Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Destrutturazione del mercato del lavoro e frammentazione decisionale: i nodi problematici del diritto penale

di Valeria Torre
professore associato di diritto penale, Dipartimento di Giurisprudenza, Foggia

L’universo del lavoro sfruttato assume forme, che non coincidono con quelle tradizionali della subordinazione, in primo luogo perché svanisce la classica figura datoriale, centro di imputazione della responsabilità. Questo polimorfismo potrebbe indebolire l’efficacia della reazione penale 

1. Gli elementi tipici della fattispecie di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera

Il decreto del Trib. Milano, sez. misure di prevenzione n. 9 del 27 maggio 2020 pone l’attenzione su alcuni profili problematici che affiorano nell’ambito della tutela penale del lavoro: emerge innanzitutto la difficoltà di contrastare penalmente forme di degrado della manodopera in un mercato del lavoro completamente destrutturato, che ha rinunciato a basilari forme di tutela del lavoratore; in secondo  luogo, nell’ambito di sistemi produttivi articolati attraverso nuovi schemi contrattuali e societari si assiste ad una parcellizzazione dell’iter decisionale che implica una opacità – deliberata – dei centri di imputazione della responsabilità. La frammentazione dei soggetti attivi del reato attuata tramite contratti di outsourcing, di appalto di opera e di servizi, di sub-committenza, di somministrazione e l’esistenza di gruppi societari non agevolano, infatti, una corretta ascrizione della responsabilità penale. 

Nel caso concreto sono indagati per sfruttamento del lavoro persone legate a società di intermediazione di manodopera, mentre la misura di prevenzione è stata disposta nei confronti della Uber Italia s.r.l. Il presupposto per l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria, misura di prevenzione prevista dall’art. 34 comma 1 del d.lgs n. 159/2011, è la presenza di sufficienti indizi che l’attività di impresa della Uber Italia sia di ausilio e/o agevoli colposamente l’attività di persone sottoposte a procedimento penale per il reato di sfruttamento di manodopera ex l’art. 603-bis c.p. La cornice lavorativa che fa da contorno all’intera vicenda è quella della c.d. gig-economy, un sistema economico basato sul lavoro a chiamata, che si colloca al di fuori delle forme tradizionali di lavoro subordinato, prediligendo prestazioni di lavoro dichiaratamente autonomo da parte dei riders, sebbene, per molti aspetti, sostanzialmente riconducibili pur sempre alla subordinazione. In questa rete produttiva la stessa figura del datore di lavoro non rispecchia più quella classica, ma risulta alquanto sfumata, evanescente, oltre al fatto sono presenti elementi di gestione del lavoro incompatibile con l’idea che il rider sia “imprenditore di se stesso”. Infatti il potere direttivo e persino disciplinare del datore di lavoro è esercitato da una piattaforma informatica, che provvede all’organizzazione di turni, al controllo della percentuale di consegne, alle valutazioni sulla qualità del servizio[1].

Questo è il primo profilo problematico della vicenda che deriva dal fatto che la fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. è chiaramente incentrata su “vecchie” categorie giuslavoristiche: il lavoro sfruttato è quello subordinato, pur se tale limitazione non è espressamente contenuta nella rubrica della norma, né nella descrizione del fatto tipico, ove si fa genericamente riferimento allo sfruttamento del lavoro e della manodopera. Il diritto penale, in particolare il diritto penale codicistico, difficilmente assume una funzione meramente sanzionatoria, ma rivendica una autonomia rispetto agli altri rami dell’ordinamento. Il carattere autonomo del diritto penale si manifesta in particolare nel considerare concetti mutuati da altri settori dell’ordinamento in un’accezione diversa, perché orientata essenzialmente a ritagliare un contenuto offensivo dell’elemento “esogeno” coerente con il disvalore penale della fattispecie. Al concetto di manodopera come al concetto di lavoro può, pertanto, essere attribuita una accezione più estesa, funzionale alla finalità di tutela della disposizione penalistica, in modo da far rientrare non solo le classiche forme del lavoro subordinato, ma anche forme di lavoro “fluido”, “liquido” come quello dei riders.  

Nonostante la possibilità di interpretare in una accezione ampia il concetto di manodopera, l’arcipelago lavorativo della gig-economy si scontra con i rigidi limiti della tipicità penale e non certo perché il legislatore per una volta ha adempiuto correttamente alla sua funzione, descrivendo una fattispecie dai contorni netti, tipici, determinati, tutt’altro. Il confine della tipicità dello sfruttamento del lavoro è tra i più contesi, da un punto di vista interpretativo, proprio perché non chiaramente delimitato dal legislatore[2]. Il deficit di determinatezza del concetto di sfruttamento trova implicita conferma nella innovativa tecnica legislativa utilizzata, che rivoluziona gli schemi tradizionali della tipicità, tracciando i suoi confini secondo un approccio dinamico, funzionale ad una logica probatoria[3]. La disposizione codicistica non contiene, infatti, una definizione sufficientemente univoca di sfruttamento lavorativo, ma definisce la tipicità in modo mediato, attraverso i c.d. indici di sfruttamento, espressamente previsti dal comma 3. 

Gli indici, secondo la relazione ministeriale, non sono tassativi, né determinati proprio perché non concorrono a descrivere la tipicità, ma costituiscono criteri di orientamento probatorio, che, pertanto, guidano, agevolano il “lavoro ricostruttivo del giudice”[4]. Sebbene non siano elementi del fatto tipico, senza dubbio gli indici concorrono, però, a descrivere la c.d. tipicità di contesto, ovvero a definire il quadro entro il quale valutare la condotta di sfruttamento[5]

Paradossalmente tali indici, nonostante descrivano dinamicamente la tipicità, costituiscono una gabbia interpretativa e rappresentano il maggiore ostacolo ermeneutico ad una estensione della fattispecie anche alle ipotesi di lavoratori autonomi, come sono formalmente i riders.

Gli indici di sfruttamento dalla cui esistenza si potrebbe inferire lo sfruttamento lavorativo si basano, infatti, su quattro tipologie di parametri tutti legati alla violazione di norme che disciplinano in prevalenza il lavoro subordinato. Il primo indice fa rifermento alla reiterata violazione dei criteri retributivi previsti dalla contrattazione collettiva o alla corresponsione di una retribuzione palesemente sproporzionata, elementi che si inseriscono prevalentemente in un contesto lavorativo caratterizzato dalla subordinazione, pertanto difficilmente compatibile con gli schemi contrattuali adottati per i riders. Il secondo indice fa riferimento all’orario di lavoro, al riposo settimanale, alle ferie, all’aspettativa obbligatoria, tutti aspetti che sono presenti in Italia solo nel lavoro subordinato. Solo il terzo indice può essere preso in considerazione anche per i riders, in quanto il decreto-legge n. 101 del 3 settembre 2019 ha esteso espressamente gli obblighi di sicurezza previsti dal d.lgs n. 81 del 2008 a tale categoria di lavoratori. L’ultimo indice può considerarsi in parte tautologico, in quanto si riferisce a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza e situazioni alloggiative degradanti.  Qualsiasi lavoro sfruttato è caratterizzato da condizioni degradanti, mentre, da un punto di vista fenomenologico, metodi di sorveglianza e situazioni alloggiative degradanti sono tipiche nel c.d. caporalato, per lo più circoscritto al lavoro agricolo e allo sfruttamento di lavoratori immigrati irregolari.

È pur vero che gli indici di sfruttamento non sono considerati tassativi, né esaustivi nell’indiziare le molteplici forme di sfruttamento. Tuttavia, senza che il legislatore abbia definito il concetto di sfruttamento e senza che la struttura giuridica dei lavoratori su piattaforma possa essere disciplinata da quelle norme poste a tutela del lavoratore e la cui violazione costituisce un indice di sfruttamento, risulta alquanto difficile poter inquadrare il contesto lavorativo della gig-economy nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p.

Il legislatore nell’individuare gli indici di sfruttamento ˗ tra l’altro mutuati per la maggior parte dall’elaborazione giurisprudenziale in tema di riduzione in servitù ˗ sembra essere rimasto intrappolato in una dimensione novecentesca del mercato del lavoro (o almeno della seconda metà del ‘900), ignorando quelle che sono le nuove forme di schiavitù contrattualizzate e persino legalmente schermate. Forse troppo attento nella sperimentazione della sua innovativa tecnica legislativa[6], ha trascurato di individuare contenuti più prossimi alla realtà criminale che avrebbe dovuto efficacemente contrastare attraverso la nuova ipotesi delittuosa.

Non vi è dubbio che il lavoro nell’ambito delle piattaforme informatiche si presti a forme gravi di sfruttamento, venendo meno, legalmente, tutte quelle forme di tutela previste dalla legge nel caso di lavoro subordinato. Di conseguenza se la distinzione fra sfruttamento del lavoro e riduzione in schiavitù e in servitù risiede principalmente in un abuso dei poteri datoriali a detrimento del lavoratore subordinato, abuso che si configura attraverso la violazione di una serie di norme poste a tutela del lavoratore subordinato, tale abuso non è facile da rintracciare nell’ipotesi della gig-economy: prestazioni sottopagate, senza previsioni di orari, riposi, ferie, aspettative e/o l’assenza di misure di prevenzione in materia di sicurezza o igiene sul lavoro costituiscono elementi del rischio di impresa che assume il rider.

Per poter estendere, quindi, la fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. anche all’ipotesi dei riders occorre fare un passaggio intermedio: dimostrare che il lavoro sulla base delle piattaforme informatiche è solo uno schermo legale per aggirare le tutele del lavoratore subordinato e, conseguentemente, il rider non è un prestatore d’opera, ma un lavoratore subordinato a cui vanno estesi diritti e tutele previsti nel rapporto di subordinazione.

Nonostante nel decreto si affermi forse in modo apodittico che nel caso concreto la violazione delle norme in tema di lavoro autonomo configuri di fatto un «lavoro subordinato alterato», non sembra che questo passaggio sia stato sufficientemente argomentato, probabilmente perché non evidenziato neanche nel procedimento penale per sfruttamento del lavoro da cui prende l’abbrivio la misura di prevenzione. 

Solo appurata questa condizione di sostanziale equiparazione fra lavoratore subordinato e rider potrà venire in rilievo la fattispecie di intermediazione illecita e di sfruttamento di manodopera, in quanto solo in questo caso gli indici di sfruttamento potranno costituire una chiave interpretativa del contesto lavorativo anche dei riders. 

Nel caso di specie, il decreto che dispone la misura di prevenzione sembra convergere sulla ipotesi di intermediazione illecita di manodopera e di sfruttamento lavorativo, condotta realizzata da società legate da collaborazione con Uber Italy. Secondo la disposizione legislativa “costituisce indice di sfruttamento una o più delle [seguenti] condizioni” elencate al comma 3, tuttavia, da un punto di vista fenomenologico, è invece chiaro che lo sfruttamento lavorativo può emergere solo da un contesto caratterizzato dalla ricorrenza di diversi indici fattuali di sfruttamento. Una prudente e articolata valutazione deve necessariamente basarsi su di un contesto di sfruttamento che non può essere certo descritto – come sembrerebbe ritenere il legislatore – solo dall’esistenza di un indice di sfruttamento, che costituirebbe un elemento sintomatico troppo sfumato e labile [7]. Tale prudenza è necessaria soprattutto nell’ambito delle misure di prevenzione, le quali altrimenti rischierebbero di compromettere ingiustificatamente l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite. Per sostenere la struttura portante di un provvedimento che incide pesantemente sulla gestione di una azienda, determinando un’ingerenza del potere giudiziario nel settore economico, è opportuno, quindi, che le misure di prevenzione siano adottate sulla base di un quadro indiziario di notevole rilievo[8]. Se la sanzione penale è extrema ratio, le misure di prevenzione costituiscono l’extrema ratio del sistema penale e processuale. Da questo punto di vista, le motivazioni del decreto appaiono molto equilibrate. Correttamente, infatti, il Tribunale evidenzia come i lavoratori venissero retribuiti “a cottimo” senza alcuna base minima garantita e senza che avesse alcun rilievo la distanza percorsa, le condizioni metereologiche e la fascia oraria. Inoltre non sono state correttamente versate né le ritenute d’acconto, nè quelle previdenziali, ma persino le mance elargite dai clienti venivano indebitamente trattenute. Infine i lavoratori erano sottoposti a forme di controllo e a vere e proprie “penalità”, che consistevano nella decurtazione del compenso o nella disconnessione dalla piattaforma. Ovviamente tali “provvedimenti disciplinari” venivano assunti senza contestazioni formali al lavoratore e senza contraddittorio, sulla base di un codice comportamentale dai contenuti discutibili e la cui fonte è un messaggio Whatsapp.

Non altrettanto approfondita è, invece, la motivazione sull’approfittamento dello stato di bisogno, l’altro elemento costitutivo del fatto tipico. Anche questa locuzione non brilla certo per nitidezza concettuale, né è univoca nel suo significato. La difficoltà dell’interprete di definire e soprattutto accertare la tipicità oggettiva e soggettiva di tale elemento ha portato la prassi giurisprudenziale ad un escamotage motivazionale, per cui lo stato di bisogno si desume nella condizione dello straniero irregolare o comunque dal fatto di aver accettato condizioni lavorative degradanti[9]. Si comprende in parte tale corrività nelle motivazioni dell’approfittamento dello stato di bisogno, anche perché esso è un elemento del fatto tipico che si aggiunge ad una condotta già meritevole di pena, in grado di catalizzare tutto il disvalore penale della fattispecie: lo sfruttamento lavorativo è sempre penalmente illecito, quando si sostanzia non in mere irregolarità formali, ma in forme di coartazione della libertà  e di mortificazione dei diritti del lavoratore, sebbene non così profonde da integrare l’ipotesi di riduzione in servitù[10]. L’approfittamento dello stato di bisogno se da un lato approfondisce ulteriormente il disvalore penale dello sfruttamento, dall’altro rischia però di delimitare l’operatività della fattispecie, inserendo ulteriori oneri probatori.

 

2. La gig-economy e la frammentazione dei centri di imputazione 

Il secondo aspetto della vicenda che presenta profili di notevole interesse, sollecitando una riflessione sull’adeguatezza degli strumenti del diritto penale rispetto a fenomeni criminali che si sviluppano in un sistema economico sostanzialmente deregolamentato, riguarda il ruolo assunto da Uber Italy. Il presupposto della misura di prevenzione è che Uber è un soggetto terzo che colposamente ha agevolato e/o favorito l’attività di sfruttamento lavorativo da parte degli indagati.

Dalle indagini risulta l’esistenza di un contratto di prestazione tecnologica da parte del colosso Uber che ha ad oggetto una piattaforma informatica utilizzata dai partners contrattuali per la gestione delle consegne a domicilio. Le consegne a domicilio erano, però, quelle appaltate dalla stessa Uber agli indagati che fungevano da intermediari fra Uber Italy e i fattorini, nell’ambito del food delivery

Le stesse motivazioni del decreto evidenziano, però, come Uber Italy «partecipi, attraverso alcuni suoi dipendenti, a sanzionare i riders e di come, al di là delle apparenze, incida pesantemente sui turni di lavoro degli stessi». Ed ancora che «[…] l’implicazione di alcuni soggetti appartenenti a Uber nella gestione dei riders è stata piuttosto intensa e la documentazione qui di seguito riportata attesta una realtà di forte sfruttamento, di intimidazione e di prevaricazione a cui Uber, almeno in alcune sue figure professionali, non era estranea». Uber Italy, sempre secondo quanto affermato nel decreto, chiedeva «periodicamente agli indagati di comunicare il proprio planning settimanale in modo che potesse essere sottoposto a vaglio, eventualmente modificato e, quindi, autorizzato. […] Ciò significa che l’autonomia lavorativa dei riders era, in realtà, vincolata e coordinata da Uber». Ed infine le comunicazioni Whatsapp evidenziano l’adesione di alcuni dipendenti Uber Italy «al disegno criminoso degli indagati». In particolare dalle conversazioni riportate nel decreto vi è la totale condivisione delle scelte di sanzionare dei riders, la cui disconnessione dalla piattaforma veniva operata direttamente dalla Uber. 

Le relazioni intrecciate fra la società di intermediazione di manodopera e Uber Italy non sembrerebbero tali da collocare Uber Italy in una posizione terza rispetto alle condotte di sfruttamento poste in essere dagli indagati. Tanto che nelle conclusioni del decreto si evidenzia come l’ingerenza di Uber nei meccanismi decisionale del suo fleet partner ne limiti del tutto le sue capacità decisionali. Per tali motivi il provvedimento riconosce «un ulteriore profilo di concorsualità o, quantomeno di attività di favoreggiamento, realizzata da diversi managers/dipendenti della galassia Uber».

Potrebbe, quindi, sembrare contraddittorio ritenere Uber Italy soggetto terzo pur avendo così pesantemente “interferito” nella gestione dell’attività dei suoi partner. Tuttavia non è opportuno né produttivo focalizzare l’attenzione sul caso concreto e sulle motivazioni del provvedimento, ma è certamente proficua una riflessione che prenda spunto dalla vicenda che si presenta come paradigmatica di un certo modello di produzione e sistema economico.

Attraverso gruppi societari e forme contrattuali complesse è possibile garantire l’immunità a chi di fatto utilizza il lavoro sfruttato, in quanto schermi giudici dissimulano il coinvolgimento di chi effettivamente beneficia di situazioni di degrado lavorativo. La normativa penale italiana posta a tutela del lavoratore, che può anche considerarsi tra le migliori possibili, si inserisce, tuttavia, in un ordinamento che sembra ancora ignorare la svolta epocale che la globalizzazione ha determinato nel sistema economico. 

L’art. 603-bis c.p. prende come modello di sfruttamento la violazione di norme che disciplinano il lavoro subordinato “classico”, quando è chiaro che le forme di sfruttamento si concretizzano più agevolmente attraverso altri schemi contrattuali, apparentemente autonomi, ma che sostanzialmente rinviano a schemi negoziali tipici della subordinazione.  La legge n.128 del 2019 ha incluso nell’ambito delle cd collaborazioni etero-organizzate[11] le collaborazioni rese tramite piattaforma anche digitale, modificando l’art. 2 comma del dlgs n. 81 del 2015 e la Corte di cassazione con la sentenza n. 1663 del 20 gennaio 2020 ha esteso le tutele e la disciplina della subordinazione anche alle collaborazioni etero-organizzate. A questa dinamicità del diritto del lavoro, il diritto penale sembra aver risposto con una rigidità che potrebbe ostacolare, in base a interpretazioni letterali degli indici di sfruttamento, una più ampia operatività della fattispecie di sfruttamento della manodopera.

La responsabilità degli enti, disciplinata dal d.lgs n. 231 del 2001, non prevede, inoltre, una responsabilità nell’ambito di gruppi societari e/o network di società, per cui attraverso una serie di combinazioni/manipolazioni societarie, è possibile creare un oasis effect per le persone giuridiche.

Infine non è prevista nel nostro ordinamento alcuna responsabilità per l’utilizzatore/beneficiario dello sfruttamento lavorativo, che, attraverso abili stratagemmi legali, non coincide né con la figura dell’intermediatore, ma neanche con quella del datore di lavoro. Questa forse è la più grave lacuna che il legislatore del 2016 ha mancato di colmare, disattendendo anche le indicazioni della direttiva 36/2011, che all’art. 18 suggerisce di intervenire attraverso misure tali che “la prevenzione e il contrasto della tratta di esseri umani diventino più efficaci scoraggiando la domanda”. A tal riguardo la direttiva suggerisce anche la possibilità di introdurre come reato la condotta di chi ricorre consapevolmente ai servizi, oggetto dello sfruttamento, prestati da una persona che è vittima di uno dei reati previsti dall’art. 2 della direttiva[12].

Certamente il diritto penale non può governare il mercato del lavoro, né compiere scelte in materia economica, tuttavia il diritto penale deve individuare correttamente la responsabilità penale e tutelare effettivamente le vittime. In questa prospettiva è necessario ancora intraprendere delle riforme, che mettano in luce le responsabilità dell’utilizzatore che consapevolmente utilizzi manodopera sfruttata, anche riformando la disciplina della responsabilità degli enti e renda effettivamente dinamica la fattispecie di cui all’art. 603-bis cp individuando degli indici in grado di descrivere una tipicità di contesto più aderente alla realtà del lavoro sfruttato.

 

 
[1] V. M. Barbieri, Contraddizioni sistematiche e possibili effetti positivi di una legge di buone intenzioni e cattiva fattura, pp. 75, 83, in U.Carabelli e L. Fassina, (a cura di), La nuova legge sui riders e sulle collaborazioni etero-organizzate, Ediesse, Consulta Giuridica, Roma, 2020.
[2] V. l’approfondita analisi di A. di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, il Mulino, Bologna, 2020, passim.; Id. «Caporalato» e repressione penale: una correlazione (troppo) scontata? in E.Rigo (a cura di), Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche e di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura, Pacini, Pisa, 2015, p. 69. Sul concetto di sfruttamento: A. Bevere, La condizione analoga alla schiavitù nella giurisprudenza e nella riforma legislativa, in Crit. dir., 2016, pp. 7 ss.;  L. Bin, Problemi “interni” e problemi “esterni” del reato di intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro (art. 603-bis c.p.), in www.lalegislazionepenale.eu, 10 Marzo 2020; P. Curzio, Sfruttamento del lavoro e repressione penale, in F. Di Marzio (a cura di), Agricoltura senza caporalato: osservatorio sulla criminalità in agricoltura e sul sistema agroalimentare, Donizelli, Roma, 2017; S.Fiore, (Dignità degli) Uomini e (punizione dei) Caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Aa. Vv., Scritti in onore di Alfonso Stile, ESI, Napoli, 2014, pp. 881 ss.; Id., La nuova disciplina penale della intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, tra innovazioni e insuperabili limiti, in Dir. agr., 2017, pp. 267 ss.; A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di «caporalato» e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, in www.lalegislazionepenale.eu, 3 aprile 2017; F. Giunta, Il confine incerto. A proposito di caporalato e lavoro servile, in DisCrimen, 17 febbraio 2020; V. Mongillo, Forced Labour e sfruttamento lavorativo nella catena delle forniture delle imprese: strategie globali di prevenzione e repressione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2, 2019, pp.630 ss;  D. Piva, I limiti dell’intervento penale sul caporalato come sistema (e non condotta) di produzione: brevi note a margine della L. 199/2016, in Arch. Pen., 2017, pp. 184 ss   S.Tordini Cagli, Profili penali del collocamento della manodopera. Dalla intermediazione illecita all’“Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, in Indice pen., 2017, pp. 727 ss.
[3] Sul punto si veda A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., pp. 63 ss. 
[4] Così nella relazione dell’on. Beretta, Relazione per la II Commissione (A.C. 4008), in www.penalecontemporaneo.it, 16 novembre 2016, 4: «Il legislatore, con l'elencazione degli indici di sfruttamento, semplicemente agevola i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l'indagine e l'accertamento in quei settori (retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative, ecc.) che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione di condotte di sfruttamento e di approfittamento. A tal proposito, si è detto molto opportunamente in dottrina che gli indici svolgono una funzione di "orientamento probatorio" per il giudice: ed è per tale ragione che non ha fondamento il rilievo critico circa l'asserito difetto di determinatezza della norma che li descrive o circa la loro presunta incompletezza».
[5] Non è possibile trattare in questa sede questo delicatissimo problema teorico, affrontato ampiamente dalla dottrina citata alla nota 1. Valorizza l’idea di una tipicità di contesto A. di Martino, Lo sfruttamento del lavoro, cit., pp. 59 ss.
[6] Secondo autorevole dottrina, la tipizzazione mediante indici è paragonabile ad un ornitorinco, che, tuttavia, per il suo carattere innovativo non è stata accolta positivamente dalla dottrina, che, molto probabilmente, non ha saputo cogliere i pregi di tale tecnica legislativa, sul punto A. di Martino, Lo sfruttamento del lavoro, cit., pp. 70 ss. Avendo la sottoscritta manifestato notevoli perplessità sulla nuova fattispecie delittuosa, come già precisato in un recente contributo pubblicato su questa rivista, la mia critica non si appunta esclusivamente sulla tecnica legislativa, che merita anche apprezzamento, ma investe le scelte politico-criminali compiute dal legislatore e conseguentemente il disvalore penale espresso dal fatto tipico. Da un punto di vista sostanziale vi sono innegabili profili critici, che limitano l’operatività e l’efficacia dell’intervento penale: il caso c.d. Uber è il risultato di una incertezza (se non anche approssimazione) politico criminale. Anche A. di Martino, op. ult. cit., p. 113, nota 96, afferma che sia alquanto problematico di inquadrare il lavoro nell’ambito della gig-economy nel contesto giuridico dello sfruttamento lavorativo, ex art. 603-bis c.p.
[7] Sul punto si vedano le approfondite riflessioni di A. di Martino, op. ult. cit., pp. 127 ss.
[8] Più in generale sulle misure preventive e cautelari predisposte nel caso di intermediazione illecita si veda in S. Corso, Oltre il contrasto al “caporalato”: dalla tutela della produzione alla tutela dell’occupazione, in G. De Santis, S.Corso, F. Delvecchio (a cura di), Studi sul caporalato, Giappichelli, Torino, 2020, pp. 87 ss.; F. Delvecchio, Il controllo giudiziario dell’azienda e l’amministrazione dei beni sequestrati, ivi, pp. 132 ss.;  S. Lorusso, Il controllo giudiziario dell’azienda: profili sistematici, ivi, pp. 121 ss.
[9] Sul punto sia consentito rinviare a V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione giustizia trimestrale, 2019, https://www.questionegiustizia.it/rivista/2019-4.php 
[10] In questo senso A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di «caporalato» e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, in www.lalegislazionepenale.eu, 3 aprile 2017, p. 58
[11] Sul punto si rinvia a U. Carabelli e L. Fassina, (a cura di), La nuova legge sui riders e sulle collaborazioni etero-organizzate, Ediesse, Consulta Giuridica, Roma, 2020, passim ed in particolare a M. Baribier, po.cit., pp.75 ss. 
[12] Sul punto sia consentito rinviare a V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in GDL, 2018, pp. 289 ss. 

24/06/2020
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