Magistratura democratica

L’indipendenza interna del pubblico ministero

di Marco Bignami

Si affronta il tema dell’indipendenza interna del pubblico ministero, riconoscendo il carattere costituzionale di tale concetto. Si cerca poi di individuare tre sfere differenti di efficacia del principio. Si riconosce così piena capacità decisionale del procuratore capo nell’organizzazione dell’ufficio; la sussistenza di autonomia in capo al sostituto nell’interpretare la legge per il compimento di singoli atti; la possibilità che tale ultima autonomia receda in presenza di direttive comuni elaborate congiuntamente dall’ufficio al fine di dettare criteri uniformi di esercizio dell’azione penale. Sulla base di queste premesse, si ipotizza un’interpretazione costituzionalmente orientata del d.lgs n. 106 del 2006, e si sospetta di illegittimità costituzionale l’art. 3 di tale testo in tema di misure cautelari.

1. La nozione di indipendenza interna del pubblico ministero

Per indipendenza interna del pm deve intendersi la sussistenza di un’area di autonomia decisionale propria del magistrato investito di funzioni requirenti, che egli possa opporre al vertice gerarchico dell’ufficio al quale è preposto, rinvigorita dal fascio di garanzie che l’ordinamento appresta a tutela di simile sfera riservata.

Il tema non è stato granché coltivato dalla pubblicistica, sia pure con rimarchevoli eccezioni[1], anche se è divenuto più spinoso a seguito del d.lgs n. 106 del 2006, che ha rafforzato le prerogative del procuratore capo. Si può supporre che la relativa indifferenza alla questione dell’indipendenza interna sia dovuta ad una serie di ragioni, la prima delle quali da identificarsi con l’assai più seducente forza di attrazione esercitata dal problema dell’indipendenza esterna. In una prospettiva storica, è stata in altri termini la posizione ordinamentale assunta dal pm nei confronti dei poteri dello Stato, e in particolare di quello esecutivo, a monopolizzare l’attenzione. Così, l’ultimo comma dell’art. 107 Cost., secondo cui il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario, ha alimentato il dibattito sulla necessaria appartenenza del pm all’ordine giudiziario; sulla separazione delle carriere giudicanti e inquirenti; sul divieto, a Costituzione vigente, di sottoporre tale figura al controllo del Governo, secondo il modello francese[2]. Con minore urgenza ci si è invece interrogati sulla natura di tali “garanzie” in seno alla magistratura, non solo con riguardo allo status di magistrato, ma soprattutto nel rapporto dialettico con il capo dell’ufficio.

Eppure, l’art. 108, secondo comma, Cost. assicura l’indipendenza del pm presso le giurisdizioni speciali, con l’evidente corollario che essa non può quindi che spettare allo stesso magistrato ordinario insignito delle funzioni inquirenti. Le garanzie offerte dalla legge sull’ordinamento giudiziario in base all’art. 107 Cost. devono quindi includere l’indipendenza del pm. E quest’ultima, in quanto presidio innalzato direttamente dalla Costituzione, non si presta a essere annichilita dalla legge, ma ha una consistenza sostanziale sua propria, che il legislatore è tenuto a salvaguardare e attuare in idonee forme.

Da qui si può arrivare a supporre, sia pure quale spunto iniziale di riflessione, che la Costituzione reclami una qualche forma di indipendenza del pm secondo la duplice accezione che tale espressione ha tipicamente assunto nel dibattito sull’ordinamento giudiziario, ovvero per il verso sia esterno, sia interno.

Certo, è assai problematica l’estensione ai magistrati del pm del principio secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la cui lettera milita decisamente a favore dell’attribuzione di tale garanzia esclusivamente al magistrato giudicante[3]. È per l’appunto la speculazione in tale ambito che ha permesso di meglio precisare i contorni dell’indipendenza interna, perché la soggezione esclusiva alla legge non indica soltanto che l’attività giurisdizionale deve trovare adeguata descrizione in tale fonte, senza intestarsi obiettivi di scopo che non abbiano una corrispondente raffigurazione legislativa di modi, forme e condizioni, secondo un’accezione certamente affine alla natura del pm (Corte cost., ordinanza n. 24 del 2017). Significa anche, su un lato diverso ma complementare, che il giudice ha una sua sfera riservata di potestà interpretativa, alla quale in linea di principio non può sovrapporsi un comando gerarchico promanante da Corti superiori o internazionali, salve ipotesi analoghe ad un giudizio di rinvio che vada definito conformando la fattispecie alla regula iuris enunciata nel precedente grado (Corte cost. sentenza n. 49 del 2015). Il contatto con la legge, in altri termini, non ha mediazioni: spetta all’organo giurisdizionale elaborarne i significati utili a risolvere la controversia, attingendo direttamente alla fonte[4].

L’indipendenza interna del giudice, per tale verso, è dunque duplice: sottrazione alla gerarchia ordinamentale nell’esercizio della funzione giudicante; discrezionalità nell’interpretazione dei testi normativi, secondo un processo cognitivo che implica il confronto con l’esegesi correntemente praticata, in particolare, dalla Corte di cassazione, ma non il vincolo inderogabile a recepirla quando invece si abbiano motivate ragioni di dissenso.

Si capisce che simili approdi calzano bene al ruolo del giudice, ma non sono intuitivamente estendibili al pm. Quest’ultimo svolge, per sintetizzare i compiti prevalenti, un’attività di acquisizione delle notizie di reato; di indagine; di direzione della polizia giudiziaria; di impulso alla prosecuzione del procedimento attraverso l’esercizio dell’azione penale e la partecipazione al processo in senso proprio; di impugnativa degli atti del giudice. In questo multiforme mondo di operazioni materiali e intellettuali, le prime, dinamicamente proiettate verso un’incisione fenomenologica che ha tutt’altro suono rispetto alla quieta e silente interpretazione di testi normativi, oscurano le seconde anche quando vi sono largamente intrecciate. Così, se il pm compie un atto di indagine, è quest’ultimo a risaltare nella sua componente materiale di modificazione della realtà, piuttosto che la preliminare attività di lettura e comprensione del significato della norma che attribuisce e regola quel potere, benché anche quest’ultima sia necessaria in via preliminare.

Si aggiunga che, sul piano ordinamentale, non è dubbio che il pm, diversamente dal giudice, sia inserito in un ufficio strutturato gerarchicamente, e al cui vertice siede il procuratore della Repubblica.

Per effetto di tali congiunte ragioni, l’indipendenza interna del pm rischia di scolorire fino a rendersi inafferrabile. L’art. 101, secondo comma, Cost. parla al (solo) giudice; suppone la sottrazione a qualsivoglia gerarchia nell’esercizio della funzione, che è proprio quanto al pm è negato; quest’ultimo è l’organo dell’azione, anziché dell’interpretazione.

Date queste condizioni, è ancora possibile disquisire di un’indipendenza interna del pm? Se una tale nozione si origina prevalentemente dall’art. 101, secondo comma, Cost., e tale disposizione costituzionale neppure lambisce il magistrato inquirente, non sarà piuttosto da rifiutargli ogni consistenza per il caso che ci interessa?

Naturalmente, la domanda presuppone, per così dire, il tono costituzionale dell’indipendenza interna del pm. Allo stato, persino nel contesto di accentuata verticalizzazione degli uffici inquirenti dovuto al d.lgs n. 106 del 2006, è la legge a prevenire l’integrale dissoluzione della autonomia decisionale del magistrato del pubblico ministero, riservandogli spazi irriducibili alla gerarchia (ad esempio, art. 70, comma 4, o.g.). Ma il punto sta piuttosto nel comprendere se ciò sia scelta in qualche modo costituzionalmente obbligata, e dunque censurabile laddove eccessivamente timida. Oppure, se il legislatore non incontra limiti nella strutturazione piramidale dell’attività inquirente, in virtù di uno zoccolo di indipendenza interna costituzionalmente rilevante[5].

2. Il fondamento costituzionale dell’indipendenza interna del pm

L’idea da cui parte il presente lavoro è la prima.

Bisogna, a tal fine, liberarsi dalla suggestione che proviene dalla formulazione letterale dell’art. 101, secondo comma, Cost. Non perché essa sia aggirabile con disinvoltura, perché, anzi, è certamente sostenibile che il Costituente avesse in mente la disciplina della posizione ordinamentale e funzionale del solo giudice. Se si ragiona di indipendenza interna nella duplice prospettiva della scomposizione dell’apparato gerarchico e della riserva di libertà interpretativa, è del tutto naturale rivolgere il pensiero all’organo giudicante, senza curarsi del pm, che è invece immerso in una piramide organizzativa ove l’azione ombreggia l’interpretazione.

Ma, detto questo, il fatto che la Costituzione abbia inteso dedicare una disposizione atta a garantire la soggezione del giudice soltanto alla legge non significa che, nella sua trama implicita, non sia dato rinvenire un principio adattabile al pm, che, se non equivalente, in ogni caso permetta anche in questo caso la massima espansione possibile del valore sotteso alla scelta costituzionale, nei limiti in cui ciò sia compatibile con la posizione ordinamentale del tutto peculiare assegnata al pm.

Nessuno, così, potrebbe dubitare che anche il pm, al pari del giudice, debba uniformare la propria azione alla legge (vi sia, cioè, interamente soggetto), benché ciò possa non essere stato detto esplicitamente nel testo costituzionale.

Più specificamente, si può ipotizzare che dall’art. 101, secondo comma, Cost. sia comunque ricavabile una nozione costituzionale di indipendenza del magistrato che, cogliendo un’esigenza comune all’azione di giudice e pubblico ministero, contribuisca a chiarire che cosa la Costituzione intende quando impegna la legge a garantire l’indipendenza del pm presso le giurisdizioni speciali e, dunque, a maggior ragione anche in seno all’ordine giudiziario.

Perciò, non è risolutivo interrogarsi sull’estensione diretta al pm dell’art. 101, secondo comma, Cost. perché, quale che sia la migliore risposta al quesito, dovrebbe essere appagante ai nostri fini il solo fatto che la Costituzione, senza dubbio, riconosce l’indipendenza del pm, e che i contorni di questa nozione, a loro volta, non possono che trarsi dal disegno costituzionale nel suo complesso.

Così, per la parte in cui la medesima prospettiva accomuna giudice e pubblico ministero nel soddisfacimento di un unico valore costituzionale, là si dovrà ritenere che l’indipendenza del pm sia definibile anche alla luce di ciò che la Costituzione intende per indipendenza del giudice. È dunque per questa via che si può ragionare di indipendenza interna del pubblico ministero.

Su questo piano, non sarà certamente predicabile che il pm vada interamente sottratto alla gerarchizzazione dell’ufficio cui appartiene, perché è questa una nozione di indipendenza interna che riflette la posizione strutturale del solo giudice. È proprio l’art. 107, ultimo comma, Cost. a introdurre un ambito di divaricazione nell’inquadramento organizzativo del pm e del giudice, visto che al primo, pur nell’ambito dell’unica magistratura, sono riservate specifiche norme di garanzia proprie dell’ordinamento giudiziario. Né sfugge, del resto, che il compito precipuamente decisorio del giudice mal tollererebbe la rigida armatura della gerarchia, essendo ad essa inassimilabile la funzione interpretativa che assorbe quasi totalmente l’operato di chi giudica. Viceversa, le attività per così dire materiali del pm (nelle quali, cioè, l’interpretazione della norma è marginale), così numerose e caratterizzanti, sono assai più compatibili con un assetto gerarchico che le uniformi, le indirizzi e le coordini.

Tuttavia, anche il pm, come si vedrà subito, interpreta norme. Diversi sono gli effetti di questa attività, ma non ne è differente la natura. E allora diventa legittimo chiedersi se, a fronte di tale dato, e in questi casi, non militino a favore dell’indipendenza interna del pm le stesse ragioni costituzionali che hanno condotto a garantire, quanto alla libertà interpretativa, l’indipendenza interna del giudice sancita dall’art. 101, secondo comma, Cost.

È quanto si vedrà nel prossimo paragrafo.

3. Indipendenza interna e interpretazione di norme

L’indipendenza interna non è e non può tramutarsi in un privilegio del magistrato preposto alla funzione (tale, perciò, da poter ben essere sacrificata, affinché l’ufficio ove questi opera adempia con maggiore efficacia ai propri compiti), ma contribuisce piuttosto, nella prospettiva dell’ordinamento, a connotare ed orientare quella stessa funzione sul terreno della democraticità.

La sempre contesa partita sulla legittimazione della magistratura nell’ordinamento costituzionale non può seriamente giocarsi sul piano esclusivo della competenza, evocando il modello francese del magistrato-funzionario, ma richiede piuttosto di adottare una chiave di lettura adeguata, per così dire, alla “serratura” democratica ove essa si trova a girare[6].

E se la democrazia, come è del tutto ovvio, non si risolve sempre e comunque nell’affermarsi della volontà dei più, ma esige al contrario argini ben saldi affinché quest’ultima non straripi oltre i vincoli costituzionali, appare chiaro che, nel rispondere a tale necessità, la miglior garanzia contro deviazioni “maggioritarie” nell’interpretazione della legge[7] è proprio il frazionamento del potere giurisdizionale entro i molteplici organi di cui si compone la magistratura, e tramite esso l’apertura ricettiva agli stimoli pluralistici che sorreggono il “riempimento” della norma giuridica nell’applicazione al caso concreto, ad opera dell’interprete.

Tuttavia, tali considerazioni, se appaiono adeguate al ruolo del giudice, si affievoliscono (ma, come si cercherà di dire in seguito, non scompaiono del tutto) con riguardo all’attività dell’ufficio del pm, che è da sempre tutt’altro che estraneo a fasi di gerarchizzazione nel rapporto tra il procuratore ed i suoi sostituti.

Sul punto, la giurisprudenza costituzionale non lascia adito a dubbi[8]: fin dalla sentenza n. 52 del 1976 vi si afferma che le garanzie costituzionali di indipendenza «si riferiscono all’ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso», sicché è consentito al legislatore «per alcuni momenti processuali» atteggiare «a criteri gerarchici l’attività dell’organo».

Parimenti, le sentenze nn. 462 e 463 del 2003, in punto di legittimazione a sollevare conflitto tra poteri dello Stato a tutela dell’attribuzione prevista dall’art. 112 della Costituzione[9], non riconoscono affatto siffatta legittimazione al sostituto titolare dell’indagine, quanto invece all’ufficio del pm, la cui volontà si evince dalla sottoscrizione del ricorso da parte del procuratore della Repubblica: esse non autorizzano, pertanto, a fondare un particolare status di indipendenza interna del primo, da opporre al secondo nell’esercizio dell’azione penale.

Nonostante ciò, non pare a chi scrive costituzionalmente tollerabile l’integrale assorbimento delle competenze del sostituto, pur sempre magistrato appartenente all’ordine giudiziario, distinguibile dai colleghi solo per funzioni (art. 107 Cost.), nelle attribuzioni gerarchicamente preordinate del procuratore, ed è a ben vedere la giurisprudenza costituzionale ad offrire spunti per contestare una siffatta conclusione

Per un verso, la stessa sentenza n. 52 del 1976 confina la discrezionalità del legislatore nel conformare a criteri gerarchici l’attività del pm ai «momenti processuali in cui è più pronunciato il carattere impersonale della funzione»; per altro verso, non mancano decisioni della Corte (sentenza n. 88 del 1991) ove, così postulando il rigetto di un “puro” modello gerarchico nella configurazione dell’ufficio, si afferma espressamente che anche il magistrato del pm, al pari del giudice, è soggetto soltanto alla legge, ai sensi dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione (in senso contrario, si può ricordare la sentenza n. 420 del 1995, ove tuttavia l’esclusione dell’art. 101 Cost. quale parametro evocabile dal pm nel conflitto tra poteri potrebbe imputarsi alla prevalenza, nel quadro di un ricorso teso a preservare l’autonomia del pm nell’esercizio delle indagini e dell’azione penale, delle attribuzioni di cui all’art. 112 Cost., piuttosto che ad un’ontologica irrilevanza dell’art. 101).

4. segue: i cerchi concentrici dell’indipendenza interna del pm

Si tratta, allora, di trovare un punto di equilibrio tra spinta gerarchica e controspinta di indipendenza funzionale nell’esercizio delle attività del sostituto procuratore, e di valutare se il d.lgs 106 del 2006 sia arrivato troppo in là nel favorire un corno della questione sull’altro, o abbia piuttosto collocato la barra su una delle possibili linee interpretative consentite al legislatore dalla Costituzione.

Bisogna ammettere infatti che il disegno costituzionale, reso su questo punto di non cristallina chiarezza a causa dell’obiettiva incertezza nell’inquadramento sistematico del pm, sembra aprire la via a forme di “verticalizzazione” dell’ufficio diverse, in astratto, di quelle già ravvisate da un autorevole dottrina[10] esclusivamente nella necessità di predisporre un controllo sulle funzioni dei magistrati del pubblico ministero, e al solo fine di tutelare il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Nel contempo, tuttavia, è forse proprio l’origine di quella incertezza di cui si è appena detto a suggerire un’altra linea esegetica.

Il pubblico accusatore si profila, nel processo storico che ne vede mutare la natura da organo “amministrativo” a componente «dell’ordine giudiziario nel senso lato del termine» (è la significativa espressione della Corte Edu nel caso Lesnik v. Slovacchia, 11 marzo 2003) come il punto di convergenza di funzioni obiettivamente eterogenee, talune delle quali solo assai debolmente connesse alla giurisdizione.

Ma non vi è dubbio che lo sviluppo dello Stato di diritto e la conseguente esplosione, ben prima del processo in senso proprio, delle garanzie procedurali di colui che si trovi soggetto ad indagine, hanno avuto per indotto l’allargamento dell’area in cui alla discrezionalità dell’apparato amministrativo preposto al pubblico bene si sostituisce l’osservanza delle norme dettate a tutela delle libertà dell’individuo, e finalizzate al corretto esercizio della giurisdizione.

Si noti: la questione non è qui la posizione strutturale del pm, se magistrato o rappresentante del potere esecutivo presso le Corti, su cui ciascun ordinamento ha la propria soluzione.

Si tratta invece di riconoscere che nell’uno come nell’altro caso lo spazio “normato” a garanzia dell’indagato è cresciuto, ponendo il pm sempre più spesso a contatto, per così dire, con tali disposizioni di sintesi normativa del binomio autorità/libertà, di cui egli rende applicazione, certamente in forma non decisoria, ma tramite un processo intellettivo che ha i caratteri propri dell’interpretazione.

Le resistenze ad ammettere tale circostanza sono considerevoli: basti pensare che ancora nel 2000 la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa indicava a elemento distintivo della figura del pm dal giudice, tra gli altri, il fatto che il primo, diversamente dal secondo, non avrebbe il compito di interpretare la legge.

Ma pare davvero difficile negare che quando il pm qualifica in termini giuridici la notizia di reato, ovvero formula l’imputazione (tanto per ricorrere ad esempi tanto icastici, quanto di ordinaria ricorrenza nell’attività dell’organo dell’accusa) con ciò non svolga una preliminare attività di interpretazione e di applicazione della legge penale.

Forse, è proprio avendo riguardo alla molteplicità di tali occasioni, che la Corte costituzionale (sentenza n. 96 del 1975) ha ricompreso nel concetto di giurisdizione accolto dall’art. 102 della Costituzione «non solo l’attività decisoria, che è peculiare e propria del giudice, ma anche l’attività di esercizio dell’azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fini di giustizia e che l’art. 112 della Costituzione, appunto, attribuisce al pubblico ministero».

Nel contempo, permane, diversamente che per il giudice, un campo in larga parte sottratto all’applicazione delle norme di garanzia, ove ha piuttosto rilievo l’attività investigativa ed organizzativa del pm: impartire disposizioni concernenti il funzionamento del proprio ufficio, prediligere una tecnica di indagine ad un’altra, dirigere i propri collaboratori amministrativi, disporre della polizia giudiziaria e mantenervi i rapporti, impiegare i mezzi di cui l’ufficio dispone per il compimento delle proprie attività, assumere le prove in prima persona o mediante delega, e così via, sono compiti che certamente qualificano la funzione del sostituto procuratore, e la cui delicatezza, ai fini del buon esito dell’azione penale, non può essere sottovalutata, ma per i quali, nel contempo, le ragioni dell’indipendenza interna appaiono davvero recessive.

Si potrebbe dire così: tutta l’attività del pm nello Stato di diritto è orientata da norme finalizzate all’accertamento della responsabilità penale nel rispetto delle garanzie dell’individuo, ma solo una parte di essa è applicazione di queste stesse norme.

L’ipotesi da cui muovono queste brevi osservazioni è che, in questo ultimo caso quelle medesime ragioni che sono state spese a garanzia e giustificazione dell’indipendenza interna del giudice possano e debbano valere anche nei riguardi del pm nel rapporto con il proprio procuratore, posto che il primo è qui davvero magistrato soggetto soltanto alla legge.

Non sembra esservi infatti un’insuperabile ragione per negare tale processo assimilativo, se si pone mente all’esigenza di frazionare anche in tal caso, quanto possibile, l’esercizio delle potestà connesse alla giurisdizione, quando esse implicano un onere interpretativo della norma giuridica: esso si arricchisce attraverso il contributo del magistrato a ciò preposto, e in tal modo si sottrae al potenziale pregiudizio “maggioritario” che potrebbe derivare dall’accentramento in capo ad un unico soggetto, per quanto a propria volta magistrato, di una tale essenziale funzione.

Né varrebbe obiettare che in senso contrario milita l’esigenza di assicurare l’uguale interpretazione della legge da parte dell’unico ufficio del pm, giacché essa può venire perseguita non già accentrando nel preteso vertice piramidale dello stesso una sorta di ibrido nomofilattico, quanto piuttosto stimolando su questo terreno il confronto paritario tra il procuratore e tutti i sostituti, alla ricerca di un indirizzo quanto possibile comune nell’interpretazione della legge, e per ciò stesso frutto di apporti culturali variegati e bilanciati reciprocamente.

In altri termini: non è negabile che la Costituzione sottenda uno standard di omogeneità nell’applicazione della legge da parte degli uffici del pm più spiccato che non in riferimento all’attività giudiziale decisoria. Quanto a quest’ultima, infatti, l’iniziale confronto di posizioni dialettiche non convergenti, quando motivate, è piuttosto uno stimolo a ricercare un significato normativo adeguato a rispondere, per quanto possibile, all’intero spettro delle argomentazioni prodotte in un senso e nell’altro. Insomma, il confronto tra giudici, nella prospettiva di rinvenire poi una posizione condivisa, è un punto di forza del sistema giudiziario, anziché una debolezza.

Nel caso del pm, invece, non può essere trascurata l’esigenza più accentuata di uniformità sottesa dal principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), che a sua volta riflette la forza del principio di uguaglianza[11]. Il processo penale va sollecitato dalla pubblica accusa con convergenza di criteri, affinché poi siano proprio i giudici a confrontarsi ulteriormente, e semmai a dividersi, sul significato della legge (di regola nelle forme del pubblico dibattimento e, comunque, previo adeguato confronto processuale con le parti, ciò che manca invece largamente alla fase governata dal pm). Una eccessiva frammentazione, ufficio per ufficio, sostituto per sostituto, dell’interpretazione normativa prodromica all’esercizio dell’azione penale anticipa esageratamente, rispetto alla sua giusta sede (il processo governato dai giudici) l’elaborazione dialettica funzionale alla carica democratica propria dell’esegesi giudiziaria, nel senso sopra specificato.

La democraticità della funzione interpretativa, coessenziale al modello costituzionale, accetta perciò nel caso del pm, quando applicatore di norme, un grado più severo di compressione, che tuttavia può essere compensato da sufficienti modalità procedimentali di confronto tra i componenti dell’ufficio.

Si raggiungerebbe in tal modo un adeguato grado di tutela dell’indipendenza interna dei magistrati del pubblico ministero, nel contempo rifuggendo da tentazioni di “personalizzazione” dell’ufficio, giustamente ripudiate dalla più convincente dottrina[12].

In altri termini, la soluzione gerarchica non è qui l’unica possibile, ed anzi pare da scartare, in una lettura costituzionalmente orientata delle norme: la stessa giurisprudenza costituzionale già ricordata, nell’assicurare all’«ufficio unitariamente inteso» del pm le garanzie di indipendenza previste dalla Costituzione, pare frapporre un ostacolo a che tale ufficio, composto da una pluralità di magistrati le cui relazioni sono governate dall’art. 107, terzo comma, della Costituzione, possa venire ridotto al solo organo-potere, incarnato dal procuratore della Repubblica.

Si può allora sostenere che l’attività del pm, in definitiva, pare scomponibile in tre fasi qualitativamente differenti, per quanto attiene al grado di tutela dell’indipendenza interna: una prima concernente la direzione e l’organizzazione dell’ufficio, ove tale indipendenza può recedere a fronte della supremazia gerarchica assegnata dalla legge al procuratore; una seconda, retta dall’interpretazione e dall’applicazione non decisoria di norme di garanzia del procedimento penale, ove tale recesso, a fini di garanzia dell’uniforme esercizio dell’azione penale (art. 1, comma 2, del d.lgs 106), può manifestarsi a fronte di un indirizzo maturato nell’ufficio, a seguito del paritario confronto tra i sostituti che ne sono parte e il procuratore stesso; una terza, ove l’applicazione della norma appare così intimamente connessa all’apprezzamento del caso concreto (ne è un esempio la richiesta di misure cautelari) che il sistema costituzionale, secondo chi scrive, non lascia alternativa, se non di affidarsi all’autonomia del sostituto titolare dell’indagine.

È tempo ora di soffermarsi più nel dettaglio sulla normativa concernente l’ufficio del pm[13], per trovare conferme o smentite di tale assunto.

5. Le fonti normative

Tale normativa è racchiusa nel d.lgs n. 106 del 2006, che ha attuato la delega contenuta nella legge n. 150 del 2005; nelle pertinenti disposizioni dell’ordinamento giudiziario (il cui art. 70, comma 4,assicura al sostituto autonomia in udienza); nella circolare sull’organizzazione delle procure da ultimo approvata dal Csm con la delibera del 24 ottobre 2017.

È ben noto che il d.lgs n. 106 del 2006, traghettato dalla fase di approvazione da parte di una maggioranza politica di centro-destra a quella di emanazione nel testo emendato da un Governo di centro-sinistra, ha accomunato le forze politiche nell’intento di esplorare al massimo grado le potenzialità di strutturazione gerarchica dell’ufficio del pm che la Costituzione consente.

In verità, una lettura sbilanciata verso tale direzione potrebbe persino condurre a configurare il procuratore capo quale dominus di un apparato servente rispetto agli obiettivi che egli, «titolare esclusivo dell’azione penale» (art. 1, comma 1, d.lgs n. 106 del 2006), formula attraverso i criteri di organizzazione dell’ufficio, i criteri di gestione dei procedimenti assegnati, e persino dei singoli atti inquirenti all’interno di questi (art. 2, comma 2, d.lgs n. 106 del 2006), fermo restando il potere di revoca dell’assegnazione. Con quest’ultimo si chiuderebbe il cerchio di un esaustivo controllo condotto lungo l’intero arco della parabola professionale del sostituto, ridotto a longa manus del “suo” procuratore.

Tuttavia, una simile interpretazione del testo normativo, quale che siano state le intenzioni del legislatore storico, non può trovare avallo in Costituzione, anzitutto per le ragioni che sono state sopra esposte: esso, infatti, distruggerebbe il nocciolo duro dell’indipendenza interna, fino al punto che tale essenziale profilo dello status del magistrato di procura verrebbe meno, in contrasto con il disegno costituzionale sulla magistratura nel suo complesso.

La diffusività del potere giudiziario latamente inteso; l’esigenza di frazionare democraticamente le sedi giudiziarie deputate all’interpretazione normativa; la stessa dignità del magistrato vincitore di concorso e distinguibile dai colleghi solo per funzioni (si veda in tal senso l’art. 3.1 lett. c della risoluzione del Csm del 12 luglio 2017) sono altrettanti indicatori costituzionali di opposizione ad un modello così verticistico dell’ufficio del pm.

Del resto, fino a quando il pm resta immerso nella “cultura della giurisdizione”[14], come si è abituati a dire, suonerebbe bizzarro che al contempo gli sia negato il presupposto concettuale stesso di ciò, ovvero un grado di autonomia decisionale nell’interpretazione delle norme che ne governano l’azione. Senza di essa, si spalancherebbe un mondo di automi giudiziari, macchine esecutrici di direttive altrui, senza il personale apporto di cuore e intelletto che fonda ogni cultura critica propriamente detta. I nostri sostituti opererebbero così non nella “cultura della giurisdizione”, ma nel “nozionismo della giurisdizione”, secondo un modello di magistrato-burocrate che apre la strada a pericolose involuzioni.

Il procuratore della Repubblica, in definitiva, è un magistrato eminente all’interno dell’ufficio che dirige, ma non il solo magistrato che vi agisce.

Negando l’indipendenza interna, anziché limitandola in ragione delle peculiarità che separano senza dubbio giudici e pm nell’assetto costituzionale, il legislatore avrebbe dunque violato l’art. 107, ultimo comma, Cost..

6. Il d.lgs n. 106 del 2006: profili di illegittimità costituzionale

È perciò necessaria un’interpretazione costituzionalmente conforme che da un lato prenda atto della legittima scelta della legge di rafforzare la verticalità degli uffici di procura, dall’altro lato ne prevenga le storture costituzionalmente illegittime, facendo salvo in capo al singolo sostituto ora uno spazio decisionale proprio nell’applicazione delle norme, ora un’adeguata partecipazione ad un processo ascendente di maieutica giudiziaria volto alla condivisione di criteri interpretativi uniformi all’interno dell’ufficio, e, se possibile, tra uffici.

Per tale ragione, l’art. 1 del d.lgs 106, nella parte in cui enfaticamente qualifica il procuratore come il «titolare esclusivo dell’azione penale», in quanto «preposto all’ufficio», pare costituzionalmente tollerabile solo a patto di leggervi un’investitura meramente formale a rappresentare istituzionalmente l’ufficio nei rapporti con i terzi, e come la fonte dei (soli) poteri gerarchici che senz’altro il legislatore può attribuirgli, sul piano direttivo ed organizzativo, eccezion fatta per la “riserva interpretativa” che si vuole qui riconoscere ai sostituti.

Non è discutibile, infatti, che al di là di tale limite invalicabile l’ufficio del pm possa essere verticalizzato in forma più o meno marcata dalla legge.

In tale direzione, pare esente da dubbi di legittimità costituzionale l’art. 4 del d.lgs 106, che consente al procuratore di determinare i «criteri generali» cui i sostituti dovranno attenersi «nell’impiego della polizia giudiziaria, nell’uso delle risorse tecnologiche assegnate e nella utilizzazione delle risorse finanziarie» e «per l’impostazione delle indagini».

Parimenti, appare persino opportuno l’art. 5, che assegna al solo procuratore (vietandolo ai sostituti) il compito di mantenere i rapporti con gli organi di informazione.

Maggiori perplessità solleva invece l’art. 2, comma 2, per il quale «con l’atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività».

In precedenza, il Csm (delibera 10 aprile 1996) si era orientato per escludere la legittimità di direttive afferenti la conduzione del singolo processo, consentendo al procuratore l’adozione di atti di indirizzo, solo se a carattere generale.

Nella risoluzione adottata il 12 luglio 2007 il Consiglio, chiamato ad una prima lettura della nuova normativa, ha ribadito che i criteri di cui sopra «dovranno tendenzialmente ricollegarsi a quelli definiti in via generale, assumendo rispetto ad essi carattere attuativo o integrativo».

Ora, la distinzione tra direttive generali e particolari ha un’area di contiguità con il criterio proposto in queste brevi note, posto che l’interpretazione della norma si esercita sul caso concreto, la cui ricchezza di sfumature finisce inevitabilmente per orientarne l’esito.

Tuttavia, non si tratta di una piena coincidenza: si possono immaginare casi in cui il criterio impartito al sostituto, per quanto modellato sullo specifico fascicolo a questi assegnato, non coinvolga l’interpretazione e l’applicazione non decisoria di norme di garanzia, e casi opposti in cui si voglia invece pretendere, sulla base di una direttiva generale formulata autoritativamente ed unilateralmente dal procuratore, un’esegesi di tali norme contraria alla valutazione del sostituto o, a maggior ragione, ripudiata dall’ufficio, inteso quale complesso dei magistrati del pm che vi sono funzionalmente destinati.

È evidente, pertanto, che la tenuta costituzionale dell’art. 2 sarà condizionata alla verifica, caso per caso, circa la ricorrenza della prima o della seconda ipotesi, lungo una scala di apprezzamento difficilmente tracciabile a priori, e soggetta in definitiva al vaglio del Consiglio, anche in sede di responsabilità disciplinare del procuratore ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. e) del d.lgs n. 109 del 2006 («ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato»)[15].

Un giudizio assai critico, sul piano della legittimità costituzionale, sembra invece doversi riservare all’art. 3, che richiede l’assenso del procuratore ai fini della richiesta di misure cautelari da parte del sostituto titolare del fascicolo, e ai fini del fermo di indiziato di delitto[16].

I requisiti e le condizioni in presenza dei quali il magistrato del pm deve richiedere tali misure sono stabiliti tassativamente dalla legge, e non lasciano margine dubitativo in proposito; alla stesso modo, valutare se essi si adattino al caso concreto necessita proprio di quell’attività preliminare di interpretazione e valutazione per la quale la Costituzione, secondo chi scrive, garantisce al magistrato del pm una sfera di competenza riservata rispetto all’intervento del procuratore, fermo, come è ovvio, che essa non incide, se non provvisoriamente (Corte costituzionale, sentenza n. 419 del 1994), sul bene della libertà personale, affidato all’istanza decisoria del giudice.

Conclusioni

Il d.lgs n. 106 del 2006 si segnala dunque per una gerarchizzazione dell’ufficio inquirente che per taluni punti sembra eccedere il margine costituzionalmente concesso, e per altri vi può essere ricondotta solo attraverso un’accurata interpretazione adeguatrice.

Su questo cammino si è infatti posto il Csm, adottando da ultimo, nel testo più aggiornato, la circolare del 24 ottobre 2017 già citata. Particolarmente significativo, ai nostri fini, è l’art. 11, che consente l’assegnazione di singoli atti di regola solo nei procedimenti trattati personalmente dal procuratore, essendo altrimenti necessario il consenso del sostituto non impedito. L’art. 15, poi, introduce garanzie procedimentali per il caso di revoca dell’assegnazione.

Come si è detto, l’obiettivo di queste note è dimostrare che il sostituto non può trovarsi vincolato all’assunzione di singoli e specifici atti, propri del procedimento che gli è stato assegnato, ove essi presuppongano un’interpretazione normativa dalla quale dissente. Ugualmente, in tali casi non dovrebbe neppure essere consentita la revoca dell’assegnazione, ma, al limite, la sola procedura di visto descritta dall’art. 14 della circolare, al fine di addivenire a «soluzioni condivise».

In effetti, la individuazione di percorsi collaborativi tra procuratori e sostituiti è del tutto assente nel d.lgs n. 106 del 2006, ma giustamente recuperata dalla circolare del Csm (art. 2, comma 3; art. 4, comma 1 lett. d; art. 8, comma 1 e 2). Andrebbe aggiunto che, se appare opportuno un coinvolgimento di tutti i magistrati in riferimento alle scelte squisitamente organizzative, esso non può reputarsi costituzionalmente necessario se non laddove venga in gioco la predisposizione di uniformi criteri di interpretazione e applicazione della legge, da definire in via generale e astratta, affinché poi essi trovino attuazione in singoli procedimenti.

Come si è anticipato, la libertà interpretativa del pm diversamente che quella del giudice, può abdicare a fronte dell’obiettivo di un trattamento ugualitario in sede di esercizio dell’azione penale. Qui il vincolo democratico è dunque di metodo, e non di risultato: sarà necessario che le linee guida siano frutto dello sforzo congiunto dei magistrati del pm, così da rappresentare davvero il punto di vista dell’ufficio, piuttosto che del suo procuratore.

In tali casi, e in questi soltanto, dovrebbe ammettersi anche la revoca dell’assegnazione nei confronti del sostituto che rifiuta nel caso concreto applicazione alle direttive comuni circa il significato delle norme, perché essa non sarebbe surrogazione della autonomia di un magistrato (il procuratore) a quella di altro magistrato (il sostituto), ma manifestazione impersonale della volontà interpretativa dell’ufficio del pm, al fine di assicurare l’obbligatorietà dell’azione penale.

La via dei protocolli di intesa tra procure in ordine alla corretta interpretazione di normative sempre più complesse tecnicamente, che la prassi conosce[17], esprime su scala esterna quanto è auspicabile accada in ciascun ufficio. Queste intese sono siglate dai rispettivi procuratori e rispondono ad una condivisibile istanza di unità interpretativa ai fini dell’esercizio dell’azione penale. Tanto più autorevoli e persino vincolanti per ogni magistrato inquirente esse sarebbero, se a loro volta nascessero, in ciascuna procura firmataria, dall’apporto paritario di tutti i sostituti.

Vi è, insomma, modo per tenere insieme gerarchia dell’ufficio, autonomia del sostituto, uguaglianza dei consociati a fronte dell’esercizio dell’azione penale. A non poter essere tollerate sono opzioni tiranne per l’uno o per l’altro verso di una relazione dialettica, la cui forza riposa invece sull’equilibrio delle componenti.

[1] N. Zanon-F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2014, pp. 225 ss.

[2] Da ultimo, si veda la sentenza 2017/680 QPC del Conseil constitutionell. Per una prospettiva comparata, da ultimo, A. Balsamo, Il rapporto tra indipendenza del pubblico ministero e tutela della libertà personale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, in Cass. pen. 2011, 3, p. 1226.

[3] N. Zanon-F. Biondi, Il sistema cit., p. 231.

[4] R. Guastini, in G. Branca-F. Pizzorusso(a cura di), Commentario della Costituzione, sub art. 101, 1994, p. 192.

[5] R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario forense. Volume I. Antologia di scritti, 2002, p. 307.

[6] A. Di Giovine, Potere giudiziario e democrazia costituzionale, in S. Sicardi (a cura di), Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, 2010, pp. 31 ss.

[7] N. Zanon, La responsabilità dei giudici, in AIC, Annuario 2004, (Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale), 2008, p. 251.

[8] S. Bartole, Pm e Corte costituzionale, in Studium iuris, 1996, p. 155.

[9] Da ultimo, si vedano anche le ordinanze nn. 16 e 17 del 2013.

[10] G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 115 ss.

[11] I. Nicotra Guerrera, Considerazioni problematiche sul pubblico ministero nella Costituzione, in Giudici

e giurisdizioni nella giurisprudenza della Corte, 1997.

[12] N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, Milano, Cedam, 1996, pp. 43 ss.

[13] S. Panizza, L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in N. Zanon- M. G. Di Renzo Villata - F. Biondi (a cura di), L’ordinamento giudiziario a cinque anni dalla riforma. Un bilancio, 2012, 73.

[14] L. Poniz, Il pubblico ministero come parte imparziale: ossimoro o valore?, in questa Rivista trimestrale, edizione cartacea, Franco Angeli editore, Milano, 2014, p. 143.

[15] G. Amato, Il nuovo assetto ordinamentale del pm: il ruolo del procuratore e i rapporti con i sostituti, in Diritto penale e processo, 2010, 1, p. 86.

[16] C. Salazar, L’organizzazione interna delle procure e la separazione delle carriere, in Problemi attuali della giustizia in Italia, Atti del Seminario di studio tenuto a Roma l'8 giugno 2009, 2010, p. 179. Secondo Cass., sez. unite, n. 8388 del 2009, la violazione di questa previsione non comporta nullità degli atti processuali, ma mera responsabilità disciplinare del sostituto.

[17] Particolarmente significativo è il protocollo d’intesa in materia di reati ambientali nel territorio dell’Emilia Romagna, promosso dalla procura generale di Bologna e raggiunto dalle procure locali insieme con le amministrazioni coinvolte: il testo è riportato nella «Relazione sulla verifica dell’attuazione della legge 22 maggio 2015, n. 68, in materia di delitti contro l’ambiente» (doc. 1387/2) della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e illeciti ambientali.