- La circolare su sicurezza stradale e regole di comportamento degli ospiti fuori dal centro di accoglienza
- La circolare sulla capacità economica richiedenti asilo ospiti dei Cas - Vigilanza
- La circolare sull'orario di rientro degli ospiti nei centri di accoglienza
1. Premessa: perché occuparsi delle “circolari fiorentine”
L’espressione Driving while black − guidare quando si è nero − ricorre da tempo nella letteratura giuridica americana, ma si è ormai radicata anche nel linguaggio comune. Ricalcata ironicamente sulla definizione (driving while intoxicated) usata in buona parte degli stati per il reato di guida sotto l’influsso di alcool o sostanze stupefacenti, vuole richiamare i problemi collegati al cosiddetto racial profiling, ossia la pratica di sottoporre, consapevolmente o meno, gli afroamericani (e altri gruppi minoritari) a controlli di polizia più frequenti di quelli posti in essere nei confronti dei bianchi. La letteratura che ruota intorno al racial profiling è estesissima, e comprende studi empirici molto raffinati. Per quanto questo filone di ricerca sia stato presentato più volte al pubblico italiano [1], si tratta di una prospettiva intellettuale che sino a qualche anno fa pochi apprezzavano, ritenendola troppo legata allo specifico contesto statunitense.
Il flusso migratorio dall’Africa subsahariana sta, a nostro parere, cambiando alcune coordinate di fondo, costringendoci a rivedere lo scetticismo verso certe “americanate”. Si tratta di cambiamenti che possono sfuggire a uno sguardo superficiale che si limiti ai “luoghi alti” del diritto. I segnali rivelatori più chiari, infatti, si trovano in documenti che, non imbrigliati nei canoni formali delle classiche fonti normative, sono più idonei a mostrare quanto le istituzioni siano permeabili nel loro operare alle trasformazioni culturali e al contesto politico, a prescindere da ogni mutamento del diritto positivo.
Un buon esempio al riguardo è rappresentato dalle tre recenti circolari indirizzate dal Prefetto di Firenze ai gestori dei centri di accoglienza straordinari che accolgono i richiedenti asilo, che sono state oggetto di grande attenzione da parte dei media locali e nazionali. Il contenuto di queste circolari, che si possono qui leggere in originale, è abbastanza semplice, e ci limiteremo a riassumerne i passaggi chiave. La più recente, dell’11 ottobre, introduce per il rientro serale e l’uscita mattutina degli “ospiti” limiti orari molto rigidi, con rientro la sera alle 20 e uscita la mattina non prima delle 8, con eccezioni da autorizzarsi da parte della Prefettura solo «ove ricorrano motivate e straordinarie esigenze». Questa segue a un’altra circolare del 5 ottobre nella quale si prescrive che, qualora giungano agli ospiti dei centri pacchi ordinati on-line, questi «devono essere aperti alla presenza degli operatori, sia per ragioni di sicurezza, sia per verificare che gli acquisti siano compatibili con la situazione economica dichiarata dall’ospite». Qualora si riscontrino «acquisti sproporzionati rispetto alla situazione dichiarata», deve esserne «chiesta ragione agli interessati, seguendo attentamente la situazione anche allo scopo di evitare che gli ospiti si procurino denaro in modo illecito», riferendo alla Prefettura e alle locali forze dell’ordine «ogni circostanza meritevole di approfondimento». In una ulteriore comunicazione di poche settimane prima (15 settembre), la Prefettura aveva invece richiesto di «fornire ai richiedenti asilo […] molti dei quali utilizzano biciclette, specifiche informazioni sulle norme relative alla circolazione stradale e su rischi e responsabilità in cui possano incorrere qualora non siano dotati dei necessari dispositivi di sicurezza e contravvengano alle norme del Codice della strada», specificando poi che «ove le biciclette non siano fornite da codesti Enti gestori», questi sono invitati «ad acquisire a verbale chiarimenti dagli ospiti circa le modalità di acquisizione dei velocipedi».
A fronte della “parte dispositiva” qui richiamata delle circolari, almeno un’autorevole voce di giurista attivo nel campo dell’immigrazione ha sostenuto che quantomeno il diritto alla segretezza della corrispondenza sia illecitamente compresso da queste direttive [2]. Gli argomenti che depongono nel senso dell’illiceità non sono da poco. Siamo, tuttavia, convinti che se violazione dei diritti degli “ospiti” vi è stata, questa non sarà certamente l’ultima e la più grave. Vale la pena piuttosto di riflettere brevemente sull’humus culturale da cui scaturiscono questi minuti documenti, lasciando da parte le sfumature lievemente surreali della vicenda, come il lessico di funzionari che magari (perché no?) pedalano in città come un qualunque studente o migrante, ma mentre questi inforcano una bicicletta, loro procedono, vivaddio, in “velocipede”. Li prenderemo invece sul serio, suggerendo alcune implicazioni per il nostro modo di studiare come le istituzioni si pongono rispetto ai migranti, prendendo in parte ispirazione da quanto elaborato negli Stati Uniti sul tema del racial profiling citato in apertura.
2. Al di là della violazione dei diritti: il testo delle “circolari fiorentine” come esercizio di aggiramento della realtà
Certamente, le circolari del Prefetto di Firenze possono essere lette come una restrizione di diritti effettuata senza sufficiente base legale, e si potrebbe discutere a lungo sui possibili rimedi disponibili per chi voglia reagire nello schema classico dello stato di diritto, del genere “c’è un giudice a Firenze”. Ognuna delle prescrizioni sopra richiamate è però cosa a sé stante, con un inquadramento giuridico differente, e pianificare una difesa in giudizio contro questi atti prefettizi richiederebbe energie non trascurabili. Tenteremo qui invece una “decostruzione” delle circolari sul piano puramente testuale e fattuale, guardando a come esse rappresentano la realtà e argomentano le proposte che fanno per modificarla, a prescindere dal loro stare in piedi come “fonti del diritto” di qualche tipo.
Avviato un esercizio del genere, non occorre molto per rendersi conto anzitutto che si tratta di documenti che invitano a tenere condotte difficilmente compatibili con attività volte all’“integrazione” e all’“accoglienza”, quale che sia il significato che si vuole dare a questi termini sfuggenti e ormai inflazionati. Partiamo dalla restrizione degli orari di uscita e, soprattutto, rientro. Appare arduo negare che, nell’Italia del 2018, la socialità serale e notturna sia semplicemente uno dei passaggi obbligati nella costruzione di una vita di relazione di qualsiasi giovane, e sarebbe difficile trovare un’istituzione non carceraria che pratichi le stesse limitazioni. Ci sembra significativo d’altronde che le istruzioni prefettizie non distinguano tra giorni feriali e festivi o prefestivi o compiano qualche altro bilanciamento volto a garantire una dimensione relazionale agli “ospiti”. In assenza di alcun ragionamento che spieghi un approccio così restrittivo, chi ha redatto il testo si prende inevitabilmente carico dell’onere di provare che la finalità della restrizione non sia l’unica che appare funzionalmente coerente con la sua natura, ossia che gli “ospiti” non devono essere parte della vita serale e notturna della città. Lasciamo da parte per un attimo questa ipotesi, su cui torneremo più avanti cercando di fornire una chiave di lettura generale.
Per quanto riguarda invece le istruzioni sul controllo dei “pacchi ordinati on-line”, il testo delle circolari solleva ancora più dubbi in tema di opportunità e base argomentativa. Nella nostra prospettiva “decostruttiva”, possiamo anche assumere che in punto di diritto la tutela della segretezza della corrispondenza sia qui derogata da altri valori prevalenti. Ci sembra strano, ma assumiamolo. Quello che ci sembra sconfortante è, piuttosto, che l’unica base informativa richiamata dalla circolare prefettizia sia la comparsa di «articoli di stampa, locale e nazionale, che denunciano il ripetersi di consegne da parte dei corrieri di pacchi acquistati on-line dai richiedenti asilo ospiti di alcuni centri del territorio, che appaiono incompatibili con la presunta situazione di indigenza che, come noto, costituisce il presupposto per la fruizione delle misure di accoglienza».
Naturalmente, non vi è nulla di male a che il Prefetto o altre autorità partano da notizie di stampa per avviare proprie verifiche e acquisizioni di informazioni al fine di emanare provvedimenti di qualsiasi tipo. Visto che lo stesso testo del provvedimento nulla cita oltre «articoli di stampa» è inevitabile però andare con la mente a cosa è oggi la grande maggioranza degli articoli che riferiscono del tenore di vita dei richiedenti asilo, e alle relative fonti di informazione, plausibilmente costituite dalla soggettiva percezione di un operatore o di un casuale testimone che qualche oggetto contenuto nei plichi non fosse in linea con la capacità reddituale del migrante. La linea di ragionamento evidenziata dalla comunicazione prefettizia, depurata del linguaggio aulico, è alla fine riassumibile in “ho letto sui giornali che i migranti comprano in rete oggetti costosi e visto che i migranti devono essere poveri concludo che sicuramente vi è qualcosa di illecito”. Una struttura argomentativa questa incolpevolmente diffusa nelle conversazioni private per strada, ma che uno penserebbe estranea alla formazione di documenti ufficiali. Il testo poi neanche sfiora il piano della complessa realtà dell’economia individuale dei migranti, spesso costretti a perseguire priorità imposte dalla loro condizione. Basti pensare a quanto queste vite dipendano da uno smartphone, ove la dimensione e la risoluzione di uno schermo servono a trasmettere le immagini di genitori, fratelli, amici i cui corpi non virtuali potranno essere toccati di nuovo forse tra anni, forse mai.
L’ultima delle indicazioni prefettizie, conseguente alla constatazione che i richiedenti asilo “utilizzano biciclette” è pure essa contenuta in un testo che, su un piano pregiuridico, è completamente distaccato dalla realtà. Lo è in prima battuta, ma questa sarebbe cosa lieve e magari inquadrabile come materna apprensione per l’incolumità degli «ospiti», quando invita a vigilare affinché i richiedenti asilo si dotino «dei necessari dispositivi di sicurezza» e non contravvengano alle norme del Codice della strada. Indicazione, formalmente ineccepibile, rivolta agli ospiti di un centro urbano come Firenze dove la circolazione dei ciclisti avviene con un plateale, generalizzato non enforcement delle regole vigenti, trasversale a identità nazionali, ed esteso anche a chi utilizza la bicicletta per svolgere attività lavorative come i cd. riders. Una situazione impensabile in altre grandi città europee, con ricadute serie in termini di infortuni.
Vedere finalmente affrontata la questione della sicurezza dei ciclisti con piglio didattico a partire dai richiedenti asilo potrebbe alla fine far sorridere. Il motivo per cui non è possibile limitarsi a sorridere è nel prosieguo del documento, dove è evidente come il richiedente asilo anche nel semplice circolare in bicicletta sia percepito come qualcosa di intrinsecamente sospetto e “estraneo”. Come abbiamo sopra riportato, il possesso di una bicicletta non fornita dal centro di accoglienza aziona una sorta di presunzione di illecita provenienza, così da costringere gli operatori a verbalizzare come sia stato «acquisito il velocipede». Difficile dire quale diritto fondamentale sia violato da una tale indicazione, e a quali sanzioni possa essere sottoposto (e simmetricamente di quali tutele possa godere) il richiedente asilo che si rifiuti di fornire le richieste informazioni o non ne fornisca di soddisfacenti. Il punto, di nuovo, è il rapporto del testo con la realtà, e la situazione in cui pone rispetto a questa un “ospite” che ha esigenze primarie e priorità quotidiane significativamente diverse rispetto a quelle dei funzionari prefettizi o categorie simili. Il reale è in questo caso rappresentato dal mercato delle biciclette usate di qualunque grande centro urbano, mercato massimamente informale ove il prezzo di una bicicletta in qualche modo circolante, ma non per questo rubata, può essere estremamente basso, e in cui certo non domina il rilascio di titoli di acquisto. A questo mercato accedono a Firenze, per l’acquisto degli stessi «velocipedi circolanti di bassa gamma», richiedenti asilo e, ad esempio, studenti universitari. Mentre i secondi possono non curarsi dell’informalità del settore, i primi lo devono affrontare con il “rischio giuridico” conseguente a dichiarazioni rese a verbale eventualmente non convincenti e comunque facendo fronte a una richiesta che non è possibile non avvertire, anche a prescindere dalle intenzioni di chi è costretto a formularla, come stigmatizzante e carica di pregiudizio.
3. Le “circolari fiorentine” come elementi di una strategia di controllo degli spazi urbani?
Le istruzioni contenute nelle circolari sono entrate in vigore all’inizio di novembre, con proteste pubbliche degli ospiti e prese di posizione di varie organizzazioni del volontariato. Sarà interessante vedere se in qualche sede, giurisdizionale o meno, si riuscirà a far prevalere i diritti di libertà degli ospiti dei centri sulle ragioni di sicurezza e tutela della legalità che plausibilmente rappresenteranno la linea di difesa del Prefetto. Come abbiamo accennato, la cosa può non essere semplice, anche a fronte della più ampia evoluzione osservabile all’interno delle istituzioni, che si alimenta ora dei nuovi venti della politica.
Un primo passaggio di questa evoluzione è già stato messo in luce dagli studiosi più attenti. Come è stato lucidamente scritto, «Una nuova riarticolazione del rapporto tra diritto e politica si verifica in un recente fenomeno che ridefinisce in chiave federalista il sistema di governo per circolari dell’immigrazione (e non solo). Nel nome della sicurezza ed attraverso l’evocazione di pericoli, reali o immaginari, dove l’accento è posto sul ruolo distruttivo degli stranieri, si sono prodotti negli ultimi anni significativi mutamenti anche all’ordinamento giuridico» [3], questo nell’ambito di una tendenza che l’autrice ha voluto ricostruire in termini di creazione di un «infradiritto di prossimità».
Sappiamo benissimo, infatti, che le ricadute sul sistema giuridico dei flussi migratori non riguardano solo il controllo delle frontiere e il riconoscimento finale degli status (status di rifugiato o comunque di persona “regolarmente soggiornante”), ma anche una moltitudine di altri contesti, alcuni dei quali hanno a poco a che fare con la politica migratoria in senso stretto, ma hanno – forse paradossalmente − maggiore sensibilità politica. Uno di questi contesti riguarda la visibilità nei contesti urbani dei migranti, in forme tali da produrre nella cittadinanza sensazioni di minaccia o insicurezza, o di evocare quello che è normalmente riassunto come “degrado”. Quando specifici gruppi di immigrati assumono particolare visibilità, si innescano infatti reazioni delle istituzioni locali (o delle ramificazioni locali delle istituzioni centrali) volte a produrre il loro allontanamento dai luoghi più frequentati dalla popolazione residente, in un processo nel quale l’applicazione di una sanzione, e il possibile controllo giurisdizionale della sua correttezza, sono aspetti assolutamente marginali. I flussi migratori coinvolti e lo strumentario giuridico utilizzato possono essere i più vari. Come ricordato dalla stessa autrice appena citata, proprio la città di Firenze è stata un laboratorio in tal senso, con le famose “ordinanze lavavetri” di una decina di anni fa, volte ad allontanare dallo spazio urbano un particolare gruppo di immigrati attraverso l’emanazione di una catena di ordinanze sindacali giuridicamente inapplicabili, ma che il sindaco pubblicamente teorizzava dovessero sortire l’effetto “sperato e voluto” della sparizione dalle strade dei soggetti indesiderati, in quel caso nella stragrande maggioranza rom rumeni [4].
Nel decennio successivo, le strategie locali di questo tipo si sono moltiplicate e intrecciate reciprocamente, e possono essere sintetizzate nella tendenza a esercitare una “pressione giuridica” su particolari gruppi di immigrati eccessivamente visibili attraverso l’attivazione di strumenti di polizia locale, ad esempio con l’elevazione a catena di sanzioni per violazioni amministrative per mendicità o per generiche attività “moleste” con modalità tali da renderne il controllo giurisdizionale difficile, o comunque difficilmente accessibile allo straniero di cui si vuole l’allontanamento dall’area urbana, pratica anche qui ove Firenze appare essere stata una sorta di laboratorio [5].
Per quanto criticabili sul piano dei valori dello Stato di diritto, si tratta di strategie che hanno una base razionale, in quanto funzionali al mantenimento e all’incremento del consenso politico a livello locale. L’accresciuta importanza del dibattito sul “degrado” che sarebbe indotto da particolari gruppi di immigrati, fa infatti sì che la riduzione della loro visibilità (quando questi non appaiano perfettamente integrati nel tessuto economico con ruoli subordinati) sia una moneta immediatamente spendibile nell’agone politico. Tale meccanismo ha intuitivamente poco a che fare con le effettive dimensioni dei flussi migratori, e neanche con l’effettivo tasso di criminalità collegato ad essi, che rappresenta qualcosa di non immediatamente percepibile dall’elettore. Anche qui il caso dei rom è stato per molto tempo una sorta di cartina di tornasole, con un’enorme attenzione dei media locali per particolari gruppi che, per abbigliamento e in genere corrispondenza allo stereotipo “zingaro”, suscitavano particolare allarme pur senza un’attività criminale di rilievo, limitandosi a varie forme di mendicità o di street level economy, mentre attività illecite importanti erano svolte da altri gruppi che non corrispondendo allo stereotipo non avevano impatto sull’opinione pubblica. Questo meccanismo faceva sì che l’attenzione delle istituzioni si concentrasse non tanto e non solo sulla repressione dei reati, ma piuttosto sull’allontanamento dei soggetti “ipervisibili”, pur se ad essi non potevano essere imputati reati di rilievo.
Nella nascita di queste strategie di allontanamento, basate su un infradiritto di prossimità, un elemento cruciale è stato proprio il rafforzamento della posizione giuridica di particolari gruppi di immigrati, verso i quali deve ora essere esercitata una pressione di tipo differente da quella che prima era rappresentata dall’evocazione dello status di immigrato illegale, che comportava la possibilità di espulsione o perlomeno la possibilità di minacciarla spingendo l’immigrato a cambiare territorio. Nel caso dei rom, nel passato (e nell’attualità) oggetto di uno dei più potenti stigmi di diversità e di conseguente pressione da parte delle istituzioni, il flusso dei rumeni, cittadini dell’Unione, ha reso inapplicabili i vecchi strumenti di “pressione giuridica”, spingendo all’adozione delle tecniche “fiorentine”.
4. Circolari fiorentine, identità razziale e lezioni americane
La vicenda delle strategie di allontanamento delle persone “visibilmente rom” è rilevante perché il flusso di migranti dall’Africa subsahariana ha in parte cambiato le coordinate del controllo degli spazi urbani e dell’impatto della presenza di particolari gruppi umani sulla percezione di sicurezza e vivibilità di questi. Senza troppi giri di parole, l’arrivo di un numero, non certo enorme ma comunque rilevante, di giovani africani nelle piazze e nelle vie di Firenze, come di altre città italiane, ha comportato un grande impatto sulla visione che gli abitanti hanno del proprio ambiente urbano. Un impatto generato sostanzialmente da due tipologie di giovani africani, uno costituito da persone dedite a forme di accattonaggio più o meno invasivo, in parte in sostituzione di attività precedentemente svolte da rom rumeni, e il secondo costituito da persone che si concentrano in determinati spazi per intrattenersi con connazionali o conoscenti. È difficile negare che questi due insiemi, in particolare il secondo, suscitano sempre più allarme, e che gli ospiti dei centri di accoglienza alimentano in qualche misura queste presenze, come è impossibile negare che tra di essi vi siano casi di persone il cui disordinato comportamento in pubblico (spesso alimentato dallo smodato consumo di alcolici e dall’uso di sostanze stupefacenti) si adegua a modelli ben affermati in città nelle fasce giovanili di cittadini, turisti e studenti stranieri. Nell’aggiungersi all’articolato e in certi aspetti disturbante panorama dello svago giovanile, gli “ospiti” dei centri di accoglienza portano però un elemento che produce un moltiplicatore della loro visibilità: sono in gran parte di pelle nera, e non possono quindi adottare strategie mimetiche come altri gruppi oggetto di stigmi sociali. Una volta presenti nello spazio urbano con le modalità menzionate, i giovani africani hanno poi un problematico privilegio, ossia di essere per il cittadino l’indicatore più immediato della dimensione dei flussi migratori. Similmente ai rom rumeni, anche i richiedenti asilo hanno uno statuto che non ne permette l’allontanamento immediato, in termini di espulsione dal paese o spostamento verso altri centri urbani per sfuggirvi. Nella loro ipervisibilità, la presenza o meno di giovani africani intenti a bere birra in alcune piazze può fare per un “cittadino elettore” la differenza tra pensare che l’invasione sia in corso, o che invece le politiche propugnate dall’attuale Ministro dell’interno comincino a funzionare.
La “razza”, intesa in questo caso come colore della pelle degli “ospiti” dei centri, conta. Non è questa la sede per intervenire nell’insensato dibattito alimentato dalle generiche affermazioni secondo cui “l’Italia non è un paese razzista”, e dalle altrettanto generiche reazioni con riferimento all’episodio di intolleranza razzista numero x. Dire che in Italia la “razza non conta” sfida anzitutto il senso del ridicolo. Come è stato scritto, le «figure della razza», intendendo con queste le «rappresentazioni – testuali e visuali – che ricorrono sia nella cultura alta sia in quella popolare, nel linguaggio privato come in quello istituzionale […] e che sono il risultato della stratificazione di immagini che ritraggono l’alterità coloniale e schiava prodotta ai quattro angoli del globo coloniale», sono in Italia «rimaste attive riconfigurandosi, a partire dalla memoria collettiva e a seconda del territorio e del senso di appartenenza territoriale e di classe […] delle forme dell’autorappresentazione sociale e del capitale culturale, del discorso politico, delle tradizioni di partito». Soprattutto, come prosegue la stessa autrice, «La loro presenza è stata dissimulata in modo corale – da istituzioni e società − e rilevata in modo accidentale solo in coincidenza di episodi di efferata violenza razzista» [6]. Nella costruzione di queste figure della razza, la «linea del colore» come venne chiamata da William Du Bois, ha una solida centralità [7]. In Italia come altrove, il “nero” è un’immagine forte ed evocativa, che rimane latente anche quando non posta alla base di pratiche esplicitamente discriminatorie. Per quanto ci si possa ripetere che la distinzione tra “razza bianca” e “razza nera” sia una finzione o una costruzione culturale, questa rimane una ripartizione del mondo assolutamente centrale negli schemi cognitivi di molti italiani di ogni livello sociale. Questo aspetto non è stato, tuttavia, sino a qualche anno fa oggetto di particolare attenzione da parte di chi studiava la società italiana animato da spirito antirazzista. Un autore che nel 2010 ha voluto definire l’Italia «avanguardia del razzismo europeo» [8] elenca tutta una serie di razzismi (antislavo, antimaghrebino, antirom, etc.) trascurando apparentemente la «linea del colore».
Quello che sta succedendo in Italia dopo il flusso migratorio degli ultimi anni porta invece brutalmente al centro la «linea del colore», rendendo l’esperienza americana decisamente rilevante. Come negli Stati Uniti, l’affermazione nell’ordinamento giuridico dell’eguaglianza senza distinzione di razza convive con la tendenza di molti cittadini a percepire un ambiente con un’importante presenza di persone di colore come meno amichevole, anche se gli stessi interagiscono senza problemi con singoli individui. Come negli Stati Uniti, le attività criminali di una parte delle persone di colore, e soprattutto la visibilità di queste, creano un marcato allarme sociale, ora fortemente alimentato anche da meccanismi mediatici e comunicativi che privilegiano l’elemento visuale, con una tendenza a orientare le priorità dell’attività di polizia. È interessante ricordare come negli Stati Uniti, accanto al problema del racial profiling [9] in senso stretto, si sia assistito all’emanazione di provvedimenti locali volti a sanzionare il cd. loitering, traducibile come l’attardarsi, il “bighellonare” in un luogo pubblico senza uno scopo evidente. Nonostante la Corte suprema in una decisione a maggioranza del 1999 (City of Chicago v. Morales) [10] abbia statuito che questo tipo di provvedimenti deve rispondere a requisiti minimi di certezza, strumenti del genere continuano a essere utilizzati suscitando violente critiche circa il loro uso mirato verso le persone di colore [11].
Il quadro giuridico italiano è certo differente, e rende più difficile sottoporre gli strumenti di urban policing a un controllo giurisdizionale in termini di diritti fondamentali così stringente come nel contesto americano. Proprio per questa ragione, rimane tuttavia da capire come e dove verrà incanalata la pressione verso le istituzioni proveniente dalla parte della società intimorita di fronte ai “neri”. È legittimo pensare che iniziative come quella delle “circolari fiorentine” siano una prima grossolana espressione della generale tendenza a cercare di circoscrivere la presenza dei richiedenti asilo di colore negli spazi pubblici, alla quale rischia di sommarsi una stereotipizzazione montante all’interno dei corpi di polizia, dove il symbolic assailant, l’elemento minaccioso, sta sempre più rapidamente corrispondendo all’immigrato di colore [12].
5. Conclusioni: la lettura delle strategie dell’esclusione e le sue implicazioni per i magistrati
La lettura delle “circolari fiorentine” appena presentata può essere l’occasione per alcune sommarie riflessioni sulle posizioni che la magistratura può assumere di fronte a provvedimenti del genere. Come accennato all’inizio, ci troviamo di fronte ad atti che possono indurre ad analisi giuridiche anche troppo raffinate (sono effettivamente “circolari”? sono impugnabili? quale diritto soggettivo ledono?) in proporzione alla loro incisività sui diritti individuali. Con il rischio poi di ricadere nel frequente dilemma circa l’opportunità per i magistrati di esprimersi su specifici atti emanati da autorità pubbliche. È infatti perfettamente concepibile che un magistrato di fronte ad un particolare atto, emesso da un’autorità legittima ma criticabile dal punto di vista dei valori tutelati (sia il decreto sicurezza” del Ministro Salvini o l’ultima “circolare” del Prefetto Lega di Firenze), ritenga opportuno concentrarsi sullo studio tecnico di questo per assicurare un’interpretazione conforme a Costituzione o sollevare eccezioni se chiamato ad applicarlo, senza intervenire nel dibattito pubblico.
La scelta del totale self restraint di chi svolge funzioni giurisdizionali, certamente diffusa in altri Paesi, è probabilmente incompatibile con le specificità del contesto italiano, non fosse altro che per le difficoltà di accesso alla giustizia (basti pensare all’assenza di un habeas corpus) e i tempi per ottenere molte forme di tutela, ma rischia anche di non cogliere la dinamica attuale dell’indebolimento dello Stato di diritto. Al di là degli obiettivi politici degli esecutivi in carica e della legalità dei loro singoli atti, vi è un piano intermedio che è quello delle strategie giuridiche seguite per raggiungere gli obiettivi: strategie che vanno oltre l’adozione di uno o più specifici atti e che possono consistere nel scegliere di concentrare risorse sull’applicazione rigorosa di singole tipologie di norme, nel lasciarne altre disapplicate o nel scegliere strumenti che risulti impossibile o antieconomico attaccare in giudizio [13].
Se una scelta di riservatezza è ammissibile al livello dei singoli atti, questa è invece probabilmente tutt’altro che obbligata sul piano dello svelamento delle strategie, di quelle interconnessioni tra azioni e omissioni che fanno sì che il rigore delle norme sia orientato verso specifici gruppi di persone, attraverso meccanismi che per essere compresi spesso richiedono osservatori esperti, e che molto fanno conto sull’interazione tra i media, che catalizzano l’attenzione verso particolari situazioni, e le istituzioni, che dall’azione mediatica traggono legittimazione ma ad essa al contempo forniscono ulteriore alimento. La “circolare pacchi on-line” è un ottimo esempio al riguardo, visto che essa è giustificata da “articoli di stampa” inosservati ai più e una volta pubblicata produce invece un profluvio di articoli e commenti sul “valore dei pacchi” che si moltiplica sui “social”.
Un ulteriore elemento che depone a favore del disvelamento delle strategie giuridiche è che queste possono essere relativamente trascurabili in termini di violazione di specifici diritti individuali, ma produrre effetti complessivi molto pesanti in termini di pressione psicologica e umiliazione di chi le subisce. Gli studi americani sul racial profiling hanno subito messo luce quanto esso produca «Fear, Anger and Humiliation» [14], leciti o meno che siano gli atti attraverso i quali essa si esprime. Se certamente in Italia i livelli di violenza non sono comparabili a quelli statunitensi, la macchina della polizia che entra in un parco pubblico e inesorabilmente si avvicina alla panchina di ragazzi di colore, e le mille esperienze analoghe che questi vivono, lasciano una traccia, come la lasceranno le indagini mirate sull’«acquisizione dei velocipedi» e l’apertura dei pacchi, atti che i ciclisti e destinatari dei pacchi sanno benissimo collegati alla visibilità di alcuni di loro (magari non ospiti dei centri) in quanto “neri in bicicletta” o “neri con cuffie o smartphone costosi”. La prudenza non deve quindi impedire di mettere a nudo la creatività che gli attori politici usano nell’utilizzare tutte le zone grigie e le aree d’ombra dell’ordinamento per una battaglia in cui l’unico risultato utile è considerato quello dell’”invisibilizzazione del migrante più visibile”.
Può valere la pena in chiusura richiamare un aspetto che sembra a volte limitare la coesione dei magistrati nelle loro prese di posizione su tutte le questioni che riguardano la crisi migratoria. È infatti frequente vedere rivolgere a coloro che prendono posizione su questioni latamente collegate alle migrazioni l’accusa di adottare un approccio “ideologico”. Un’accusa che però, curiosamente, non viene mai respinta nel modo che sarebbe più semplice, e che perlomeno riequilibrerebbe il dibattito, ossia notando come ormai esista, al di là dei modelli normativi, un coerente sistema concettuale e interpretativo “antimigrazionista” con una sua conseguente visione del governo della società (un’ideologia appunto), punti fermi politici e costanti stili argomentativi che continuamente sottolineano l’alterità culturale di chi ha radici nel sud e nell’est del mondo. Come avveniva nelle ideologie tradizionali, anche qui le persone vengono reinterpretate e classificate non per quello che sono individualmente, ma per il posto che occupano nella lettura del mondo prodotta dall’ideologia. Come il “capitalista” o il “borghese” rimanevano tali quali che fossero il loro intimo sentire e le loro azioni e per ricondurli allo stereotipo bastava un segno insignificante, l’“immigrato” rimane tale a prescindere dal suo agire, massimamente quando di colore, quindi riconducibile a una realtà (l’Africa) che questa ideologia considera per definizione “altra” in modo omogeneo e senza sfumature.
[1] Vds. ad es. i volumi Differenza razziale, discriminazione e razzismo nelle società multiculturali, a cura di T. Casadei e L. Re, Reggio Emilia, Diabasis, 2007.
[2] Vds. in questo senso Emilio Santoro nell’intervista a Nova Radio – Città futura, del 16 ottobre 2018. Una presa di posizione molto ferma nel senso dell’illiceità è stata anche quella, di pochi giorni successiva, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione.
[3] I. Gjergji, Circolari amministrative e immigrazione, Milano, FrancoAngeli, 2013, p. 143.
[4] La vicenda è ricostruita in due articoli usciti in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 3/2007, di F. Giunta (Lavavetri e legalità) e A. Simoni (Lavavetri, rom, stato di diritto e altri fastidi), e ripresa in I. Gjergji, cit., p. 147.
[5] Ci permettiamo qui di rinviare alla ricerca pubblicata in G.Pailli-A. Simoni, Begging for Due Process: Defending the Rights of Urban Outcasts in an Italian Town, in Seattle University Law Review, 39(4), 2016, pp. 1303 ss.
[6] G. Giuliani, Introduzione, in G. Giuliani (a cura di), Il colore della nazione, Mondadori-Le Monnier, 2015, p. 2.
[7] Vds. i saggi contenuti nel volume appena citato a cura di G. Giuliani, e in particolare T. Petrovich Njegosh, La finzione della razza: la linea del colore e il meticciato, pp. 215 ss.
[8] F. Perocco, L’Italia, avanguardia del razzismo europeo, in P. Basso (a cura di), Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Milano, FrancoAngeli, 2010, pp. 387 ss.
[9] Vds. l’eccellente panoramica in S.K. Rice e M.D. White (eds.), Race, Ethnicity, and Policing. New and Essential Readings, New York-London, New York University Press, 2010.
[10] City of Chicago v. Morales, 527 U.S. 41 (1999).
[11] R.L. Goluboff, Starbucks, LA Fitness and the Long, Racist History of America’s Loitering Laws, pubblicato nel Washington Post del 20 aprile 2018.
[12] La definizione del symbolic assailant è alla base del famoso libro di J.H. Skolnick, Justice without Trial. Law Enforcement in a Democratic Society, 1966 (4° ed. 2011, New Orleans, Quid Pro, con una prefazione − Fifty Years Later − di C. McCoy), pp. 41 ss.
[13] Un’interessante teoria delle “strategie giuridiche”, con argomentazioni che per quanto si concentrino sulle controversie interindividuali sono perfettamente trapiantabili all’azione governativa, è in L.M. LoPucki-W.O. Weyrauch, A Theory of Legal Strategy in Duke Law Journal, 49 (2000), n. 6, pp. 1405 ss.
[14] Vds. il titolo del primo paragrafo di D.A. Harris, The Stories, the Statistics, and the Law. Why ‘Driving While Black’ Matters, in Minnesota Law Review, 1999, ora in S.K. Rice e M.D. White (eds.), cit.,. p. 38.