Magistratura democratica

L’amministrazione di sostegno tra personalismo, solidarismo e sussidiarietà ed il ruolo del Giudice della Persona

di Stefano Celentano

La rivoluzione giuridico-culturale che l’istituto ha portato in sé, con un sostanziale e forte capovolgimento giuridico della impostazione concettuale che presiede alle forme di tutela degli incapaci, si è rivelata una sfida quotidiana per la professionalità del giudice tutelare, identificato sempre più come Giudice della Persona, e chiamato, nella molteplicità delle sue funzioni, ad essere arbitro e coordinatore di un sistema fluido che richiede altrettanto specifiche dinamiche di approccio per garantirne l’utilità ed il corretto funzionamento. Tale rivoluzione culturale ha imposto la predisposizione di concetti e modalità operative che si ispirano a principi ben definiti: il personalismo, il solidarismo e la sussidiarietà funzionale, tre concetti di diretta derivazione normativo-costituzionale che caratterizzano la capacità di decidere del giudice tutelare, ed il contenuto stesso delle sue statuizioni. Trattasi dunque di una sfida culturale, giuridica e sociale, una sfida che, dalla rivoluzione del linguaggio simbolico (da “demente” a “fragile”, da “incapace” a “meritevole di protezione”) consenta di ritenere chiaro che il progetto di sostegno è un progetto di crescita, di tutela e di riumanizzazione di situazioni in cui la dignità della vita sembra cedere il passo ad eventi che la possano mortificare.

1. La tutela dei fragili e il Giudice della Persona

Un approfondimento critico del tema della protezione dei soggetti deboli non può che prendere le mosse da una breve rilettura del ruolo del giudice tutelare nel codice civile, e delle norme che ne disciplinano la funzione (in particolare, di quelle dettate dalla legge 6/2004, istitutiva dell’amministrazione di sostegno) senza omettere di valutare con estrema attenzione l’articolo 10 della Carta costituzionale , secondo il quale «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute»; conseguentemente una interpretazione sistematica della intera architettura normativa dovrà tener conto, anche ai fini interpretativi, delle disposizioni delle convenzioni internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto e ratificato, che costituiscono “diritto vivente”, oltre che essere “diritto vigente”, anche attraverso i provvedimenti dei Giudici tutelari.

Già il codice civile, nel testo originario del 1942, nel trattare la problematica dei “soggetti deboli” (dedicando una specifica sezione alle funzioni del giudice tutelare) assegnava a questo “giudice speciale” il compito di «sovrintendere alle tutele e alle curatele»[1] prevedendo altresì l’esercizio, da parte sua, di tutte «le altre funzioni affidategli dalla legge», funzioni invero assai numerose, sostanzialmente mai giurisdizionali e sempre orientate – tendenzialmente prescindendo da “giudizi” su fatti pregressi – alla protezione e promozione a favore delle persone deboli e dei loro interessi; e dunque, proprio, all’interno di questa categoria generale e “sussidiaria” prevista da questa disposizione, rientrano a pieno titolo le funzioni ed i compiti del giudice tutelare quale delineato dalla disciplina prevista dalla legge 6/2004, istitutiva della amministrazione di sostegno, quale forma di tutela e protezione dei fragili, ispirata ad una serie di principi che, di fatto, hanno rivoluzionato l’approccio all’intera materia della protezione degli incapaci, facendo sì che il giudice tutelare assuma sempre di più il ruolo di Giudice della Persona.

Il secondo comma dell’articolo 344 cc poi, come norma di chiusura del sistema, prevede un grandissimo potere “esterno”, proprio unicamente del giudice tutelare, ruolo che rimarrebbe incomprensibile se non si valorizzasse il fatto che egli, nello svolgimento dei suoi compiti, volti al “bene comune” , può essere qualificato, sostanzialmente, in termini di “organo di alta amministrazione” e, in tale veste, come soggetto necessariamente deputato al dialogo con altre persone, organi e strutture pubbliche e private, quando ne risulti necessaria la collaborazione per realizzare la protezione dell’interesse debole. Nello specifico, la norma prevede il potere di «chiedere l’assistenza degli organi della Pubblica amministrazione e di tutti gli Enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni», e perciò certamente di tutti gli organi e le strutture diversamente rappresentative, pubbliche o private, costituite da una o più persone operanti nel territorio di competenza dello stesso giudice tutelare.

È evidente che la norma si spieghi con la rilevanza pubblicistica dell’interesse finalizzato a garantire adeguate forme di tutela, protezione, azione e interlocuzione in favore di soggetti e situazioni “diversamente deboli”, che non avrebbero possibilità alcuna di agire singolarmente, per effetto delle particolari condizioni di pregiudizio variamente inteso. Il ruolo del giudice tutelare viene così istituzionalmente a concorrere, al di là degli specifici richiami normativi, anche alla piena e positiva realizzazione del cosiddetto «sistema integrato di interventi e servizi sociali» di cui alla legge-quadro n. 328/2000, come risulta evidentemente chiaro per il campo della “disabilità” secondo le previsioni della legge n. 6/2004. Pertanto, come i principi della legge-quadro sull’assistenza non potranno essere ignorati “operativamente” dal giudice tutelare, così gli operatori socio-sanitari pubblici e privati coinvolti dalla legge-quadro non potranno ignorare o comunque disattendere i principi anche “collaborativi” dettati dalla legge n. 6/2004[2].

Se volessimo trarre una prima parziale conclusione, pur approssimativa e meramente orientativa, da queste iniziali constatazioni, potremmo forse osservare che il giudice tutelare, sempre più inteso come giudice della persona, ha oggi una funzione caratterizzata, nel modus operandi, dal potere-dovere di chiedere l’assistenza e di coinvolgere operativamente tutte le persone, i servizi e le realtà organizzate pubbliche e private i cui scopi corrispondono proprio alle sue funzioni, e ad esse si sovrappongono. Tale potere-dovere si specifica, come vedremo, in quello di coinvolgere e condividere nel decreto che dà origine al progetto di sostegno (art. 405 cc) tutti i protagonisti privati (il beneficiario in primis, ma anche i familiari e le persone abitualmente conviventi che partecipino o debbano partecipare al progetto; i volontari ed il volontariato, e, ovviamente, lo stesso amministratore di sostegno) e pubblici (servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura ed assistenza della persona) chiamati a renderlo concretamente attuabile ed operativo, nella logica del principio di sussidiarietà, come si specificherà in seguito. Tornando alla “norma-quadro” dell’articolo 344 cc, va sottolineato che questa disposizione assume una valenza finalistica ancora maggiore quando la si legga e le si dia sostanza alla luce dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri inderogabili di solidarietà che ne conseguono, nonché del riconoscimento e garanzia della pari dignità e dell’eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di condizioni personali e sociali, nonché del «compito della Repubblica» di rimuovere quegli ostacoli che, limitando di fatto libertà ed eguaglianza, – in particolare delle persone “fragili” – impediscono il pieno sviluppo della persona umana (artt. 2 e 3 Cost.).

Può dunque ritenersi, quanto alla specifica funzione del Giudice delle Persone, che la legge istitutiva dell’Amministratore di sostegno ha valorizzato enormemente funzione e ruolo del giudice tutelare alla luce non dei principi costituzionali, ma di un nuovo approccio giuridico-culturale al mondo della protezione dei deboli, identificandolo come figura essenziale di coordinamento, ma anche di propulsione, direzione e controllo per la realizzazione di progetti solidaristici di superamento di limiti di autonomia che possano rendere troppo gravoso, se non impossibile, ad una persona affetta da «infermità o menomazione fisica o psichica» compiere autonomamente gli atti del quotidiano, realizzare i propri “interessi”, valorizzare e dare senso alle proprie indicazioni, soddisfare i propri bisogni ed aspirazioni, ed effettuare consapevolmente le proprie scelte cercando di conseguirne il risultato. Il progetto di sostegno, che è l’anima della legge per come delineato agli articoli 405 e ss. cc, imporrà al Giudice della Persona di operare tenendo conto della finalità della legge, come prevista dall’articolo 1 della legge n. 6/2004, che è quella di «tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». Si tratta proprio, dunque, del “progetto di sostegno”, minimale o massimale che sia, nella sua singola e specifica modulazione dipendente dalle esigenze della persona non autonoma, che rappresenta un disegno, un percorso, un sentiero entro i cui limiti, statici e dinamici, dovranno porsi tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nella sua realizzazione, e concretamente nella vita del beneficiario.

Dunque, se in sintesi si vuole tentare di definire, anche in senso operativo, il ruolo del Giudice Tutelare nella direzione concreta del progetto di sostegno, può ritenersi che, nel quadro della legge n. 6/2004, egli non rivesta affatto un ruolo propriamente giurisdizionale diretto né di “giudizio” sulla capacità di agire della persona, bensì è titolare di una funzione specifica, e di altissimo rilievo sociale che gli impone una continua osservazione del soggetto della tutela e della protezione (la Persona), anche al fine di graduarne e modularne gli ambiti da proteggere, e gli strumenti giuridici con cui adempiere a tale funzione. Significativo, sotto tale aspetto è il dialogo del giudice tutelare con l’Ufficio del pubblico ministero. Ed infatti, nella supervisione e direzione concreta dell’Amministratore di sostegno, può accadere , in base all’esperienza concreta della già intervenuta applicazione dell’Amministrazione di sostegno (da lui disciplinata e diretta nella maniera più adeguata, modulata e personalizzata rispetto al beneficiario), che questo strumento sia divenuto nel tempo «inidoneo a realizzare la piena tutela del beneficiario» (art. 413, comma 4, cc); il giudice tutelare compirà dunque una disamina alla attualità della dinamica di vita dello stesso, secondo un criterio ovviamente finalistico della forma di tutela rispetto al complessivo vissuto del beneficiario e al suo momento storico e, tenendo fermo comunque il suo ruolo di direzione e supervisione del programma di gestione dell’amministrazione in corso, secondo un evidente principio di continuità della protezione del soggetto debole, «se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione, ne informa il pubblico ministero, affinché vi provveda». Va da sé che, proprio in applicazione del principio di continuità della tutela, in tali ipotesi, l’eventuale cessazione dell’Amministrazione di sostegno avverrà, però, soltanto per effetto della nomina di tutore o curatore provvisorio o con la sentenza dichiarativa dell’interdizione o dell’inabilitazione.

L’utilizzo della norma in esame da parte del giudice tutelare, ha delle conseguenze ben precise sull’azione del pubblico ministero, che ne richiedono l’utilizzo di facoltà a discrezionalità cd. “vincolata”. Ed infatti, il rappresentante pubblico, dopo la informativa del giudice tutelare, ex articolo 413, comma 4, cc, e della conseguente trasmissione di copia degli atti del fascicolo dell’Amministratore di sostegno, alla luce dei limiti della protezione in atto evidenziati dal giudice tutelare, e dunque delle criticità emerse nel corso della gestione della procedura, potrà optare tra diverse possibilità di azione: a) richiedere allo stesso giudice tutelare, ex articolo 407, comma 4, cc e/o 410, comma 2, cc, di modificare o integrare il decreto in essere, ai sensi dell’articolo 405 cc, in modo tale da realizzare una più adeguata protezione del beneficiario; b) comunicare allo stesso giudice tutelare di non ritenere sussistenti presupposti per presentare ricorso per interdizione; c) potrà perfino direttamente rapportarsi (art. 406, comma 3, cc), per assumere le necessarie informazioni di cui al comma 3 dell’articolo 407 cc, con i responsabili dei servizi sanitari o sociali interessati per richiedere relazione aggiornata tanto sulle «condizioni di abituale infermità di mente che lo rendono incapace di provvedere ai propri interessi», quanto sulla evoluzione delle condizioni di autonomia ed esistenziali del beneficiario, sulle possibilità e sulle necessità di eventuale «protezione integrativa», ed ancora sulla progettualità condivisa, possibile o meno, a favore dello stesso[3].

È interessante notare come in dottrina, si sia ricercato un certo parallelismo tra il dovere d’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero a fronte di una notizia di reato pur “qualificata” e la discrezionalità vincolata dello stesso pubblico ministero nell’esercitare l’azione dopo le indagini personali dell’Amministratore di sostegno, di cui potrebbe anche essere chiesta la sostituzione ai sensi dell’articolo 410, comma 2, cc.

In ogni caso, l’esame dell’articolo 413 cc, sotto il profilo dei rapporti tra l’ufficio del Giudice e quello pubblico ministero, evidenzia il ruolo non giurisdizionale del primo e sottende uno degli aspetti del principio di sussidiarietà, di cui si dirà appresso, costituito dalla cosiddetta sussidiarietà o strumentalità funzionale. Tuttavia, la applicazione di tale principio evidenzia come, nel tentativo di dare una lettura sistematica alla materia, si debba tener conto adeguatamente dei principi delle Convenzioni internazionali applicabili nell’Ordinamento nazionale ed anche di quelli dettati, in particolare, dalle diverse normative nazionali in materia di assistenza socio-sanitaria e per la promozione e l’integrazione dei diritti delle persone disabili[4], naturalmente tenendosi conto da parte di tutti gli operatori territorialmente competenti, anche, dell’applicabilità delle normative dettate ormai da diverse Regioni in funzione della migliore attuazione e promozione delle disposizioni della legge n. 6/2004.

2. La sussidiarietà tra personalismo e solidarismo. L’Amministrazione di sostegno come forma primaria di tutela dell’incapace

Il principio di sussidiarietà è un concetto connaturato alla interpretazione ed all’applicazione dei principi di personalismo e solidarismo, come previsti dalla nostra Costituzione agli articoli 2 e 3, ma anche all’articolo 32 e, anche più espressamente, all’articolo 118, ultimo comma. Il cosiddetto “personalismo solidale”, di cui agli articoli 2-3 della Costituzione, è un principio che esige il rispetto dell’autonomia della persona, della sua dignità, delle sue scelte e perfino delle sue personali aspirazioni; ed è quindi, in sé, culturalmente e giuridicamente sussidiario rispetto alle “possibilità di agire” della persona, in proprio.

Laddove non sia possibile un esercizio pieno e cosciente della propria autonomia, dovendosi fare ricorso alla forma di tutela ormai privilegiata nella applicazione quotidiana, l’Amministrazione di sostegno, costituiscono esempi dei diversi aspetti del principio di sussidiarietà proprio alcune norme che regolano la disciplina di tale istituto, e segnatamente: l’articolo 404 cc, laddove si fa riferimento alla possibilità che una persona «sia assistita», l’articolo 405, comma 4, cc, inteso come principio generale legittimante dell’intervento pubblico («qualora ne sussista la necessità, il giudice tutelare adotta…»), l’articolo 406, comma 1, cc (il primo legittimato a promuovere il ricorso è lo stesso beneficiario, poi familiari e conviventi, in evidente applicazione della sussidiarietà), l’articolo 406, comma 3, cc che disciplina la legittimazione attiva e sostanziale dei responsabili sanitari e sociali, secondo un proficuo meccanismo per cui, il venire a conoscenza di fatti tali da «rendere opportuna» l’iniziativa del ricorso, ne diventa presupposto dell’obbligo a ricorrere[5]; ed infine l’articolo 410 cc, che prevede che i compiti dell’Amministratore di sostegno siano effettivamente collegati ai «bisogni e aspirazioni del beneficiario», prima ancora che alle sue esigenze di oggettiva protezione, nonché l’articolo 406, comma 2, cc che introduce il necessario bilanciamento che dovrà operare il giudice tutelare, a seguito dell’ascolto del beneficiario, tra i suoi bisogni, le sue richieste e le sue oggettive esigenze di protezione.

La sussidiarietà è dunque declinata dalla legge sull’Amministrazione di sostegno in tutte le sue diverse prospettazioni, come una relazione, in tali termini, tra beneficiario, familiari, volontariato e servizi di cura ed assistenza, e dunque come una osmosi tra privato e pubblico, tra protagonisti attivi delle richieste di protezione (beneficiario, familiari, persona stabilmente convivente, servizi socio-sanitari «impegnati nella cura ed assistenza della persona» - articolo 406, comma 3, cc), ivi compreso l’ufficio del pubblico ministero. Il pubblico ministero, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe costituire culturalmente l’ultima possibilità di promozione del ricorso, ma solo a fronte delle inefficienze-insufficienze del privato e del pubblico direttamente interessati; tuttavia, nella prassi, la quasi totalità dei ricorsi di iniziativa “pubblica” proviene proprio dall’organo giudiziario e non dai servizi amministrativi pubblici, i quali preferiscono portare all’attenzione del pubblico ministero l’indicazione della esistenza di persone bisognose di assistenza, piuttosto che rivolgersi direttamente al giudice tutelare, con un allungamento dei tempi ed un dispendio di energie anche in termini di soggetti coinvolti nella procedura.

Va infine ricordato che il principio di sussidiarietà rientra pienamente nel quadro normativo dettato per il sistema integrato degli interventi e servizi sociali dalla legge n. 328/2000: a tal proposito, alcune norme di tale legge indicano la sussidiarietà come principio fondamentale e criterio per la programmazione ed organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali[6].

Tale principio, anche a livello processuale, e dunque nell’ambito dei rapporti tra singoli istituti deputati alle medesime finalità, impone la sua valenza. Ed infatti, la sussidiarietà funzionale (o strumentalità) si evidenzia in particolare nel rapporto, oggi esistente, tra Amministrazione di sostegno e interdizione. Il concetto di sussidiarietà funzionale emerge con chiarezza dalla lettura della “preferenza normativa” dell’Amministrazione di sostegno rispetto all’interdizione, espressa chiaramente dall’articolo 414 cc.

Sul punto, va evidenziato come la legge n. 6/2004 abbia sostituito alla fatalistica ed opprimente espressione «devono essere interdetti», quella «possono essere interdetti», espressione che, già dalla rubrica, orienta la discrezionalità del giudice, che potrà legittimamente ricorrere a quest’ultimo strumento di protezione solo quando «ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione». Non vale a modificare tale interpretazione il fatto che la disposizione nuova usi l’indicativo presente del verbo essere – “sono interdetti” – nell’ipotizzare il ricorso allo strumento massimo di protezione; infatti la norma stessa condiziona espressamente ed univocamente tale ipotesi strumentale alla riscontrata ed esclusiva necessità (rectius: indispensabilità) di assicurare adeguata protezione alla persona altrimenti non proteggibile con alcuna modalità diversa dalla forma massima della interdizione. In sostanza non appare possibile, né attraverso una interpretazione letterale né, tantomeno, attraverso una interpretazione sistematica, ricorrere legittimamente all’interdizione quando sia comunque ancora possibile, per le concrete dinamiche di vita della persona pur «inferma di mente abituale», ricorrere, con sufficienti effetti di protezione e rappresentanza, ad un provvedimento ex articoli 405 e 407 cc, anche comprensivo di larghe limitazioni contenute nel decreto che elencherà, come in un gioco di reciprocità, le limitazioni per il beneficiario, connesse alle esigenze di protezione, e i conseguenti poteri dell’Amministratore.

In sostanza il giudice tutelare, attraverso il combinato disposto degli articoli 413, comma 3, e 414 cc, è tenuto ad operare un concreto bilanciamento tra tali misure, con l’unico criterio delle effettive esigenze di protezione e di rappresentanza, verificando, se sia in concreto davvero ipotizzabile che la ritenuta insufficienza della migliore protezione possibile attraverso l’Amministrazione di sostegno, sia effettivamente superabile attraverso la forma massima di protezione, “annullante”, conseguente all’eventuale interdizione con apertura di tutela.

È dunque evidente che l’interdizione abbia ormai una applicazione rara e del tutto eccezionale. Anche se pleonastico, è bene infatti ricordare che la legge fa riferimento alle possibilità di ricorre all’interdizione non certo per tutte le persone non autonome per infermità o menomazione fisica o psichica, ma solo per coloro che «si trovano in condizione di abituale incapacità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi». Ma tale previsione non è sufficiente tuttavia a far ritenere che, ove la persona si trovi in tali condizioni, possa considerarsi oggi legittima l’applicazione della interdizione, laddove, anche attraverso un’applicazione particolarmente penetrante e perfino invasiva dell’Amministrazione di sostengo, è possibile comunque assicurare alla persona una protezione adeguata. Pertanto, già in base alla sola previsione dell’articolo 414 cc emergono sia il carattere speciale della disciplina annullante dell’interdizione, possibile solo nei confronti di chi si trovi nelle previste condizioni di totale incapacità di mente abituale, sia il suo carattere sussidiario, atteso che per la tutela della persona, occorrere prediligere, ove possibile, forme di protezione meno invasive e meno potenzialmente idonee a provocarne una certa “ghettizzazione” sociale. Le misure di protezione infatti, nella disciplina codicistica rinnovata dalla legge n. 6/2004, sono leggibili unicamente come uno strumento concretamente possibile per «assicurare adeguata protezione» alla persona fragile, e dunque strumentali a tali necessità (da qui il rinnovato ruolo funzionale del Giudice della Persona); le stesse sono applicabili, in una visione costituzionalmente orientata ai grandi principi del personalismo, del solidarismo e della sussidiarietà, solo come mezzo per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, salvaguardando comunque la dignità di ogni persona a favore della quale la misura di protezione deve comunque essere intesa e può essere applicata, e dunque mai in un’ottica afflittiva o differente. In questo quadro è evidente che uno strumento di protezione giuridicamente e culturalmente non “annullante”, bensì elastico, valorizzante e proiettato all’ausilio dell’incapace, quale l’Amministrazione di sostegno, debba essere lo strumento preferenziale per assicurare protezione al soggetto fragile nell’ottica sin qui indicata, e ciò sarà concretamente possibile laddove, il giudice tutelare, nella predisposizione del contenuto del decreto di apertura, e dunque nel disegno del progetto di sostegno con la individuazione dei relativi poteri in capo all’Amministrazione di sostegno, sappia coerentemente superare limiti di applicabilità che la legge non prevede, modulando adeguatamente le sue statuizioni per il caso concreto e specifico della singola persona sofferente.

Nell’architettura delle norme, va rilevato che, sebbene il legislatore del 2004 non abbia optato per una immediata abrogazione della interdizione , egli ha dettato una norma-ponte in tal senso significativa, e cioè l’articolo 418, comma 3, cc che prevede il passaggio dal giudizio di interdizione alla procedura di Amministrazione di sostegno «se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare opportuno applicare l’Amministrazione di sostegno»; in tali ipotesi, prevede la norma che «il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare. In tal caso il giudice competente per interdizione o per l’inabilitazione può adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’articolo 405». È evidente come la “sussidiarietà funzionale” opera ancora una volta correttamente privilegiando l’adozione dello strumento dell’Amministrazione di sostegno all’interdizione anche durante un “percorso” davanti al Tribunale (giudice di quest’ultima misura), e prevedendo che il giudice anche “d’ufficio” possa disporre e addirittura adottare direttamente – attraverso provvedimento d’urgenza – gli stessi «provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio» che può adottare il giudice tutelare nel procedimento di Amministrazione di sostegno ex articolo 405, comma 4, cc, ivi compresa la nomina di Amministratore di sostegno provvisorio. Come appare chiaro dal testo e dalla ratio della norma non è necessaria una sentenza resa dal Tribunale in composizione collegiale per “legittimare” tale passaggio e l’adozione di eventuali provvedimenti urgenti; la relativa ordinanza (che chiude il procedimento “contenzioso” di interdizione) deve ritenersi adottabile direttamente ed anche d’ufficio dallo stesso Presidente o dal giudice istruttore (artt. 713, comma 1 e 717 cpc); si ribadisce l’adottabilità di questo provvedimento anche d’ufficio, seppur previa instaurazione di una qualche forma di contradditorio.

3. Il progetto di sostegno nell’architettura dei principi costituzionali

Il decreto ex articolo 405 cc rappresenta una sintesi concettuale e pratica dei principi costituzionali fondamentali del personalismo, e dunque in primis il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, il solidarismo sociale, il diritto alla salute e il principio di sussidiarietà di cui all’articolo 118 ultimo comma della Costituzione. Su questi principi fondamentali si articola, nella sostanza, l’impianto normativo della legge n. 6/2004 che, sebbene con alcune criticità, ha senza dubbio il merito di avere, in relazione all’approccio al tema della tutela dei fragili, un carattere sostanzialmente rivoluzionario e liberante della normativa, che ha aperto ai principi costituzionali ed ha reso possibile la stessa giuridica rilevanza dell’agire e dell’esistenza relazionale della persona non autonoma, come se vi fosse un filo logico ideale che dalla legge n. 180/78 (Legge Basaglia) in poi, abbia ricondotto ad unità tutti gli interventi normativi dello Stato sul tema delle incapacità e delle fragilità mentali.

Il raffronto tra le disposizioni della legge n. 6/2004 e quelle delle Convenzioni internazionali, comprensive dei relativi principi che regolano le più importanti dinamiche sociali, rendono ben solide le basi istituzionali e culturali su cui la legge n. 6/2004 si fonda; e dunque, il riferimento primario va al Trattato sull’Unione europea, anche con le periodiche modifiche del testo-base di Amsterdam del 1997, che prevede testualmente che l’Unione «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, dell’eguaglianza, del rispetto dei diritti umani in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla solidarietà». Il termine solidarietà indica proprio un approccio di cura e garanzia delle persone incapaci, che sia culturalmente individuato e praticato non nell’ottica della restrizione, ma della valorizzazione delle competenze residuali, e del rispetto costante della dignità della persona.

Ed ancora, è la stessa legge n. 6/2004 che introduce una sorta di “privilegio normativo” dell’Amministrazione di sostegno rispetto all’interdizione, anche nella interpretazione che è stata data ad alcune delle questioni sottese alla gestione delle forme di tutela dalla Corte costituzionale con la pronuncia n. 440/2005, pronuncia particolarmente importante e significativa, nonostante il suo carattere succinto, perché affronta la problematica dei rapporti tra provvedimenti dati in corso di procedimento di interdizione e revoca dell’interdizione, rispettivamente con ordinanza del giudice istruttore ex articolo 418 cc (con nomina ex articolo 405, comma 4, dell’Amministratore di sostegno provvisorio) e con sentenza (collegiale) di revoca dell’interdizione e contestuale nomina di Amministratore di sostegno provvisorio ex articolo 429, ultimo comma, cc; la Corte ha pienamente recepito l’interpretazione della cosiddetta “sussidiarietà funzionale” dell’interdizione rispetto all’Amministratore di sostegno e confermato il principio di continuità nelle misure di protezione, valorizzando anche la preferenza normativa dell’Amministratore di sostegno rispetto all’interdizione anche in relazione alla logica del personalismo e della «conservazione della capacità di agire», nonché quella della «possibilità di agire» (artt. 1, legge n. 6/2004 e 409, commi 1 e 2, cc). In dottrina[7], si è tuttavia osservato come la Corte abbia omesso di rilevare, l’incostituzionalità della pur sussidiaria disciplina dell’interdizione, cui ha attribuito un senso residuale – diversamente utilizzato poi da successive pronunce della Cassazione – con l’affermazione incidentale, ricavata da una “lettura al contrario” dell’ultimo comma dell’articolo 411 cc, secondo cui «in nessun caso i poteri dell’Amministratore di sostegno possono coincidere integralmente con quelli del tutore o del curatore». Nello specifico, le ordinanze di rimessione alla Corte, provenienti dal Tribunale di Venezia, ponevano, nei medesimi termini, due questioni di legittimità costituzionale di norme concernenti l’Amministrazione di sostegno. La prima riguardava gli articoli 404, 405, numeri 3 e 4, e 409 del codice civile, sotto il profilo che, a dire del Giudice a quo, non indicano chiari criteri selettivi per distinguere tale istituto, introdotto dalla legge citata, dai preesistenti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, e quindi danno luogo a tre fattispecie legali irragionevolmente coincidenti, con duplicazione di istituti “parzialmente fungibili”, lasciando di fatto all’arbitrio del giudice la scelta dello strumento di “tutela” concretamente applicabile, così violando gli articoli 2, 3 e 41, primo comma, e 42 della Costituzione, che garantiscono il pieno dispiegarsi della personalità del disabile nei rapporti economici e nei traffici giuridici. La seconda riguardava gli articoli 413, ultimo comma, e 418, ultimo comma, cc, nel testo introdotto dalla legge n. 6 del 2004, sotto il profilo che essi non prevedono strumenti di composizione delle divergenze eventualmente insorte fra il giudice tutelare (cui sono attribuiti i provvedimenti in tema di Amministrazione di sostegno) e il Tribunale in composizione collegiale (cui sono attribuiti quelli in tema di interdizione e inabilitazione), così violando gli articoli 2, 3, 4, 41, primo comma, 42 e 101, secondo comma, della Costituzione. La Corte ha ritenuto la prima questione non fondata, per l’erroneità del presupposto interpretativo da cui le ordinanze hanno argomentato, affermando che l’ambito di operatività dell’Amministrazione di sostegno potesse coincidere con quelli dell’interdizione o dell’inabilitazione. I Giudici delle leggi hanno ricordato che l’articolo 1 della legge n. 6 del 2004 attribuisce all’Amministrazione di sostegno «la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente», che l’articolo 404 cc, nel testo modificato da tale legge, precisa che «la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un Amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare», che l’articolo 414 cc, nel testo modificato dalla legge citata, dispone che il maggiore di età e il minore emancipato affetti da abituale infermità di mente, che li renda incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti «quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione» e che l’articolo 415 cc prevede l’inabilitazione per una serie di soggetti il cui stato non sia «talmente grave da far luogo all’interdizione». Pertanto, si afferma nella pronuncia, la complessiva disciplina inserita dalla legge n. 6 del 2004 sulle preesistenti norme del codice civile affida al giudice il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità; la stessa disciplina consente, ove la scelta cada sull’Amministrazione di sostegno, che l’ambito dei poteri dell’Amministratore sia puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto. Solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione, il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione e dell’interdizione, che attribuiscono uno status di incapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria. Dunque, in una disciplina graduale, elastica, armonica e priva di frizioni tra le sue specifiche norme e finalità.

Quanto alla seconda questione, la sua infondatezza è stata accertata su una constatazione in fatti: È ben vero che – poiché il giudice tutelare verifica in piena autonomia la sussistenza dei presupposti dell’Amministrazione di sostegno, e altrettanto fa il Tribunale per i presupposti dell’interdizione e dell’inabilitazione – può accadere che l’uno decida di non attivare l’Amministrazione di sostegno e l’altro di non dichiarare l’interdizione o l’inabilitazione. Ma erroneamente le ordinanze ritengono che nel sistema di cui alle norme impugnate manchino meccanismi processuali di composizione di siffatti eventuali conflitti. In primo luogo, i provvedimenti di entrambi gli organi sono impugnabili, rispettivamente con il reclamo contro i decreto del giudice tutelare (articolo 720-bis cpc, aggiunto dall’articolo 17 della legge n. 6 del 2004) e con l’appello contro la sentenza del Tribunale. Il meccanismo dell’impugnazione costituisce quindi la sede naturale per la soluzione dei paventati contrasti. In secondo luogo le norme impugnate prevedono strumenti di raccordo tra il procedimento di Amministrazione di sostegno e quelli di interdizione o inabilitazione, in forza dei quali – ove tra giudice tutelare e Tribunale sorgano conflitti sulla maggiore idoneità dell’uno o dell’altro istituto ai fini della più adeguata protezione dell’incapace – questi non rimane comunque privo di tutela. In particolare, l’articolo 413, comma 4, cc dispone che il giudice tutelare – se, nel dichiarare la cessazione dell’Amministrazione di sostegno rivelatasi inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario, ritenga debba invece promuoversi giudizio di interdizione o inabilitazione – «ne informa il pubblico ministero, affinché vi provveda»; in tal caso l’Amministrazione di sostegno cessa con la nomina del tutore o curatore provvisorio o con la dichiarazione di interdizione o inabilitazione. E l’articolo 418, comma 3, cc prevede a sua volta che il Tribunale – se nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione ravvisi l’opportunità di applicare l’Amministrazione di sostegno – dispone la “trasmissione del procedimento” al giudice tutelare, adottando se del caso i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’articolo 405, fra i quali rientra la nomina dell’Amministratore di sostegno provvisorio. Il Tribunale, quindi, non si limita ad investire il giudice tutelare perché provveda all’apertura del procedimento di Amministrazione di sostegno, ma lo apre direttamente esso stesso, sulla base di una valutazione di iniziale idoneità della misura, eventualmente accompagnata dalla nomina dell’Amministratore provvisorio. Pertanto il giudice tutelare cui il procedimento sia stato trasmesso, ove consideri che l’Amministrazione di sostegno si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario, ben può applicare il citato quarto comma dell’articolo 413 e dichiararla cessata. E se – come in uno dei casi in esame – ritenga si debba ricorrere invece all’interdizione (o inabilitazione), non deve fare altro che informare il pubblico ministero. Nella stessa prospettiva si muove anche l’articolo 429, comma 3, cc secondo il quale, se nel giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che, dopo la revoca, il soggetto sia assistito dall’Amministratore di sostegno, il Tribunale dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare.

Dunque, secondo la Corte, sussiste un sistema fluido di comunicazione tra giudice tutelare e Tribunale, e di piena osmosi tra istituti, nell’ottica della continuità della protezione, e della migliore scelta della stessa in relazione alle caratteristiche della persona, alle sue esigenze, ed alla finalità della norma.

Sebbene ciò appaia normativamente innegabile, va tuttavia auspicato che, all’opzione di cultura giuridica e sociale che presiede alla preferenza che oggi si dà allo strumento dell’Amministrazione di sostegno, pur in assenza di una esplicita abrogazione dalle altre misure di protezione più invasive, corrisponda un futuro intervento del legislatore che affermi con maggiore chiarezza la necessità di abbandonare tali ultime forme di protezione, in quanto non più corrispondenti alla sensibilità giuridica dei nostri tempi, e ad un nuovo e generale approccio culturale al sistema della protezione delle persone.

4. I principi delle Convenzioni internazionali e l’Ordinamento italiano. L’abrogazione “de facto” dell’istituto della interdizione

Come si è visto precedentemente, si è osservato in dottrina[8], che, ancora prima della entrata in vigore della Convenzione di New York, fosse ipotizzabile una sostanziale abrogazione di fatto dell'interdizione e dell'inabilitazione, proprio in conseguenza di una corretta interpretazione funzionale della legge istitutiva dell’Amministrazione di sostegno, alla luce dei principi costituzionali di cui agli articoli 2-3 della Costituzione e del principio di sussidiarietà strumentale. Tale interpretazione abrogativa, secondo i medesimi osservatori, è divenuta cogente anche in conseguenza della entrata in vigore nell'Ordinamento italiano della «Convenzione Onu sul diritto delle persone con disabilità» (Convenzione di New York), ratificata con legge n. 18 del 3/3/2009.

La Convenzione di New York vieta il ricorso a misure di annullamento o di compromissione permanente, e non periodicamente ed immediatamente rivedibile, della capacità di agire[9]; dagli stessi principi costituzionali, potrebbe dunque derivare la necessità di immediata lettura direttamente applicativa della capacità di agire quale diritto inviolabile dell'uomo, una interpretazione resa oggettivamente possibile ai sensi degli articoli 2-3-10 della Costituzione, che assicurano “riconoscimento e garanzia” dei diritti inviolabili dell'uomo, tra cui ormai non può non rientrare la capacità di agire (chiamata nella Convenzione Onu “capacità legale”).

La stessa Convenzione, è bene ricordare, in base alla lettera dell'articolo 12, comma 1, stabilisce che: «gli Stati Parti riaffermano che le persone con disabilità hanno il diritto di essere riconosciute ovunque quali persone di fronte alla legge] e che «gli Stati Parti dovranno riconoscere che le persone con disabilità godono della capacità legale sulla base di eguaglianza rispetto agli altri in tutti gli aspetti della vita». Sembra dunque alquanto critica la possibile compatibilità delle disposizioni della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità rispetto a quelle relative alla persona sottoposta a tutela rimaste nel codice civile, che sembrerebbero permettere ancora, seppur in limiti residuali, in base alla stessa legge n. 6/2004, forme di invasione della libertà quali l'interdizione e la inabilitazione. Tale considerazione è resa più evidente dalla specifica enucleazione dei principi della Convenzione di New York, che in sintesi possono essere così declinati: 1) divieto di ogni discriminazione (art. 3 lettera b) e conseguente principio di “inclusione”, base di tutta la Convenzione[10]; 2) principio di inclusione (art. 3 lettera c) e riconoscimento della dignità di ogni persona nonché rispetto delle scelte individuali, delle pari opportunità e dell’eguaglianza con il conseguente riconoscimento delle uguali capacità legale e capacità di agire per tutte le persone con disabilità (cfr. in particolare art. 12). Sotto tale profilo, la Convenzione prevede specificamente che ogni Stato debba assicurare che tutte le misure di protezione adottate siano «proporzionate e adatte alle condizioni della persona»; nonché che «vengano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte dell’organo giudiziario», e ciò in evidente applicazione dei principi di temporaneità, proporzionalità, flessibilità, modificabilità, integrabilità, revocabilità e periodica rivedibilità; proprio sulla scorta di tali considerazioni, appare evidente il diretto contrasto delle norme della Convenzione con le caratteristiche di rigidità, non modulabilità, indefinita permanenza nel tempo e non rivedibilità periodica dell’interdizione, ed invece la piena conformità alle disposizioni della Convenzione delle misure adottabili con i provvedimenti del giudice tutelare emessi nel corso della fase gestoria dell’Amministrazione di sostegno, e del “progetto di sostegno”.

In conclusione, risulta di tutta evidenza l'aderenza dello strumento dell'Amministrazione di sostegno alle logiche ed alla ispirazione socio-culturale della Convenzione di New York, anche se quest'ultima inserisce tutta una serie ulteriore di diritti e di doveri che rafforzano la tipologia di “protezione attiva e condivisa” come prevista dalla legge n. 6/2004. Dunque, alla luce di quanto esposto, pare operazione giuridicamente complessa quella di negare la tesi di chi sostiene l'abrogazione per incompatibilità dell’intero istituto dell’interdizione, almeno nei limiti di procedimenti non ancora definiti; lo Stato italiano si è impegnato, con formulazione che permette l’immediata applicazione della disposizione all’atto della ratifica, «ad astenersi dall'intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione e ad assicurare che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione», e da questa dichiarazione di principio, a cui conseguono specifici obblighi, pare potersi effettivamente ritenere che forme di protezione differenti da quella elastica e modulabile dell’Amministrazione di sostegno, non siano più rispettose dei principi di diritto a cui lo Stato ha deciso di uniformare la materia della protezione degli incapaci.

La conseguenza pratica di tali considerazioni è quella per cui, all’attualità, ogni giudice potrebbe percorrere la legittima scelta di merito di considerare non più applicabili, almeno per i “nuovi” procedimenti le previsioni normative nei limiti in cui ancora permettono il ricorso all’interdizione, ritenendole in contrasto con normative successive vincolanti ed abroganti, per totale incompatibilità, e ciò ai sensi dell’articolo 15 preleggi. Si è osservato allora che, possa anche considerarsi una sorta di “accomodamento ragionevole” la diretta applicazione dell’abrogazione dell’interdizione per incompatibilità sopravvenuta e diretto contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 2 e 3 della Costituzione, almeno per i procedimenti di protezione futuri e per quelli in corso di interdizione, e tanto è ciò che avviene in numerosi uffici giudiziari, ove, ormai, i pochi ricorsi per interdizione ancora iscritti a ruolo, non hanno più esito favorevole, essendosi ormai consolidata la prassi di un sostanziale abbandono di tale istituto, se non per le procedure pendenti da molto tempo. Il mantenimento, fino ad un auspicabile nuovo intervento normativo da parte dello Stato, delle tutele e delle curatele in corso, senza necessariamente ritenere d’ufficio la loro “conversione” in amministrazione di sostegno, può, appunto, ritenersi, nell’ottica indicata, un “accomodamento ragionevole” tra il permanere delle norme su interdizione ed inabilitazione e la nuova sensibilità sociale e giuridica sulla intera materia della protezione degli incapaci. La eventuale conversione di tali procedure in Amministrazione di sostegno, dovrà invece passare per il necessario percorso del ricorso per revoca con contestuale apertura della nuova procedura dinanzi al giudice tutelare.

Le prassi di alcuni uffici giudiziari suggeriscono, in un proficuo dialogo tra giudice tutelare ed ufficio del pubblico ministero, la possibilità che sia quest’ultimo ad attivarsi per la richiesta di revoca della interdizione e della inabilitazione, esercitando in modo appropriato i propri poteri sulla scorta del principio di sussidiarietà, rispetto alle “gerarchie di prossimità” previste dall’articolo 417, comma 1, cc.

Infine, va ricordato come l’articolo 3 della legge 18/2009 (legge di ratifica della Convenzione di New York) prevede l’istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, con «il compito di predisporre un programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, in attuazione della legislazione nazionale ed internazionale». Con dm n. 167/2010 l’Osservatorio è stato di fatto costituito presso il Ministero del Lavoro e politiche sociali, e con il dPR 4/10/2013 (pubblicato su Gu 28/12/2013) è stato adottato il primo programma di azione biennale, le cui disposizioni costituiscono quanto meno, anche per il giudice, argomenti utili per rafforzare ed “attualizzare”, alla luce dell’evoluzione di tutto il sistema normativo, l’interpretazione direttamente abrogante delle disposizioni relative alla possibilità di dichiarare nuove interdizioni, sollecitando il legislatore a prevedere l’eventuale abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione, mantenendo come sola misura di protezione giuridica, variamente modulabile, l’Amministrazione di sostegno, rafforzata in alcuni aspetti oggi del tutto annullati delle due più vecchie figure giuridiche. Il decreto citato prevede, nello specifico, sette linee di intervento per attuare concretamente gli impegni internazionalmente assunti dallo Stato italiano – e anche dall’Ue (che ha, a sua volta ratificato la Convenzione Onu il 23 ottobre 2010). Esse riguardano: a) il sistema di accesso e riconoscimento delle condizioni di disabilità; b) il lavoro e l’occupazione; c) le politiche e i servizi per la vita indipendente e l’inclusione; d) la promozione ed attuazione di accessibilità e mobilità; e) i processi formativi e l’inclusione scolastica; f) la salute, il diritto alla vita, abitazione e riabilitazione; g) cooperazione internazionale.

Una complessiva lettura di tutte tali linee di intervento, offre una chiara dimensione di quale sia la direzione attuale della protezione giuridica dell’incapace, e quale la, cultura sociale che la contraddistingue e che le dà identità sostanziale, ragione per cui, può affermarsi che all’attualità, dopo la ratifica in Italia della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, l’unica vera misura idonea, nell’ordinamento italiano, a dare dignità alla persona con disabilità, proteggendola, ma al tempo stesso sostenendone le autonomie con i soli interventi strettamente necessari, è l’Amministrazione di sostegno. Vige dunque una principio ormai consolidato, secondo cui, con l’amministrazione di sostegno, viceversa, oltre ad ampliarsi il novero delle persone protette, si evidenzia la necessità di valutare sempre concretamente le situazioni vissute dalle singole persone con disabilità, individuando, caso per caso, quali autonomie le stesse hanno e di quali specifici sostegni ed interventi necessitano, individuando, laddove necessario, una figura che le affianchi , senza che i poteri di quest’ultima siano predeterminati dal codice civile. Ciò ha portato soprattutto ad una nuova visione giuridica, della protezione delle persone con disabilità da attuarsi e garantirsi non attraverso interventi di progressiva privazione della possibilità di porre atti giuridici, ma con l’individuazione, dopo concreta valutazione dell’autorità giudiziaria, di congrui ed idonei poteri di intervento dell’Amministrazione di sostegno a fianco della persona con disabilità per le sole e singole fattispecie per le quali la stessa è ritenuta in tutto o in parte non autonoma e necessitante, appunto, di sostegno[11]. In sostanza, a differenza dell’interdizione e della inabilitazione, la protezione della persona non transita più attraverso la privazione dei suoi poteri, ma attraverso uno specifico supporto affinché la stessa sia sostenuta, in maniera mirata e con la minor limitazione possibile della sua sfera di azione, nell’esercizio dei suoi diritti e doveri, nell’ottica del rispetto della dignità umana e della salvaguardia delle sue potenzialità residuali. Da ciò discende anche l’assoluta importanza di considerare sempre i bisogni e i desideri espressi dalle persone con disabilità, anche se gravissima, in quanto persone che hanno il diritto, nell’ambito della loro protezione, di essere sentite, considerate e rese fulcro dell’intervento. Tale attenzione, sicuramente prevista sia al momento dell’attivazione dell’Amministrazione di sostegno che nel corso della stessa, sulla base dell’articolo 409 cc, è del tutto esclusa nelle procedure di interdizione e di inabilitazione, che pertanto vanno considerate ormai anacronistiche e totalmente confliggenti con tale impostazione culturale soprattutto laddove si prevede che le misure da adottare sono finalizzate a garantire l’esercizio della capacità giuridica e rispettino i diritti, le volontà e le preferenze della persona.

Quanto al contenuto specifico del dPR esaminato, deve evidenziarsi come alcune delle azioni ivi previste, e specificamente quelle previste dai punti 1-2-3, sono direttamente rivolte al Ministero della giustizia, al Consiglio superiore della magistratura, alla Scuola superiore della magistratura e riguardano le modalità di formazione multidisciplinare dei magistrati e di tutti i soggetti diversamente coinvolti nella problematica della disabilità e dell’Amministrazione di sostegno. Nello specifico; a) al Ministero della giustizia si chiede di assicurare omogenea applicazione dell’attuale normativa sull’Amministrazione di sostegno per tutto il territorio italiano vigilando soprattutto sul rispetto dei tempi di emissione del decreto di nomina e sull’assegnazione di adeguate risorse umane (giudici, operatori di cancelleria) e tecnologiche alle Sezioni della volontaria giurisdizione; b) al Consiglio superiore della magistratura si chiede di implementare, anche attraverso la Scuola superiore della magistratura, formazione ad hoc per magistrati, non soltanto per le procedure di emissione del decreto di nomina dell’Amministratore di sostegno, ma anche per tutto il controllo giurisdizionale e le modifiche da porre in essere in corso di amministrazione. A tal proposito, può essere utile dotare i giudici della Volontaria giurisdizione anche di alcune nozioni in merito alle relazioni giuridiche ed amministrative che le persone con disabilità si trovano quotidianamente a dover vivere, ma soprattutto di come interagire rispetto ai vari attori del progetto individuale che la persona con disabilità può richiedere ai sensi dell’articolo 14 legge n. 328/00.

5. Il Giudice della Persona e la gestione dell’Amministrazione di sostegno. Il tema del consenso

Per un quadro generale e sintetico di valutazione, occorre fare riferimento ad alcune linee “interpretative” minimali genericamente elaborate nella giurisprudenza dei Giudici tutelari, chiamati nel concreto a dare corpo e vita alle norme sull’Amministrazione di sostegno, nel tentativo di prestare fedeltà assoluta alla impostazione giuridica e culturale che ha animato il legislatore del 2004.

E così, ad esempio, venendo allo specifico tema della prestazione del consenso a trattamenti, terapie, interventi che si inseriscano a pieno titolo nel concetto di “cura della persona” (sotto lo stretto profilo sanitario e clinico), va ricordato chela legge non prevede una più o meno generica “rappresentanza di volontà” del paziente che non sia in grado di esprimere il suo consenso a terapie invasive direttamente da parte di familiari prossimi o dai sanitari responsabili della terapia; per l'espressione di tale consenso (o dissenso) alla terapia o all'intervento da parte di persona che non sia in grado di esprimerlo, occorre, prevedere l'intervento di un “rappresentante”, che (quantomeno in via sussidiaria rispetto ad indicazioni o volontà precedentemente espresse dal “beneficiario”, comunque da “attualizzare” - art. 408 cc), nel nostro ordinamento non può che essere proprio l'Amministratore di sostegno, dotato di idoneo decreto di investitura ex articolo 405 cc, che preveda, tra le facoltà ed i poteri a lui attribuiti, anche lo specifico tema del consenso informato. È pertanto necessario il preventivo intervento del giudice tutelare per fornire la persona non più in grado di esprimere le sue indicazioni ed il suo consenso al trattamento sanitario, di un valido rappresentante che possa neutralizzare le conseguenze pregiudizievoli di tale sua incapacità, nell’ottica esclusiva della cura della persona[12]. È opportuno aggiungere, almeno in relazione alle possibili “conseguenze” o ai postumi invalidanti dell'intervento, che può porsi comunque il problema della necessità della nomina (meglio se anticipata adeguatamente rispetto ad un intervento prossimo e prevedibile) di amministratore di sostegno per organizzare, attorno, con ed accanto al beneficiario, l'eventuale più ampio “progetto di sostegno” utile a sostenere la persona sofferente ed a superare o ridurre le conseguenze di una sua carenza di autonomia[13], anche dopo l'intervento. L’opportunità del progetto di sostegno anticipato, resta sempre la opzione preferibile, non solo per le tempistiche collegate alla presentazione del ricorso ed al periodo necessario al giudice tutelare per “l’istruttoria” di cui all’articolo 407 cc, ma anche perché consente di attuare, in ogni momento della vita, la volontà esplicita, genuina ed inequivoca del beneficiario.

Nei casi di urgenza, la presentazione del ricorso, eventualmente con richiesta di provvedimento immediato e temporaneo, potrebbe comunque legittimare, in caso di risposta non adeguatamente tempestiva del giudice tutelare, l’intervento richiesto, realizzato quando il beneficiario non è in grado di esprimere il proprio consenso. Tuttavia, il provvedimento del giudice tutelare o la volontà dell'Amministratore di sostegno, mai potranno sostituirsi, nella “cura della persona”, alla volontà del beneficiario stesso, ove risulti ovviamente non viziata dalla patologia in atto o da altra patologia di natura psichica, che incida sulla capacità di giudizio e discernimento: se, ad esempio, questi esprimerà una volontà contraria (o abbia chiaramente espresso – se possibile in un documento scritto e firmato) all'effettuazione di una terapia particolare e se questa volontà non risulti (art. 407, comma 5, codice civile) viziata da una impossibilità o inadeguatezza di comprensione e volontà, la terapia stessa, pur se adeguata, idonea e a rischio ridotto o proporzionato, non potrà essere effettuata, per lo stesso principio di libertà desumibile dal secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione. Nulla, tuttavia, esclude che l’Amministratore di sostegno possa tentare una corretta opera di informazione e perfino di ragionevole convincimento per indurre il beneficiario a superare paure o titubanze oggettivamente ingiustificate, e dunque a modificare le sue determinazioni, ma va categoricamente escluso che il provvedimento del giudice tutelare o la decisione dell'Amministratore di sostegno possano scavalcare una permanente, libera e non viziata espressione di volontà contraria da parte del beneficiario, realizzando così un sostanziale trattamento sanitario obbligatorio in casi in cui non è imposto dalla legge.

In tema di espressione del consenso ai trattamenti sanitari, l’argomento di maggiore attualità ed interesse è quello del superamento della volontà del beneficiario, ove la stessa, pur apparentemente contraria alla effettuazione dell'intervento o terapia, sia viziata o dalla patologia specifica in atto, o da pregresse e croniche situazioni di deficit di capacità critiche e di giudizio e dunque di sana possibilità di autodeterminazione utilmente orientata; una volta accertata tale ipotesi, e dunque acclarato che sussiste una condizione patologica direttamente incidente sulle possibilità di comprensione e/o volizione, e dunque una manifestazione di dissenso di fatto malata e non conforme al generale principio di cura della persona, il familiare, il convivente e, se non già legittimato da precedente provvedimento, l'Amministratore di sostegno, ma anche i responsabili dei servizi impegnati nella cura/assistenza (art. 406 cc) potranno ricorrere al giudice tutelare perché “adotti”, con decreto motivato, gli opportuni provvedimenti, anche “in via d'urgenza e provvisoria” come previsto dall'articolo 405, comma 4, cc. Il Giudice della Persona potrà nello specifico autorizzare, anche in via provvisoria ed urgente, l’Amministratore di sostegno a rappresentare la volontà del beneficiario o a disporre in luogo del beneficiario nel suo esclusivo interesse (principio del “diretto beneficio”), anche manifestando una volontà contraria alla sua, ma giuridicamente efficace rispetto a quest’ultima in quanto pienamente sostitutiva.

6. Il solidarismo sociale ed il ruolo dei responsabili dei servizi socio sanitari

L’articolo 406, comma 3, codice civile, prevede una legittimazione attiva a proporre il ricorso anche in capo ai «responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura ed assistenza della persona». La legge non distingue tra servizi sanitari e sociali pubblici e privati tenuti a proporre il ricorso, nella concorrenza delle previste condizioni, e la legittimazione sicuramente non è appannaggio esclusivo dei soggetti di vertice delle strutture di cura ed assistenza. Va aggiunto che, nella normativa sanitaria, il concetto stesso di responsabile non sembra espressivo di un concetto verticistico o apicale dell’organizzazione ma solo di una posizione di responsabilità riguardo a una persona (o ad un gruppo di persone) affidata ad un progetto terapeutico o di assistenza dallo stesso direttamente impostato, diretto, seguito o coordinato, in situazione normalmente non episodica e, tendenzialmente, caratterizzata da significativa continuità. Va anche evidenziato che, così come la norma dell’articolo 406, comma 3, cc non distingue tra pubblico e privato (in una concezione solidaristica finalizzata all’esito dell’intervento e in cui il rapporto privato-pubblico viene anch’esso inserito in una logica di sussidiarietà), così non si distingue tra servizio svolto in regime di autonomia, di dipendenza o di convenzione

Il medico di medicina generale (MMG: medico di famiglia) partecipa all’assistenza sanitaria pubblica senza esser strutturato nell’organizzazione aziendale, ed è uno strumento essenziale dell’organizzazione sanitaria pubblica, cui contribuisce assicurando certezza di tutela sanitaria, pur realizzandosi attraverso di lui un servizio sul territorio flessibile ed adottabile alle esigenze mutevoli della collettività. Ha, tra l’altro, possibilità di erogare e far erogare, promuovendo la cooperazione delle strutture di zona, interventi specifici a favore delle persone anziane e delle persone comunque “disabili”, in sede domiciliare e nelle residenze protette, può interagire con le strutture ospedaliere e servizi specifici pubblici e convenzionati prevedendo o prescrivendo ricoveri e accertamenti. Nell’ambito del servizio “strutturato” pubblico o privato (es. ospedaliero), il responsabile del servizio, e dunque il legittimato alla proposizione del ricorso per Amministrazione di sostegno, va indicato in concreto in colui che ha responsabilità di indirizzo della terapia o della assistenza specifica richiesta al servizio a favore di uno o più beneficiari, coordinando eventualmente l’attività di terze persone diversamente qualificate (medici, operatori sanitari, assistenti sociali, psicologi) unicamente incaricate di singole attività o atti esecutivi del servizio sulla base di programma da essi non dipendente.

Quanto all’obbligo giuridico che l’articolo 406, comma 3, cc pone a carico dei responsabili del Servizio sanitario e sociale direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, esso va inquadrato nell’impostazione solidaristica della normativa, che prevede, in adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale che, in via sussidiaria rispetto all’intervento o alla richiesta della persona interessata, e in mancanza di intervento adeguato dei componenti la famiglia, gravi su coloro che seguono dal punto di vista terapeutico o sociale la persona in disagio. L’intervento è finalizzato a mettere in condizione il disabile di superare o comunque ridurre o non aggravare le limitazioni conseguenti a infermità o menomazioni. Ciò è possibile, almeno tendenzialmente e culturalmente, utilizzando l’Amministrazione di sostegno e, in conseguenza, promuovendo il ricorso per la nomina di un Amministratore di sostegno.

La norma, tuttavia, lascia intravedere la permanenza di una discrezionalità valutativa da parte dei responsabili dei Servizi in relazione alle condizioni del beneficiario: in particolare, tali soggetti saranno chiamati ad accertare la esistenza o meno di una rete privata e di un adeguato progetto condiviso di sostegno, anche non abbisognevole di una validazione per effetto di un provvedimento del giudice tutelare, cui partecipi il beneficiario come oggetto di cura, assistenza ed accudimento, assieme ai familiari, al volontariato ed agli stessi Servizi socio-sanitari. Solo in mancanza di esso, o in caso di sua ritenuta inadeguatezza i responsabili dei Servizi di cura ed assistenza “sono tenuti” a proporre al giudice tutelare il ricorso.

Sempre nella logica della sussidiarietà e del principio di responsabilità, sotto tale profilo va stigmatizzata la prassi per cui, tali soggetti, anziché ricorrere in primis al giudice tutelare optino per la scelta più semplice e deresponsabilizzate, di “fornire notizie” della necessità di ricorso per Amministrazione di sostegno al pubblico ministero, scelta che non si giustifica soprattutto nell’ottica della necessaria rapidità del procedimento. Ed infatti, il pubblico ministero, a fronte “dell’informativa”, normalmente, potrà: richiedere opportuni approfondimenti agli stessi o ad altri responsabili socio-sanitari (che nel percorso solidaristico di sostegno dovrebbero concorrere alla progettualità); ricorrere a consulenti esterni, oppure ricorrere egli stesso al giudice tutelare, facendo “trasmigrare” in modo acritico la segnalazione dei Servizi sanitari, che diventerebbe il contenuto medesimo del ricorso del soggetto pubblico.

7. Cenni sulla difesa tecnica nel procedimento di Amministrazione di sostegno

Quello della necessità o meno, (rectius, della opportunità) della difesa tecnica è un problema dibattuto nella prassi.

Punto di partenza per ogni valutazione è la constatazione per cui il procedimento di Amministrazione di sostegno è ispirato alla massima semplificazione e alla non onerosità. La struttura del procedimento è deformalizzata e semplificata, improntandosi a principi di massima rapidità, semplificazione, non onerosità, sburocratizzazione, elasticità, e servizio alla persona, tutti ricavabili dal complesso delle disposizioni procedimentali, dalla funzione sostanziale dell’istituto, ed espressione di principi di valenza costituzionale (artt. 2-3 Cost.), atteso che lo stesso è volto ad espandere, e mai a comprimere le potenzialità e le capacità del beneficiario.

Ciò posto, l’esigenza pratica nella gestione delle procedura, è senza dubbio quella di non creare in via interpretativa difficoltà ed ostacoli formali ed economici all’utilizzo di questo strumento; sotto tale aspetto, è utile ricordare che nessuna corretta interpretazione della legge n. 6/2004 prevede la necessità che il ricorso venga presentato attraverso un procuratore o con il ministero di un avvocato; ciò significa, in altri termini che non è vietata, anzi risultando talvolta utile, l’assistenza di un tecnico (in primis di un avvocato) “partecipe”, che possa redigere il ricorso valorizzando le possibilità di un progetto di sostegno adeguato e condiviso, ma non è invece possibile mutuare dalle questioni e dalle soluzioni offerte dalla giurisprudenza in relazione al procedimento di interdizione la logica di una risposta a favore dell’obbligatorietà della difesa tecnica. Tale considerazione si basa su una serie di osservazioni di natura sostanziale e processuale, che possono così essere sintetizzate: in primo luogo, deve osservarsi che il procedimento per Amministrazione di sostegno è instaurato con ricorso al giudice tutelare, e che nessun ricorso promosso dinanzi a tale figura va necessariamente presentato a mezzo di difesa tecnica, ed ancora, va ricordato che il procedimento non ha natura contenziosa, a differenza di quello di interdizione, perché realizza lo scopo fondamentale della legge n. 6/2004, che non è affatto quello di vietare, interdire, dichiarare incapaci di provvedere ai propri interessi (articolo 414 cc), ma, all’opposto, lo scopo è quello di «tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’esercizio delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente» (art. 1 legge n. 6/2004), ragione per cui non esistono, in astratto, posizioni processuali configgenti tra loro tali da far ritenere sussistente la natura contenziosa del procedimento. Anche quando il giudice tutelare adotti, nel contesto del decreto, provvedimenti “limitanti” della capacità di agire del beneficiario ex articolo 411, comma 3, cc, essi sono giuridicamente e culturalmente funzionali non a “vietarne” a tempo indeterminato l’esercizio, ma a recuperare – anche attraverso la rappresentanza gestionale, tendenzialmente sempre provvisoria, per atti giuridici – le più ampie possibilità esistenziali e di espressione e realizzazione delle aspirazioni e dei bisogni della persona. Ma vi è di più. Il procedimento è destinato a concludersi con un decreto che per natura è revocabile, modificabile, o integrabile, tanto su istanza di parte che d’ufficio, e non certo con sentenza definitiva, e tanto perché il decreto si conforma costantemente, adattandosi, alla evoluzione della condizione umana, sociale, personale e patrimoniale del beneficiario, al modificarsi delle sue esigenze e necessità, in un progetto di sostegno esistenziale, che ne rappresenta sempre l’oggetto e la funzione. Inoltre, la promozione del ricorso da parte dei “responsabili dei servizi sociali e sanitari” di cui all’articolo 406, comma 3, cc, è sostanzialmente inconciliabile con la tesi per cui sarebbe necessario un difensore tecnico per presentare il ricorso. Infine, la previsione processuale di rilevanti poteri “ufficiosi” di intervento del giudice tutelare, che vanno dalla modifica o integrazione delle decisioni assunte con il decreto (408,  comma 4, cc), alla dichiarazione di cessazione per sopravvenuta inidoneità dell’Amministrazione di sostegno (413, comma 4, cc), alla proroga del termine dell’Amministrazione di sostegno (405, comma 6, cc), sino all’adozione di provvedimenti d’urgenza (art. 405, comma 4, cc) anche prima dell’ascolto del beneficiario, contrasta insanabilmente con l’obbligatorietà della difesa tecnica, evidenziando come l’Ufficio del Giudice, proprio per l’assenza del carattere contraddittorio del giudizio, e in relazione alle sue specifiche finalità, rappresenta ex se la maggiore tutela degli interessi del beneficiario, senza costringere gli attori ed i protagonisti del procedimento a forme di rappresentanza processuale. Da ultimo va sottolineata la previsione per cui il ricorso per Amministrazione di sostegno può essere “presentato anche dal beneficiario direttamente”; è incontestabile che l’espressione direttamente equivale a personalmente, e dunque senza ausilio di difesa tecnica[14].

Ciò detto, se queste sono le finalità e le caratteristiche proprie dell’istituto, in ossequio ad una evidente rivoluzione giuridico-culturale in materia di tutela dell’incapace, non sembra avere alcuna rilevanza contraria il richiamo procedimentale dell’articolo 720 bis cpc all’applicabilità degli articoli 712 - 713 - 716, che è espressamente limitato dalla clausola di riserva «in quanto compatibili», clausola che dunque rende incompatibili le disposizioni che obbligano alla difesa tecnica.

Sulla base di tali considerazioni, deve dunque constatarsi l’assoluta incompatibilità del modus operandi culturalmente e giuridicamente rivoluzionario dell’Amministrazione di sostegno (che mira ad affiancare il beneficiario sotto il profilo delle possibilità di agire e non ad annullarlo nelle sue relazioni economico-giuridiche con un giudizio totalizzante di incapacità di agire) con la previsione dell’obbligo di difesa tecnica per il ricorrente. La progettualità esistenziale, che è il vero oggetto della rivoluzione culturale in materia di Amministrazione di sostegno, resta garantita dalla figura e dalla professionalità del Giudice della Persona il quale, nel garantire nel corso del procedimento, una “progettualità condivisa” in favore del beneficiario, ne tutela la dignità e la qualità della vita, tanto nella fase processuale istruttoria, quanto nella lunga gestione della procedura, successiva alla sua apertura, in cui i poteri officiosi del giudice tutelare non hanno la funzione di predisporre soluzione alcuna a controversie a parti contrapposte (abbisognevoli di difesa tecnica), ma raggiungono lo scopo di modulare lo strumento di tutela alle modificate e fluttuanti esigenze e condizioni di vita del beneficiario.

Conclusioni

La legge sull'Amministrazione di sostegno ha imposto un progressivo e radicale aggiornamento culturale ed umano, a carattere necessariamente interdisciplinare, fondamentale per superare la stretta e limitante “logica delle competenze” professionali e settoriali, delle conoscenze separate e degli ambiti operativi distinti, in favore di una visione globale della persona destinataria di questa speciale forma di tutela. È dunque necessario che tutti i soggetti protagonisti di questa procedimento, in tutte le sue fasi, e sin dal momento in cui la vita del beneficiario entra nella cognizione del giudice tutelare, si ispirino a modelli di interazione ed integrazione solidaristica, ritenuta sussidiariamente necessaria per “condividere”, a fianco del beneficiario, un progetto “minimale” di sostegno che superi o riduca le disuguaglianze e gli ostacoli indotti dalla fragilità, in ossequio ai principi costituzionali scolpiti negli articoli 2 e 3.

La rivoluzione giuridico-culturale che l’istituto ha portato in sé, con un sostanziale e forte capovolgimento giuridico della impostazione concettuale che presiede alle forme di tutela degli incapaci, si è rivelata una sfida quotidiana per la professionalità del giudice tutelare, identificato sempre più come Giudice della Persona, e chiamato, nella molteplicità delle sue funzioni, ad essere arbitro e coordinatore di un sistema fluido che richiede altrettanto specifiche dinamiche di approccio per garantirne l’utilità ed il corretto funzionamento.

E così, la pratica quotidiana negli Uffici Tutele ha imposto la predisposizione di concetti e modalità operative che si ispirano a principi ben definiti, sintetizzabili nelle considerazioni sin qui espresse: in primo luogo il personalismo, il solidarismo e la sussidiarietà funzionale, tre concetti di diretta derivazione normativa costituzionale che caratterizzano la capacità di decidere del giudice tutelare, ed il contenuto stesso delle sue statuizioni. Principi che impongono una logica, quella dell’affiancamento e dell’ascolto, ed un metodo, quello della strumentalità funzionale e della interazione tra soggetti pubblici e privati

Occorre tenere sempre a mente che “le funzioni della vita quotidiana”, i bisogni, le aspirazioni e gli interessi del beneficiario sono necessariamente più ampi rispetto agli atti giuridici che lo stesso deve o può compiere anche attraverso l’Amministrazione di sostegno; così come la “possibilità di agire” è più ampia rispetto alla “capacità di agire” in relazione agli atti giuridici. Ai relativi limiti devono sovvenire gli interventi di sostegno dell’Amministratore di sostegno e di tutti coloro che sono coinvolti nel progetto di sostegno, in una logica operativa che si ispiri, come già ricordato alla modulabilità ed alla flessibilità dell’agire.

Ogni buon Giudice della Persona ha bene a mente che il decreto di apertura dell’Amministrazione di sostegno è necessariamente un provvedimento aperto, temporaneo, modificabile, progressivo, e dunque sostanzialmente ed ontologicamente “imperfetto”, in quanto periodicamente rivedibile in relazione all'evoluzione delle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario; in altri termini, la logica del rebus sic stantibus informa la natura e la funzione stessa dello strumento di tutela. Ed ogni decreto di apertura è correttamente ispirato alla logica del progetto (di sostegno) e non del giudizio sulla capacità di agire, che ne rappresenta soltanto un presupposto fattuale.

Trattasi dunque di una sfida culturale, giuridica e sociale, una sfida che dalla rivoluzione del linguaggio simbolico (da “demente” a “fragile”, da “incapace” a “meritevole di protezione”) consenta di ritenere chiaro che il progetto di sostegno è un progetto di crescita, di tutela e di riumanizzazione di situazioni in cui la dignità della vita sembra cedere il passo ad eventi che la possano mortificare.

[1] Oggi una facile interpretazione estensiva e sistematica ricomprende, in questa posizione di controllo sovraordinato, anche tutto il campo dell’Amministrazione di sostegno.

[2] Si veda, esemplificativamente, l’espressa previsione del terzo comma dell’art. 406 cc secondo cui «i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di Amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’art. 407…».

[3] E ciò anche al fine di richiedere, ex art. 407, comma 4, cc, eventuali modifiche del decreto/progetto di sostegno che potrebbero perfino valorizzare possibili insufficienze.

[4] In particolare la legge n. 328/2000 ed il dPR 4/10/2013 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 303 del 28/12/2013, che ha istituito – in adempimento della legge di ratifica della Convenzione di New York – legge n. 18/2009 – l’Osservatorio nazionale sulle disabilità.

[5] La norma testualmente recita: «sono tenuti a proporre al GT il ricorso (…)».

[6] L’art. 5, comma 1: «obbligo di favorire operativamente “l’attuazione del principio di sussidiarietà”». - L’art. 1, comma 5: «alla gestione ed all’offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, enti di patronato e altri soggetti privati. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali ha tra gli scopi anche la promozione e la solidarietà sociale, con valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e della solidarietà organizzata». - L’art. 1, comma 3: «la programmazione e l’organizzazione del sistema integrato dei servizi sociali compete agli enti locali, alle Regioni ed allo Stato ai sensi del d.lgs n. 112 del ’98 e della presente legge secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione… responsabilità ed unicità dell’amministrazione…» - L’art. 14, comma 1, che finalizza la sussidiarietà come strumento per realizzare «la piena integrazione delle persone disabili… nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale o del lavoro...” per realizzare “un progetto individuale”» (il progetto di sostegno, a prescindere e prima ancora della sua eventuale giuridicizzazione con il decreto di cui all’art. 405 cc). E va infine sottolineato che, anche in relazione ai rapporti Stato - Regione ed enti pubblici, «le disposizioni della presente legge costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione» (art. 1, comma 7, della legge n. 328/2000). Ma è direttamente fondamentale, in relazione alla sussidiarietà degli interventi, anche la valorizzazione dell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione che stabilisce il principio di sussidiarietà quale bussola del rapporto tra iniziativa dei privati ed intervento pubblico.

[7] S. Trentanovi, Amministrazione di sostegno. Schema di una lettura attualizzata, reperibile all’indirizzo www.personaedanno.it/articolo/amministrazione-di-sostegno-schema-di-una-lettura-attualizzata--sergio-trentanovi.

[8] S. Trentanovi, cit.

[9] Va sottolineato che il concetto di “capacità legale” della Convenzione di New York e quello di “capacità di agire”, di cui all'art. 2 del cc, sono pienamente equivalenti.

[10] Questo divieto si specifica all’art. 4, in particolare, negli impegni: a) ad adottare tutte le misure appropriate, legislative amministrative ed altre misure per realizzare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione; b) ad adottare tutte le misure appropriate, compresa la legislazione, per modificare o abrogare qualsiasi legge esistente, regolamento, uso e pratica che costituisca discriminazione nei confronti di persone con disabilità; d) ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione e ad assicurare che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione; e) ad adottare tutte le misure appropriate per eliminare la discriminazione sulla base della disabilità da parte di ogni persona organizzazione o impresa privata.

[11] Ed infatti, l’art. 409 cc stabilisce proprio che il beneficiario conservi la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore.

[12] È bene ricordare che l’«unica ipotesi di intervento necessario e, in via generale, legittimato a prescindere dall'espressione del consenso, è dunque quella della “situazione d'urgenza”, che legittima il “procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata” (art. 8 Conv. di Oviedo).

[13] Articoli 1, legge n. 6/2004, 404, 406, comma 3, cc.

[14] La dottrina ha ritenuto non corretto contestare tale ultima affermazione con l’osservazione secondo cui la delicatezza del procedimento, incidente sullo status della persona, esigerebbe un difensore tecnico. Si è rilevato, infatti, che tale osservazione potrebbe avere un qualche senso solo se nel sistema fosse prevista, almeno per il procedimento “contenzioso” di interdizione, una difesa d’ufficio “necessaria” per l’interdicendo.