Magistratura democratica

Le tecniche per gestire in anticipo la crisi

di Riccardo Ranalli
Il contributo, nel ripercorrere le finalità degli assetti organizzativi adeguati a intercettare e gestire tempestivamente la crisi, ne individua i pilastri sui quali essi debbono poggiare e i relativi output. Completa l’intervento una disamina dei flussi informativi che l’organo di controllo deve richiedere per adempiere agli obblighi che gli impone la riforma.

1. L’individuazione delle cause della crisi dell’impresa quale presupposto indispensabile per la sua gestione

La vita delle imprese è caratterizzata da fasi successive associate alla relativa produzione. Sono le fasi di introduzione (start-up), di sviluppo, di maturità e di declino. La crisi è la diretta conseguenza di quest’ultima fase e, ancorché venga percepita solo sotto il profilo finanziario (e in tal senso la legge delega e il codice della crisi lo sottolineano), le sue cause sono però, il più delle volte, da ricondursi a eventi industriali ed economici che hanno cagionato il declino.

È unanimemente riconosciuto che la tempestività nella rilevazione dello stato di crisi sia uno dei principali presupposti del successo della ristrutturazione. È, però, necessario collocare correttamente l’impresa nella fase che essa sta attraversando; diversamente, non si riuscirebbe a individuare correttamente la causa del fenomeno osservato.

Gli strumenti di allerta dovrebbero essere idonei a intercettare la crisi dell’impresa prima dell’emersione dell’insolvenza e comunque in un momento in cui essa sia ancora gestibile. A tal riguardo, occorre osservare che, mentre vi sono univoci segnali dello stato di insolvenza (ad esempio, la reiterata incapacità di adempimento degli oneri previdenziali e dei debiti erariali o la pluralità di decreti ingiuntivi da parte di alcuni fornitori), non sono altrettanto univoci i segnali di uno stato di crisi antecedente all’insolvenza. Da una parte, il ricorso alla segnalazione dell’omissione di versamenti erariali e contributivi non consente di intercettare con la necessaria tempestività situazioni di crisi. La natura privilegiata del credito ha portato il creditore pubblico a un approCCIIo di inerte silenzio, del quale il debitore in crisi approfitta. Ed è un dato di fatto che, nel nostro Paese, il privilegio dello Stato sia stato ampliato nel 2011, quando maggiore era la pressione sul debito pubblico, nella consapevolezza dell’inefficienza della pubblica amministrazione nella tutela dei propri interessi creditori. Un dato di fatto è che, quando un debito erariale da partite correnti resta insoddisfatto, l’impresa ha già superato la fase di twilight.

La tempestiva rilevazione della crisi presuppone una continua valutazione del rischio di crisi, sulla falsariga di quanto già previsto dal comma 2 dell’art. 6 d.lgs n. 175/2016. Si tratta, allora, di individuare strumenti atti a valutare in continuo lo stato di salute dell’impresa.

In sostanza, si tratterebbe dell’individuazione e della misurazione dei fattori di rischio (risk assessment) ai quali è soggetta l’impresa e della misurazione del loro impatto sulla continuità della stessa. Ogni rigorosa misurazione di rischio presuppone la stima di due fattori: 1) l’entità dell’impatto del rischio, vale a dire le conseguenze che derivano dall’avveramento del fattore di rischio che, nel caso di specie, devono essere tradotte in termini di effetto sulle dimensioni dei flussi di cassa al servizio del debito; 2) le probabilità di accadimento dell’evento.

La valutazione e gestione del rischio di crisi è rimessa all’impresa attraverso gli assetti organizzativi dei quali l’art. 2086 cc chiede l’istituzione.

Al riguardo, pare opportuno distinguere tra l’allerta, che sorge nel momento in cui si manifestano i fondati indizi di una crisi rilevante ai sensi del comma 1 dell’art. 13, e la pre-allerta, riferita a una crisi precoce, che può essere gestita internamente all’impresa.

La valutazione del rischio di crisi richiede, peraltro, l’individuazione di livelli di pre-allerta che, consentendo l’apprezzamento del rischio, determinano il grado di probabilità del suo avveramento. Come può avere luogo tale valutazione? Nelle imprese più evolute (banche e assicurazioni), già da tempo sono stati introdotti – accanto ai limiti di allerta – “soft limits” volti a intercettare l’avvicinamento a una soglia di attenzione. Si tratta di introdurli nella generalità delle imprese. Essi costituirebbero uno strumento che integrerebbe l’assetto organizzativo.

È questo il riferimento degli “adeguati assetti” che sono volti all’individuazione e alla gestione in anticipo della crisi d’impresa.

2. Gli adeguati assetti organizzativi nell’ottica della gestione anticipata della crisi

Gli «obblighi organizzativi», per espressa previsione dell’art. 12, comma 1, CCIII, costituiscono strumenti di allerta e sono posti a carico dell’imprenditore. Come si diceva poc’anzi, il presidio è inequivocabilmente volto a consentire la tempestiva individuazione di uno stato di crisi al fine della sua gestione. Il che deve essere realizzato in guisa tale da consentire in continuo la valutazione della sostenibilità del debito sotto molteplici profili: quello della tempestiva individuazione della crisi (art. 2086 cc), quello del permanere della continuità aziendale (art. 2086 cc), quello della valutazione in continuo dell’equilibrio finanziario alla luce dell’andamento aziendale (art. 14 CCII).

Si tratta di presidi per i quali si deve comunque ritenere imprescindibile il principio della proporzionalità alle dimensioni e alla complessità dell’impresa, ma la gestione anticipata della crisi non ammette l’inerzia nella loro efficace adozione. Inerzia che non solo comporterebbe l’assunzione di responsabilità da parte degli organi sociali, ma pregiudicherebbe la percorribilità delle misure di composizione assistita della crisi, con la conseguenza di un esito nefasto delle stesse. Basti infatti pensare al riconoscimento del raddoppio del termine della proroga di cui all’art. 44 CCII, essenziale per l’adozione di uno strumento come l’accordo di ristrutturazione, che necessita di una trattativa con i creditori, nella pratica, complessa e lunga. 

Come anticipato, l’organo amministrativo è chiamato a valutare costantemente, nel caso assumendo idonee iniziative, se l’assetto organizzativo dell’impresa sia adeguato, se sussista l’«equilibrio economico finanziario» e quale sia il prevedibile andamento della gestione (art. 14, comma 1, CCII).

Al riguardo, è legittimo domandarsi se l’equilibrio economico finanziario sia un presupposto necessario e sufficiente per escludere uno stato di crisi anche solo prospettico. È certo che il disequilibrio finanziario costituisce un rischio rilevante di crisi e ne accresce significativamente la probabilità. Ma è altrettanto vero che una situazione non equilibrata sotto il profilo economico non conduce necessariamente a una situazione di crisi (dimostrazione patente sono state le principali realtà della new economy, che per anni hanno subìto perdite ingenti prima di divenire campioni di redditività) e, d’altra parte, la produzione di risultati netti positivi non è sufficiente per escludere la presenza di una crisi. Infatti, se l’impresa producesse flussi di cassa al servizio del debito positivi, ma questi fossero, nella loro entità, insufficienti al sostegno dello stesso, essa non sarebbe comunque prognosticamente in grado di fronteggiare la massa debitoria e, prima o poi, verserebbe in stato di insolvenza.

Con queste precisazioni, si stenterebbe a comprendere il riferimento, contenuto nel cennato comma 1 dell’art. 14 CCII, al profilo economico dell’equilibrio accanto a quello finanziario. Né si comprende perché, allorquando viene affrontato all’art. 56 CCII il piano di risanamento (al quale è conformato quello dell’AdR), ci si limiti al mero riequilibrio finanziario senza più menzionare quello economico. Per il concordato preventivo, ancorché all’art. 87 CCII il piano di concordato parli solo di riequilibrio finanziario, il precedente art. 84, con riferimento alle sue finalità, richiede che in caso di continuità aziendale il piano sia funzionale ad assicurare anche il rispristino dell’equilibrio economico e non solo di quello finanziario.

L’apparente contrasto in realtà non è tale.

I flussi di cassa al servizio del debito sono, infatti, una derivata dei flussi economici e pertanto il riferimento ad essi non è improprio. Anzi, il fatto che il legislatore lo abbia rimarcato non è casuale, presentando il flusso economico, in quanto elemento genetico dei flussi finanziari, un grado di controllabilità più elevato rispetto ai secondi.

Ci si deve soffermare anche sull’utilizzo del lemma «equilibrio», e ritenersi che esso stia a significare che i flussi “economico-finanziari” devono essere equilibrati rispetto al debito e, pertanto, atti a servire adeguatamente quest’ultimo consentendone la sostenibilità. È l’incapacità di produrre flussi di cassa al servizio del debito in misura sufficiente a sostenerlo il primo indicatore dell’approssimarsi di uno stato di crisi.

Non va infine sottaciuto che la norma, muovendo dall’art. 14 della legge delega, affianchi al requisito dell’equilibrio economico finanziario quello della continuità aziendale. Principale sintomo di discontinuità aziendale è il patrimonio netto negativo, situazione che si verifica allorquando il valore attuale dei flussi (economico-finanziari) di piano (che corrisponde al valore d’uso degli asset) è inferiore al debito finanziario. Ebbene, tale è una situazione sintomatica della insostenibilità finanziaria del debito. Per intercettarla, si tratterebbe solo di determinare i flussi in questione mediante un piano adeguatamente costruito.

Minimo comun denominatore della continuità aziendale e dell’equilibrio economico finanziario è, quindi, il piano. È questo l’elemento informativo che consente, nel contempo, il monitoraggio del prevedibile andamento aziendale, al quale fa riferimento l’art. 14 citato, e la possibilità di intercettare con la massima tempestività e affidabilità la situazione di crisi e quella di discontinuità aziendale. Esso costituisce un presupposto informativo sempre necessario per consentire all’imprenditore di agire in via informata e in modo coerente con la situazione dell’impresa.

I presidi in questione costituiscono, prima ancora che un obbligo dell’imprenditore, un’opportunità. Infatti essi, per espressa previsione del legislatore delegato, sono uno strumento di allerta della crisi, in difetto del quale opereranno solo le segnalazioni dei creditori qualificati e gli indici di cui all’art. 13 CCII elaborati con cadenza triennale dal Cndcec.

Si aggiunga che la procedura assistita dall’Ocri è scandita da tempi stringenti. Se, nel momento in cui si attivassero gli indici di allerta, l’impresa non disponesse già di un piano industriale affidabile, esso difficilmente potrà essere confezionato nella rigida e ravvicinata scansione temporale della procedura e l’esito della stessa rischierà di essere infausto.

Qualora si riscontrasse la violazione dei limiti previsti per gli indici individuati dal Cndcec e, per tale solo fatto, l’organo di controllo o il revisore (per fruire dell’esonero dalla responsabilità solidale con gli amministratori di cui al comma 3 dell’art. 14 CCII) ritenessero di darne segnalazione all’Ocri, l’impresa ben potrà, in sede di audizione avanti al Collegio, esibire il piano dal quale emerge che almeno per i successivi sei mesi (art. 13, comma 1) essa è in grado di sostenere l’indebitamento. La presenza di un piano sarà lo strumento che consentirà al Collegio di disporre motivatamente l’archiviazione, ai sensi del comma 3 dell’art. 18, delle segnalazioni ricevute in assenza di fondati indizi della crisi.

Ma i motivi di opportunità per disporre di un piano correttamente costruito non si fermano qui. Prima dell’allerta della crisi, in particolare se intesa come insolvenza prospettica a sei mesi, vi è l’ampia twilight zone (quella della preallerta) costituita dall’early warning,alla quale dovrebbero essere più utilmente rivolte le misure organizzative atte a valutare l’effettivo andamento della gestione. I vantaggi dell’early warning sono, infatti, evidenti.

Nella twilight zone, sino al momento della segnalazione all’Ocri, la gestione della crisi rimane saldamente nelle mani del solo debitore, il quale può avvalersi dei propri advisor. Se l’imprenditore intercetta tempestivamente la crisi prima che essa si manifesti negli indicatori di allerta dell’art. 13 CCII, avrà anche avuto modo di attivare le negoziazioni per la sua risoluzione con i creditori interessati. Qualora queste si fossero arenate (il che non è infrequente, in particolare se i tavoli bancari vengono aperti con eccessiva tempestività) o procedessero troppo a rilento e si fosse intanto giunti a infrangere la soglia dei sei mesi di cui all’art. 13 CCII, l’imprenditore potrà avvalersi della negoziazione assistita per accelerare la conclusione di un percorso già intrapreso. Con l’attivazione dell’Ocri, appare infatti evidente anche ai creditori coinvolti nelle trattative che il processo negoziale dovrà concludersi nei tempi stringenti dell’Ocri o, al più tardi, entro quelli fissati dal tribunale ai sensi dell’art. 44 CCII.

In altre parole, solo se l’imprenditore adotta presidi organizzativi interni atti a intercettare la twilight zone, l’intervento dell’Ocri, da potenziale minaccia, diventa un’opportunità concreta, a condizione che l’impresa vi arrivi preparata.

3. L’articolazione dei doveri del debitore ai fini della tempestiva rilevazione della crisi

Per affrontare il tema in modo più sistematico e per riempiere di significati l’astratta nozione degli assetti organizzativi introdotti dall’art. 2086 cc, occorre domandarsi a che cosa essi siano funzionali, quale sia l’output che ci si deve attendere e come possa, in concreto, essere raggiunto.

Come si diceva, la finalità ultima degli “adeguati assetti” è quella di intercettare in continuo i fondati indizi di crisi con la tempestività necessaria per attivare, non oltre tre mesi, una domanda di accesso all’Ocri a una procedura di composizione assistita della crisi, ovvero entro sei mesi la domanda di accesso a una delle procedure regolate dal CCII (art. 24, comma 1).

Non è, però, solo alla finalità ultima che occorre riferirsi. L’assetto organizzativo è adeguato se risponde ai seguenti cinque specifici obblighi previsti dal quadro normativo di riferimento:

a)      la stima in continuo del prevedibile andamento aziendale, quale emerge dal comma 1 dell’art. 14, in quanto funzionale alle restanti valutazioni;

b)      la valutazione della sostenibilità del debito in via prospettica, che come tale può essere assicurata solo da una valutazione di capacità dei futuri flussi liberi al servizio del debito di sostenere quest’ultimo, tenendo conto del momento in cui deve essere pagato (art. 2, lett. a e art. 13, comma 1);

c)       la valutazione, anch’essa in continuo, dell’equilibrio economico finanziario espressamente richiesta dallo stesso art. 14, comma 1;

d)      la valutazione in continuo della continuità aziendale nell’esercizio in corso e, comunque, con un orizzonte temporale minimo di sei mesi (art. 13, comma 1);

e)       il monitoraggio in continuo della situazione debitoria al fine di escludere la presenza di «ritardi nei pagamenti reiterati e significativi» (art. 13, comma 1).

La tipologia dell’output richiesto non può che essere proporzionata alle dimensioni e alla complessità dell’impresa.

Per le realtà più complesse, si tratterà del piano economico finanziario suscettibile di verifica in continuo attraverso milestone tendenzialmente trimestrali, quand’anche per le realtà di rilevanti dimensioni (la grande impresa Ue) le misure premiali richiedano l’attivazione delle procedure di regolazione della crisi di cui all’art. 37 entro sei mesi dall’emersione degli indici della stessa.

Per le realtà di dimensioni o complessità intermedia, l’output minimo potrebbe essere un budget e il correlato piano di tesoreria. L’orizzonte temporale del budget non dovrà essere inferiore a sei mesi; in caso contrario, esso dovrà essere esteso quanto meno ai sei mesi successivi.

Per le realtà più piccole, l’output potrà essere costituito dalla comparazione (normalizzata) dell’andamento aziendale con il corrispondente periodo del precedente esercizio, integrata da una previsione inerziale.

Quanto, invece, a come debba essere raggiunto l’output, occorreosservare che le cennate cinque finalità sono legate da un comune fil rouge costituito dall’implementazione di un insieme di funzioni (ovviamente nel rispetto dell’imprescindibile principio della proporzionalità alle dimensioni e complessità dell’impresa), regole interne (costituite da policy, regolamenti, procedure e regole di dettaglio) e strumenti, principalmente informatici. Essi verranno affrontati più oltre.

4. La sostenibilità del debito e la valutazione ex ante della sostenibilità delle decisioni

Con un approccio ex ante, il debito è sostenibile quando i flussi di cassa libera al servizio dello stesso ne consentono il pagamento unitamente ai relativi interessi.

Si tratta di un concetto apparentemente semplice ma che, a meglio vedere, presenta alcuni profili di incertezza o – quanto meno – di difficoltà metodologica: qual è il debito che deve essere servito ed a quali scadenze? Quali sono i flussi liberi al servizio del debito?

Con riferimento al debito che deve essere servito, esso è in primo luogo costituito dal debito finanziario. Invero non si tratta dell’intero debito finanziario, ma solo di quello che deve ragionevolmente rientrare in un futuro prossimo. Tale, ad esempio, non è il debito autoliquidante in quanto sostenuto dal ciclo attivo della fatturazione, sempre che essa non sia attesa in diminuzione; non lo è nemmeno un’apertura di credito di cassa in assenza di elementi che inducano a prevedere una diminuzione del merito di credito dell’impresa – per entrambi rileveranno, in assenza di anomalie, i soli interessi in via di maturazione. Oltre agli interessi, il debito da servire è costituito dalle rate dei finanziamenti a medio-lungo termine. È peraltro possibile che siano stati convenuti rimborsi “bullet” o siano in essere mutui “balloon”:in tali frangenti, occorre domandarsi se siano in concreto praticabili rifinanziamento e riscadenziamento del debito prima del loro pagamento, ciò avendo riguardo al merito di credito.

Il debito che deve essere servito non si limita solo al debito finanziario, ma ricomprende anche i debiti scaduti (overdue), sia quelli commerciali che quelli di natura diversa (ad esempio tributari e previdenziali).

A tal riguardo occorre formulare una precisazione fondamentale: rilevano i soli scaduti commerciali che superino i limiti della fisiologia. Non può, infatti, trascurarsi il fatto che il sistema Paese italiano comporta, muovendo sin dal debitore pubblico, una costante e usuale violazione dei termini contrattuali di pagamento. A nulla sono servite le disposizioni che, nel tempo, si sono succedute per rendere più virtuoso il ciclo dei pagamenti[1]. Si tratta, in buona sostanza, di debiti commerciali il cui ritardo nel pagamento si colloca all’interno della sistematica violazione dei termini contrattuali tacitamente accettata dai creditori: lo scaduto è fisiologico quando il creditore non solo non mette in mora il debitore, ma spesso non ne sollecita nemmeno il pagamento e non pretende interessi compensativi o moratori, in forma esplicita o implicita (quali gli addebiti per spese di varia natura). Si tratta di situazioni di tolleranza da parte dei creditori commerciali nell’accettare il differimento del pagamento oltre i termini contrattuali, per le quali è stato appunto introdotto il concetto di “scaduto fisiologico” al fine di distinguerlo da quello “patologico”. Rifarsi, pertanto, in modo rigoroso ai termini contrattuali comporterebbe uno scollamento con la realtà sistemica, con la rilevazione di un debito da servire superiore a quello effettivo.

Quanto invece ai flussi liberi al servizio del debito, si osserva che si tratta dei flussi finanziari che derivano dall’attività operativa al netto degli investimenti di mantenimento occorrenti e del pagamento degli oneri fiscali: essa si sostanzia, in termini aziendalistici, nel cd. Free Cash Flow from Operations (FCFO). La natura di flussi derivanti dalla gestione operativa giustifica l’esclusione dal calcolo del debito da servire di quello operativo corrente (e cioè non scaduto) in quanto i flussi in questione sono, infatti, già al netto dello stesso.

Il FCFO è una grandezza che, peraltro, necessita della stima delle variazioni di “capitale circolante netto” (CCN), grandezza che risente della corretta determinazione del ciclo di conversione in cassa dei flussi economici, a sua volta risultante dalla stima dei tempi di incasso dei crediti verso i clienti, di pagamento dei debiti verso i fornitori e di rigiro del magazzino.

Le difficoltà di una corretta declinazione finanziaria delle grandezze economiche dovrebbero fare propendere, nelle realtà meno strutturate e comunque in quelle che non dispongano di un affinato processo di budgeting, per il ricorso al “Net Operating Profit After Taxes” (NOPAT), corrispondente al risultato operativo al netto degli ammortamenti ridotto delle imposte sul risultato dell’esercizio. La differenza tra il FCFO e il NOPAT risiede nel fatto che il primo è costruito sui flussi finanziari mentre il secondo su quelli economici. Ebbene, questi ultimi sono assai più agevoli da stimare e, pertanto, accessibili anche dalle realtà meno strutturate. Il ricorso al NOPAT muove, infatti, dall’assunzione che gli investimenti di mantenimento siano pari agli ammortamenti e che le variazioni di CCN siano nulle. Si tratta di assunzioni che potrebbero comportare un’eccessiva semplificazione della realtà e, come tali, essere smentite dai fatti; è, però, questo un male necessario se si vuole evitare di rimanere intrappolati nella inestricabile selva delle stime rese inaffidabili da una complessità di calcolo non affrontabile da una piccola impresa.

Misurati così il debito che deve essere servito e i flussi al servizio dello stesso, per constatare la sostenibilità del primo si tratta solo più di compararlo con i secondi (il FCFO o il NOPAT), portando in conto il tasso di interesse implicito. Gli indici che derivano da tale comparazione consentono la valutazione diretta dello stato di salute dell’impresa.

Si tratta dell’indice cd. “Debt Service Coverage Ratio” (DSCR): riferito a un certo orizzonte temporale (ad esempio: 1 anno), esso corrisponderebbe al rapporto tra il FCFO (o il NOPAT) atteso nel periodo e il debito finanziario (in linea capitale e interessi) che deve essere pagato nello stesso.

Tale indice può essere così riprodotto:

“DSCR = FCFO (NOPAT) / (debito finanziario non autoliquidante x tasso di interesse)”.

Se il risultato dell’indice è almeno pari a 1, la situazione appare equilibrata.

5. La valutazione dell’equilibrio economico finanziario

Già si è detto dell’associazione dell’equilibrio economico a quello finanziario, e che è opinione di chi scrive che l’equilibrio debba essere, in primo luogo, finanziario. La dipendenza delle grandezze finanziarie da quelle economiche comporta però che, quanto meno in un orizzonte temporale di lungo termine, anche l’equilibrio economico non sia irrilevante ai fini della valutazione dello stato di salute dell’impresa.

L’equilibrio finanziario deve, infatti, essere un equilibrio stabile e non precario e, come tale, poggiare su un equilibrio economico (quanto meno in termini di margine operativo lordo). La mancata copertura del fabbisogno finanziario prospettico, impedendo la continuità aziendale, nega ab origine il raggiungimento in via prospettica di una situazione di equilibrio finanziario.

Quanto sopra non equivale però a dire che, una volta garantito l’equilibrio economico, il rischio di crisi d’impresa sia fugato. Non basterebbe, infatti, semplicemente dilatare a dismisura l’entità della nuova finanza sul solo presupposto di un equilibrio economico esistente, per consentire comunque l’espressione di una valutazione favorevole sull’equilibrio finanziario. Occorre, come ben sanno gli organi deliberanti delle banche, che lo stock del debito finanziario sia rimborsabile in un numero di anni coerente con il settore di attività (rilevano a tale riguardo, in particolare, la stabilità dei flussi e la durata del ciclo di vita dei prodotti).

L’esclusione di uno stato di crisi presuppone sempre la stabilità dell’equilibrio finanziario.

Ci si deve, a questo punto, domandare che cosa si debba intendere per “situazione di equilibrio finanziario stabile”. Un momento di utile riflessione può essere tratto dal disposto dell’art. 2467 cc, norma che – seppur a diverso fine e, precisamente, per escludere la postergazione dei finanziamenti erogati dai soci nelle società a responsabilità limitata e, per via del richiamo operato dall’art. 2497-quinquies cc, nei gruppi – declina il significato di equilibrio finanziario in termini di rapporto tra l’indebitamento e il patrimonio netto, con la precisazione che l’anomalia (e, quindi, la postergazione) del finanziamento può essere desunta dall’indice cd. di indebitamento (leverage) costituito dal rapporto tra i debiti finanziari e i mezzi propri.

Se è vero che la dottrina aziendalistica ha individuato misure di normalità, di attenzione e di criticità del rapporto di leverage, è altrettanto vero che non ha senso parlare di livelli assoluti di leva finanziaria, rivelatori di un indebitamento “eccessivo”. Infatti, a uno stesso rapporto di indebitamento può corrispondere una situazione di solidità finanziaria (ad esempio, per una realtà che produce rilevanti flussi di cassa e che è esposta a rischi contenuti) così come un disequilibrio finanziario (ad esempio, in presenza del rischio di drenaggio liquidità a fronte di rilevanti incertezze). Piena contezza di ciò pare aver avuto anche il legislatore nella misura in cui, diversamente dall’approccio assunto per l’emissione dei prestiti obbligazionari nell’art. 2412 cc, si è astenuto dal fissare un limite assoluto del livello di indebitamento. Anzi, l’art. 2467 cc prevede esplicitamente che, per la postergazione in esame, la valutazione debba essere svolta «in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società» – sottolineando così la valenza relativa dell’indicatore quantitativo – ed equipara a tale valutazione la sussistenza di un elemento qualitativo che, mirando ad acclarare se la società versa in una «situazione finanziaria (…) nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento», si traduce in una sorta di valutazione del merito di credito.

In sede di attestazione ai sensi del vigente (al momento della pubblicazione del presente contributo) art. 67 l.fall., circa l’idoneità del piano a consentire il riequilibrio finanziario, si è andata consolidando la tendenza a ricorrere al rapporto tra indebitamento e patrimonio netto e a quello tra la posizione finanziaria netta (PFN) e l’EBITDA («Earnings Before Interests, Taxes, Depreciation and Amortization»), al fine di apprezzare anche la capacità dell’impresa di produrre flussi di cassa.

Invero, occorre osservare che i multipli EV/EBITDA tratti dal mercato variano significativamente da settore a settore, e anche nell’ambito di uno stesso settore, al punto da impedire di individuare un benchmark di riferimento. Le cennate differenze dipendono dal fatto che l’EBITDA non corrisponde ai flussi liberi al servizio del debito, in quanto esso non tiene conto dei fabbisogni finanziari derivanti dalle imposte e dagli investimenti: tanto più sono rilevanti tali fabbisogni, tanto minori sono i flussi liberi al servizio del capitale proprio e di terzi e la capacità dell’EBITDA di rappresentarli. Manca, di conseguenza, un multiplo normale dell’EBITDA per pervenire al valore dell’azienda privo di indebitamento (EV). Pertanto, se è arduo determinare un valore oggettivo dell’azienda sulla base del solo EBITDA, diventa impraticabile l’individuazione di un rapporto di PFN/EBITDA universalmente accettabile, non fornendo quelli medi tratti dal mercato alcuna indicazione coerente con la situazione di fatto sull’intensità del fabbisogno finanziario derivante dagli investimenti di mantenimento, né sui fattori di rischio ai quali è esposta l’impresa.

Invero, sia il rapporto di leverage Debt/Equity che quello di PFN/EBITDA sono indicatori sintetici e statici che, per sorreggere la verifica del riequilibrio finanziario attraverso un percorso logico-argomentativo, dovrebbero essere analizzati alla luce delle specificità aziendali, nonché dei rischi ai quali i flussi reddituali e finanziari sono esposti, di modo che, per esempio, possa essere apprezzato il grado di elasticità dei costi rispetto ai ricavi (inversamente proporzionale ai rischi di perdite in caso di calo dei volumi).

Qual è, allora, il percorso che consente di esprimere, con un approccio controllabile, un giudizio sul raggiungimento, in via prognostica, del riequilibrio finanziario?

Per rispondere alla domanda, occorre preliminarmente osservare che, ai fini della valutazione dell’adeguatezza dell’equilibrio finanziario, l’entità dell’equity costituisce una grandezza fondamentale, a condizione che ad essa venga attribuita la funzione che le è propria secondo la lettura aziendalistica e, segnatamente, quella di cassa di assorbimento dei rischi di impresa propria della teoria di Modigliani e Miller[2]: si tratta dell’impostazione più evoluta, adottata anche nella determinazione dei requisiti patrimoniali di vigilanza delle banche e delle assicurazioni, come previsto dagli accordi cd. di Basilea e di Solvency II. Seguendo tale approccio, il concetto di equilibrio finanziario si identifica con quello – già esaminato – della sostenibilità del debito e presuppone la capacità dell’impresa di produrre flussi di cassa adeguati al servizio del debito finanziario, anche a valle di uno stress test, cioè in caso di avveramento di rischi d’impresa non remoti.

È necessaria, a questo punto, una considerazione: ogni variazione di capitale circolante netto incide sui flussi di cassa (generandone un assorbimento, in caso di crescita dei volumi, e un rilascio, nel caso di calo dei volumi medesimi); di tal che è assai opportuno che il sostegno del debito venga misurato in una situazione astratta di neutralità dei volumi e di crescita nulla del valore della produzione (situazione cd. di “steady state”, ovvero di stato stazionario al termine dell’orizzonte di piano). Tale soluzione, infatti, consente, da un lato, di evitare di alterare il dato a regime con grandezze volatili (quali sono le variazioni di CCN) e, sotto diverso profilo, di mantenere l’indebitamento finanziario autoliquidante unicamente attraverso il pagamento dei relativi interessi.

Sulla base delle considerazioni svolte, per la prova dell’equilibrio finanziario occorre stimare, a regime anche in un’ipotesi stressata dai rischi ai quali è esposta l’impresa, i flussi finanziari stazionari e liberi, e, pertanto, al netto degli investimenti di mero mantenimento dell’apparato produttivo, che residuano dopo il pagamento degli oneri finanziari sul debito autoliquidante e delle imposte sul reddito. Sulla base di tali flussi, adottando, in via figurata, un processo amortizing, è possibile agevolmente determinare in quanti anni avrebbe luogo il rimborso del restante debito finanziario sulla base di un tasso di interessi normale di mercato.

La valutazione è condotta attraverso la determinazione del numero degli anni in cui rientra il debito che deve essere servito. Tale numero di anni non deve essere superiore alla durata massima dei finanziamenti a medio-lungo termine per il settore specifico di attività in cui opera l’impresa. Ad esempio, una utility con ricavi e redditività constanti potrà avere un processo di ammortamento anche superiore a vent’anni; viceversa, una realtà operante in un segmento a elevata volatilità o soggetto a rapida evoluzione, come quelli legati al fashion o alle tecnologie più innovative, avrà una durata del processo di ammortamento assai più contenuta. Sotto questo profilo, il vissuto dell’impresa darà utili informazioni circa la durata massima dei finanziamenti accordabili dal sistema bancario.

In pratica, il NOPAT deve essere almeno pari alla teorica rata amortizing (per capitale e interesse) del debito finanziario netto diverso dall’autoliquidante – debito, quest’ultimo, che, in un’ipotesi di steady state, l’impresa è in grado di sostenere a tempo indeterminato. Al fine del calcolo della rata teorica in questione, occorre applicare un tasso di interesse di mercato e portare in conto una durata del processo di ammortamento adeguata al settore di appartenenza.

Tale indice può essere così riprodotto:

“NOPAT > (Debito finanziario non autoliquidante x tasso di interesse) / [1 - ( 1 + tasso di interesse)^ - numero anni]”.

Vale, al riguardo, l’avvertenza svolta al precedente paragrafo in ordine alla determinazione del debito da servire, che nella formula è espresso come “debito finanziario”.

L’approccio proposto consente di pervenire a risultati di sintesi controllabili rispetto alla mera rilevazione di un indicatore astratto, al quale non è possibile attribuire in modo univoco un intervallo di normalità.

Le considerazioni sopra svolte conducono a un approccio argomentato e controllabile dell’equilibrio finanziario anche nelle ipotesi più complesse. Ci si riferisce al fatto che spesso le banche, piuttosto che prevedere rimborsi del debito in tempi particolarmente lunghi che, per la loro atipicità, eccederebbero le facoltà deliberative degli organi deliberanti coinvolti, preferiscono prevedere una rata finale, cd. “bullet”, nell’ultimo anno dell’orizzonte di piano o strutture di finanziamenti balloon.

Come si può valutare sussistente l’equilibrio finanziario quando l’impresa non disponga prognosticamente di flussi finanziari atti a fronteggiare la rata balloon? Ebbene, la situazione finanziaria dovrebbe ritenersi equilibrata, con un approccio logico-argomentativo controllabile, anche in tali frangenti, se possa essere dedotta la capacità prognostica dell’impresa di destinare flussi di cassa in misura adeguata al servizio del debito senza pregiudicare la continuità aziendale, nella prospettiva del suo futuro riscadenziamento in un orizzonte temporale normale per il settore di attività in cui l’impresa opera.

6. La valutazione della continuità aziendale e i trigger event. Il quadro normativo di riferimento OIC 11 e ISAE 570

Occorre premettere che continuità aziendale e riequilibrio finanziario hanno radice comune, e comuni sono anche i relativi indicatori meno equivocabili.

Per comprendere la continuità aziendale non si può non partire da una constatazione. Vi sono realtà che, per anni, hanno generato solo perdite senza aver pregiudicato la propria continuità aziendale. Per contro, talvolta capita di vedere realtà la cui continuità aziendale è compromessa pur in presenza di una costanza di risultati netti positivi. Invero, l’equilibrio economico non è un presupposto né necessario né sufficiente per la continuità aziendale.

I principi di revisione («Principio di revisione internazionale ISA Italia n. 570» sulla continuità aziendale), le norme di comportamento del collegio sindacale (n. 11 e, in particolare, la norma n. 11.1 in materia di prevenzione ed emersione della crisi) e i principi contabili interni (OIC 6, in materia di ristrutturazione del debito) danno indicazioni utili per intercettare il pregiudizio al going concern, ma mai segnali “on/off”. Essi si limitano, infatti, a evidenziare elementi potenzialmente sintomatici di una crisi: i cd. “trigger event”. Il fatto che siano solo potenzialmente sintomatici emerge con evidenza dagli stessi principi nel momento in cui precisano che l’elenco riportato non è esaustivo, e che la presenza di uno o più̀ elementi individuati dai principi stessi come critici non significa necessariamente che esista un’incertezza significativa sul going concern.

In ogni caso, si tratta di elementi preminentemente qualitativi. Mancherebbe, comunque, la possibilità di desumere dai dati di bilancio indici quantitativi atti a rilevare situazioni tali da individuare con oggettività la discontinuità aziendale.

Qual è, allora, l’indice della discontinuità? A ben vedere, è solo l’insostenibilità prospettica del debito: un piano è fattibile, e la continuità aziendale sussiste, solo se il debito è sostenibile. In altre parole, è sufficiente la valutazione positiva della sostenibilità del debito per avere un indicatore univoco della continuità aziendale e della fattibilità del piano. Con un ulteriore importante vantaggio: l’insostenibilità del debito è suscettibile di accertamento in via anticipata rispetto al momento in cui il debito dovrà essere assolto.

Che sia la sostenibilità del debito a sorreggere la continuità aziendale e che ciò sia rilevante sia sotto il profilo finanziario sia sotto quello economico è dimostrato dalle operazioni virtuose di risanamento. Non è un caso che, nelle realtà quotate e in quelle controllate da intermediari finanziari, la crisi venga di norma intercettata con maggiore tempestività, in situazioni di mero pericolo di insolvenza e non in quelle di insolvenza in atto. La motivazione di ciò deve essere ricercata nella maggiore accuratezza dell’informativa finanziaria che caratterizza queste realtà.

Per comprendere le ragioni occorre muovere da una premessa: il valore economico del patrimonio netto, il cd. “equity value”, corrisponde alla somma algebrica dell’“enterprise value” (cioè il valore del complesso aziendale) e della “posizione finanziaria netta”.

Ampliando considerazioni già sopra svolte, diciamo subito che la posizione finanziaria netta deve comprendere non solo le partite finanziarie, ma anche i debiti scaduti (il cui ritardo di pagamento assume le caratteristiche della patologia), in quanto, se questi ultimi fossero stati assolti, l’indebitamento finanziario sarebbe stato superiore di un importo corrispondente.

L’enterprise value corrisponde, invece, al valore d’uso dell’azienda. È un valore determinato, secondo la tecnica aziendalistica, in misura corrispondente all’attualizzazione dei flussi di cassa prospettici, applicando un tasso che tenga implicitamente conto del premio per il rischio del loro avveramento. È questo il valore al quale i principi contabili (quelli internazionali, lo IAS 36, ma anche quelli interni, lo OIC 9) fanno riferimento per gli impairment test, laddove essi determinano il valore d’uso nel valore attuale dei flussi liberi che la gestione degli asset può generare e, in pratica, dei soli flussi che possono essere posti al servizio del debito.

E veniamo finalmente al punto. Se la posizione finanziaria netta negativa, come sopra determinata, è superiore, in assenza di surplus assets, all’enterprise value, ne deriva l’integrale perdita del capitale sociale e, nel contempo, l’incapienza dei flussi al servizio del debito rispetto a quest’ultimo.

Ecco, allora, che è sufficiente la rigorosa applicazione dei principi contabili, e segnatamente di quelli sull’impairment test, per avere il più tempestivo indice dell’incapacità dei flussi a fronteggiare il debito stesso e, per la proprietà transitiva “disequilibrio finanziario = discontinuità”, l’indice dello stato di crisi. Anche il ruolo stesso di amministratori, sindaci e revisori ne risulta maggiormente definito. Nel momento in cui essi riscontrano una situazione rilevante ai sensi dell’art. 2447 cc, colgono di fatto anche l’insorgenza di uno stato di crisi e l’obbligo della tempestività di tale rilevazione deriva, senza necessità di alcuna ulteriore precisazione, dal corretto rispetto dei principi contabili in materia di impairment test.

Qui i due pilastri (quello dell’equilibrio finanziario e quello della sostenibilità del debito) si saldano in uno solo: quello della continuità aziendale.

Tutto vero, ma a una condizione: deve esistere un piano ed esso deve essere stato correttamente redatto.

7. Gli adeguati assetti organizzativi; i presidi che deve attivare l’imprenditore

L’assetto organizzativo, amministrativo e contabile atto alla rilevazione tempestiva della crisi al quale fa riferimento la norma è costituito da un insieme di presidi.

I presidi organizzativi (cd. “obblighi organizzativi”), per espressa previsione dell’art. 12 CCII, costituiscono strumenti di allerta e sono posti a carico dell’imprenditore. Essi devono essere tali da consentire (nel rispetto della complessità dell’impresa e del suo modello di business) la tempestiva individuazione di uno stato di crisi al fine della sua gestione. Assume, a tale riguardo, fondamentale rilevanza la valutazione della sostenibilità del debito sotto molteplici profili: quello della tempestiva individuazione della crisi, ma anche quello del permanere della continuità aziendale.

La prima domanda da porsi è in che cosa si concretizzino i presidi organizzativi. Essi sono costituiti da tre distinti pilastri:

  1. una corretta strutturazione delle funzioni aziendali, nel rispetto del fondamentale principio della separazione (e della contrapposizione) tra il ruolo esecutivo e quello operativo;
  2. la definizione di procedure e regole interne atte, tra l’altro, a raccogliere le informazioni interne individuando il loro impiego e assicurandone l’affidabilità. La disponibilità delle informazioni corrette ed esaustive è, infatti, un presupposto imprescindibile, al pari del loro impiego concreto;
  3. l’adozione dei necessari strumenti: ci si riferisce necessariamente agli strumenti informatici; ma ci si riferisce anche agli strumenti di output (quali il piano previsionale e il budget).

 

La mancanza di uno solo dei tre pilastri fa venir meno l’equilibrio e l’adeguatezza dell’assetto che si regge su di essi. Nei paragrafi successivi, il tema verrà meglio approfondito affrontando anche l’imprescindibile principio della proporzionalità alle dimensioni e alla complessità dell’impresa.

Ma quali sono le finalità degli obblighi organizzativi in questione?

L’art. 14 CCII stabilisce, a ben vedere, il framework,nei termini già esposti, dei ruoli dell’organo amministrativo, di quello di controllo e del revisore, e – conseguentemente – dell’assetto organizzativo che deve essere adottato.

Le finalità dello stesso sono molteplici. Proviamo a riassumerle in appresso:

  • occorre che siano assicurati processi di reporting e di monitoraggio che permettano una completa ed efficace valutazione in continuo, almeno trimestrale, del rispetto degli indici della crisi che verranno individuati dal Cndcec o di quelli eventualmente sostituiti dall’impresa ai sensi dell’art. 13, comma 3;
  • le procedure di verifica di tali indici dovranno essere formalizzate e stabili; a tal fine occorrerà l’adozione di regole puntuali;
  • le procedure di verifica dovranno essere estese ai casi di ritardi nei pagamenti “reiterati e significativi”, “anche” sulla base di quanto previsto nell’art. 24 CCII;
  • quanto sopra è informato al principio del forward looking, il cui primato sul dato consuntivo deriva dalla nozione stessa di «crisi» che l’art. 2 CCII individua nella «inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate». Dal che deriva l’esigenza dell’adozione di puntuali e affidabili regole di pianificazione (come meglio in appresso precisato);
  • l’organo amministrativo dovrà anche individuare modalità di assessment dell’equilibrio finanziario e adottare procedure per la sua rilevazione; si tratta di modalità che devono essere coerenti con quelle maturate nell’ambito della gestione delle crisi d’impresa in seguito all’attestazione che i professionisti indipendenti sono stati chiamati a rendere ai sensi degli artt. 67, 182-bis, e 186-bis l.fall.;
  • l’organo amministrativo dovrà verificare in continuo che non risulti compromessa la continuità aziendale avendo riguardo ai trigger event di cui all’ISA 570;
  • l’organo amministrativo dovrà, infine, essere in grado di valutare il mantenimento di un patrimonio netto atto a fronteggiare i rischi d’impresa. A tal fine, lo strumento da adottare è quello di un modello stabile di impairment test che possa essere applicato alla chiusura di ciascun esercizio e, nel caso in cui si verifichino i trigger event, suscettibile di reperforming anche nel corso dell’esercizio. L’impairment test presenta, infatti, come già precisato, una valenza prossima, se non addirittura equivalente, a quella dell’idoneità dei flussi di cassa liberi rispetto al debito che deve essere servito dagli stessi.

8. Il ruolo dell’organo di controllo

Nel quadro dianzi delineato, il ruolo dell’organo di controllo, quale emerge con chiarezza dal disposto dell’art. 14, è determinante. Egli è chiamato a verificare che l’organo amministrativo valuti in continuo non solo l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, ma anche se sussista l’equilibrio finanziario e quale sia il prevedibile andamento della gestione, segnalando con adeguata motivazione all’organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi di crisi che, come dianzi evidenziato, non si limitano alle violazioni degli indici di cui al comma 2 dell’art. 13, ma ad ogni situazione che assuma rilevanza ai sensi del comma 1 dello stesso articolo.

Tutto ciò è possibile solo qualora l’organo di controllo istituisca un’implementazione di flussi informativi nei confronti dello stesso da parte dell’organo amministrativo e delle funzioni aziendali funzionali al concreto funzionamento degli obblighi di vigilanza e di quelli segnaletici interni.

Ci si deve, pertanto, attendere dagli stessi collegi sindacali, avendone la facoltà, l’istituzione di obblighi di flussi informativi interni, periodici e ad evento. In difetto di questi, l’opera dell’organo di controllo sarebbe discontinua e, comunque, tardivamente ancorata al solo dato retrospettico, vanificando un fondamento delle misure di allerta e pregiudicando l’attività di vigilanza richiesta.

In appresso, si esemplificano i flussi che potrebbero essere all’uopo istituiti.

Tra i flussi informativi periodici, vi sono certamente quelli che consentono di determinare gli indici di cui all’art. 13, comma 2, o quelli sostitutivi di cui al comma 3. In quale modo l’organo di controllo o il revisore potrà rilevare la violazione di tali indici? Il momento principe è costituito dalle situazioni trimestrali, laddove l’impresa le avesse attivate, e chi scrive ritiene che la loro attivazione costituisca un obbligo implicito a quello degli adeguati assetti, derivante dal disposto dell’art. 24, comma 1 – al punto che le stesse situazioni trimestrali costituiranno un ulteriore obbligo informativo richiesto dall’organo di controllo. Non è però l’unico. Alcuni indici possono essere calcolati attraverso la disamina di meri bilanci di verifica, altri attraverso piani di tesoreria, altri ancora attraverso strumenti informatici in grado di trarre gli indici e ulteriori informazioni dal current trading, a condizione che siano individuati e periodicamente comunicati all’organo di controllo gli indicatori chiave di performance (KPI) agevoli.

Un ulteriore flusso che dovrà essere richiesto dall’organo di controllo è quello del prevedibile andamento aziendale, per il quale occorrerà tenere in debito conto il principio di proporzionalità, che trova un suo cardine nello stesso disposto del comma 5 dell’art. 2381 cc[3]. Tale flusso dovrebbe essere accompagnato da quello dell’andamento degli ordini e dal volume degli ordini revocati.

Anche i tempi di incasso e di pagamento dovranno essere oggetto di monitoraggio periodico. A tal fine, occorrerà richiedere il confronto dei tempi medi rispetto a quelli del corrispondente periodo del precedente esercizio, in quanto il processo di calcolo, poggiando su un rapporto tra grandezze stock e grandezze flusso, risente della stagionalità propria dell’impresa.

Un’ultima informazione attiene agli affidamenti concessi, al loro utilizzo e, limitatamente alle linee autoliquidanti, al volume dei crediti eleggibili disponibili.

Fino a qui, gli obblighi informativi periodici; accanto ad essi vi sono, però, anche quelli ad evento, non meno rilevanti.

L’organo di controllo dovrebbe introdurre a carico dell’organo amministrativo e delle funzioni aziendali competenti per materia gli ulteriori eventi rilevanti relativi alla sostenibilità del debito e alla continuità aziendale. Trattasi, ad esempio, oltre ai trigger event di cui al principio di revisione ISA n. 570 e rimessi più alla competenza del revisore, di: situazioni di sconfino rilevante in Centrale Rischi; revoca e revisioni degli affidamenti bancari; revoca di affidamenti da parte dei principali fornitori; richiesta di nuovi affidamenti e finanziamenti; mancato rispetto dei termini dei rimborsi di finanziamenti e di bond; richieste formulate ai creditori di riscadenziamento o rateazione dei pagamenti; insuccesso nel reperimento di performance bond e di bid bond per l’acquisizione di appalti o la partecipazione a gare; notizia del downgrade del rating interno assegnato dalle singole banche; insoluti dei crediti anticipati dal sistema bancario che superino la soglia ritenuta rilevante; perdita di risorse chiave; attivazione di contenzioso passivo critico; mancato versamento di Iva, tributi e contributi alla scadenza; ricevimento di decreti ingiuntivi e protesti cambiari.

Si aggiungono a tali flussi quelli delle eventuali segnalazioni esterne ricevute ai sensi dell’art. 15 CCII, in quanto esse verranno trasmesse all’organo di controllo solo dall’Ocri, successivamente alla segnalazione da questi ricevuta.

Un rafforzamento di tali flussi informativi deriva dall’introduzione di un ulteriore flusso di provenienza esterna all’impresa, previsto dall’ultimo comma dell’art. 14, che ha introdotto l’obbligo a carico delle banche e degli intermediari finanziari di cui all’art. 106 Tub di dare notizia agli organi di controllo societari delle comunicazioni date al cliente e afferenti alle variazioni, alle revisioni o alle revoche degli affidamenti. Si tratta, invero, di una norma che comporterà per banche e intermediari finanziari l’introduzione di procedure interne ad hoc. Essa è volta più a contrastare omissioni di informativa da parte degli organi amministrativi, che sarebbero proprie solo di situazioni gravemente patologiche di assenza di trasparenza, sintomatiche di un ambiente ostile in cui sarebbe costretto a operare l’organo di controllo.

9. Conclusioni

La gestione anticipata della crisi presuppone l’implementazione di “adeguati assetti” volti a misurare in continuo la capacità dell’impresa di sostenere il proprio debito. Essi si fondano sui tre pilastri degli interventi organizzativi, dell’adozione di regole di dettaglio di pianificazione, e dell’impiego di strumenti informatici al servizio delle stesse.

Tutto ciò, però, nel rispetto dell’imprescindibile principio della proporzionalità alle dimensioni e alla complessità dell’impresa.

L’organo di controllo, da parte sua, per svolgere il ruolo di vigilanza sulla valutazione, da parte dell’organo amministrativo, dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo, della sussistenza dell’equilibrio finanziario e del prevedibile andamento economico, nonché per adempiere agli obblighi segnaletici posti a suo carico dall’art. 14 CCII, non potrà non imporre puntuali flussi informativi a proprio favore da parte dell’organo amministrativo e delle diverse funzioni aziendali, alcuni periodici altri ad evento.

[1] Ci si riferisce al d.lgs n. 231/2002, che aveva recepito la direttiva 2000/35/CE, emanata in tema di ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali; al dl n. 1/2012, convertito nella l. n. 27/2012, in materia di prodotti agricoli deteriorabili e di altri prodotti agricoli e alimentari; al d.lgs n.192/2012, di recepimento della direttiva 2011/7/UE.

[2]  F. Modigliani, M.H. Miller, in American Economic Review, n. 48/1958, pp. 261-297.

[3] D’altronde, le modifiche introdotte dall’art. 375 CCII all’art. 2086 cc ribadiscono tale principio, estendendone la portata: «l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa». Come acutamente osservato – vds. G. Meruzzi, L’adeguatezza degli assetti, in M. Irrera (a cura di), Gli assetti e i modelli organizzativi delle società di capitali, Zanichelli, Bologna, 2016 (disponibile online in www.associazionepreite.it/) -, si tratta del bilanciamento di «interessi sussumibili (…) nella stessa libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. (…); interessi che, nel contesto di limitazione di responsabilità che caratterizza il regime delle società di capitali, impongono a chi svolge attività d’impresa di organizzarla secondo i già evocati criteri di efficienza ed efficacia» (ibid., p. 21).