Il sistema di tutela Inail, come noto, non protegge la persona del lavoratore in quanto tale e ogni pregiudizio in cui egli incorra, ma interviene soltanto per gli eventi dannosi collegati con l’attività lavorativa e, quindi, per gli infortuni sul lavoro e per le malattie professionali.
In questo momento drammatico, allora, si pone la questione della tutela dei danni derivanti da Coronavirus (o COVID-19).
Ebbene, tenendo conto dei principi consolidati in materia, di certo la patologia, quando sia contratta nell’esercizio e a causa del lavoro svolto, merita la più ampia protezione Inail e la conferma di ciò si è avuta con l’art. 42, secondo comma, del dl n. 18 del 17 marzo 2020 (“Cura Italia”) dove si legge: “Nei casi accertati di infezione da Coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato (…). La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
Coloro che hanno contratto il virus sul lavoro avranno di conseguenza diritto, per ricordare le prestazioni più importanti, all’indennizzo per il periodo di inabilità temporanea assoluta e all’indennizzo in capitale o alla rendita per i postumi permanenti; in caso di morte, ai loro familiari spetterà poi la rendita ai superstiti. È appunto di questi giorni la notizia del riconoscimento da parte dell’Inail dell’assegno funerario e della rendita ai superstiti a favore della moglie e del figlio minorenne di un autista del 118 di Bergamo ucciso dal virus [1].
Va anche aggiunto che l’indennizzo di tali eventi non va ad incidere negativamente sugli oneri contributivi delle aziende, infatti, come dispone l’art. 42 del decreto “Cura Italia”, esso finisce per gravare sulla gestione assicurativa e non è computato ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale del 27 febbraio 2019.
Restano però da esaminare alcuni aspetti; in particolare: 1) come si accerta l’esistenza della patologia ai fini della tutela previdenziale; 2) se l’evento venga protetto come infortunio o come malattia professionale; 3) se il danno sia indennizzabile quando il COVID-19 sia stato una semplice concausa del danno; 4) la prova del rapporto tra il lavoro degli operatori sanitari e il contagio; 5) la prova del nesso eziologico tra lavoro e patologia da Coronavirus per i lavoratori che non operano nel settore sanitario; 6) la tutela di chi contrae la malattia in itinere, ossia andando e tornando dal lavoro; 7) l’indennizzabilità del periodo in cui il lavoratore si trova in quarantena o in isolamento domiciliare.
1. In relazione all’accertamento della patologia, come sappiamo, il sistema più sicuro per una corretta diagnosi di Coronavirus è rappresentato dal tampone faringeo e, quindi, la prova certa sarebbe l’attestazione positiva dell’avvenuto contagio. Tuttavia, in un momento di grave emergenza come l’attuale, in cui il test di conferma dell’infezione non viene (e forse non può essere) garantito a tutti gli ammalati, neppure se medici o infermieri, sembrerebbe ingiustamente penalizzante per chi aspira alla tutela la richiesta della dimostrazione rigorosa della positività all’esame. Potrebbe, allora, essere sufficiente la prova per presunzioni, in considerazione soprattutto dei sintomi manifestati, della specifica professione (es. operatore sanitario) o della peculiarità delle mansioni (es., commesso di supermercato), della diffusione del virus nel territorio e di altri fatti noti dai quali sia comunque possibile trarre presunzioni gravi, precise e concordanti per giungere ad una diagnosi almeno di alta probabilità, se non di certezza, della malattia da COVID-19.
2. Per quanto riguarda la seconda questione, si può ricordare come risulti da tempo pacifico che, in ambito previdenziale, l’azione di fattori microbici o virali (che, penetrando nell'organismo umano, ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomico-fisiologico) sia da considerarsi causa violenta, per cui l’evento viene protetto dall’Inail come infortunio sul lavoro (si parla anche di “malattia-infortunio”).
In tal senso, infatti, si è sempre pronunciata la Suprema Corte, sin dalle sentenze, spesso ricordate, n. 5764 del 3 novembre 1982, n. 8058 del 19 luglio 1991 e n. 3090 del 13 marzo 1992[2] e l’indirizzo giurisprudenziale è stato accolto dall'Inail già con la Lettera circolare del 1° luglio 1993, relativa alle “Modalità di trattazione dei casi di epatite virale a trasmissione parenterale e AIDS”, dove appunto la causa virulenta è equiparata a quella violenta (v. poi Circolare Inail n. 74 del 23 novembre 1995 e “Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie” del 1° dicembre 1998).
Si può allora sicuramente affermare che la malattia da Coronavirus va correttamente configurata come infortunio sul lavoro. Tale collocazione garantisce senz’altro una più ampia tutela dell’evento, quantomeno perché così l’Inail interviene non solo nelle ipotesi in cui il lavoro ne sia stato la causa (come avverrebbe, ai sensi dell’art. 3 T.U. n. 1124/65, se si trattasse di tecnopatia), ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice occasione (v. art. 2 T.U.).
3. Come noto, la malattia da Coronavirus provoca conseguenze significative, fino al decesso, soprattutto in persone che già soffrono di altre patologie importanti o, comunque, molto anziane; in altre parole, il virus è spesso una semplice concausa del danno. Tuttavia, ciò non preclude né limita la tutela Inail, infatti è pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dalla regola dell’equivalenza delle condizioni, sicché va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, anche soltanto quale fattore accelerante (cfr., tra le tante, Cass. 7 novembre 2018 n.28454; Cass. 19 giugno 2014 n. 13959; Cass. 21 gennaio 1998 n. 535).
4. Una volta accertata l’esistenza della patologia da COVID-19, almeno per chi opera in ambienti sanitari, come ospedali, cliniche, ambulatori medici o farmacie, deve comunque valere la presunzione della sussistenza del rapporto causale tra la stessa e il lavoro, anche quando l’identificazione delle specifiche cause lavorative del contagio si presenti problematica; ciò in adesione al principio secondo il quale, sebbene alcune infezioni si possano contrarre anche in condizioni estranee al lavoro, per quei lavoratori che operano in un determinato ambiente e che sono adibiti a specifiche mansioni, con una ripetuta e consistente esposizione ad un particolare rischio, la presunzione dell’origine lavorativa è così grave da raggiungere quasi la certezza [3].
Del resto, possono essere considerate risolutive a questo proposito le istruzioni fornite a suo tempo dall’Inail con i provvedimenti sopra citati, coerenti alle indicazioni in materia pervenute dalla Corte di Cassazione, con le sentenze pure richiamate. In particolare, l’Istituto, sin dagli anni novanta, ha voluto appunto chiarire che per il personale sanitario, inteso in senso lato, ai fini dell’accertamento del nesso tra il lavoro e le malattie infettive e parassitarie, ivi comprese le epatiti virali a trasmissione parenterale, l’AIDS e, quindi, sicuramente, per l’attualità, anche l’infezione da Coronavirus, è senz’altro legittimo il ricorso a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.
5. Per quanto riguarda i lavoratori che non operano nel settore sanitario, essi meritano tutela non solo quando il lavoro rappresenti la causa del contagio (come pure potrebbe verificarsi), ma anche quando contraggano la patologia da Coronavirus in occasione di lavoro (trattandosi appunto – come si è detto - di infortunio sul lavoro), purché dimostrino la positività al test o, comunque, l’esistenza della patologia e il contatto con persone ammalate in ambiente lavorativo.
Il problema per questi soggetti è rappresentato, piuttosto, dalla minore forza riconosciuta alla presunzione di sussistenza del nesso eziologico con l’attività lavorativa rispetto a quanto avviene per gli operatori sanitari. La maggiore difficoltà di avvalersi delle presunzioni, tuttavia, non preclude agli interessati la possibilità di far comunque riferimento alla specificità delle mansioni e del lavoro svolto, alla diffusione del virus nella località o nell’azienda dove sono stati costretti ad operare e agli altri fatti noti dai quali sia possibile trarre presunzioni gravi, precise e concordanti, ai fini della prova presuntiva del rapporto causale o, meglio, di occasionalità della patologia da COVID-19 con l’attività protetta.
6. Ci si domanda ancora se sia tutelato chi contrae la malattia da Coronavirus in itinere, ossia andando e tornando dal lavoro. Se si fosse trattato di tecnopatia, infatti, tale evento sarebbe stato comunque escluso dalla tutela, in ragione dell’assenza della causa lavorativa in senso stretto di cui all’art. 3 T.U. (v. Cass. n. 22974 del 9 ottobre 2013, orientamento criticato da chi scrive) [4]. Come si è invece visto, la patologia da Covid-19 viene tutelata come infortunio e, quindi, rilevando appunto anche la mera occasione di lavoro, in forza dell’art. 2 T.U., secondo comma (v. art. 12 del d.lgs n. 38 del 2000), vi dovrebbe essere la protezione Inail anche nel caso in cui essa sia stata contratta sulle vie del lavoro. Pure in questa ipotesi, sarà un problema di prova e, ancora una volta, si dovrà probabilmente ricorrere esclusivamente a presunzioni (es. uso di mezzi pubblici affollati in zona ad alto rischio), salvo che, per esempio, non si dimostri di aver viaggiato con un compagno di lavoro, precedentemente infettato dal virus.
7. Ultima questione è quella relativa all’indennizzo dell’inabilità temporanea in relazione al periodo in cui il lavoratore si trova in quarantena o in isolamento domiciliare per fini precauzionali in conseguenza della malattia da Coronavirus, immediatamente dopo la guarigione o per l’intervenuto accertamento della positività al virus.
Si tratta, di fatto, di situazioni di impedimento assoluto al lavoro che, alla pari di quelle derivanti da stati patologici veri e propri, meritano tutela nel caso in cui siano state causate o semplicemente occasionate dal lavoro, e ciò avviene naturalmente quando la quarantena sia conseguente a patologia contratta al lavoro. L’assunto trova ancora conferma nell’art. 42 del decreto “Cura Italia”, dove si legge: “Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”.
Istruzione operativa Inail del 17 marzo 2020.
Sulla questione dei contagi da COVID-19 di medici, infermieri e altri operatori dipendenti del Servizio sanitario nazionale e di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata assicurata con l’Inail, è ora intervenuta la nota della Direzione centrale rapporto assicurativo e della Sovrintendenza sanitaria centrale dell’Istituto, con indicazioni che in gran parte confermano gli assunti di cui sopra.
Viene chiarito, innanzi tutto, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, che la malattia da Coronavirus, contratta nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, è tutelata a tutti gli effetti come infortunio sul lavoro.
Si afferma, inoltre, che sono ammessi alla tutela dell’Istituto gli operatori sanitari che risultino positivi al test di conferma del contagio, ma si puntualizza altresì che, a prescindere dalla positività all’esame, il nesso causale con le mansioni svolte si deve comunque presumere, tanto che la tutela assicurativa si estende anche ai casi in cui l’identificazione delle specifiche cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica.
Si aggiunge poi che sono tutelati anche i casi di contagio da Covid-19 avvenuti nel percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, che si configurano quindi come infortuni in itinere. Tale previsione, in realtà, sembrerebbe superflua se rivolta al personale sanitario, al quale appunto la nota garantisce comunque la presunzione di sussistenza del nesso eziologico con l’attività lavorativa, senza alcuna necessità di riferimento ai rischi corsi durante il viaggio lavorativo; per cui, sembrerebbe più propriamente rivolta o in qualche modo applicabile a lavoratori occupati in settori diversi rispetto a quello sanitario.
Nelle istruzioni si precisa ancora che, nei casi di infezione da Coronavirus, l’Istituto copre pure l’astensione dal lavoro dovuta a quarantena o isolamento domiciliare per l’intero periodo e per quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini un’inabilità temporanea assoluta.
Trattandosi appunto di infortuni sul lavoro, si dispone infine che l’Azienda sanitaria locale o la struttura ospedaliera/sanitaria privata di appartenenza del personale infortunato, in qualità di datori di lavoro pubblico o privato, sono tenute a effettuare la denuncia/comunicazione di infortunio all’Istituto e che il medico certificatore ha l’obbligo di trasmettere all’Inail il certificato medico di infortunio.
[1] V. La Repubblica, 28 marzo 2020, p. 15.
[2] Cfr., tra le tante, anche Cass. 28 ottobre 2004 n.20941; Cass., 1° giugno 2000 n. 7306; Cass. 27 giugno 1998 n.6390.
[3]V. Inail, “Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie” del 1° dicembre 1998”, p. 5 s.
[4] Cfr. CORSALINI, Le malattie professionali in itinere, in Resp. civ. prev., 2014, 529 s.
[**] L’autore, pur essendo un legale dell’INAIL, nel presente lavoro esprime opinioni personali che, naturalmente, non impegnano in alcun modo l’Ente di appartenenza.