Magistratura democratica

La riforma della responsabilità medica.
L’assicurazione

di Marco Rossetti

La legge 8.3.2017 n. 24 è ancora in larga parte inapplicabile, per quanto concerne le norme di diritto assicurativo: mancano, ancora, infatti i regolamenti attuativi che dovranno stabilire i contenuti minimi essenziali delle polizze, i massimali, le classi di rischio, l’istituzione del fondo di garanzia. Nondimeno, la legge presenta già ora una serie di criticità che non potranno essere superate per via regolamentare: essa infatti non ha introdotto alcun (nuovo) obbligo assicurativo; ha previsto casi assai limitati di intervento del fondo di garanzia; ha pesantemente limitato l’azione di surrogazione dell’assicuratore. È dunque, impossibile che un siffatto testo possa davvero conseguire il risultato proclamato (nella relazione al decreto legge), ovvero «far tornare gli assicuratori nel mercato della r.c. medica».

Premessa

Che la materia della responsabilità medica abbisognasse d’un intervento legislativo, non era dubitabile. Che la legge 24/17 sia il peggio che ci si sarebbe potuti aspettare, è altrettanto indubitabile. È infatti una legge sgrammaticata nella lingua; ambigua nei precetti; farraginosa nella sistematica; incoerente con le restanti parti dell’ordinamento. È una legge che contiene autentiche aporie zenoniane, come quella secondo cui il medico imperito non risponde penalmente se è stato… perito! (art. 6).

È una legge che sembra scritta da un sindacato e non da un Parlamento, a tal punto appare pervasa da un unico intento: evitare, per quanto possibile, che il medico possa essere chiamato a rispondere delle proprie condotte: sia dai pazienti a titolo di responsabilità civile; sia dal datore di lavoro a titolo di regresso; sia dall’assicuratore a titolo di surrogazione.

Nella parte, poi, in cui disciplina la materia assicurativa la legge, per dirla con Shakespeare, sembra «una favola raccontata da un idiota»: proclama l’obbligo di assicurazione, ma non lo impone; non prevede alcun obbligo di contrattare in capo all’assicuratore; contiene una delega praticamente in bianco al Governo; introduce un “Fondo di garanzia” che garantisce poco o nulla; riduce in materia drastica il diritto di surrogazione dell’assicuratore.

Ad onta di tutto ciò, nella relazione accompagnatoria del disegno di legge, e nelle innumerevoli occasioni in cui l’on. relatore ed i suoi caudatari hanno illustrato pubblicamente lo scopo di questo autentico gioiello di nomopoietica, si proclama solennemente che il loro scopo era quello di «far tornare gli assicuratori nel mercato della r.c. medica, dal quale erano fuggiti». È proprio vero che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.

1. Obbligo di assicurazione?

L’articolo 10 della l. 24.3.2017 n. 24 è pomposamente rubricato “obbligo di assicurazione”.

In realtà esso non introduce affatto alcun obbligo generalizzato di assicurazione della propria responsabilità civile per i medici ed ospedali, e nei pochi casi in cui lo introduce, non fa che duplicare previsioni già esistenti.

Per accorgersene, basterà analizzare con ordine e volgere in buon italiano la balbuziente sintassi legislativa.

L’articolo 10 prende in esame quatto categorie di soggetti: le aziende sanitarie e gli ospedali pubblici e privati; i medici pubblici dipendenti; i medici liberi professionisti.

1.1. Le aziende sanitarie, gli ospedali pubblici e quelli privati

Le aziende sanitarie, gli ospedali pubblici e quelli privati non hanno alcun obbligo di assicurare la propria responsabilità civile: ne hanno la facoltà. Essi infatti possono scegliere se assicurarsi contro i rischi della responsabilità civile, ovvero adottare «altre analoghe misure» (sulle quali tornerò nel § successivo).

Se dunque esiste una facoltà (assicurarsi od adottare «altre misure analoghe») non può sussistere obbligo, con buona pace per l’altisonante rubrica dell’art. 10.

Ma anche a voler qualificare come “obbligo” una facoltà di scelta, resterebbe pur sempre il fatto che la figura giuridica soggettiva passiva dell’obbligo presuppone una reazione dell’ordinamento alla sua violazione. L’automobilista che violi l’obbligo di stipulare un’assicurazione della r.c.a. è soggetto alla sanzione amministrativa, ed il professionista che violi l’obbligo di assicurare la propria r.c. non può esercitare la professione.

Ma cosa può accadere all’ospedale che né si assicura, né adotta «altre analoghe misure»? È molto semplice: nulla.

La legge non prevede alcuna sanzione a carico di chi non si assicura; alcuna sanzione a carico di chi non adotta «altre analoghe misure»; ed alcuna sanzione a carico di chi non faccia né l’una, né l’altra cosa. L’art. 10, comma 1, della legge è dunque quella che gli antichi avrebbero chiamato una lex imperfecta, ovvero un precetto senza sanzione.

Qualcuno potrebbe sostenere che per gli ospedali pubblici che non si assicurino, né adottino «altre adeguate misure», potrebbe forse ipotizzarsi il reato di omissione di atti d’ufficio di cui all’art. 328 cp, ma sarebbe ipotesi più teorica che reale. Quel reato sarebbe infatti contestabile solo nel caso di dolo, e comunque l’omissione d’atti d’ufficio sussiste solo quando l’atto rifiutato doveva essere emesso «per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità»: e la difesa di qualunque imputato avrebbe buon gioco nel sostenere che la stipula d’una polizza assicurativa non rientra in alcuna delle quattro categorie suddette.

Inoltre, a fronte della facoltà di scelta, per Asl ed ospedali, tra assicurazione e “misure analoghe”, non sussiste alcun corrispondente obbligo per l’assicuratore di accettare le proposte contrattuali provenienti dalle strutture sanitarie. Potrebbero dunque esservi casi in cui l’ospedale, pur volendo adempiere il suo “obbligo”, non lo potrebbe, e senza propria colpa: ad esempio allorché non abbia mezzi per adottare le «altre adeguate misure», e non trovi alcun assicuratore disposto ad accettare la sua offerta di contratto.

1.2. Le “altre analoghe misure”

Un “oggetto misterioso” sono le «altre analoghe misure» che è facoltà delle strutture sanitarie adottare, ove non vogliano assicurarsi.

La legge ne delega infatti “in bianco” ad un regolamento ministeriale l’integrale disciplina, senza fissare alcun principio o criterio direttivo.

Gli unici princìpi stabiliti dalla legge sono due:

  1. il regolamento dovrà imporre alle Asl, alle Ao ed alle cliniche private di prevedere nel proprio bilancio due “fondi” (sic!): un “fondo rischi” ed un «fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati»;
  2. i fondi suddetti saranno impignorabili anche presso terzi, «anche in caso di notifica di pignoramento o di pendenza di procedura esecutiva nei confronti dell'ente, senza necessità di previa pronuncia giurisdizionale», in applicazione dell’art. 1, commi 5 e 5 bis, del dl. 18.1.1993 n. 9, espressamente richiamati dall’art. 10, comma 6, della l. 24/17.

 

Qualche commentatore ha osservato che la norma in esame legittima ed eleva a rango di dignità normativa la prassi cd. della “autoassicurazione”.

Da molti anni infatti, allorché gli assicuratori cominciarono, per assicurare la r.c. di ospedali ed aziende, ad esigere premi che anche il sultano del Bahrein avrebbe avuto difficoltà a pagare, molte strutture smisero di assicurarsi.

Qualcuno parlò (e parla) in tal caso di “autoassicurazione”, e la cosa l’ho sempre trovata umoristica: come dire che se io abito in una casa di mia proprietà ho fatto una “autolocazione”, oppure che se attingo ai miei risparmi anziché chiedere un prestito in banca ho stipulato un “automutuo”.

Cominciamo dunque col dire che non esiste, per un intelletto giuridicamente, sano “l’autoassicurazione”: o si è assicurati, o non lo si è.

Se le Asl o gli ospedali scelgono di non assicurarsi, come accennato la legge impone loro di «adottare altre analoghe misure».

In cosa debbano consistere queste analoghe misure, come debbano esser gestite, quale ne debba essere l’importo, la legge non lo dice: ha delegato la fissazione di tali requisiti ad un regolamento, che ancora attendiamo nonostante i dieci mesi trascorsi dall’entrata in vigore della legge.

Tuttavia, per amor di dogmatica, sarebbe opportuno ricordare che non esiste nessuna misura “analoga” all’assicurazione. Una fideiussione, una riserva, l’accantonamento di fondi da parte del possibile futuro responsabile d’un fatto illecito, non hanno nulla a che vedere con l’assicurazione: le prime infatti non eliminano il rischio, ma lo trasferiscono da un patrimonio ad un altro (fideiussione), oppure provvedono i mezzi per farvi fronte (accantonamento di fondi). Ma va da sé che se il garante divenisse insolvente, o se i fondi accantonati venissero sperperati o mal governati, il rischio di impoverimento resterebbe immutato. Solo con l’assicurazione si ha una vera dissipazione del rischio, il quale per effetto del principio della mutualità viene ripartito tra tutti gli assicurati, ciascuno dei quali, pagando il premio, ne sostiene un frammento minuscolo.

Ma lasciamo stare la dogmatica, dalla quale il legislatore pare tanto alieno quanto un pesce dall’arte ellenistica, e consentiamo pure che con l’espressione «misure analoghe all’assicurazione» il legislatore abbia voluto intendere «garanzie diverse dall’assicurazione». Anche in questo caso, la norma sarebbe di una genericità disarmante. Uno scopo di garanzia può infatti essere raggiunto teoricamente:

  • istituendo delle riserve;
  • stipulando una fideiussione;
  • depositando una cauzione;
  • stipulando un contratto autonomo di garanzia;
  • stipulando un contratto di apertura di credito o mutuo sottoposto alla condizione sospensiva della commissione di fatti illeciti da parte del mutuatario o dell’anticipatario.

 

Nel silenzio totale della legge, la individuazione delle «altre analoghe misure» è stata dunque appaltata al Governo, con buona pace dei princìpi che informano le deleghe regolamentari, stabiliti dagli artt. 17 e ss. della l. 23.8.1988 n. 400.

1.3. I medici dipendenti

Il medico dipendente di ospedali pubblici o privati non ha l’obbligo di assicurare il rischio della propria responsabilità civile.

Ha, invece, un obbligo ben diverso: quello di stipulare una polizza di assicurazione «al fine di garantire efficacia alle azioni di cui agli artt. 9 e 12»: vale a dire alle azioni di rivalsa (di cui si dirà più oltre), limitata all’ipotesi di colpa grave (comma 3): una polizza, dunque, della quale di fatto beneficeranno gli assicuratori degli ospedali (se vorranno proporre l’azione di surrogazione); i coobbligati solidali come i membri dell’équipe (se vorranno proporre l’azione di regresso ex art. 1299 cc), e la Procura regionale presso la Corte dei conti, se vorrà proporre l’azione contabile: non certo i pazienti. Ma si tratterà d’un beneficio indiretto, perché a tutti i soggetti suddetti (Procura contabile, coobbligati solidali, assicuratore del responsabile che si surroghi) la legge non accorda affatto alcuna azione diretta nei confronti dell’assicuratore della responsabilità “di rivalsa” del medico: sicché dire, come fa l’art. 10, che la responsabilità “di rivalsa” deve essere assicurata «al fine di garantire efficacia alle azioni di cui agli artt. 9 e 12» ha il sapore d’una boutade di raffinato umorismo.

Qualcuno potrebbe tuttavia obiettare: è normale che i medici dipendenti non abbiano l’obbligo di assicurare la loro r.c. professionale, perché questo rischio deve essere per legge coperto da una polizza che, ai sensi dell’art. 1891 cc, le Asl e le cliniche datrici di lavoro dovranno obbligatoriamente stipulare a beneficio dei loro medici.

L’obiezione avrebbe senso se le Asl e le cliniche avessero davvero un obbligo di stipulare tali polizze: ma come s’è visto poc’anzi, quest’obbligo non c’è, e comunque non è sanzionato. Dunque ben potrebbe accadere che la Asl o la clinica non assicuri la r.c. dei propri medici, né adotti per essa le «altre adeguate misure». E poiché il medico dipendente ha il solo obbligo di assicurare la propria responsabilità “di rivalsa”, in un caso come questo il paziente danneggiato dal medico non avrebbe alcun securus solvens cui rivolgersi.

1.4. I medici liberi professionisti

I medici liberi professionisti, e quelli dipendenti, ma limitatamente alle attività volte in regime cd. di extra moenia, “resta fermo” – così si esprime la legge – l’obbligo di cui a ben tre diverse fonti normative, ovvero:

  1. di cui all'articolo 3, comma 5, lettera e), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148;
  2. di cui all'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2012, n. 137;
  3. di cui all'articolo 3, comma 2, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189.

 

Con questa previsione il legislatore è riuscito davvero a superarsi.

Anche a prescindere da qualsiasi giudizio estetico su questa nomopoietica dei rinvii, basterà segnalare che, delle tre norme di cui sopra:

  1. l’articolo 3 dl. 138/11 non contiene alcun obbligo in senso tecnico, ma solo la delega al Governo per l’emanazione del decreto legislativo di riforma delle professioni liberali;
  2. l’articolo 5 dPR 137/12 è l’unica norma, di quelle citate, che prevede l’obbligo del professionista di stipulare un’assicurazione della r.c. professionale, ma tuttora inattuabile, non essendo mai stato emanato il regolamento esecutivo previsto dalle norme sopra ricordate, cui la legge demandava il compito di stabilire i contenuti minimi essenziali del contratto;
  3. l’articolo 3 dl. 158/12 non conteneva alcun obbligo in senso tecnico, ma solo una delega al Governo per l’emanazione del regolamento di istituzione d’un fondo per agevolare l’accesso dei medici alle coperture assicurative, e comunque tale norma è stata ora abrogata dall'articolo 11, comma 2, della l. 11 gennaio 2018, n. 3.

2. Il rischio assicurato

Per le Asl e gli ospedali, come s’è detto, assicurare la propria responsabilità civile e quella dei propri dipendenti è una facoltà e non un obbligo.

Nondimeno, se l’ospedale o la Asl decidono di stipulare un’assicurazione della r.c., essa deve coprire obbligatoriamente tre rischi: sia la responsabilità dell’ospedale per fatto proprio; sia quella per fatto altrui; sia la responsabilità del medico.

I primi due rischi formeranno l’oggetto ovviamente d’una assicurazione per conto proprio, il terzo d’una assicurazione per conto altrui, ai sensi dell’art. 1891 cc, in cui “contraente” sarà l’Asl o l’ospedale, e “assicurato” (ex art. 1904 cc) il medico.

Di più non è possibile dire, dal momento che (ancora una volta) la legge delega in bianco il Governo a stabilire, con regolamento non ancora emanato, il quale dovrà:

  1. stabilire i requisiti minimi delle polizze;
  2. prevedere l'individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati.

3. L’azione diretta e il Fondo di garanzia

Il sistema della legge è completato dall’attribuzione al danneggiato d’una azione diretta nei confronti dell’assicuratore, e dall’istituzione di un fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria. Tuttavia ambedue tali novità hanno un campo d’applicazione limitato.

L’azione diretta è prevista solo nei confronti dell’assicuratore della struttura sanitaria e dei liberi professionisti, non nei confronti dell’assicuratore del medico pubblico dipendente (il quale, come s’è detto, ha l’obbligo solo di assicurare la propria responsabilità rispetto alle azioni di rivalsa).

Quanto al Fondo di garanzia, di esso è previsto l’intervento in soli tre casi:

  1. nel caso di incapienza del massimale previsto dalla polizza stipulata dal responsabile;
  2. nel caso il responsabile sia assicurato con un’impresa posta in l.c.a.;
  3. nel caso il responsabile sia privo di assicurazione, ma solo a causa del recesso dell’assicuratore dal contratto precedentemente stipulato, ovvero per la cancellazione dell’impresa dall’albo delle società assicuratrici.

 

Si tratta, dunque, di un fondo di garanzia che garantirà ben poco, dal momento che se il responsabile del danno è privo di assicurazione per non averla mai stipulata, l’intervento del Fondo non è previsto.

Anche le norme sul fondo di garanzia sono comunque allo stato inapplicabili, non essendo stato ancora emanato il regolamento che doveva disciplinare «le modalità di intervento, il funzionamento e il regresso del Fondo di garanzia nei confronti del responsabile del sinistro».

4. Le azioni recuperatorie

4.1. Come noto, il danno causato dal medico può dover essere risarcito da un soggetto tenuto a rispondere con lui (ad esempio, un membro dell’équipe che abbia concorso nella causazione del danno, ex art. 1299 cc); o per lui (ad esempio, l’ospedale ex art. 1228 cc, o l’assicuratore dell’ospedale ex art. 1916 cc). Inoltre, quando l’errore sia stato commesso da un medico pubblico dipendente, e sia stato risarcito dall’ospedale o dalla Asl, la condotta del medico causa per tal via un danno erariale, che spetta alla Procura regionale presso la Corte dei conti recuperare, attraverso l’azione erariale di danno di cui all’art. 13 Rd. 12 luglio 1934, n. 1214.

La legge 24/17, volendo disciplinare queste ipotesi, le ha tutte affastellate nell’art. 9 della legge 24/17. Si tratta di una disposizione contenente evidenti imprecisioni terminologiche: per un verso, infatti, parla impropriamente di “responsabilità amministrativa” invece che di “responsabilità erariale” (noto essendo che la responsabilità amministrativa è quella in cui incorre chi commette un illecito amministrativo, punito con una sanzione amministrativa); per altro verso accomuna le azioni recuperatorie previste dal codice civile (regresso e surrogazione) e l’azione di danno erariale prevista dalla legislazione speciale sotto il lemma generico di “rivalsa”, sicché il primo problema che questa norma pone all’interprete è comprendere esattamente a quali azioni essa debba applicarsi.

Ovviamente non vi è dubbio che la legge, pur impropriamente parlando di “responsabilità amministrativa”, abbia inteso disciplinare l’azione di responsabilità contabile, promossa dalla Procura presso la Corte dei conti e decisa dal giudice contabile. Debbono pertanto ritenersi ormai risolti i dubbi che in passato avevano diviso la giurisprudenza, circa la possibilità per la struttura sanitaria pubblica di recuperare le somme pagate al paziente danneggiato in conseguenza di un errore del medico, proprio dipendente, promuovendo l’ordinaria azione di regresso ex art. 1299 cc. Il quinto comma dell’art. 9 della nuova legge lascia chiaramente intendere che il denaro speso dalle strutture sanitarie pubbliche per risarcire i pazienti potrà essere recuperato nei confronti del medico solo attraverso un giudizio di responsabilità contabile dinanzi alla Corte dei conti.

Del pari riterrei non dubitabile che l’art. 9 in esame disciplini anche l’ordinaria azione di regresso fra condebitori. Tanto si desume dal comma 6, ove si prevede l’ipotesi in cui sia accolta la domanda proposta dal danneggiato nei confronti della clinica privata, e questa intenda proporre una “rivalsa”. Infatti la clinica privata, in quanto coobbligato solidale ex art. 2055 cc nei confronti del paziente, verso il medico autore del danno non può che esperire l’azione di regresso fra condebitori, ex art. 1299 cc.

Altrettanto indubitabile è l’applicabilità dell’art. 9 in questione all’azione di surrogazione spettante, ai sensi dell’art. 1916 cc, all’assicuratore dell’ospedale, che fosse stato chiamato a rispondere per il fatto del medico suo dipendente od incaricato. L’assicuratore dell’ospedale, infatti, per effetto del pagamento dell’indennizzo, si surroga nella posizione che l’ospedale aveva verso il responsabile del danno, ed acquista perciò il diritto a recuperare nei confronti del medico l’importo pagato. Tanto si desume chiaramente dal comma 6 già ricordato, nel quale si fa espresso riferimento alla «surrogazione richiesta dall’impresa di assicurazione ai sensi dell’art. 1916 cc».

E di questa azione dobbiamo ora occuparci.

La l. 24/2017 ha poso quattro rilevanti limiti all’esercizio dell’azione di surrogazione (come a quella contabile e a quella di regresso), ovvero:

  1. ha escluso la surrogazione nel caso di colpa non grave;
  2. >ha previsto un primo termine di decadenza di un anno;
  3. >ha previsto un secondo termine di decadenza di 45 giorni (così elevato dall’art. 11, comma 1, lettera d), della legge 11 gennaio 2018, n. 3; nella prima versione della legge il termine era addirittura di soli dieci giorni);
  4. >ha introdotto un “massimale” alla responsabilità del sanitario.

 

Analizziamo ora un po’ più da vicino questi quattro limiti: sarà agevole avvedersi come essi costituiscano altrettanti bastoni fra le ruote dell’assicuratore che intenda surrogarsi.

 

4.2. La limitazione della rivalsa ai casi di dolo o colpa grave non è una novità per le azioni contabili devolute alla Corte dei conti (art. 1, comma 1, l. 14.1.1994 n. 20). Ma ora la legge 24/2017 estende tale limite anche ad azioni di puro diritto civile: il regresso spettante all’ospedale provato nei confronti del dipendente (art. 1299 cc) e, soprattutto, la surrogazione dell’assicuratore (art. 1916 cc).

Ora, se escludere il regresso della Pa nei confronti dell’impiegato che abbia agito senza colpa grave potrebbe avere delle giustificazioni teoriche (ad es.: la Pa si avvale comunque dell’opera del suo impiegato; cuius commoda ejus et incommoda, ecc.), è davvero arduo intuire quale sia la giustificazione teorica dell’esclusione della surrogazione assicurativa nel caso di colpa non grave del sanitario.

Così, per fare un esempio: un paziente viene danneggiato dal dipendente di una clinica privata; la clinica ha un’assicurazione della propria responsabilità civile; l’assicuratore paga la vittima. In un caso come questo, l’assicuratore dell’ospedale non avrà surrogazione nei confronti del medico se questi abbia agito con colpa non grave, per espressa previsione di legge.

Il che genera due assurdità.

Primo: la surrogazione, come a tutti noto tranne che al legislatore, è una successione a titolo particolare nel diritto di credito. Il diritto che l’assicuratore acquista per effetto del pagamento dell’indennizzo al terzo danneggiato è lo stesso diritto che quest’ultimo vantava nei confronti del terzo responsabile.

Ma il credito risarcitorio della vittima nei confronti del medico responsabile non è ovviamente soggetto a limiti qualitativi (la colpa grave dell’offensore), né temporali (dieci giorni di decadenza), né quantitativi. Sicché ecco il bel risultato ottenuto dalla legge: se il medico responsabile è escusso dal danneggiato, non ha scuse e deve risarcire il danno integralmente; se invece è escusso dall’assicuratore dell’ospedale (privato), che abbia già risarcito il danneggiato, pagherà solo nel caso di colpa e solo nel limite del triplo del proprio reddito annuo (su questo punto tornerò fra breve).

Peccato che nell’uno e nell’altro caso il credito è sempre lo stesso, che ha solo mutato titolare: come a dire che, per la legge 24/17, la misura dell’obbligazione dipende dalla qualità del creditore.

Io non saprei dire quanto sia coerente coi princìpi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza una simile previsione; rilevo tuttavia che essa non è nemmeno insuperabile, perché in teoria l’assicuratore dell’ospedale (privato), anziché pagare l’indennizzo alla vittima, potrebbe limitarsi a darle a mutuo il relativo importo, sotto condizione che sarà restituito per la parte che il danneggiato dovesse riuscire a recuperare dal responsabile (secondo lo schema della clausola loan receipt arrangement, utilizzata nelle assicurazioni marittime nordamericane).

In questo modo la vittima otterrebbe lo stesso l’indennizzo, e il medico responsabile sarebbe escusso formalmente dalla vittima stessa (magari con un avvocato remunerato dall’assicuratore), al fine di evitare l’eccezione di insussistenza della colpa grave.

Seconda assurdità: la ratio dell’istituto della surrogazione è il contenimento dei premi puri. Questi ultimi, infatti, come noto a tutti (tranne, evidentemente, che al legislatore) debbono essere pari al rapporto tra il valore complessivo degli indennizzi pagati, ed il coacervo dei premi raccolti per classi di rischio omogenee (cd. loss ratio). La surrogazione, consentendo il recupero dell’indennizzo, abbassa la loss ratio e garantisce il contenimento dei premi.

Le legge 24/17, pertanto, limitando il diritto di surrogazione dell’assicuratore della r.c. dell’ente chiamato a rispondere dell’operato del medico, avrà l’effetto di innalzare i premi, di già certamente non modesti. E l’innalzamento dei premi non solo non faciliterà il rientro nel mercato dei rischi sanitari delle imprese assicuratrici che ne sono letteralmente fuggite, ma metterà in condizioni di inoperatività assoluta il «Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria», il cui nome altisonante non corrisponderà certo alla sua concreta efficacia: quel fondo, infatti, non solo «concorre al risarcimento del danno nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie» (il che per un Fondo che è detto “di garanzia” è un autentico controsenso), ma soprattutto è alimentato da un “contributo” (rectius, una tassa) imposto alle imprese autorizzate all'esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile sanitaria. Non occorre essere Cartesio per individuare dunque la catena delle conseguenze: meno surrogazione, premi più altri; premi più alti, meno assicurati; meno assicurati, meno premi; meno premi, meno contributi; meno contributi, meno soldi a disposizione del Fondo di garanzia.

 

4.3. La legge 24/17 ha posto all’esercizio delle azioni di surrogazione e regresso non solo un limite qualitativo (solo per dolo o colpa grave), ma anche due limiti temporali.

 

4.3.1. Il primo limite è previsto dall’art. 9, comma 2, l. 24/17, ed è di un anno dal pagamento dell’indennizzo, se il medico non ha partecipato al relativo giudizio o alla transazione tra paziente ed ospedale (od assicuratore).

L’inciso «nell’ipotesi in cui il medico non sia stato parte del giudizio di risarcimento», in verità, appare incomprensibile: se, infatti, il medico è stato parte del giudizio di risarcimento, delle due l’una:

  • se nei suoi confronti è stata proposta una domanda di regresso o surrogazione, e questa è stata rigettata, nessun problema si può porre di azioni recuperatorie, perché manca la responsabilità del medico;
  • se in quel giudizio la domanda nei confronti del medico è stata formulata ed accolta, la conseguenza sarà che anche in questo caso non è pensabile una nuova e ulteriore azione recuperatoria.

 

Il suddetto inciso, pertanto, appare avere un limitatissimo campo di applicazione: e cioè nell’ipotesi in cui il medico abbia partecipato al giudizio di risarcimento del danno proposto dal danneggiato, ma nei suoi confronti sia stata chiesta unicamente una sentenza di accertamento e non di condanna. In tal caso, non essendosi formato nei suoi confronti un titolo esecutivo, è ben immaginabile un’azione recuperatoria, la quale però per quanto detto non sarà soggetta al termine di decadenza annuale.

 

4.3.2. Il secondo limite temporale è previsto dall’art. 13 della legge, ed è di 45 giorni. Tale norma prevede infatti “l’inammissibilità” dell’azione di “rivalsa” (e dunque sia il regresso, sia la surrogazione, sia l’azione di danno erariale), se la Asl, la Ao o l’assicuratore di questi non comunicano al medico che è stato loro notificato un atto di citazione, ovvero che sono state «avviate delle trattative».

Lascio immaginare ai miei venticinque lettori il vespaio di dubbi che sarà destinata a suscitare la previsione d’una decadenza per mancata comunicazione entro «dieci giorni dall’avvio delle trattative». Cosa sarà mai, in iure, l’“avvio delle trattative stragiudiziali”? Forse la costituzione in mora? Oppure un generico invito ad offrire? Od ancora la notifica ufficiale di un invito alla negoziazione assistita, od alla mediazione ex lege 28/2010?

Poiché su questo punto ognuno ha detto la sua, e sinora tre commentatori hanno manifestato quattro opinioni diverse, proverò anch’io a dire la mia.

Se una norma è irragionevole, che almeno ragionevole sia il senso che le dà l’interprete.

L’art. 13, prima che irragionevole, è una norma folle. Perché mai, infatti, il medico deve essere avvisato della citazione o dell’avvio di trattative, per di più entro 45 giorni ed a pena di decadenza dalla surrogazione per l’assicuratore del corresponsabile? Non si sa.

Delle quattro, infatti, l’una:

  1. se l’atto di citazione del paziente è notificato, oltre alla Asl, anche al medico, ed allora non v’è certo bisogno che qualcuno gli dica che è stato convenuto in giudizio;
  2. se l’atto di citazione non è stato notificato al medico, ed allora la sentenza pronunciata fra paziente ed Asl non fa stato nei confronti del medico, e se non fa stato non si vede perché il medico debba essere informato del procedimento;
  3. se le trattative tra paziente ed Asl non vanno a buon fine, la Asl non paga nulla e non ha diritto di regresso;
  4. se le trattative tra paziente ed Asl vanno a buon fine, quella transazione sarà inopponibile al medico per espressa previsione di legge (art. 9, comma 4, l. 24/17).

 

O dunque? Perché mai imporre alle Asl, agli assicuratori ed alla Procura contabile un termine così giugulatorio a pena di decadenza? Ragioni giuridiche non ve ne sono, a meno di non volere immaginare, ma farei peccato, che questa norma sia stata pensata al solo fine di garantire l’immunità dei medici.

Se si condivide questo giudizio di irragionevolezza dell’art. 13 in esame, allora che almeno la si riconduca a ragione per via interpretativa, e là dove fa riferimento all’«avvio di trattative stragiudiziali», sia interpreta in modo rigoroso e restrittivo. «Avvio delle trattative stragiudiziali», non può essere la sola costituzione in mora della Asl, che non avvia un bel nulla; ma dovrà essere un atto formale che abbia il fine di concludere un accordo transattivo, e dunque:

  1. un invito a mediare;
  2. un invito alla negoziazione assistita;
  3. una proposta “secca” di concludere un contratto di transazione ex art. 1965 cc, cui abbia fatto seguito una controproposta del debitore.

 

4.4. Ed eccoci dunque giunti al quarto ed ultimo limite posto dal legislatore alle azioni da lui genericamente definite di “rivalsa”: il limite quantitativo.

Qui le scelte legislative sfiorano il surreale, passando da un estremo all’altro.

L’articolo 9, commi 5 e 6, della l. 24/17, infatti, nel testo originario prevedeva che la condanna del medico in sede di regresso, surrogazione o azione di danno erariale, non possa superiore il reddito maggiore del triennio, «moltiplicato per il triplo»

Si tratta di un limite così elevato, che è come non ci fosse. Se un sanitario ha uno stipendio – poniamo – di 50.000 euro l’anno, il limite sarebbe di 50.000 per 150.000, ovvero sette miliardi e mezzo di euro. E non credo che mai nessun giudice del nostro Paese abbia liquidato somme simili per danni da colpa medica.

Qualcuno si è affrettato a giustificare il legislatore, sostenendo che era sua intenzione fissare il limite al triplo del reddito, non al reddito moltiplicato per il triplo. Non saprei dire se sia vero, ma se lo fosse sarebbe un’aggravante: vorrebbe dire che all’insipienza giuridica, il legislatore (e con lui gli assistenti di studio, i concierges ministeriali, i consulenti delle commissioni parlamentari, e sinanche i correttori di bozze) aggiunge quella sintattica.

L’articolo 11, comma 1, lettera (a) e (b), della Legge 11 gennaio 2018, n. 3, ha modificato la previsione prevedendo il diverso (ed inferiore) limite quantitativo così definito: «il triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo».

Allora, facciamo un po’ di conti.

Prendiamo una figura apicale di una Ao, con un reddito lordo annuo di 80.000 euro. Ciò vuol dire che questo medico, se per colpa provoca la morte di una persona e l’amministrazione (cioè noi tutti) paga per il suo errore, la rivalsa non potrà eccedere 240.000 euro. Lo stesso dicasi se a pagare sia l’assicuratore della Ao, che non potrà surrogarsi oltre i 240.000 euro.

Ora chiediamoci: per la morte d’una persona, quali sono i valori standard liquidati dai nostri Tribunali? Lo sappiamo: quelli diffusi dal Tribunale di Milano: fino a 300.000 euro circa per la morte del coniuge, d’un figlio o d’un genitore. La morte d’una persona valida e lavoratrice, con genitori, due figli e una moglie “costa” solo di danno morale oltre un milione di euro, più il lucro cessante per i familiari a carico.

Ciò vuol dire che – non potendo supporsi che il legislatore non conosca il diritto vivente – è stato scelto un limite quantitativo alla rivalsa del tutto avulso, per difetto, dagli importi possibilmente e concretamente liquidabili a titolo di risarcimento del danno in caso di morte d’un paziente, o di gravi invalidità.

In pratica, l’assicuratore che volesse agire in surrogazione (ivi compreso l’assicuratore sociale) potrà recuperare dal terzo responsabile solo i denari pagati per risarcire micropermanenti.