il criterio della gravità dell’offesa al bene tutelato non è stato recepito né dalla cassazione né dai giudici costituzionali, di talché anche un’offesa “lieve” sarà risarcibile, alla imprescindibile condizione, peraltro, che essa leda i predetti valori/interessi costituzionali.

Questa tela da Lebendesrecht - che sembrava ormai destinata a stabilizzarsi consentendo così di procedere, finalmente, lungo il costruttivo sentiero della individuazione di una tavola di valori costituzionali rilevanti, di opportuni criteri probatori, di credibili criteri risarcitori - si lacera bruscamente per effetto di due successive sentenze della III sezione della Corte di cassazione[45], rispettivamente del luglio e del novembre 2006[46].

Limitando alla sola pronuncia del mese di novembre alcune brevi riflessioni, va premesso che non convince, già sul piano strettamente lessicale, la sostanziale idiosincrasia mostrata per il sintagma “danno esistenziale”, volta che, «ai fini dell’art. 2059, non può farsi riferimento ad una generica categoria di “danno esistenziale”, poiché attraverso questa via si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pur attraverso l’individuazione dell’apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale».

Per meglio far intendere la portata del problematico principio di tipicità del danno non patrimoniale, si specifica che, «mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, con il solo riferimento al danno ingiusto, la clausola generale e primaria dell’art. 2043 cc comporta un’atipicità dell’illecito, come esattamente affermato a seguito degli arresti della S.C. nn. 500 e 501 del 1999, eguale principio di atipicità non può essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile. Infatti la struttura dell’art. 2059 cc limita il risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge».

Ma così argomentando, le due fattispecie, del danno e dell’illecito, divengono entità omogeneamente sincroniche, e sincronicamente comparabili tra esse.

Ora, se non pare seriamente revocabile in dubbio il generalissimo principio dell’atipicità dell’illecito italiano, lasciava oltremodo perplessi il raffronto “orizzontale” tra il fatto illecito “atipico” e la (presunta) “tipicità del danno non patrimoniale risarcibile”.

Non è questa la sede per approfondire il tema dei rapporti tra norma di fattispecie (l’art. 2043) e norma di disciplina (l’art. 2059) che quella fattispecie postula come compiutamente realizzata nei suoi elementi costitutivi (il fatto, la colpevolezza, il nesso di causa, l’ingiustizia del danno). Certo è che, solo dopo aver accertato, sul piano normativo indicato dall’art. 2043, l’esistenza degli elementi costituivi dell’illecito extracontrattuale in relazione a qualsiasi tipo di danno, è lecito occuparsi dei danni stessi sotto il profilo delle conseguenze (ché, se il legislatore avesse optato per un sistema tipizzato di illecito aquiliano, enumerando specificamente quali fatti fossero da ritenersi produttivi di danni risarcibili, non si sarebbe posto in alcun modo il problema e la necessità del criterio dell’ingiustizia del danno quale parametro di rilevanza genetica e funzionale del torto aquiliano).

Vero è che IL FATTO generatore del danno ingiusto appartiene ad una struttura aperta di illecito civile, e in questi sensi quel fatto è SEMPRE atipico, qual che sia la specie di danni (patrimoniali e non) ad esso collegata. Altro problema ed altro piano di analisi è quello della (supposta) atipicità del DANNO patrimoniale, rispetto ad una pretesa tipicità di quello non patrimoniale.

Sostenere che il danno patrimoniale abbia carattere atipico, ripetendo esso tale connotato dal generico formante dell’ingiustizia, sembra, peraltro, un assai probabile paralogismo, dacché, una volta integrati gli estremi del fatto illecito, una volta individuati (“tipizzati”) i suoi elementi soggettivi e oggettivi con riferimento al caso di specie, il conseguente danno sarà sempre “tipico”, sarà, cioè risarcibile nella duplice forma del lucro cessante e del danno emergente con riferimento a quella (già verificata e ormai tipizzata) fattispecie complessa integrata dalla condotta dell’agente, dall’evento, dal doppio nesso di causa.

Discorrere (sia pur implicitamente) di “atipicità del danno patrimoniale” come conseguenza della atipicità dell’illecito disciplinato dall’art. 2043, poiché quel danno non sarebbe “determinato dalla legge”, significa ricostruire la stessa categoria della “atipicità” come immanente a tutto il sistema civilistico italiano, perché anche una compravendita sarà, secondo tale criterio, “atipica” perché non vi è predeterminazione ex lege del relativo oggetto, del relativo prezzo, delle relative parti contraenti.

Ma la stessa pretesa “tipicità” del danno non patrimoniale, pur volendo seguire la (poco condivisibile) strada tracciata dalla sentenza non pare poi così certa come mostra di ritenere il giudice di legittimità. In realtà, una “tipicità secolarizzata” conseguente alla formulazione della norma nell’anno della sua originaria formulazione, il 1942, pareva inevitabilmente destinata a stemperarsi in una sorta di “tipicità atipica” (si perdoni l’ossimoro) per effetto dell’”apertura” del danno non patrimoniale ad una serie (a tutt’oggi) indeterminata di valori/interessi costituzionali, specie alla luce del disposto dell’art. 2 della Carta fondamentale.

La sua originaria tipicità trasmutava così in una tipicità relativa, da “rinvio recettizio aperto” (tanto che lo stesso legislatore del ’42 significativamente non parla di casi “espressamente” determinati dalla legge), da ritenersi operante non solo con riferimento alle norme costituzionali, ma anche a quelle ordinarie non “espresse”[47], quale l’art. 844 in tema di immissioni, che la stessa giurisprudenza di legittimità, nel 1995, ritenne norma definitoria di una fattispecie di (illecito e) di danno non patrimoniale (pur traendone l’erronea conseguenza, comprensibile per l’epoca, che l’area di incidenza di quel danno fosse ancora riconducibile all’art. 2043).

Perdeva sostanza, così, il primo argomento (quella della eterogenesi del danno) che la sentenza in commento (e l’indulgente commentatore)[48] avevano ritenuto di porre a fondamento dell’operazione di policy del danno non patrimoniale e di ghigliottinamento del danno esistenziale, nonostante il faticoso lavoro di tessitura, anche costituzionale, iniziato nel 2003 e portato a compimento con la sentenza delle sezioni unite del marzo 2006, che aveva ricondotto a sostanziale unità il pianeta (dell’illecito e) del danno civile.

Non miglior sorte pareva riservata al secondo argomento “forte” della sentenza, quello secondo il quale (nel comprensibile anelito di dimostrarsi in “non contraddizione” con il dictum delle sezioni unite), il danno esistenziale sarebbe confinato…entro i confini del rapporto contrattuale, tale essendo la fattispecie in concreto risolta dalla sentenza del marzo 2006.

Se così fosse stato, nell’imbatterci nel danno esistenziale saremmo di certo al cospetto non solo di una entità pressoché ineffabile, ma anche inquietante e proteiforme.

Esisterebbe un danno esistenziale da rapporto contrattuale – quale quello di lavoro, che ripete la sua ragion d’essere dall’art. 2087 – e un danno “altro”, ma non esistenziale, da esorcizzare sul piano lessicale prima ancora che concettuale, perché, «ai fini dell’art. 2059 non può farsi riferimento ad una generica categoria di danno esistenziale dagli incerti e non definiti confini».

Eppure, una volta esclusa la “panesistenzialità” del danno non patrimoniale collegato all’art. 2043 dalla scuola triestina, la sua feconda intuizione fu proprio quella di individuare e isolare il duplice, distinto aspetto del danno alla persona.

Apparentemente divaricatisi, per volontà del legislatore ordinario, i destini delle due forme di danno, quello biologico (cui la legge riconnette l’ineludibilità di un accertamento medico) e quello «conseguente alla lesione di altri valori della persona costituzionalmente protetti», differenziatesi anche funzionalmente le forme del danno morale soggettivo e del danno «conseguente alla lesione di altri valori della persona costituzionalmente protetti», l’essenza del danno esistenziale apparve quella per cui esso si proietta all’esterno, influenza e talvolta devasta uno stile, un modo, un senso, una ragione di vita.

Chi ha osservato anche una sola volta “svivere” un genitore che ha perduto un figlio adolescente contro ogni legge di natura sa che “quello” (anche quello) è il suo danno esistenziale (e la sua dannazione esistenziale): il più delle volte, la fine di una vita esterna, mentre il morso del dolore interiore con il tempo volge lentamente a parziale ed elaborato lenimento.

E non si intendeva davvero quali pudori, quali resistenze ancora residuassero nel definire quel danno come esistenziale, nel riconoscere quanto esso incida con violenza più o meno devastante sulla vita futura dell’individuo che l’ha subito, nell’annettervi forme risarcitorie (non certo duplicate o triplicate) funzionali a “riparare” l’assolutamente irreparabile[49].

Il danno esistenziale non apparve più, dopo il 2003, “figura dagli incerti confini”, ma categoria di danno non patrimoniale che, insieme con il danno morale soggettivo, trovava la sua piena dignità e il suo diritto di piena cittadinanza nell’universo dell’illecito civile.

Tutte le volte che il comportamento dell’agente andava a ledere quella complessa tavola di valori costituzionalmente tutelati, tutte le volte che la lesione avesse significativamente inciso sullo stile di vita precedente del danneggiato, allora senza timore il danno sofferto mostrava i suoi caratteri “esistenziali”.

 

Ma d’improvviso la storia del danno alla persona viene segnata da un doloroso arresto: la progressiva “biologizzazione” della sofferenza, il desolante impoverimento della sua verità, che attraversa un lungo processo apparentemente destinato a raggiungere il suo definitivo compimento alla significativa data dell’11 novembre 2008.

Il codice genetico del danno biologico – felice intuizione giurisprudenziale destinata a scardinare, negli anni 70, l’arido sistema pan-patrimonialistico che ispirò il legislatore del 1942 (cancellando la storica ancillarità del danno non patrimoniale al reato penale) attraverso una altrettanto rivoluzionaria Drittwirkung costituzionale – viene progressivamente alterato nel momento in cui, dalla sua ampia accezione di danno relazionale, viene imprigionato nella camicia di Nesso della «lesione medicalmente accertabile».

L’errore concettuale che si annida nell’evoluzione delle nuove riflessioni sul danno alla persona sta proprio nell’inopinato quanto inarrestabile processo di centralizzazione del danno biologico in seno al “giuridicamente risarcibile benché non patrimoniale”; né si è mai riflettuto abbastanza sul significante di una definizione codicistica del danno alla persona che ne opera una negazione per comparazione (il danno “non” patrimoniale, rispetto al quello che si ritiene invece l’essenza prima del danno, la sua verità, la sua realtà tangibile, la sua autenticità:  e cioè la sua patrimonialità).

Eppure, a far data dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, la persona e non il patrimonio assumerà un ruolo centrale nell’universo del tutelabile e del risarcibile, pur se resta amara la consapevolezza che compito del giurista è l’avvilente trasformazione del dolore in denaro.

Il brusco arresto del 2008 ricondurrà a formale unità la super-categoria del danno alla persona, il danno biologico assume dignità di primo motore immobile del sistema, il danno morale pare dissolversi in tinte nebulose e incerte (se ne predica la natura di «categoria da abbandonare perché priva di solide basi giuridiche»), il danno esistenziale è confinato nell’orbita della “mera sintesi descrittiva” di alcuni pregiudizi a-patrimoniali.

Vero è che l’inquietante sintagma “danno esistenziale” sconta il (vero) peccato originale della mancanza di una precisa identificazione, ex ante, di un interesse giuridicamente rilevante sul piano costituzionale.

L’Inversion-Methode della ricostruzione della fattispecie, specie nella giurisprudenza di prossimità, posporrà, erroneamente, alla ricerca a monte della situazione soggettiva tutelata dalla Costituzione l’individuazione a valle delle conseguenze pregiudizievoli del fatto lesivo sulla vita di relazione della persona danneggiata (con conseguenze talvolta risibili, come il “danno” da rottura del tacco dell’elegante signora in vacanza al mare, o la non soddisfacente acconciatura dei capelli della sposa il giorno del suo matrimonio) per dirle ipso facto risarcibili.

Sia pur ancora non del tutto correttamente, come di qui a breve si vedrà, la tricotomia del 2003 sembrava aver fatto giustizia dei danni cd. bagattellari, se, per “esistenziale” si intese alfine quel danno non biologico conseguente alla lesione “di altri valori/interessi costituzionalmente tutelati”, mentre il danno morale conservava i suoi caratteri di sofferenza soggettiva interiore, sia pur “temporanea e transeunte”.

La collocazione imposta al danno alla persona nell’asfittica galassia del danno biologico («costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale …»), anziché correggere e modificare una prospettiva, pur incoraggiante, volta ad una più idonea individuazione dell’autentica essenza della sofferenza, ne svilisce i contenuti, nell’intento (certo non incondivisibile, in parte qua) di razionalizzare l’intero sistema risarcitorio, così inaridendo i sentieri.

L’errore concettuale, già pericolosamente annidato nella tripartizione del 2003 – che pure aveva meritoriamente individuato un referente normativo ex ante al danno esistenziale nell’interesse/valore diverso dal diritto alla salute a copertura costituzionale – si perpetua e si aggrava nel disegnare il danno biologico come centro di sistema, referente normativo e parametro risarcitorio sostanzialmente unitario, apparentemente idoneo a fagocitare in se il danno morale.

La realtà del danno alla persona è diversa.

Quello alla salute non è altro che un danno derivante dalla lesione di uno dei diritti (interessi/valori) costituzionalmente tutelati, è species di un più vasto genus del tutto omogeneo, ove non sono a predicarsi diritti primi inter pares piuttosto che Grundsaetze normative (come lo è la dignità per il costituente tedesco) a struttura piramidale, ma solo diritti tra loro di volta in volta definiti dalla Carta costituzionale come inviolabili, fondamentali (ovvero non definiti per nulla).

Diritti a tutela costituzionale.

Nient’altro.

La violazione di quelli che, trattandosi di vulnera arrecati alla persona, piacerebbe definire valori costituzionalmente garantiti (piuttosto che diritti inviolabili, in realtà in numero di quattro, in Costituzione, tra essi non incluso quello alla salute, non a caso definito fondamentale, e non inviolabile), ha, come sua conseguenza, la sofferenza umana.

Sofferenza che si nutre di due diversi e non sovrapponibili momenti.

Nel danno biologico come in ogni altro danno da lesione di valori della persona.

Di “speciale”, nel danno biologico, oltre ad un “nome” che lo specifica e lo individua (ma la lettura di qualche riflessione di Jacques Lacan sul “significato” del nome non sarebbe un fuor d’opera), v’è l’esistenza delle “lesione medicalmente accertabile”. Ma da quella “lesione” (del diritto alla salute) scaturiscono poi le stesse, immutabili conseguenze che colorano la sofferenza: il dolore interiore (non il mal di testa o le nevralgie), la vita che cambia.

Nel non facile cammino intrapreso dalla giurisprudenza negli anni ’70, quando a Genova nasce il danno biologico, questa realtà sembrò palpabile nel concepire un danno alla salute di tipo relazionale, che ricomprendesse in sé anche le conseguenze “dinamiche” di quel danno[50].

Alla “categoria” del danno biologico verranno così ricondotte diacronicamente altre tipologie di lesioni alla persona.

Vi è stato un tempo, nella storia della giurisprudenza di questo Paese, in cui quelle lesioni vennero proiettate, in una concezione non più soltanto statica ma dinamica della “salute”, nella dimensione esistenziale della persona, cogliendone gli aspetti di necessaria tutela.

Così a titolo di danno biologico, pur in mancanza di un accertamento medico-legale della lesione della salute fisico-psichica, verranno risarciti: al coniuge, i pregiudizi conseguenti all'impossibilità, nell'ambito del rapporto coniugale, di svolgere una normale vita sessuale[51]; alla lavoratrice, in caso di molestie sessuali da parte del datore di lavoro, il danno per comportamenti lesivi dell'integrità psicofisica[52]; ai genitori della vittima di un incidente stradale il danno alla serenità domestica[53]; ai genitori del bambino nato benché non voluto il danno da wrongful birth, anch'esso ricondotto nell'ambito del danno biologico[54].

La stessa, progettata normativa europea in ambito contrattuale evolve nel senso di riconoscere esplicitamente quello che viene significativamente definito “danno morale” anche in materia negoziale, senza alcun limite di copertura costituzionale degli interessi lesi.

L’art. 9.501 dei principi di diritto europeo dei contratti stabilisce che il danno di cui può essere domandato il risarcimento comprende: a) il danno non patrimoniale; b) il danno futuro ragionevolmente prevedibile.

Nel Draft Common Frame of reference, l’art. III -3:701, in sede di disciplina del right of damages, specifica  che il termine Loss… includes economic and non economic lossnon economic loss includes pain and suffering and impairment (menomazione) of the quality of life.

Per l’art. 7.4.2 dei principi Unidroit, infine, il danno “può essere di natura non pecuniaria e comprendere la sofferenza fisica e morale”.

Si discorre, dunque, di danni riconducibili ad una nozione molto ampia del concetto di salute, sostanzialmente coincidente con il benessere esistenziale, ma che ovviamente, per essere acquisiti al sistema attraverso la categoria del danno biologico, avrebbero richiesto che l'accertamento di tale danno venisse disancorato dalla valutazione medico-legale della lesione della salute psico-fisica. In ciò trovando l'opposizione di gran parte degli stessi fautori del danno biologico.

Ma questa è storia passata.

 

Troppo lungo e complesso, oltre che assai poco compatibile con i limiti di questo scritto, sarebbe ripercorrere le ulteriori tappe dell’infinita storia del danno non patrimoniale.

Siamo ai giorni nostri.

Alle rinnovate e talvolta più avvedute posizioni che la giurisprudenza di legittimità (commentata con toni assai alterni da non sempre avveduta dottrina) ha assunto dopo l’arresto (in senso non soltanto figurato) del 2008 saranno dedicate le brevi (e largamente incomplete) riflessioni che seguono.

Una prima considerazione, poco più che simbolica.

Su di un piano generale, il nostro ordinamento positivo conosce e disciplina (soltanto) gli istituti del danno emergente e del lucro cessante (art. 1223 cc) e le fattispecie del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale (art. 2059 cc).

Alla ricerca del significato perduto della pretesa unitarietà del danno non patrimoniale, a più riprese affermata dalle sezioni unite nel 2008, l’interprete ha da affannarsi ad immaginare una “unitarietà” predicata rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante e non suscettibile di valutazione economica.

Natura unitaria sta allora a significare che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, sia esso costituito dalla lesione alla reputazione, alla libertà religiosa o sessuale, piuttosto che a quella al rapporto parentale.

Natura onnicomprensiva sta invece a dire che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari[55].

Al di là ed a prescindere dalla ricerca di non indispensabili tassonomie classificatorie, ciò che conta è l’indagine sulla reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore assai grave.

Quello di sostituire una sovrastruttura di pensiero ammalata di precomprensione alla realtà fenomenica della vita umana.

Oggetto del processo, quando il giudice è chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali, è, nel prisma polimorfo del danno non patrimoniale, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una espressa e non equivoca indicazione nella (miglior) parte della motivazione ove si discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo – così dettando un vero e proprio statuto ideale del danno non patrimoniale per il nuovo millennio.

La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta risposte al quesito circa la “sopravvivenza descrittiva” del cd. danno esistenziale, se è vero come è vero che “esistenziale” è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto, come conseguenza della lesione medicalmente accertabile.

Queste considerazioni confermano la necessità di una interpretazione (a voler essere generosi) “estensiva” delle sentenze del 2008, condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, consenta poi all’interprete una rigorosa analisi – ed una conseguentemente rigorosa valutazione, sul piano della prova – tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus rispetto alla vita quotidiana (il danno cd. esistenziale, in tali sensi rettamente inteso, ovvero, se si preferisca un lessico meno inquietante, il danno alla vita di relazione).

In questa semplice realtà naturalistica si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie che non cancellino la fenomenologia attraverso sterili formalismi pseudo-unificanti) all’interrogativo circa la reale natura e la vera, costante, duplice essenza del danno alla persona:

  • la sofferenza interiore
  • le dinamiche relazionali di una vita che cambia.

Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso si rinviene nel disposto dell’art. 612-bis del codice penale, che, sotto la rubrica intitolata “Atti persecutori”, dispone che sia «punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura (ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva), ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita».

Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge – per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale – i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana.

Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie quanto impredicabili generalizzazioni (ché anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita di relazione per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa; ché anche la sofferenza più grande che un figlio può patire, quale la perdita per morte violenta di un genitore, non implica ipso facto la risarcibilità del danno, se danno non vi fu perché, da tempo, irrimediabilmente deteriorato e sfociato in odio il rapporto parentale).

E se è lecito ipotizzare, come talvolta si è scritto, che la categoria del danno “esistenziale” risulti “indefinita e atipica”, ciò appare la probabile conseguenza dell’essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, “indefinita e atipica”.

A tali riflessioni fa eco la recente pronuncia del giudice delle leggi, n. 235/2014, predicativa della legittimità costituzionale dell’art. 139 del codice delle assicurazioni, sentenza la cui (non superficiale o volutamente parziale) lettura conduce a conclusioni non dissimili.

Si legge, difatti, al punto 10.1 di quella pronuncia, che «la norma denunciata non è chiusa, come paventano i remittenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilitàdi incremento dell’ammontare del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla disposizione del comma 3 (aumento del 20%)».

La limitazione ex lege dell’eventuale liquidazione del danno morale viene così motivata dal giudice delle leggi:

«In un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata – in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di Garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi» (punto 10.2.2.).

La Corte prosegue, poi, significativamente, sottolineando come “l’introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno – attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi nove gradi della tabella – lascia comunque spazio al giudice per personalizzare l’importo risarcitorio risultante dall’applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino a un quinto in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato”.

Il danno biologico da micropermanenti, definito dall’art. 139 Codice delle assicurazioni private prima della riforma del 2017 come «lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato», può essere «aumentato in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato» secondo la testuale disposizione della norma: il giudice delle leggi ha voluto esplicitare una volontà legislativa che, alla luce delle considerazioni svolte, limitava la risarcibilità del danno biologico da micro permanente ai valori tabellari stabiliti ex lege, contestualmente circoscrivendo l’aumento del quantum risarcitorio in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato – e cioè attraverso la personalizzazione del danno, senza che “la norma denunciata sia chiusa al risarcimento anche del danno morale» – al 20% di quanto riconosciuto per il danno biologico.

Viene così definitivamente sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa della “unicità del danno biologico”, qual sorta di Leviathan dell’intero universo risarcitorio “non” patrimoniale.

Non diversamente, la Corte di Giustizia, con la sentenza del 23 gennaio 2014 (C-371/012) riterrà non contrario ai principi del diritto comunitario la disciplina dell’art. 139 c.a.p. «nella parte in cui limita il risarcimento del danno non patrimoniale (ed in particolare del danno morale) rispetto a quanto ammesso in materia di risarcimento di danni identici risultanti da cause diverse da detti sinistri», aggiungendo che «la liquidazione del danno morale, se e in quanto dimostrata, non è impedita dall’art. 139 c.a.p., ma semmai, come confermato dal Governo italiano, limitata entro la misura stabilita dalla norma».

Anche all’interno del micro-sistema delle micro-permanenti, resta ferma (né avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo le sovrastrutture giuridiche ottusamente sovrapporsi alla fenomenologia della sofferenza) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto.

Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

E se un paragone con la sfera patrimoniale del soggetto fosse lecito proporre, appare assai suggestiva quella sorta di carsica (quanto involontaria!) simmetria del danno alla persona con la altrettanto duplice dimensione del danno patrimoniale: il danno emergente è danno “interno”, che incide sul patrimonio già esistente del soggetto, il lucro cessante è, di quel patrimonio, proiezione dinamica ed “esterna”.

La, duplice, simmetrica dimensione della sofferenza risulta, pertanto, definitivamente scolpita nella sua reale essenza, e si colloca, con disarmante semplicità, nell’orbita di un dettato costituzionale che, con lucida visione del futuro, pose la persona al centro dell’intero sistema normativo.

Se nel danno biologico la componente relazionale della sofferenza è normativamente definita come la conseguenza della lesione della salute che incide sugli aspetti dinamico relazionali del soggetto, la stessa componente relazionale andrà indagata e, se provata, risarcita, con riferimento a tutte le altre ipotesi di lesione dei diritti, degli interessi e del valori della persona cristallizzati nella norma costituzionale.

Non di tripartizione di fattispecie, non di unitarietà di categorie, non di aspetti meramente descrittivi sarà allora ancor lecito discorrere, volta che, nella lesione della salute come di tutti gli altri diritti costituzionalmente protetti, gli aspetti fenomenologici del danno (ipoteticamente concorrenti, ma talvolta anche autonomamente e singolarmente predicabili) sono e saranno sempre due: quello della modificazione della vita di relazione, quello della sofferenza interiore.

Così, superando sterili ed affannate diatribe terminologiche, sarebbe sufficiente al giurista (o presunto tale) dismettere il supponente abito di peritus peritorum, per ascoltare la voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell’occuparsi dell’essere umano, che ogni individuo è, immutabilmente, relazione e dialogo con se stesso ed ancora rapporto con tutto ciò che rappresenta “altro da se”, secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore (non a caso, rispetto al dolore dell’anima, la scienza psichiatrica discorre di resilienza), sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità.

E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali quanto vieti automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza.

Ma, se tabella ha da essere, che si considerino, separatamente, entrambi gli aspetti della sofferenza, senza dimenticare che gli uni e gli altri, o gli uni o gli altri, appartengono a dimensioni diverse della vita dell’uomo.

È questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile - che non è il giudice delle servitù di elettrodotto coattivo, del testamento nuncupativo o degli assegni divisionali - e che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici, degli astrusi algoritmi, delle metacategorie giuridiche, quando l’essenza della categoria giuridica finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza.

Compito sicuramente arduo, per quel giudice, attesa la intangibile e inattingibile disomogeneità tra la dimensione del dolore e quella del danaro, ma reso meno disagevole da un costante lavoro di approfondimento e conoscenza del singolo caso concreto – o, se si vuole, di progressivo e faticoso “smascheramento” della narrazione cartacea rispetto alla realtà della persona – di quella persona – e della sua sofferenza.

La questione si sposta così sul piano della allegazione e della prova del danno, la cui formazione in giudizio postula, ancora una volta, la consapevolezza della unicità e irripetibilità della vicenda sottoposta alla cognizione del giudice, altro non significando il richiamo “alle condizioni soggettive del danneggiato” che il legislatore ha opportunamente trasfuso in norma.

Prova che, come condivisibilmente rammentato della sentenze delle sezioni unite del 2008, potrà essere fornita senza limiti, e dunque avvalendosi anche delle presunzioni e del notorio - se del caso, anche in via esclusiva.

E di tali mezzi di prova il giudice di merito potrà disporre alla luce di una ideale scala discendente di valore dimostrativo, volta che essi, in una dimensione speculare rispetto alla gravità della lesione, rivestiranno efficacia tanto maggiore quanto più sia ragionevolmente presumibile, dalla gravità della condotta e del fatto, la gravità delle conseguenze, intime e/o relazionali, sofferte dal danneggiato.

Delle quali nessun automatismo sarà lecito inferire.

 

Di tali principi è traccia nella recente sentenza della Corte di legittimità[56], ove si legge che:

  1. Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cc) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cc; art. 185 cp). La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Suprema corte (Corte cost. 233/2003; Cass. ss.uu. 26972/2008) deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica, e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, in sede di compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.
  2. Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 235/2014, punto 10.1 e ss.) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A. come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 2 agosto 2917, che ha significativamente sostituito l’originaria rubrica “danno biologico” in quella di “danno non patrimoniale”) deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale) quanto quello dinamico-relazione (danno alla vita di relazione, o danno esistenziale)
  3. Nella valutazione del danno alla salute (non diversamente che da quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto), il giudice, al di là della terminologia definitoria da tempo adottata dal legislatore (danno cd. biologico), dovrà valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da se”)
  4. Costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali “categorie” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.), mentre una differente ed autonoma valutazione andrà compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (come confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 C.d.A., lettera e);
  5. In assenza di lesione della salute, ogni vulnus arrecato a un altro valore/interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo (volta che, nelle singole fattispecie concrete, non è impredicabile, pur se non frequente, l’ipotesi dell’accertamento della sola sofferenza morale o del solo modificazione in pejus degli aspetti dinamico-relazionali della vita), sotto il medesimo, duplice aspetto, della sofferenza morale e della privazione/diminuzione/modificazione delle attività dinamico-relazioni precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato (in tal senso, già Cass. ss.uu. 6572/2006);
  6. La liquidazione unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una ipotetica quanto inconsapevole simmetria legislativa, il danno emergente, in guisa di vulnus “interno” al patrimonio del creditore), quanto sotto il profilo dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione, in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. “lucro cessante” quale proiezione “esterna” del patrimonio del soggetto).

 

Il danno biologico cessa così di essere il titano apparentemente invincibile (ma alfine sconfitto da Zeus) corazzato di tabelle, numeri, eguaglianze, proporzioni, equazioni, algoritmi.

Una rozza teofania che aveva trasformato la medicalizzazione del dolore in sonno antropologico del pensiero.

È così che il danno biologico non rettamente inteso, anziché arricchire l’interpretazione della sofferenza, la inaridisce.

E pretende di esaurirla in sé.

È questa è stata, per troppo tempo, la lenta evanescenza non soltanto del rigore ermeneutico – che mai dovrebbe abbandonare la mente del giurista –, ma della stessa logica del senso del reale.

Del senso della sofferenza come “verità” del diritto.

Ma non è stata irredimibile l’anossia di una categoria del pensiero – la persona, il dolore, il dolore della persona –, ancora prima che della logica dell’etica del diritto mite, anche quando tutto parve collassare in una oscura regione di furente panbiologismo.

Il biologismo del “medicalmente accertabile”.

Trionfava Zoé, tramontava Bìos, si dissolveva Psuché.

La lesione biologica si fa danno zoologico.

Ma il danno alla persona è tante volte, troppe volte, probabilmente sempre, sofferenza umana.

Talvolta indicibile, troppe volte non accertabile.

Mentre la persona sofferente diviene a volte spettro di sé stessa, compito del giudice è trasformare quella sofferenza in denaro.

Armato del coraggio della viltà.

La comprensione giuridica della sofferenza esige un atto di coraggio e di viltà.

Il coraggio insostenibile dell’immaginazione, il coraggio di immaginarsi al posto di chi soffre.

La viltà miserabile di trasformare le lacrime in monete d’oro.

È questo il coraggio vile del giudice.

Perché il vero risarcimento della sofferenza è la vendetta.

O il perdono.

[1] Chi scrive auspica fervidamente il protrarsi in eterno dell’uso della carta stampata…

[2] Le sentenze furono pubblicate in tutte le maggiori riviste dell’epoca: Corriere Giur., 2003, p. 1017, con nota di Franzoni; Giust. civ. Mass., 2003, p. 5; Foro amm. CDS, 2003, p. 1542; Danno e resp., 2003, p. 819 con nota di Procida Mirabelli Di Lauro; Danno e resp., 2003, p. 819 con nota di Busnelli; Danno e resp., 2003, p. 819 con nota di Ponzanelli; Foro it., 2003, I, p. 2273 con nota di Navarretta; Giur. it., 2004, p. 1129 con nota di Bona; Riv. it. medicina legale, 2004, p. 195 con nota di Frati e altri; Giur. it., 2004, p. 29 con nota di Suppa; Riv. corte conti, 2003, 6, p. 221; Nuova giur. civ. commentata, 2004, 2, p. 231 con nota di Scarpello.

[3] Corte cost. 30.6 - 11.7 2003, n. 233, in Resp. civ. e prev., 2003, p. 1036 con nota di Ziviz; Foro it., 2003, 1, p. 2201 con nota di Navarretta; Dir. e Formazione, 2003, p. 1177 con nota di Cendon e di Ziviz; Dir. e Giust., 2003, 29, p. 42 con nota di Peccenini; Giur. cost., 2003, p. 4; Giust. civ., 2003, 1, p. 2019; Nuovo dir., 2003, p. 917 con nota di Venturini; Giur. it., 2003, p. 1776 con nota di Cendon e di Zovoz; Riv. corte conti, 2003, 4, p. 153; Danno e responsabilità 2003, p. 939 con note di Bona, Cricenti, Ponzanelli, Procida Di Lauro Mirabelli, Troiano; Riv. critica dir. lav., 2003, p. 910 con nota di Guariso e di Paganuzzi; Giur. it., 2004, p. 1129 con nota di Bona; Nuova giur. civ. commentata, 2004, 2, p. 231 con nota di Scarpello; Giur. it., 2004, p. 723 con nota di Cassano; Dir. & Formazione 2003, p. 1177 con nota di Cendon e di Ziviz; Dir. pen. e processo, 2004, 5, p. 568 con nota di Fondaroli. Dopo la svolta “costituzionale” del 2003, sono stati inoltre pubblicati tre lavori monografici: Ponzanelli, Il nuovo danno non patrimoniale, Padova, 2004; Navarretta, I danni non patrimoniali, Milano, 2004; Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, Milano, 2004.

[4] Tra i più caustici, sicuramente quelli di Ziviz – Cendon nella nota sulla Giurisprudenza italiana (significativamente intitolata Vincitori e vinti /…dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte costituzionale), che accuseranno il giudice delle leggi di essersi «appiattito, con una pronuncia per relationem, sulle posizioni della cassazione», con un rinvio «poco più che burocratico e semiparassitario» alla sentenza 8827/2003, in attuazione di «un perfetto lavoro di squadra tra i due organi giurisdizionali», di «un gioco delle parti ben preciso»(?).

[5] Questa è l’opinione espressa, al di là delle asprezze lessicali, da Cendon - Ziviz, Vincitori e vinti dopo la sentenza 233/2003 della Corte costituzionale, pubblicato anche on line in www.dannoallapersona.it.

[6] Come riterranno invece (poco condivisibilmente) Busnelli, Chiaroscuri d’estate, in Danno e resp., 2003, p. 816 e Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale, ivi, pp. 820 ss.

[7] Al fine di evitare, tra l’altro, che la Costituzione finisse per trasformarsi in una «lastra tombale dei diritti della persona», come condivisibilmente scrive Cendon nella nota Vincitori e vinti..., cit. p. 1780, par. 29.

[8] Kant, Critica della ragion pura – La logica trascendentale, Koenisberg, p. 1781.

[9] Tra gli scambi di opinioni più “vivaci” del passato, si ricorderà quello tra P.G. Monateri, Danno biologico da uccisione o lesione della serenità familiare? (L’art. 2059 visto come un brontosauro) in Resp. Civ. prev. 1989, pp. 1176 ss. e F.D. Busnelli, Figure controverse di danno alla persona, ivi, 1990, p. 469.

[10] Si leggano, in argomento, le affascinanti pagine di Castronovo, Il danno alla persona tra essere e avere, in Danno e resp., 3/2004, pp. 237 ss.

[11] Osserva, acutamente, l’autore citato nella nota che precede, che «il risarcimento è obbligazione e l'obbligazione si riferisce alle cose, delle quali soltanto si può dare un valore pecuniario. Dice infatti il Digesto che ea enim in obligatione consist(unt) quae pecunia lui praestarique possunt: e la persona non è suscettibile di essere scambiata col danaro, cioè di essere convertita in una somma di danaro. Significativamente lo stesso passo continua con una affermazione … Libertas autem pecunia lui non potest nec reparari potest, onde l'irriducibilità originaria della persona a oggetto del rapporto obbligatorio per il tramite dell'apprezzamento pecuniario che di questo costituisce il metro imprescindibile».

[12] Successivamente, l’artefice del diritto delle Pandette, come ricorda ancora Castronovo, cit., e cioè Windscheid (Diritto delle pandette, II, tr. it. di C. Fadda e P. E. Bensa, Torino, 1925, p. 765, nt. 31), accederà al pensiero del Wächter, secondo il quale la incomparabilità del dolore e del denaro non implica necessariamente che la pecunia doloris non sia risarcimento (in argomento, amplius, Wagner, Geldersaetz fur Persönlichkeitsverletzungen, in Zeitschriften fur Europaeisches Recht, 2000, pp. 203 ss.)

[13] H. Grotii, De iure belli ac pacis, 2, 17,15, citato in Castronovo, op. cit., p. 248, che rammenta ancora come quel pensatore, in materia di danno, sembri apparentemente ancorato al diritto romano, identificandolo con il danno patrimoniale, ma, occupandosi della seduzione con promessa di matrimonio, ritiene viceversa dovuto un risarcimento per la diminuita probabilità di matrimonio, prevedendo addirittura l'obbligo di matrimonio nel caso che, sfruttando la promessa, il seduttore abbia posseduto la fanciulla: (Qui virginem imminuit vi, aut fraude, tenetur ei rependere quanti minoris ipsi valet spes nuptiarum: imo et ducere tenetur si ea promissione corporis usuram impetravit). Rimedio, questo, non dissimile dal matrimonio riparatore che l'art. 544 del codice penale prevedeva sino a non molti anni addietro come causa di estinzione dei reati contro la libertà sessuale («e che non è altro» riflette acutamente Castronovo, cit. «se non il risarcimento in forma specifica del danno morale»).

[14] Ancora da Castronovo, cit., p. 249.

[15] Castronovo, cit., p. 239.

[16] Castronovo, cit., p. 240.

[17] Castronovo, cit., p. 242 passim.

[18] Che, come rileva Castronovo, cit., p. 244, discorre di «Entschädigung in Geld nur in den durch das Gesetz bestimmten Fällen» («indennizzo in denaro soltanto nei casi determinati attraverso la legge») e, nel nuovo secondo comma, di «billige Entschädigung» («risarcimento di tipo economico, modesto»). Ma – soggiunge, del tutto condivisibilmente l’autore citato – Entschädigung non significa risarcimento, cui è viceversa riservato il termine Schadensersatz, ed è previsto dal par. 823 del codice tedesco per il danno patrimoniale.

[19] Corte costituzionale n. 184 del 1986.

[20] Corte costituzionale 293/2003, cit. Dal 1979 al 2003, in realtà, sono state ben sei le decisioni della Corte costituzionale, che, in ciascuna occasione (cinque volte con sentenza, una con ordinanza) ha sempre respinto le istanze volte alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 2059 cc.

[21] Così testualmente Castronovo, cit., p. 250.

[22] L’autore da ultimo citato osserva, conclusivamente, che non avremmo avuto una esperienza così convulsa e confusa come quella che si è svolta intorno all'art. 2059 se il codificatore del 1942, invece di seguire, peraltro male, il modello tedesco, avesse accolto nell'art. 2059 il testo dell'art. 85 del progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti, il quale prevedeva: «L'obbligazione del risarcimento comprende tutti i danni, materiali e morali, cagionati dall'atto illecito. In particolare, il giudice potrà attribuire un'indennità alla vittima, in caso di lesione della persona, di attentato all'onore o alla reputazione della persona o della sua famiglia, di violazione della libertà personale o del domicilio o di un segreto concernente la parte lesa. Il giudice potrà ugualmente attribuire un'indennità ai parenti, agli affini o al coniuge a titolo di riparazione del dolore sofferto nel caso di morte della vittima». Non sempre ciò che viene dopo (chiosa malinconicamente l’autore) è migliore di ciò che l'ha preceduto. E così è accaduto per il nostro codice in punto di danno non patrimoniale.

[23] Si perdoni, sull’argomento, il rinvio a Le nuove categorie del danno non patrimoniale, in Corriere del merito, 10/2006, pp. 1165 ss., con nota di chi scrive a Cass. sez. unite n. 6572/2006, il cui contenuto è in parte riprodotto nella presente nota.

[24] Per un più approfondito e analitico excursus sull’argomento, M. Bona, Il danno esistenziale bussa alla porta e la Corte costituzionale apre, in Danno e resp., 10/2003, pp. 941 ss. Va anche fatto cenno, in proposito, alla posizione della scuola di Camerino (Procida Mirabelli Di Lauro, I nuovi danni e la funzione della responsabilità civile, ed ivi ulteriori riferimenti,in Danno e resp. 5/2003, pp. 461 ss.) secondo la quale la eccezionale afflittività dei danni da reato (ex art. 2059 cc - 185 cp) legittimerebbe il ricorso alla norma civile eccezionale nei soli casi, appunto, di reato, mentre tutti gli altri danni sarebbero risarcibili, «in funzione compensativa e non punitiva, grazie alla norma primaria dell’art. 2043 che» (evidentemente in guisa di refugium peccatorum) «garantisce il risarcimento di ogni danno ingiusto a prescindere dal carattere patrimoniale della lesione e delle sue conseguenze». Accoglie “moderatamente” (e non senza divertita ironia) la categoria del danno esistenziale Giorgio Pedrazzi, nelle sue Semiserie avvertenze sul danno esistenziale, in Danno e resp. 7/2003, p. 797.

[25] Cendon, Il danno esistenziale, Milano, 2000; dello stesso autore, Esistere o non esistere, Trattato breve dei nuovi danni, Padova, 2001, I, pp. 10 ss.

[26] Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Scritti in onore di R. Sacco, II, Milano, 1994, pp. 1322 ss.; Id., Danno non patrimoniale: uno e trino, in Resp. Civ. prev. 2004, pp. 100 ss.; Il danno patrimoniale nell’era del mutamento, cit., 2006, p. 235.

[27] Ziviz, Continua il cammino del danno esistenziale, in Resp. Civ. prev. 2000, p. 938; della stessa autrice, Chi ha paura del danno esistenziale?, ivi, 2002, p. 812 (verrebbe, in verità, da rispondere: nessuno, purché non ne si faccia il “mostro Anellis mangiatutto”!)

[28] Per ulteriori approfondimenti, Bona, cit., pp. 945 ss., il quale osserva come, nella prospettiva torinese, il danno esistenziale si inserisse in un particolare percorso evolutivo in fieri, quello del traghettamento del sistema risarcitorio da uno schema normativo bipolare (art. 2043 - art. 2059 cc) verso un nuovo modello mononormativo alla francese, in cui tutti i pregiudizi non patrimoniali sarebbero dovuti risultare risarcibili entro il formante dell'ingiustizia. Conseguentemente, il danno esistenziale era di fatto concepito sotto due diverse prospettive: da un lato, quella di immediata applicazione pratica, nella quale, attesi i limiti del sistema risarcitorio in cui si collocava, esso non svolgeva solo una funzione puramente descrittiva, ma assolveva ad una vera e propria necessità dell'illecito civile, affiancandosi, in una logica chiarificatrice, alla categoria del danno biologico e del danno morale ed interagendo con gli stessi, soprattutto in sede di quantificazione del danno, in un vero e proprio sistema a vasi comunicanti; dall'altro lato, la prospettiva futura, in cui non si escludeva che tale fattispecie di danno (ma anche il danno biologico e lo stesso danno morale) potesse trasformarsi da figura di danno necessaria nel sistema dell'illecito civile a categoria descrittiva di talune particolari tipologie di pregiudizio non economico, in quanto tale utile ed opportuna in una logica chiarificatrice e funzionale ad un'ottimale valorizzazione di tutti i pregiudizi subiti dalla vittima (nell'ambito, quindi, di una liquidazione analitica di essi).

[29] Per tutti, Busnelli, Interessi della persona e risarcimento del danno,in  Riv. Trim. dir. Proc. civ. 1996, pp. 4 ss.

[30] Ponzanelli, in nota a Tribunale Bergamo 24.2.2003, Danno e resp., 2003, p. 547. Dello stesso autore, L’irrilevanza costituzionale del principio di ineguale riparazione del danno, in La responsabilità civile nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, pp. 67 ss.

[31] Per una approfondita analisi delle altrettanto variegate posizioni assunte dalla giurisprudenza di merito e di legittimità in argomento, cfr. Bona, cit., pp. 843 ss.

[32] Cass. 9009/2001.

[33] Cass. 7713/2000.

[34] Trib. Agrigento 4.6.2001, in Giur. It. 2002, p. 953: il danno esistenziale andava inteso «come qualsiasi danno che l'individuo subisce alle attività realizzatrici della persona umana», e la categoria trovava le sue ragioni d'essere principalmente in quella «zona grigia di confine» che si era venuta a creare tra il danno biologico e il danno morale da reato e non era quindi determinato da particolari contenuti naturalistici, ma in primis dalla sua funzione giuridica nel sistema dell'illecito civile, e cioè la protezione risarcitoria di interessi afferenti alla persona, lesi da un atto ingiusto, meritevoli di risarcimento e non garantiti dalle categorie di danno tradizionali. Il danno esistenziale si poneva come «necessità dell'illecito civile», assumendo i connotati di figura risarcitoria direzionata a colmare le lacune lasciate dalle figure tradizionali di danno nel segno di una più completa protezione risarcitoria della persona

[35] Cass. 15449/2002 e Cass. 15022/2005, secondo la quale: 1) mentre per il risarcimento del danno patrimoniale il riferimento al “danno ingiusto” comporta una atipicità dell’illecito ex art. 2043, come ribadito dal Cass. sez. unite 500/1999 in tema di risarcibilità degli interessi legittimi, eguale principio di atipicità non può essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile; 2) la lettura costituzionale dell’art. 2059 limita oggi il risarcimento dei danni non patrimoniali ai casi previsti dalla legge ed a quelli di lesioni di specifici valori costituzionalmente garantiti della persona; 3) la conseguenza è che non può farsi riferimento ad una generica categoria di danno esistenziale nella quale far confluire fattispecie non previste dalla norma e non necessitate dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 cc perché questo comporterebbe la atipicità anche del danno non patrimoniale.

[36] Va ricordato che in passato la giurisprudenza di legittimità escludeva il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore dei prossimi congiunti della persona dal reato di lesioni personali (Cass. 1421/1998, 11396/1997, 11414/1992), riconoscendolo soltanto in caso di morte. Il revirement si deve a Cass. 4186/1998 (Pres. Bile, est. Segreto) che ha, in primo luogo affrontato l'obiezione secondo la quale, poiché, ai sensi dell'art. 1223 cc, è risarcibile unicamente il danno diretto e immediato, il ristoro del pregiudizio non patrimoniale spetterebbe soltanto a chi ha direttamente ed immediatamente subito la sofferenza, e cioè al soggetto leso, e non anche ai prossimi congiunti, perché costoro, soffrendo per le sofferenze del proprio familiare, non sono colpiti in modo diretto ed immediato dalla condotta lesiva del terzo (mentre, secondo l'impostazione tradizionale, al contrario, nel caso di morte della vittima primaria, sarebbero proprio i congiunti i diretti destinatari del pregiudizio). La Corte, dopo aver ricordato i propri precedenti che hanno riconosciuto la risarcibilità nel nostro ordinamento dei cd. danni cd. riflessi (categoria che la stessa III sezione dopo qualche tempo ripudierà), ha osservato che tale ultima qualificazione può ben essere estesa ai danni non patrimoniali, con conseguente rilevanza delle fattispecie pregiudizievoli conseguenti al fatto illecito altrui, che si traducano nella lesione di diritti facenti capo a soggetti diversi dall'originario danneggiato, ma in significativo rapporto con lui.

[37] Per ampie citazioni sul tema, cfr. ancora Bona, cit., pp. 941 ss.

[38] Josef Esser, discorrendo di Vorverstaendnis (Esser, Vorverstaendnis und Methodenwhal in der Rechtsfindung, trad. Patti-Zaccaria, Napoli, 1983), indicò, con quella parola di straordinaria efficacia, la supponente precomprensione dell’interprete che, nell’avvicinarsi al testo normativo, cancella ogni approccio calato in un contesto applicativo che ne ricerchi e ne predichi l’efficienza e ne colmi le deficienze, per seguire lo sterile percorso del proprio pre-convincimento che pieghi ad esso tutto ciò che, in realtà, egli non comprende.

[39] In Foro it., 2006, I, p. 2334, con note di Cendon, Voci lontane, sempre presenti sul danno esistenziale e Ponzanelli, La prova del danno non patrimoniale e i confini tra danno esistenziale e danno non patrimoniale; Corriere giur., cit., con nota di Monateri.

[40] Parte della dottrina, a quel tempo, si è fulmineamente dichiarata (Monateri, Le nuove regole, cit.) certa che, con tale pronuncia, venisse «definitivamente sancita la natura del danno esistenziale, non emotiva e interiore (propria del danno morale) ma oggettivamente accertabile con riguardo al pregiudizio provocato al fare a-reddituale del soggetto leso» (e fin qui tutto bene), non diversamente, secondo l’autore (ma qui poco condivisibilmente, a sommesso giudizio di chi scrive), da come la categoria era stata proposta dalla scuola triestina, dopo che Paolo Cendon l’aveva creata e Patrizia Ziviz l’aveva “levigata”. Di opinione diametralmente opposta Chinè (Cronaca di una morta annunciata: la parabola del danno esistenziale, in Corriere del merito, 7/2006, p. 829), secondo il quale la categoria del danno esistenziale, avendo visto la luce per l’esigenza di ampliare il novero dei danni risarcibili in un sistema che rinveniva nella riserva di legge dell’art. 2059 un ostacolo insormontabile, avrebbe oggi perduto ogni contenuto precettivo e disciplinatorio (per effetto delle sentenze del 2003, riaffermative di un sistema bipolare in cui il rapporto tra 2043 e 2059 è completamente ridisegnato nel senso che il primo descrive tutti gli elementi costitutivi della unitaria fattispecie risarcitoria mentre il secondo, sul presupposto della ricorrenza di detti elementi, autorizza il risarcimento di danni non patrimoniali, di talché l’art. 2059 «è norma sul danno, non sull’illecito, estensiva della risposta risarcitoria già disciplinata dall’art.2043») e conservato un significato puramente descrittivo.

[41] Franzoni, cit., 1388.

[42] È questa limitazione al solo danno alla salute che non convince nella ricostruzione del danno esistenziale operata dall’autore, limitazione, peraltro, in alcun modo rinvenibile nei dicta della Cassazione e della Corte costituzionale

[43] Cui fa richiamo, conformandovisi in toto, la successiva Cass. 12 giugno 2006, n. 13546, in Corriere giur. 10/2006, p. 1382,con nota di Franzoni.

[44] Parte della dottrina (Franzoni, Il danno esistenziale è il nuovo danno non patrimoniale, in Corriere giur., 9/2006, pp. 1185 ss.) insiste, invece, anche recentemente, sul concetto di danno morale soggettivo inteso come danno in re ipsa per differenziarlo dal danno alla salute lato sensu, attribuendogli tuttora una (non condivisibile) funzione mista, nella quale la componente punitiva di sanzione civile indiretta “sarebbe prevalente su quella solidaristica”, nonostante il (sostanzialmente) contrario avviso della giurisprudenza (in specie, delle tre sentenze gemelle di cui a Cass. 7281, 7282 e 7283 del 2003, secondo cui, testualmente, «il danno morale soggettivo non comporta la punizione del responsabile bensì mira al risarcimento del danneggiato dal fatto illecito anche se leso in interessi non economici»).

[45] Avvisaglia delle quali si rinveniva già in Cass. sez. III 25 luglio 2005, n. 15022 (dello stesso estensore), in Resp. Civ. prev., 2006, p. 91, con nota di Cendon, Danno esistenziale: segreti e bugie.

[46] Cass. 17 luglio 2006, n. 15760, in Corriere giur., 2006, p. 1375, con nota di Ponzanelli, Pacs, miopia giornalistica e controllo della cassazione sulla quantificazione del danno; Cass. 9 novembre 2006, n. 23918, in Danno e responsabilità 3/2007, pp. 16 ss., con nota, ancora, di Ponzanelli, La lettura costituzionale dell’art. 2059 esclude il danno esistenziale.

[47] Norme diverse, cioè, da quelle espresse (oltre all’art. 185 cp), quale l’art. 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale, l’art. 29 della legge 675/1996, in tema di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44 del d.lgs 2986/1998, quanto all’adozione di atti discriminatori per motivi razziali; l’art. 2 della legge 89/2001 in tema di ragionevole durata del processo).

[48] Consapevole delle perplessità che un’affermazione siffatta è destinata a generare, l’annotatore della sentenza, con ammirevole perizia lessicale, fa suo “acrobaticamente” il concetto scrivendo che «il danno patrimoniale soddisfa… una filosofia di atipicità dell’illecito civile… mentre il danno non patrimoniale rimane strutturalmente tipico».

[49] Né vale replicare che questo tipo di danno viene oggi risarcito da tutti i giudici della penisola: quello che preme evidenziare è che ogni tipo di danno esistenziale così morfologicamente inteso, senza arrivare all’acme dell’esempio del testo, va (provato e) risarcito: quello del musulmano discriminato per le sue convinzioni religiose che abbia visto chiudersi gli usci della vita pubblica e privata della sua cittadina, quello del magistrato illegittimamente trasferito che ha perso la ventennale organizzazione di vita familiare, amicale, ludica e sportiva, quello dell’arrestato clamorosamente innocente che per mesi e mesi dopo l’arresto abbia subito l’ostracismo di tutti, compreso i suoi familiari, dai quali sia stato messo al bando, quello di colui il quale, vistasi pubblicata una corrispondenza riservata, sia stato abbandonato da moglie e figli. Gli esempi potrebbero continuare, senza che, tra essi, possano seriamente essere ricomprese quelle vicende puramente bagattellari (i cd. Bagattellenschaden della dottrina tedesca, che un progetto di legge di quel Paese voleva espressamente codificare come non risarcibili tout court), quali il taglio dei capelli sbagliato alla signora che va al concerto, la forzatura del bloccasterzo della nuova moto del giovane rampollo di buona famiglia, la piega dei pantaloni del vestito troppo lunga per il dandy atteso da un party notturno, e l’ulteriore, sterminata teoria di esempi che può trarsi dalle innumerevoli pronunce in subiecta materia dei giudici di pace, inconsapevoli del fatto che, predicando la risarcibilità di queste vere e proprie “barzellette della vita” – che non ledono punto alcun valore non soltanto costituzionale, ma anche e soprattutto di una vita di persone sane di mente –, finivano per indebolire concettualmente la categoria e la dignità del danno esistenziale.

[50] La terminologia «danno statico - danno dinamico» è ancora adottata, di recente, da Cass. 29191/2008.

[51] Cass. 11 novembre 1986, n. 6607, in Foro it., 1987, p. 833.

[52] Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, in Giur. it., 1996, I, 1, p. 1109.

[53] Trib. Milano 16 maggio 1988, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, p. 152.

[54] Cass. 1 dicembre 1998, n. 12195, in Giur. it., 1999, p. 2038.

[55] In tali termini, del tutto condivisibilmente, Cass. 4379/2016.

[56] Cass. 901/2018.