Magistratura democratica

Pensieri sparsi sulla responsabilità civile
(in margine al libro di Pietro Trimarchi)

di Vincenzo Roppo

Muovendo da spunti suggeriti dal recente libro di Pietro Trimarchi, si svolgono considerazioni generali sulle funzioni della responsabilità civile (compensativa / deterrente-preventiva), su posizione e ruolo della responsabilità oggettiva, sulla necessità di dedicare maggiore attenzione ai profili del quantum risarcitorio. Si toccano anche questioni più specifiche, evidenziano una possibile criticità della recente sentenza delle Sezioni unite sui danni punitivi e sollevando un dubbio interpretativo circa un passaggio della legge Gelli in tema di responsabilità medica.

1. Le funzioni della responsabilità civile: extracontrattuale e contrattuale

Sono l’ennesimo ex studente genovese di Pietro Trimarchi che prende la parola durante questa presentazione. Come tale, ci tengo a dire quanto mi fa piacere incontrarlo, nel mio ultimo anno di insegnamento, in queste stesse aule di via Balbi 5, dove nel mio primo anno da studente di Legge (era esattamente l’autunno del 1966) le sue lezioni di Istituzioni accesero in me il gusto, se non vogliamo dire la passione, del diritto privato.

Non racconto l’architettura e i contenuti del libro, limitandomi per ora a dire che è un libro molto bello. Mi rendo conto che detto così è un giudizio apodittico, ma ne sono tanto convinto che non mi imbarazza enunciarlo senza sentirmi gravato da un onere di motivazione. Così come trovo un gran bel libro Il contratto: inadempimento e rimedi, del 2010. Le due opere non riesco a non vederle collegate: insieme formano ai miei occhi una rappresentazione complessiva e coerente dell’intera materia dei danni e dei risarcimenti, di cui farei fatica a trovare l’uguale nella nostra letteratura.

Al di là di questo giudizio propongo solo alcune riflessioni sparse, partendo dalle funzioni della responsabilità civile, cui Trimarchi dedica poche ma molto intense pagine nel capitolo di apertura del libro. E cerco di spiegare perché le trovo molto significative.

Prima però mi piace dire una cosa riferita non al libro che oggi presentiamo, ma al precedente libro su inadempimento e rimedi contrattuali, appena ricordato. Mentre tutte le trattazioni della responsabilità extracontrattuale discutono ampiamente le funzioni dell’istituto, praticamente nessuno – fra coloro che si occupano di responsabilità contrattuale, e anche fra quelli che ne trattano con ampia visione sistematica – si preoccupa di indagare quali siano le policies generali sottese al sistema delle regole sull’inattuazione dei contratti. Direi nessuno a parte Trimarchi, l’unico – mi sembra – che ne parla, individuando le funzioni di quel sistema di regole: da un lato, nella produzione di incentivi a che ciascuna delle parti coinvolte – primariamente il debitore, ma anche per certi aspetti il creditore (e questa sottolineatura segna un’originalità del pensiero di Trimarchi) – impieghi per l’attuazione del programma contrattuale l’impegno diligente che meglio corrisponde a criteri di efficienza; e dall’altro lato, nel ripartire fra le parti in modo efficiente i rischi della mancata attuazione del programma per eventi ad esse non imputabili.

Di questo mi pare il caso di dargli atto.

2. La responsabilità extracontrattuale fra compensazione e prevenzione: un ruolo preventivo anche per la responsabilità oggettiva

Ma torniamo alla responsabilità extracontrattuale. Come dicevo, tutti parlano delle sue funzioni: ma generalmente ne parlano in un modo che, confrontato a quello di Trimarchi, mi sembra alquanto riduttivo perché spesso irrigidito su due dogmi, su due “idee ricevute”: prima di tutto il dominio della funzione compensativa, che tende a essere assolutizzata come segno principale se non esclusivo della modernità dell’istituto (prevalente attenzione alla vittima, spostamento del focus “dal danneggiante al danneggiato”), con conseguente marginalizzazione della funzione preventiva, centrata invece sull’agente; e poi l’assunto che, nella (piccola) misura in cui debba darsi spazio alla funzione preventiva, questa non possa affidarsi se non alla colpa come criterio di imputazione della responsabilità, mentre la responsabilità oggettiva sarebbe tutta piegata sulla funzione di compensare il danneggiato.

Ebbene, rispetto a entrambe le idee Trimarchi va in decisa controtendenza.

Trimarchi ha per la funzione preventiva della responsabilità civile una grande simpatia, molto più marcata di quella che anima la generalità degli interpreti; e tende a valorizzarla fortemente. Ricordo ancora la formula – una di quelle formule secche e illuminanti, di cui è maestro – con cui ce la presentava nelle lezioni istituzionali degli anni ’60: il risarcimento elimina il danno dal punto di vista (soggettivo) della vittima; ma non lo elimina dal punto di vista (oggettivo) della società nel suo insieme, che continua a soffrire per la risorsa distrutta. Per proteggere l’interesse della società alla conservazione delle risorse è dunque essenziale la funzione preventiva.

Poi Trimarchi ha speciale simpatia per la responsabilità oggettiva: e non c’è bisogno di spiegare da dove questo si desume.

Orbene: combinando queste due simpatie, ecco che Trimarchi teorizza in modo convincente che non solo la responsabilità per colpa, ma anche la responsabilità oggettiva svolge una preziosa funzione di prevenzione dei danni. Distaccandosi, anche su questo, dal pensiero civilistico corrente. L’unico, forse, che lo segue è Monateri (non per caso accomunato a Trimarchi dalla propensione a guardare alla responsabilità civile attraverso le lenti dell’analisi economica del diritto).

3. Responsabilità oggettiva: un trend in declino? L’ambiente dottrinale

Dicevo che la responsabilità oggettiva è la pupilla degli occhi di Trimarchi. Per questo mi piacerebbe molto sapere se il Nostro condivide un’impressione che mi sono fatto, circa la posizione della responsabilità senza colpa nella dinamica attuale del nostro sistema giuridico - vorrei dire circa il suo “stato di salute” (dico e sottolineo “impressione”, perché alla base di essa non c’è nulla che assomigli a un’analisi estesa e approfondita dei dati rilevanti).

La mia impressione è che oggi la “salute” della responsabilità oggettiva non sia ottima, o quanto meno non sia così buona come sarebbe potuta essere alla luce dello scenario tanto promettente degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso; che dopo quella stagione felice – la stagione delle seminali monografie di Trimarchi e di Rodotà, la stagione della scoperta della responsabilità del produttore – la responsabilità oggettiva abbia conosciuto un certo declino o appannamento, e sia entrata un po’ in un cono d’ombra.

Ricavo questa “impressione” da elementi (più “impressionistici”, appunto, che compiutamente raccolti e organicamente mediatati) suscettibili di cogliersi su vari piani.

In primo luogo sul piano delle elaborazioni dottrinali.

Ho appena ricordato i due grandi libri degli anni ’60: quello di Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva (1960), che svela in Italia il mondo, fino ad allora sostanzialmente sconosciuto, della responsabilità senza colpa e delle sue ragioni di razionalità economica e sociale; e quello di Rodotà, Il problema della responsabilità civile (1964), che scalza la colpa dal suo storico piedistallo affermando la pari dignità degli altri criteri di imputazione della responsabilità, e in particolare di quello che Trimarchi chiama “rischio lecito”.

Si può pensare che partendo da una base così promettente, e sviluppando la felice distinzione fra attività “biologiche” e attività “economiche” (prezioso retaggio di una filiera scientifica che parte da Venezian, passa per Pacchioni e si perfeziona nel pensiero di Trimarchi), si sarebbe potuti andare oltre. E cioè costruire, con il lavoro scientifico degli anni o decenni successivi, un più compiuto e articolato “statuto” della responsabilità derivante dall’esercizio di attività economiche organizzate (quelle che definiscono il terreno privilegiato della responsabilità oggettiva): costruire, in parole più brevi, una statuto della “responsabilità civile di impresa”.

Questo è accaduto nel campo del contratto: dove almeno a partire dagli anni ’80 e ’90, i “contratti d’impresa” sono stati materia di ampie e impegnate discussioni, riflessioni, elaborazioni tese a organizzarli in una significativa categoria, e a delineare i possibili contenuti di un loro specifico statuto normativo.

Nulla di simile è accaduto – mi pare - nel campo della responsabilità civile. E ne indico un segno. Nel 2004 si è svolto a Bologna, per celebrare i 30 anni di «Giurisprudenza commerciale», un convegno dedicato al tema della «Responsabilità dell’impresa». Ebbene, fra le dodici relazioni del convegno solo due – quella di Vincenzo Buonocore e quella di Mario Libertini (quest’ultima peraltro chiusa nella prospettiva molto specifica della responsabilità ambientale) – avevano a che fare con la responsabilità civile dell’impresa, nel senso in cui ne stiamo parlando qui. Tutte le altre parlavano d’altro. E sostanzialmente parlavano d’altro anche le conclusioni di quel convegno sulla «Responsabilità dell’impresa», pure affidate a un maestro del diritto civile come Pietro Rescigno.

4. Segue: il quadro della giurisprudenza

Colgo qualche segno di declino della responsabilità oggettiva anche in giurisprudenza.

Per esempio in una sentenza come Cass. n. 18262/2007, in tema di mobbing orizzontale. La questione era se del danno subito dal dipendente per il mobbing esercitato contro di lui da altro dipendente sia responsabile (oltre ovviamente all’autore dell’illecito) anche il datore di lavoro di entrambi. La Cassazione risponde di sì, e precisa il titolo: «per non essersi attivato per la cessazione dei comportamenti scorretti», ovvero per colpa (omissiva). Ma questo significa dimenticare la regola regina in materia di responsabilità oggettiva, e cioè l’art. 2049 cc: per la quale il datore di lavoro risponde dell’illecito del dipendente (nella fattispecie, dell’autore del mobbing) a prescindere da qualunque sua colpa!

Per onestà devo dire che non so se si tratti di pronuncia isolata o invece espressiva di un orientamento più corposo. Certo è che una così plateale obliterazione della regola di responsabilità oggettiva non manca di impressionare.

5. Segue: il contesto legislativo

Che dire della legislazione? Vedo anche qui tracce di una rimonta della colpa rispetto ai modelli di responsabilità oggettiva, pure in settori di genere “economico” molto più che “biologico”.

Per esempio nel campo della proprietà intellettuale: la nuova disciplina dei rimedi risarcitori e inibitori per la violazione dei diritti di proprietà industriale e di autore (introdotta in base alla direttiva europea cd. enforcement n. 2004/48) mi pare presieduta dal criterio della colpa.

E poi, ancora più marcatamente, in tema di danno ambientale. La norma originaria (art. 18 legge 349/1986) delineava senza dubbio una responsabilità per colpa. Poi il quadro normativo è mutato, per il sopravvenire della direttiva europea n. 2004/35, dove il criterio d’imputazione standard è un criterio generale di responsabilità oggettiva (art. 8.3), e gli Stati membri sono solo facoltizzati a introdurre il criterio della colpa esclusivamente con riguardo alle marginalissime ipotesi tipizzate all’art. 8.4. Ebbene, il legislatore italiano ha trasposto la direttiva (con apposite modifiche al codice dell’ambiente) in modo alquanto creativo, e – si direbbe – tributario di un inconfessato penchant per la colpa: perché se gli artt. 300-308 del codice riproducono in termini quasi letterali la disciplina comunitaria, il nuovo art. 311 introduce una parallela clausola generale di responsabilità ambientale per colpa, della quale nella direttiva non c’è traccia.

6. Il campo della responsabilità pubblica: in controtendenza?

Osservo – sempre disegnando linee grossolane – che se gli sviluppi appena riferiti parlano di una espansione della responsabilità per colpa e di una parallela contrazione della responsabilità oggettiva, una tendenza di segno opposto si registra forse nel settore della responsabilità pubblica (dello Stato e delle pubbliche amministrazioni), segnatamente per l’espandersi dell’area della cd. “responsabilità” per atto lecito.

Parlo delle fattispecie in cui, a fronte di un atto della pubblica amministrazione che rechi pregiudizio a un privato, a quest’ultimo è riconosciuta una compensazione monetaria a titolo, se non di risarcimento, di “indennizzo” o “indennità”, anche se l’atto pregiudizievole non sia né illegittimo né illecito, e dunque nulla possa rimproverarsi all’ente purtuttavia tenuto “responsabile” (un po’ come nulla può soggettivamente rimproverarsi a chi, nelle classiche ipotesi di responsabilità oggettiva, sia chiamato a rispondere per “rischio lecito”).

Faccio questo richiamo soprattutto per assecondare un flusso di memoria. La struttura delle fattispecie appena richiamate è infatti singolarmente sovrapponibile al paradigma proposto da una norma del codice civile, e cioè dall’art. 844 in tema di immissioni: e io credo di sapere che si tratta di norma cara a Trimarchi, perché ricordo l’intensità con cui – nelle lezioni di “privato” – richiamava la nostra attenzione su questo schema normativo di “responsabilità”.

7. Cassazione, Sezioni unite, n. 16601/2017: apertura o chiusura ai danni punitivi?

Mentre sembra dunque attenuarsi la spinta propulsiva della responsabilità oggettiva, di certo sta conquistando spazio la funzione preventiva della responsabilità civile, affidata soprattutto alla deterrenza esercitata dal timore del carico risarcitorio: e quale deterrenza più forte della minaccia di un carico risarcitorio che non si contiene nel limite del danno effettivamente subito dalla vittima, ma va oltre al fine di punire l’autore dell’illecito?

Stiamo parlando, evidentemente, di danni punitivi. E allora è inevitabile un cenno alla recente sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, n. 16601/2017.

Generalmente questa sentenza viene rappresentata come una sentenza che “apre” ai danni punitivi. Rappresentazione, a mio avviso, clamorosamente sbagliata. Secondo me questa sentenza piuttosto “chiude” ai danni punitivi nel nostro sistema: sottoponendoli a un rigoroso regime di tipicità legislativa (desunto dal baluardo costituzionale dell’art. 23 Cost.), e così escludendo qualsiasi potere creativo del giudice, capace di dare ingresso a un «incontrollato soggettivismo giudiziario» che deve assolutamente evitarsi.

Musica – immagino – per le orecchie di Trimarchi: che a sua volta è molto netto nell’avversare, in generale, la possibilità di risarcimenti che per il fine di punire l’agente eccedano il quantum del danno sofferto dalla vittima. Ma esprimendo siffatta posizione, egli viene a confliggere con una communis opinio largamente orientata a favore di un più esteso riconoscimento dei danni punitivi “all’americana”.

Per quanto può valere, anche io approvo in questa materia una linea di grande rigore, e di cautela contro derive risarcitorie poco sorvegliate. Non posso tuttavia fare a meno di domandarmi se la sentenza delle Sezioni unite non esprima per avventura un eccesso di rigore, capace di introdurre nel sistema qualche elemento di incoerenza o squilibrio.

8. Qualche possibile criticità della pronuncia

Ricordiamo che oggetto specifico della pronuncia è la riconoscibilità nell’ordinamento italiano (e dunque la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale ex art. 64 legge n. 218/1995) di una sentenza straniera recante condanna a titolo di danni punitivi. Bene, la Cassazione indica i requisiti che condizionano siffatta riconoscibilità.

Il primo requisito esprime nella sostanza una riserva di legge: occorre che nell’ordinamento straniero a quo esista «una legge o simile fonte» che preveda, per la fattispecie sotto scrutinio, una «condanna a risarcimenti punitivi». È lo stesso requisito a cui la Cassazione subordina l’ammissibilità dei danni punitivi nel diritto interno (sul fondamento costituzionale dell’art. 23 Cost.). In linea di principio niente da dire, salvo rilevare una certa indeterminatezza del riferimento a (legge o) “simile fonte”: cui dovranno darsi contenuti più precisi quando si abbia a che fare con ordinamenti a diritto non “legislativo” (o non esclusivamente “legislativo”), come quelli di common law.

Non basta. Perché la norma (posta da “legge o simile fonte”) deve presentare i tre requisiti che Villa ha richiamato: tipicità (ovvero «precisa perimetrazione delle fattispecie» di danni punitivi accordabili); prevedibilità (e cioè «puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne»); e infine proporzionalità, nel senso di una equilibrata correlazione del risarcimento punitivo sia con la misura del «risarcimento riparatorio-compensativo» sia con «la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione». E qui – se questi requisiti sono presi alla lettera, o comunque intesi rigorosamente – rischia di sorgere qualche problema. Come può ricavarsi da un esempio.

Da noi, la parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave può essere condannata – ex art. 96, comma 1 cpc – «al risarcimento dei danni», che si configurano senz’altro come danni punitivi. Immaginiamo che una norma di identico tenore letterale esista in un ordinamento straniero, e che sulla base di essa il giudice straniero emetta una sentenza di condanna. Ebbene, si dovrebbe temere che la sentenza sia dichiarata non riconoscibile nell’ordinamento italiano, per difetto di alcuni almeno dei requisiti prescritti dalla Cassazione: forse anche la proporzionalità, mancando nel testo dell’art. 96, comma 1 cc le specifiche correlazioni richieste; in ogni caso certamente la prevedibilità, perché il testo normativo in oggetto non contiene alcun limite quantitativo della condanna.

Con l’imbarazzante conseguenza che nel sistema avrebbe cittadinanza una sentenza domestica basata sull’art. 96, comma 1 cpc, mentre non vi troverebbe spazio una sentenza straniera emessa in applicazione di una norma (straniera) di tenore assolutamente identico. Con un paradossale rovesciamento del rapporto fra ordine pubblico interno e ordine pubblico internazionale: quest’ultimo, normalmente concepito a maglie più larghe del primo, verrebbe qui disegnato a maglie più strette e serrate.

9. La quantificazione del danno: “dark side” della responsabilità civile?

Il problema dei danni punitivi è essenzialmente problema di quantificazione del danno, riducendosi alla questione se sia ammissibile determinare la misura del risarcimento a un livello superiore rispetto al danno effettivamente patito dalla vittima, in una logica di consapevole e deliberata overcompensation del danneggiato. Il rilievo mi consente di introdurre una considerazione, a cui tengo molto.

Da un punto di vista soggettivo, chi agisce in responsabilità punta a una cosa semplice e precisa: avere una somma di denaro, quantificata nella misura più alta possibile; laddove, declinato in termini oggettivi, l’obiettivo ultimo dell’istituto non è altro se non attribuire al danneggiato una riparazione consistente in una quantità di moneta: e fa una bella differenza che il denaro attribuito alla vittima sia tanto oppure poco. Il profilo della quantificazione del danno e del risarcimento dovrebbe dunque assumere, per la stessa funzione pratica della responsabilità civile, una centralità indiscutibile.

E invece, nel quadro complessivo delle riflessioni ed elaborazioni dedicate al rimedio degli artt. 2043 e segg. cc il profilo del quantum, lungi da essere centrale, resta per lo più confinato in un’area di marginalità: Cenerentola o brutto anatroccolo del sistema dei danni e dei risarcimenti, soverchiato dalla maestà dell’an che monopolizza l’attenzione e gli sforzi degli interpreti. Non è così dappertutto: in ambiente di common law, le trattazioni di law of torts dedicano alla materia del «quantum of damages» autonomi corposi volumi, costruiti con forte impegno sistematico. Nulla di confrontabile da noi: come se, nel nostro ambiente, occuparsi di “ingiustizia” del danno fosse da ritenere cosa nobile, alta e perciò gratificante, mentre occuparsi di “quantificazione” del danno fosse da relegare fra le cose vili, perfino volgari e poco degne di qualunque raffinato intelletto giuridico.

10. Rilevanza e problematicità del “quantum”

Che errore! Che prospettiva distorta! Io sono persuaso che il quantum, così ingiustamente trascurato, sia invece un tema rilevantissimo della responsabilità civile: non solo per la sua evidente influenza sulle ricadute pratiche, sull’impatto economico-sociale, sulla stessa “effettività” dell’istituto; ma anche perché è tema che non può affrontarsi adeguatamente senza le forti capacità analitiche e ricostruttive di un pensiero giuridico sofisticato (altro che argomento “terra terra”!), e perché si connette intimamente con discorsi di più ampio respiro.

Vengono in gioco i discorsi su prevedibilità, certezza, “calcolabilità” delle soluzioni legali (rilevanti anche a fini pratici: si pensi all’incidenza sul livello dei premi per le assicurazioni della responsabilità civile); e in particolare quelli che ruotano intorno all’alternativa fra discrezionalità/creatività del giudicante e logica dell’algoritmo. Vengono in gioco le riflessioni che si svolgono intorno alle funzioni generali delle regole risarcitorie nell’ambito del sistema legale complessivamente considerato: cosa di cui è ben consapevole la già ricordata sentenza delle Sezioni unite sui danni punitivi, quando rileva come questa peculiare tecnica di quantificazione del risarcimento attribuisca alla funzione della responsabilità una curvatura deterrente-preventiva che si affianca alla tradizionale ratio compensativa. (Ma nella pronuncia si segnala anche il requisito di ammissibilità consistente nella definizione legislativa dei «limiti quantitativi delle condanne»: requisito che – a prescindere dal giudizio di merito che se ne voglia dare – denota attenzione e sensibilità al profilo del quantum).

È chiaro che il problema del quantum si pone in termini diversi a seconda che si tratti di danno patrimoniale o non patrimoniale. E diversamente sembrano porsi, nell’uno e nell’altro campo, i ruoli rispettivi della legge e del giudice.

Nel campo del danno patrimoniale non mancano gli interventi del legislatore, diretti a stabilire in particolari ambiti (anche molto significativi) criteri e parametri della quantificazione: si pensi agli indici di riferimento puntualmente fissati per la quantificazione del danno patrimoniale da lesioni dell’integrità fisica, ai fini dei risarcimenti dovuti dall’assicuratore della responsabilità civile automobilistica (art. 137 cod. assic.). Ma rilevanza non minore hanno le elaborazioni giurisprudenziali, che a loro volta fissano (a volte in modo felice, altre volte in termini più discutibili) “regole” non scritte per la quantificazione dei danni relativi a determinate classi di fattispecie, spesso molto rilevanti sul piano economico-sociale: si pensi alle regole giurisprudenziali per la quantificazione di quella voce di danno – accessoria ma nondimeno importantissima - che va sotto il nome di “rivalutazione e interessi”; o a quelle variamente definite nel corso del tempo onde quantificare il danno causato da amministratori e sindaci per avere colpevolmente ritardato il fallimento e così incrementato il passivo dell’impresa in crisi.

Invece nel campo del danno non patrimoniale sembra di poter dire che l’intervento legislativo fa aggio sui contributi della giurisprudenza, che al di là delle generali e anche un po’ astratte enunciazioni di principio contenuti in sentenze pur molto famose non sembra avere costruito (con la notevole ma molto isolata e specifica eccezione delle “tabelle” per la quantificazione del danno biologico) un set di criteri e regole capaci di rendere i giudizi di quantificazione apprezzabilmente stabili, sicuri e omogenei. Se no, probabilmente non accadrebbe che in un caso come quello «Vieri/Inter – Telecom» la stessa lesione della privacy sia risarcita in primo grado con un milione di euro (Trib. Milano, 3 settembre 2012) e in grado di appello con 70.000 euro, (App. Milano, 22 luglio 2015). Avrei trovato meno sorprendente, e forse anche meno inquietante, se la divaricazione fra i due giudici fosse avvenuta non sul quantum con uno scarto numerico così marcato, ma più radicalmente sull’an, con l’uno ad affermare e l’altro a negare i presupposti della responsabilità o l’esistenza del danno o la sua risarcibilità. Né accadrebbe di registrare così forti discrepanze – da Foro a Foro – nella misura dei risarcimenti accordati per la lesione dell’onore. È vero che il necessario ricorso alla liquidazione equitativa ex art. 1226 cc rende la stima del giudicante inevitabilmente più discrezionale e “soggettiva”: ma nonostante questo – anzi, proprio per questo! – di un qualche ancoraggio a criteri e parametri oggettivi si avverte il bisogno.

Non sorprende, quindi, che possa pensare di farsene carico il legislatore (in una logica che non può essere se non quella della “forfetizzazione”). Accade per esempio con le “tabelle” per il risarcimento del danno biologico da sinistri stradali (artt. 138-139 cod. assic.). Accade, ancora, nella materia delle cd. “occupazioni acquisitive” illegittime, regolate a partire dal 2011 con il nuovo art. 42-bis del Testo unico delle espropriazioni: dove si dispone che il pregiudizio patrimoniale del proprietario, privato del suo bene per l’intervento illegittimo della Pubblica amministrazione, sia risarcito nella misura del valore venale del bene, mentre il danno non patrimoniale viene “forfetariamente liquidatoex lege nella misura – a seconda dei casi – del 10% o del 20% del valore venale. Al di là della disciplina specifica della particolare fattispecie, se ne ricava un indicazione più generale relativamente all’esigenza di una ragionevole correlazione fra quantum del danno non patrimoniale e quantum del patrimoniale causati dallo stesso illecito.

Sulla quantificazione del danno non patrimoniale è intervenuto più di recente il legislatore che ha riformato la disciplina della responsabilità sanitaria: forse, però in modo non del tutto coerente. L’art. 7 della legge n. 24/2017 dispone, al comma 4, che il danno biologico della vittima di malpractice medica sia risarcito in base alle già menzionate “tabelle” degli artt. 138-139 cod. assic., dunque in una logica marcatamente forfettaria che non sembra lasciare al giudice spazi di autonoma valutazione (se non la possibilità, prevista dal comma 3 di entrambi gli articoli, di aumentare gli importi tabellari fino al 30% per tenere conto delle «condizioni soggettive del danneggiato»). Resta da capire come con questo metodo di stima del danno predefinita e automatizzata si concili la previsione del comma 3 del medesimo art. 7 («Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria») che al contrario sembra implicare apprezzamenti calibrati sulle specificità dei singoli casi.

Se ne dovrebbe trarre spunto – mi pare – per un lavoro di analisi e ricostruzione più complessiva che contribuisca a togliere il problema del quantum risarcitorio (specie nel campo del danno non patrimoniale) dal cono d’ombra che immeritatamente lo avvolge.

11. Conclusione: troppi risarcimenti?

Si è visto su quanti punti – e quanto essenziali – il pensiero di Trimarchi si distacchi dal pensiero corrente fra coloro che si occupano di responsabilità civile extracontrattuale. E tanti altri punti potrebbero ricordarsi (uno soltanto: la dottrina del “contatto sociale” come fonte di responsabilità, oggetto del caldo entusiasmo di gran parte della dottrina e della giurisprudenza, ma da cui Trimarchi prende le distanze con poche gelide parole).

Alla luce di questo, non sarebbe improprio pensare all’itinerario scientifico di Pietro Trimarchi nei territori della responsabilità civile come a un itinerario di solitudine – mi verrebbe da dire di orgogliosa solitudine. Ma forse può dirsi meglio: e parlare della sua riluttanza ad aderire in modo acritico al mainstream del tempo e dell’ambiente, in nome dell’irrinunciabile esercizio della ragione critica; di un rifiuto delle “vulgate” che si insediano irresistibilmente nel pensiero del medio cultore della responsabilità aquiliana, e vi si consolidano solo perché è più facile accettarle che metterle in discussione.

Questo vale soprattutto per la vulgata delle vulgate, quella che rischia di diventare la Grundnorm non scritta del sistema di responsabilità civile: l’idea che – in generale, e quasi “a prescindere” – più si risarcisce meglio è; che la disciplina della responsabilità sia tanto più avanzata e apprezzabile, tanto più moderna e progressiva, quanto più permette di espandere il complessivo “fatturato” dei risarcimenti contabilizzati nel sistema. Contro questa bulimia risarcitoria Trimarchi dice cose molto sagge. Contro la tendenza dominante a sponsorizzare un sistema di responsabilità ipertrofico, gonfiato indiscriminatamente di regole, categorie, figure (qualcuno ricorda il danno esistenziale?) votate ad accumulare il più possibile di sentenze di condanna, Trimarchi fa come il buon scultore evocato da Michelangelo: opera «per via levare» molto più che «per via di porre»; piuttosto che appesantire, alleggerisce.

Lasciatemi dire, con la modestia e la cautela di chi è consapevole di non avere mai seriamente studiato la responsabilità civile, che personalmente sento grande consonanza con questa visione. E avevo provato a esprimerla in alcuni scritti tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo (fra gli altri, in uno pubblicato nel 2002 col titolo La responsabilità civile, e l’anima[1]), rilevando nell’esperienza italiana il passaggio un po’ schizofrenico da una fase in cui – per dirla grossolanamente – si risarciva decisamente troppo poco a una fase in cui probabilmente si risarcisce troppo.

Sicché se la posizione del Nostro è una posizione di solitudine, in questa solitudine gli faccio volentieri un po’ di compagnia.

[1] V. Roppo, La responsabilità civile e l’anima, in Atti del Convegno su Responsabilità civile e mercato finanziario tenutosi a Pisa il 21 settembre 2001, in Danno e responsabilità, p. 100.