1. Mai come nell’epoca attuale, le finestre della politica criminale si sono spalancate sul diritto penale.
Ad esso si attinge a piene mani, non solo eleggendo la pena ad instrumentum regni, secondo un utilizzo tradizionale cui da sempre indulge la politica [1]; non solo manipolandone le componenti emotive come strumento di consenso elettorale [2], secondo le dinamiche ormai tipiche del “populismo penale” che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing [3]; ma ora, persino, utilizzando lo strumento penale come modalità di “riconoscimento” (Anerkennung) dei nuovi attori politici, quasi attraverso una «elaborazione punitiva del passato» orientata su «tipologie d’autore» – più che su condotte – riferibili a precisi segmenti sociali, con conseguente autolegittimazione del nuovo assetto di potere rispetto ai precedenti.
Dopo una lunga e faticosa stagione in cui si è cercato di distinguerlo dalla politica (e dalla politica criminale) [4], dunque, il diritto penale né è divenuto parte integrante, componente identitaria e trainante.
2. In questa prospettiva, il “modello” di diritto penale che si affaccia negli itinerari più recenti [5], esito di mutazioni progressive che si sono stratificate e moltiplicate con un’accelerazione incalzante, sembra rispondere ad un paradigma non solo distante ma radicalmente distinto rispetto a quello tradizionale, sino a profilare un vero e proprio “mutamento di paradigma” [6], emblematizzato da un lessico inequivoco come quello che accompagna il più recente prodotto dell’opificio legislativo populista, la legge n. 3 del 2019, ossia la cd. legge “spazzacorrotti”: e si sa che le definizioni non hanno mai nulla di ingenuo, ma riflettono – orwellianamente – una relazione intima con il potere [7].
2.1 In effetti, l’archetipo non pare più – lo si deve riconoscere con franchezza e disincanto, certo non con disimpegno – quello della Magna Charta del reo, pur deformato dalle ciniche finalità a cui si è andato adattando nel tempo: non più, dunque, il modello reocentrico, antiautoritario, che vuole il diritto penale come «diritto negativo», come «scienza dei limiti» (Strafbegrenzungswissenschaft), dove il codice penale segna le «barriere insuperabili della politica criminale», e che fonda e limita la legittimazione dello ius puniendi in ragione del grado di accettazione sociale delle “regole” e delle garanzie sostanziali e processuali che lo presidiano, frutto di una sedimentazione secolare a partire dai lasciti di Beccaria, Carrara e v. Liszt. Non più un modello che vuole il processo un meccanismo dove «la caccia vale più della preda», strumento di accertamento di responsabilità individuali e puntiformi, secondo un rigoroso itinerario di razionalità costruito, soprattutto, su regole di esclusione, e dominato dal principio in dubio pro libertate.
Certo questo modello “liberale” – che pur persiste nell’immaginario dei penalisti nella sua valenza idealtipica [8] e necessitata [9] – era già apparso scomposto ed alterato, come noto, dalle recenti evoluzioni della politica criminale [10], e fortemente destabilizzato dalla «curvatura vittimocentrica» del diritto penale [11], sino ad essere dichiaratamente sfidato – pur solo in taluni ambiti “eccezionali” – dal paradigma alternativo del «diritto penale del nemico».
Ma anche questi due “prototipi” – pur lasciando una traccia evidente della loro epifania – non sembrano spiegare compiutamente le evoluzioni attuali, visto che esse, da un lato, si registrano anche ed anzitutto al cospetto di idealtipi criminosi “senza vittime” (o a “vittima diffusa”, come i reati di corruzione) [12]; e che, dall’altro, anche il (pur prossimo, per certi versi) modello estremo del «diritto penale del nemico» [13] – condivisibili o meno che ne fossero i postulati – era pur sempre basato su un presupposto epistemologico – la possibilità di dialogare, o meno, con il reo/destinatario del precetto da parte dello Stato, e la conseguente differenziazione ratione subiecti dello strumentario giuridico-penale – che di fronte all’attuale modello (e non solo al cospetto dei white collars) appare, sostanzialmente, privo di rilievo [14].
Piuttosto, il modello attuale di diritto penale, estremizzando l’idea di “lotta” [15] indiscriminata e focalizzandola – nella più recente moral crusade – su forme di devianza riferibili a soggetti appartenenti alle élites politico-amministrative (e/o su condotte trasgressive riconducibili a precedenti assetti di potere), appare realmente ispirato a finalità di diffrazione del sociale attraverso il prisma della pena, se non di “vendetta sociale”, come quella cui sembra protesa, appunto, la legge n. 3 del 2019 – sulla quale maggiormente ci si concentrerà [16], espressiva di una «giustizia repressiva e vendicativa» [17], o di un autentico «accanimento repressivo» o di una «furia punitiva» assunta «come fuoco purificatore del marciume criminale» [18].
2.2 Questo “nuovo paradigma punitivo” sembra avere, in linea generale, alcuni tratti caratterizzanti.
In primo luogo, in linea con le declinazioni tipiche del populismo penale [19], l’istanza di razionalità non è più assunta come base edificativa del diritto penale, ma lo è piuttosto la effettività coûte que coûte – cieca e pervicace – dello strumento repressivo, che si vuole massimamente user friendly anzitutto nel perseguire un agognato traguardo di “certezza della pena” – sintagma quanto mai polisemico e ambiguo, qui inteso distorsivamente come «indefettibilità della punizione» se non come «certezza del carcere» [20] – e che ha come primo obiettivo la «lotta all’impunità» (fight against impunity).
In secondo luogo, e conseguentemente, esso evoca un utilizzo della penalità che, in sostanza, si autolegittima e non deve cercare referenti esterni: e come si sa, ciò che non ha fondamento non ha neppure limiti. Cosicché sembra scomparire – in uno con le basi di legittimazione gettate dall’Illuminismo – l’idea-forza della penalistica italiana, ed anzitutto di Franco Bricola, che ha proposto di intravedere la Carta costituzionale – con la teoria costituzionalmente orientata del reato – non solo come limite, ma come fondamento stesso del diritto penale [21].
Infine, e soprattutto, esso tramanda un utilizzo della penalità funzionale, principalmente, a legittimare chi lo propugna, dove la “catarsi punitiva” serve anzitutto come meccanismo di identificazione, contrassegnando come “diversi” i suoi promotori, per consacrarli nell’eliseo degli “incontaminati” dal malaffare (legge n. 3 del 2019) – la «virginale società civile» opposta alla «diabolica società politica» [22] – o nell’emiciclo dei paladini della sicurezza e della pace pubblica (legge n. 132 del 2018, di conv. del dl. n. 113 del 2018).
2.3 Può consolare, forse, il fatto che una simile “evoluzione” non identifichi un fenomeno solo italiano, e registri aspetti di similitudine in altre esperienze.
In Germania, ad esempio, a fronte del profluvio di leggi penali dello scorcio della scorsa legislatura [23], si è denunciata apertamente l’«ubriacatura punitiva» (o, più esattamente, il «finale Inkriminierungsrauch» [24]) di un legislatore tradizionalmente più ponderato, che invece – sostituito ormai pienamente il “vecchio” «diritto penale dei beni giuridici» (Rechtsgüterschutzstrafrecht) con il «diritto penale della prevenzione di pericoli» (Gefahrenabwehrstrafrecht), somministrato dai nuovi attori del “populismo” come sedativo alle ansie sociali – adotta moduli di intervento punitivo contaminati dal diritto di polizia, instradato su binari processuali sempre più distanti dai principi liberali e sempre più mortificanti per i diritti della difesa [25].
E nella più recente esperienza brasiliana, muovendo dalla nostra prospettiva, possono ravvisarsi tratti di analogia persino più marcati nel Projeto de ley anticrime, proposto dal Governo Bolsonaro (e dal neoministro della Giustizia Sergio Moro), come “biglietto da visita” del nuovo establishment [26]: per adeguare la legislazione alla realtà attuale e “diminuire la sensazione di impunità” la variegata ricetta consiste – inter alia – in nuove ipotesi di sospensione della prescrizione del reato, estensione delle condotte scriminate per gli agenti di polizia, ampliamento della discrezionalità del giudice, sentenze di condanna non definitive provvisoriamente esecutive [27], radicale estensione della pena carceraria (non solo inflitta ma) concretamente eseguita, e spirale carcerocentrica dalla quale è sempre più difficile uscire per il condannato [28].
3. Limitandoci all’esperienza italiana, su queste basi, dunque, i dispositivi della nuova meccanica punitiva risultano sempre più avulsi – i.e. si vogliono avulsi – da ogni vincolo, criterio, limite, con intensità (asseritamente) commisurata alla magnitudo del fenomeno criminoso da contrastare, e quasi a ricordare che «in atrocissimis […] licet iura transgredi»: sino ad approdare a quello che potrebbe definirsi il «diritto penale no-limits» dell’epoca attuale, che non è solo frutto di un trade-off tra efficienza e garanzie con un saldo conclusivo a tutto scapito di queste, ma che è un modello altro di diritto penale, predisposto e proteso a soddisfare pretese punitive opportunisticamente fomentate e drammatizzate, ed a realizzare – persino – una sorta di class action punitiva.
Esso registra quindi non solo un allontanamento progressivo dai canoni di offensività ed extrema ratio [29], o una diastasi dai principi di ragionevolezza e proporzione, ovvero cedimenti già anticipati – in modo più o meno evidente – da esperienze legislative recenti [30]. Ma evoca appunto un modello di diritto penale eccentrico (perché non ha più un centro) ed ametrico (perché è privo ormai di misura) che, completando una traiettoria ondivaga e intermittente, sembra avere ormai – dichiaratamente e definitivamente – sciolto gli ormeggi dai suoi valori fondativi e dai suoi dispositivi caratterizzanti: accomiatandosi, anzitutto, dalla tipicità legale del reato, da ogni idea di proporzione come metro dell’equilibrio interno al rapporto precetto/disvalore/sanzione e come canone generale e trasversale dell’intervento punitivo (Verhältnismässiskeitsgrundsatz), e dalla presunzione di innocenza, sempre più debilitata da una crescente relativizzazione.
3.1 Quanto al primo aspetto, per vero, il congedo dalla primazia della legge e dalla “tipicità legale” – eletta a snodo fondamentale del passaggio al moderno [31] – ha radici risalenti, e ha preso piede su un terreno ampiamente dissodato da una pluralità di fattori.
3.1.1 Ben inteso: che la “tipicità penale” – specie in un’epoca dove il concetto di “fattispecie” è da tempo associato alla sua “crisi” [32] – non fosse più quella custodita in uno “schema logico-concettuale chiuso” e conchiuso nella “graniticità” del Tatbestand lo aveva testimoniato, prepotentemente, la progressiva consapevolezza sul “valore del precedente” nel diritto penale [33] e, di qui, l’irruzione sulla scena della “legalità giurisprudenziale” [34], che ha protagonizzato il momento interpretativo a scapito della legge: una presenza ormai tanto incalzante da costringere la Corte costituzionale – come pure si vedrà – a trincerarsi nella cittadella fortificata dei principi supremi (sottoposizione del giudice alla legge – articolo 101, secondo comma, Cost. – separazione dei poteri) in diverse occasioni recenti [35].
Sennonché, l’erompere della legalità giurisprudenziale – per certi versi inevitabile, se non del tutto fisiologico – si è talvolta accompagnato ad una sorta di pretesa “liberalizzazione” dei metodi interpretativi, quasi che la centralità dell’interpretazione giurisprudenziale – questo il fraintendimento – significhi libertà dell’interpretazione tout court, se non ritorno ad un vero e proprio “diritto libero”.
È un fatto che la “lettera della legge” sia assunta, spesso, a semplice starting point, e che l’analogia in malam partem – il cui divieto incarna il «postulato costituzionale identitario di tutta la disciplina» [36] – venga ormai silenziosamente considerata “sofferenza bilanciabile” con altre istanze, volta a volta promosse dal “diritto vivente” alla luce di criteri storici, sistematici, logici, teleologici, orientati ad altri valori costituzionali, all’effetto utile o, più in generale, alle conseguenze e agli scopi: anche nelle decisioni più autorevoli delle Sezioni Unite [37].
Senza contare che tale libertà interpretativa si associa spesso, specie nei gradi di merito, a prassi applicative del diritto – incalzate da un efficientismo tanto agognato quanto miope – dove la “scelta” dell’interprete è costretta a limitarsi, il più delle volte, a reperire ex post un qualche precedente – più o meno “consolidato” [38] – richiamato acriticamente, se non in chiave di mera «reassurance juridique».
Quindi, crescente libertà nell’interpretazione del diritto (Rechtsauslegung) e crescente acriticità nell’applicazione del diritto (Rechtsanwendung): fenomeno, questo, tanto più rimarchevole e preoccupante in materia penale, a cui ha cercato di porre freno la dottrina, di recente, evidenziando con insistenza crescente l’urgenza di una vera e propria “deontologia ermeneutica” [39], che instradi l’interpretazione penale sui binari di un «diritto giurisprudenziale maturo» [40].
3.1.2 Ora, una tale deriva interpretativa (e applicativa) del diritto penale si è affermata – senza dubbio – grazie al laissez faire del legislatore, che l’ha anzi alimentata – per ragioni sulle quali cercherà di tornare – abdicando progressivamente alla tipicità legale, con evidenza immediata in alcuni settori più che in altri.
Tra i tanti che potrebbero menzionarsi, se ne ha un esempio significativo proprio nell’ambito dei delitti contro la Pubblica amministrazione, oggetto della legge n. 3 del 2019, e segnatamente al cospetto dei delitti di corruzione, che – muovendo dall’accoglimento di una nozione sociologica di corruzione – sono ormai scivolati verso una “tendenziale atipicità”: in effetti, questo settore sembra ormai affidato a “fattispecie ubiquitarie”, “a tipicità sintomatica”, dove la linea di intervento penale propende pericolosamente dal fatto all’autore (o al “tipo criminologico d’autore”/Tätertyp), polarizzando persino il fuoco del disvalore sul solo corpus delicti (il denaro o – più latamente – la “utilità indebita” che qualifica ogni transazione corruttiva), accompagnato da contrassegni di tipicità sempre più diafani e inespressivi (come l’abuso della mera qualità) [41].
Ed è noto che dalla porta dei reati contro la Pubblica amministrazione passa il sindacato sulla discrezionalità amministrativa e, quindi, sulla politica da parte del giudice penale, cosicché una maggior lassità nel definire i contrassegni di tipicità in quel settore corrisponde all’ampliamento di forme di controllo più o meno pervasive delegate alla magistratura; forme di controllo talvolta esasperate, che penetrano anche attraverso l’impiego di fattispecie tradizionali sino a raggiungere – come è stato rilevato – una autentica presunzione di criminosità dell’attività politica, o una sorta di “demonizzazione” [42], che ora sembra aver trovato riscontro – ancora nella legge n. 3 del 2019 – nella diposizione che estende intransigenti regimi di incompatibilità e gravosi obblighi di trasparenza a fondazioni, associazioni, comitati [43].
3.1.3 Il commiato dalla tipicità legale ha poi trovato una ragione di conferma strutturale, e quasi di convalidazione ab externo: in particolare, che la tipicità – il “fatto tipico offensivo”, architrave del giudizio di colpevolezza – non rispecchi più l’unico paradigma legittimo lo ha confermato il progressivo protagonismo di un modello alternativo e antitetico, ossia il paradigma della prevenzione [44], al quale via via sono state affidate le «magnifiche sorti e progressive» dell’intervento penale, con una overdose di potenziale afflittivo che solo il faticoso travaglio della Cassazione – e della Corte costituzionale, come pure si dirà – sta cercando di riportare ad un equilibrio sostenibile.
In sostanza, trainato dall’asserita ineffettività del “diritto penale classico”, l’armamentario della prevenzione si è affermato in chiave di “surroga” come paradigma non più eccezionale (dal brigantaggio, al terrorismo, al crimine organizzato) ma come regola, ormai “consolidat[a] e nobilitat[a] anche linguisticamente nel codice antimafia” [45]; e le misure di prevenzione personali e patrimoniali – cresciute nel cono d’ombra del diritto penale liberale, e idolo polemico dei penalisti “costituzionalmente orientati” [46] – sono diventate elemento centrale della odierna meccanica punitiva, estendendo a dismisura il proprio raggio di azione a costellazioni di ipotesi caratterizzate da indici di “pericolosità presunta”, generica e specifica, che sono solo – per così dire – l’ombre portée delle corrispondenti matrici tipologiche del diritto penale [47], e che la dottrina più sensibile e la giurisprudenza più consapevole, con notevole travaglio ermeneutico, tentano di sagomare “alla meno peggio” mediante letture “tassativizzanti e tipizzanti” [48].
3.1.4 Rileggere in chiave problematica questo trend, oggi, potrà forse apparire “antistorico” – se non persino “nostalgico” –, ma il follow up ci sembra necessario per comprendere dove si è arrivati, e soprattutto come è stato preparato il campo all’irruzione dell’attuale modello di diritto penale.
In sintesi: lo sfaldamento della tipicità legale, espropriata da una interpretazione senza più criteri, affidata a fattispecie senza confini nitidi nella tipizzazione del comportamento (Verhaltenstypus) e del “tipo di lesione valoriale” (Wertverletzungstypus), si accompagna ormai ad un affiancamento del paradigma del «diritto penale della tipicità legale» al paradigma epistemologicamente diverso ed opposto del «diritto penale preventivo», che con il suo dispiegarsi – visto che ogni sistema è incline alla reotrazione, e così pure quello normativo – ha modificato l’inerzia del sistema, prospettando come modello possibile – e costituzionalmente tollerabile – quello di una “giurisdizione senza fatto” [49] e di misure disposte praeter probationem delicti, con l’effetto perverso di sdrammatizzare ogni problema di tassatività e determinatezza – così come ogni problema di interpretazione/analogia – diluito ormai in un contesto che ha già accettato una diversa base epistemologica per l’intervento penale.
In questo quadro sconnesso, non deve dunque sorprendere che circoli pericolosamente nel sistema – e nell’immaginario collettivo – lo slogan per cui «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti», e l’idea consequenziale che, quindi, leggi penali lasche servano a rimediare ad improvvide assoluzioni (con le ricadute che si evidenzieranno in punto di presunzione di innocenza).
E non sorprende nemmeno che ferite ancor più eclatanti alla “legalità legale”, persino nel suo contenuto “astorico” della irretroattività, possano risultare accettabili, nascoste dietro la paratìa formale – tanto comoda quanto inappagante – di qualche tralatizia distinzione, come quella tra disposizioni sostanziali e disposizioni concernenti l’esecuzione penale, con immediata applicazione di queste ultime nonostante le evidenti e contundenti ricadute afflittive, e nonostante – soprattutto – la diversa lettura antiformalistica che sembra emergere dalla giurisprudenza europea [50] (il pensiero corre all’estensione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario – e del regime di ostatività – ai delitti contro la Pubblica amministrazione) [51].
Quasi che il nullum crimen sine praevia lege poneali, di fronte a talune forme di criminalità odiosa come quella della corruzione, sia ormai quantité negligeable, improvvido intralcio all’affermarsi della palingenesi punitiva intesa – appunto – come “vendetta sociale”.
3.2 Non meno evidente ed incalzante il congedo dal principio di proporzione tra reato e pena, istanza che – come si sa – vanta nobili ascendenti [52], referenti costituzionali immediati che la saldano alla finalità rieducativa della pena, e riferimenti nelle principali Carte dei diritti (articolo 49 Cdfue); e che purtuttavia oggi appare un vincolo troppo angusto per un diritto penale che si vuole truculenta manifestazione di revanchismo punitivo.
Anche su questo fronte, le lacerazioni non sono nuove, e i bagliori si sono avvertiti nelle frequenti impennate delle cornici edittali, in diversi settori, sempre al traino dell’acutizzarsi dell’allarme sociale, anche episodico, e alla risposta cinicamente placativa del legislatore (come nell’esempio emblematico dell’omicidio stradale, o dello stalking, o ancora dei reati di corruzione, ovvero nel settore dei reati di market abuse, etc.).
Sennonché, l’abnormità della reazione sanzionatoria appare oggi apertamente tematizzata come esibizione di integralismo e diversità di Weltanschauung: veicolata da “misure manifesto” come il Daspo per i corrotti (ossia pene interdittive pressoché perpetue capaci di resistere non solo alla sospensione condizionale ma anche – quasi una sorta di damnatio memoriae – alla riabilitazione) [53] o da spinte carcerocentriche come quelle promosse dalla menzionata estensione dell’articolo 4-bis ord. pen. anche ai reati contro la Pubblica amministrazione, con necessario “assaggio di pena” imposto anche a chi avrebbe avuto ragionevolmente accesso a misura extramuraria secondo la disciplina ordinaria.
Del resto, la rimozione dell’idea stessa di proporzionalità e di ogni equilibrio costituzionale nella allocazione della responsabilità penale penetra nei più diversi ambiti, ed emerge anche nei progetti di riforma – prossimi al traguardo – della «legittima difesa armata domiciliare», che vorrebbe anteporre – non so bene come – l’inviolabilità del domicilio all’inviolabilità della vita umana. Si dirà che è solo propaganda, e che la giurisprudenza – domani come ieri – non potrà che neutralizzare gran parte del novum legislativo (e dell’intentio auctoris) [54]: ma la semiologia in cui si esprime è chiaramente tesa a sovvertire il rapporto tra i valori in gioco.
3.3 Sullo sfondo, questa disarticolazione del diritto penale dai suoi presupposti fondativi, e dai corrispondenti limiti, trova un campo reso particolarmente fertile dal progressivo declino e dalla “relativizzazione” della presunzione di innocenza – la garanzia più semplice e disarmata, pietra d’angolo di una giustizia penale liberale –, sempre più svilita sia come regola di giudizio che come regola di trattamento.
3.3.1 Sul primo fronte, la progressiva ipotrofia della presunzione di innocenza – come noto – si deve all’impoverimento della tipicità legale, e alla perdita di “rigore” del tipo di cui si è accennato.
Del resto, quando si assottiglia il coefficiente di tassatività/determinatezza del tipo, e il perimetro di rilievo penale è affidato a “fattispecie a tipicità sintomatica” costruite su elementi “a tassatività debole”, si atrofizza anche il thema probandum, con ricadute simmetriche sul versante della tenuta processuale, dove il pericolo costante è “che la prova si fondi su meri dati presuntivi”, in spregio alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio; ed a fronte di fattispecie poco determinate è la stessa giurisprudenza – nella sua composizione più autorevole – ad ammonire sulla necessità di «scongiurare mere presunzioni o inaffidabili automatismi nella verifica della ipotesi accusatoria» [55].
3.3.2 Ma la garanzia della presunzione di innocenza è ormai sfibrata da attacchi persino più frontali e graffianti, anzitutto come “regola di trattamento”.
Se ne ha traccia evidente nella progressiva anticipazione degli “effetti del procedimento penale” sulla sfera giuridica dell’imputato: in una campionario di esempi crescente e sempre più variegato, basti pensare alle diverse incapacitazioni e limitazioni che incidono – nelle diverse sequenze processuali, ed in linea di principio a partire dalla sentenza di condanna “anche non definitiva” – sui diritti politici (si pensi alle incandidabilità a cariche elettive previste – in attuazione della legge Severino – dal d.lgs n. 235 del 2012), economici o lavorativi (si pensi alle cause ostative previste nel codice degli appalti, ma anche ai requisiti di onorabilità previsti per le società quotate, ovvero ancora alle inconferibilità di incarichi presso pubbliche amministrazione previsti, sempre in attuazione della legge n. 190 del 2012, dal d.lgs n. 39 del 2013), o sugli stessi diritti civili (come recentemente previsto dal citato dl. n. 113 del 2018 (conv. in legge n. 132 del 2018), rispetto al richiedente asilo internazionale che sia anche solo «sottoposto a procedimento penale», o condannato anche con sentenza non definitiva (per reati tra i quali compare anche quello – di limitata gravità – di violenza o minaccia al pubblico ufficiale, ex articolo 336 cp) [56]; tutte limitazioni imposte al prezzo di una contrazione della presunzione di innocenza, ritenuta soccombente rispetto ad altri interessi.
La relativizzazione della presunzione di innocenza sembra, persino, tematizzata in forma compiuta, quando si accetta – con l’avallo della Corte costituzionale e persino della Corte Edu [57] – che misure a contenuto afflittivo (e “sostanzialmente penali” quali sono talune ipotesi di confisca) siano disposte a fronte di un mero accertamento sostanziale della responsabilità, condotto in itinere iudicii, e pur in presenza di un proscioglimento determinato da una sopravvenuta causa di estinzione del reato come la prescrizione: con una “licenza” rispetto al principio nullum crimen sine iudicio che – è stato autorevolmente rilevato – sembra rievocare formule medievali come quella che voleva l’imputato à moitié acquitté [58].
A questo progressivo svilimento della presunzione di innocenza come “regola di trattamento” ci siamo, del resto, assuefatti: la si tocca con mano dagli spalti del “processo mediatico”, quella rappresentazione di “giustizia parallela” ormai diffusa nei più diversi format (dal talk show, al docufiction, all’infotainment) che rappresenta una delle esperienze più “immersive” della penalità contemporanea, e che – incalzata dall’urgenza di costruire una risposta che soddisfi la voracità dell’audience – ha l’unico comune denominatore nel presentare l’indagato come reo, secondo la sommaria e tribale ricostruzione operata, appunto, sul «palcoscenico catodico di verità di pronto consumo offerto dai media» [59].
3.3.3 Su queste basi, il congedo definitivo dalla presunzione di innocenza – come “valore di fondo” del sistema – sembra evidente nella recente legge cd. “spazzacorrotti”.
In effetti, un primo indizio – alquanto sintomatico – sembrerebbe potersi desumere dall’estensione ancora ai reati di corruzione della figura del cd. “agente infiltrato”, profilato con tratti piuttosto ambigui nonostante i moniti della giurisprudenza europea [60], ed inoculato dunque in un settore di criminalità comune che può germinare nei quotidiani rapporti tra politica/amministrazione e impresa e/o nel contesto ordinario del traffico economico-sociale: [61] introduzione alla quale – visto l’incerto perimetro normativo che non sembra neutralizzare con chiarezza la provocazione da parte dell’agente undercover [62] – sembra sottesa l’idea che il cittadino comune – e non il soggetto gravato da una presunzione di pericolosità più o meno fondata come quello che orbita nel contesto del crimine organizzato e/o del traffico internazionale di droga – sia un potenziale corruttore, che nella penombra della prassi – non si può escluderlo – potrà essere trascinato nell’orto del Getsemani e messo alla prova con la tentazione di chi si dispone al pactum sceleris, se non persino con un velato integrity test, secondo una logica chiaramente espressiva di uno “stato di polizia”, che diffida dei propri concittadini presumendoli, appunto, potenziali rei, o “proclivi a delinquere”.
Ma è soprattutto la “sterilizzazione” della prescrizione del reato ad evocare il tramonto assiologico della presunzione di innocenza: con una scelta di campo che tramanda una idea di “giustizia assoluta” – secondo il principio fiat iustitia et pereat mundus, che non tollera limitazioni temporali, utilitaristiche, proporzionate quali quelle imposte dalla “pena utile” e da una idea “secolarizzata di giustizia” – si adotta un modello tanto esasperato da far ricadere sull’imputato (persino dopo una assoluzione in primo grado) il passaggio del tempo e le inefficienze della giustizia: dove il retropensiero sembra chiaro, e coincide con l’abbandono del principio in dubio pro reo in favore dell’in dubio pro republica.
4. In un quadro così scomposto, e a fronte di un diritto penale sempre più disarticolato dalle sue premesse fondative liberali, l’unico freno ad una tale deriva è quello che tenta di opporre la Corte costituzionale, con decisioni che – sintomaticamente – interpellano sempre più spesso, di recente, principi fondamentali, riaffermati con forza e rigore indubbiamente inconsueti [63].
Se ne è avuto un esempio con le decisioni rese a margine della cd. “saga Taricco” [64], dove la Corte si è diffusa in una perentoria riaffermazione della legalità – nelle sue componenti più intime e nelle sue peculiarità “continentali” –, ripudiando apertamente l’idea del «giudice di scopo», chiudendo spazi a interventi “paralegislativi” dell’interpretazione giudiziale, disancorati da ogni «fondamento ermeneutico controllabile», ribadendo la primazia della legge nella sua inamovibile centralità «nei sistemi di civil law», e persino rivitalizzandola con un “sorprendente” richiamo al testo come limite ad ogni libertà di interpretazione, ridimensionata ad «un posterius incaricato a scrutare nelle eventuali zone d’ombra» [65].
Ancora sul fronte della tipicità legale, ma sul versante della prevenzione – oggetto di un recente “trittico” di importanti pronunce di accoglimento [66] – la Corte da un lato ha censurato – con un overruling rispetto al proprio precedente orientamento [67] – l’eccessiva genericità della prescrizione del «vivere onestamente e rispettare le leggi» [68]; dall’altro è giunta ad affermare – per quanto qui maggiormente interessa – che il difetto di tipizzazione non può essere compensato da «pur significativi sforzi della giurisprudenza» ove questi – coltivati soprattutto sul versante processuale e non sul versante della «tassatività sostanziale, relativa al thema probandum» [69] –, in ragione della perdurante convivenza di «due contrapposti indirizzi interpretativi», non siano riusciti ad «assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie […] sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” – oltre che in quali “modi” – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca» [70].
Si deve sempre alla Corte una significativa accentuazione del principio di proporzione, e della sua “capacità dimostrativa” – amplificata dalla rinuncia al geometrismo tipico del tertium comparationis [71] così come dal temperamento del dogma delle “rime obbligate” – messa subito alla prova sull’impervio campo delle ccdd. pene fisse (previste per i reati di bancarotta) [72], e confermata anche successivamente, in tema di stupefacenti [73]; ed una ulteriore “svolta” in punto di finalità rieducativa (articolo 27/3 Cost.), sul delicato tema dell’ergastolo, culminata nell’affermare – con valenza ben più generale – il «principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» [74].
Nel complesso, pur a fronte di talune decisioni di segno diverso – e più “compromissorie” [75] – l’approccio della Corte appare indubbiamente rigoroso, e sempre più impegnato nello sforzo di salvaguardare – o controbilanciare – le spinte deformanti di cui si è accennato.
Ma è chiaro a tutti che l’opera di freno della Consulta – necessariamente e strutturalmente parziale, specie in un sistema a “controllo accentrato” – ha un margine di azione limitato, non solo perché dipende da una certa composizione della Corte e dall’autorevolezza, indipendenza ed equilibrio dei suoi giudici (e di chi è chiamato a sceglierli, direttamente o indirettamente); ma anche e soprattutto perché la Corte – è stato da tempo evidenziato – è pur sempre un «decisore politico nazionale» [76], come tale non certo immune da condizionamenti esterni – ivi compresa la pubblica opinione – che ne mettono costantemente alla prova la vocazione anti-maggioritaria.
Ed è chiaro pure che anche le sentenze più coraggiose ed illuminate – come testimonia proprio la materia dell’immigrazione [77] – non hanno alcun valore fideiussorio per il futuro [78].
5. Verrebbe da chiedere, dunque, quali sono le funzioni di questo peculiare modello di diritto penale, eccentrico e ametrico, che appare come un vero e proprio «diritto penale no-limits»; e soprattutto quali conseguenze potrebbe implicare il farsi strada di questo paradigma – propagandosi ad altri settori sulla scia delle moral campaign volta a volta trainanti – non solo per i diritti e le garanzie, ma per l’assetto ordinamentale e per gli stessi equilibri dello stato di diritto.
Quanto alle funzioni, sembra chiaro che tra queste non vi sia alcun interesse per la prevenzione speciale positiva, e per la finalità rieducativa, che non può coesistere con la “neutralizzazione sociale” del reo [79]; ma anche la prevenzione generale – pur sempre basata su un calcolo di razionalità ex parte legislatoris sotteso all’idea di deterrence – non appare davvero un interesse centrale, e così pure la retribuzione – che pur potrebbe sembrare prossima, con la sua “maestosità svincolata da scopi”, a determinati automatismi, che sembrano evocare una radicalizzazione del just desert [80] – non sembra pertinente, tale e tanta è la distanza dal canone di proporzione che è consustanziale all’idea di retribuzione.
Si tratta dunque di altro: l’impiego della pena – come accennato – sembra funzionale ad una simbologia comunicativa che assume l’ostentazione punitiva, anzitutto, come strumento di legittimazione dei nuovi assetti di potere, dove però il messaggio non sembra divulgato in chiave di deterrenza (pro futuro), ma in chiave retrospettiva, appunto come una sorta di “revanche punitiva” che serve anzitutto a legittimare i nuovi attori politici; dove, peraltro, la severità della pena – o il cieco rigore nella sua esecuzione – non è solo eclatante manifestazione di integerrimo rigore in chiave di stabilizzazione sociale, ma è anzitutto – come accennato – truculenta ostentazione della diversità, nella tacita assunzione che le leggi sociali «non sono fatte per essere applicate da persone alle quali sono destinate, ma per essere applicate a coloro che non le hanno fatte» [81].
La “punizione”, dunque, neppure come “istituzione di memoria” a beneficio della collettività, ma come profilassi identitaria per un singolo gruppo, unita anche – difficile negarlo – alla elargizione pubblica del “godimento derivante dal castigo” [82] o dalla premonizione di una sofferenza provocata ad altri (Schadenfreude).
6. Ciò premesso, diventa più utile, ed urgente, interrogarsi sulle “conseguenze del futuro”, e sulle ricadute di questo “mutamento di paradigma”, partendo da una osservazione d’insieme.
Da una prospettiva grandangolare, non è difficile intravedere la transizione dal modello dello stato liberale al modello dello stato etico (dove il diritto penale è inteso come “strumento di purificazione dal male” [83], e proteso verso un ideale di giustizia assoluta: fiat iustitia et pereat mundus), a cui non sono del resto estranei – storicamente – tratti di stato di polizia; e non è dunque difficile scorgere – anche qui – l’avverarsi del presagio di chi, più di cinquant’anni or sono, avvertiva che lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire [84].
Su questo piano inclinato, ci si può chiedere quali possano essere le ricadute per la giurisdizione, e quali i nuovi (dis-)equilibri che potranno determinarsi sul piano della separazione dei poteri, al cospetto di un diritto penale liberato da ogni argine, ed affidato interamente alla gestione del giudice: considerando che a questi si chiede – in modo sempre più esplicito – di utilizzarlo come strumento di contrasto a fenomeni, e di operare come “giudice di scopo”, direttamente corresponsabilizzato nel perseguimento dell’obiettivo, la lotta alla criminalità e, anzitutto, la fight against impunity.
6.1 L’impressione è che dietro alla nouvelle vague politico-criminale vi sia una implicita – e forse perseguita – deresponsabilizzazione della politica e, parallelamente, una iper-responsabilizzazione della magistratura.
Sarebbe infatti ingenuo, a nostro avviso, intravedere – nell’evoluzione che si è ripercorsa – una reale apertura di credito nei confronti della magistratura e della discrezionalità giudiziaria, che del resto è oggetto di palese sfiducia in diversi ambiti, e gravata di interventi limitativi quando l’interesse “effettivo e concreto” è quello di ridurne o ricalibrarne il margine di azione [85], come emblematicamente dimostrato – è solo un esempio – dalla riforma in progress della legittima difesa [86].
Piuttosto, la “discrezionalità rinforzata” – sottesa a uno strumentario punitivo sempre più libero da contorni hard edge e da freni – sembra frutto di un cinico calcolo deresponsabilizzante, a cui corrisponde una delega in bianco alla magistratura e la progressione verso un orizzonte dove la giustizia penale – e forse la stessa condanna dell’imputato – sembra declinarsi, sempre più, come “obbligazione di risultato”; un orizzonte di attesa al cospetto del quale i giudici alla fine dovranno dire – alla politica e soprattutto all’opinione pubblica – “da che parte stanno” [87], se dalla parte della legalità o di chi la mette a repentaglio.
6.2 In filigrana, si intravede dunque una progressiva e pericolosa sovraesposizione della giurisdizione che – non è difficile prevederlo – comporterà, prima o dopo, un fatale redde rationem, dove la magistratura – avuta “carta bianca” nel contrasto alla criminalità – sarà chiamata a dare conto dei risultati conseguiti – e/o degli obiettivi (eventualmente) mancati – alla politica o, forse peggio, alla “folla in tumulto”; e dove il giudice vedrà abbandonate le sue decisioni, sempre più, al “baccanale delle opinioni”, senza più il riparo del bagaglio tecnico di garanzie e principi che le guidano e proteggono: garanzie e principi volti da un lato, a neutralizzare la fallibilità del decidere e a proteggere la sfera di libertà dei singoli, ma tesi, dall’altro ed al contempo, a garantire appunto l’accettazione sociale della sentenza di condanna o di assoluzione.
E quanto questo rischio sia vivo lo confermano, del resto, i casi sempre più frequenti di attacchi feroci alla magistratura, in caso di assoluzione o anche semplicemente di attenuazione della pena [88], che dimostrano la frustrazione della pubblica opinione rispetto a quella che appare, sempre più, una aspettativa delusa, di cui il giudice – quale terminale delle aspettative sociali e “custode delle promesse” [89] – viene additato quale primo responsabile, in quel teatro attuale dello strepitus fori che è il circuito mediatico, dove si sta consumando – dopo una alleanza a lungo protrattasi, e ora rivelatasi un abbraccio mortale – la progressiva espropriazione della giurisdizione dalle mani dei suoi legittimi titolari [90].
6.3 Si dirà che sono solo casi episodici: ma la virulenza di tali fattori di condizionamento è tanto forte da minacciare di produrre ricadute di sistema ed effetti immediati – come conferma proprio la cronaca di questi giorni [91] – persino sul piano disciplinare, secondo prospettive che anche solo pochi anni fa sarebbero apparse impensabili, e intollerabili attacchi al “libero convincimento” del giudice.
Le controspinte di questa deriva devono ancora essere misurare con attenzione, ma non è difficile ipotizzare – ripercorrendo la parabola della responsabilità medica – possibili fughe nella “giurisprudenza difensiva”, che del resto potrebbe penetrare nei più diversi interstizi di discrezionalità che contrassegnano l’attività inquirente o giudicante, sospingendo – questo il timore – il margine di scelta verso il limite più severo, ed assunto – prevedibilmente – come maggiormente cautelativo per chi decide: automatismi sempre più marcati nell’apprezzamento delle esigenze cautelari, rigido ossequio alle presunzioni legali, formalismi nell’istruttoria, motivazioni appiattite sul richiamo a massime giurisprudenziali reperite ex post per suffragare l’iter decisionale, appiattimento della commisurazione della pena verso livelli maggiori di severità, irrigidimento nel bilanciamento tra circostanze a scapito delle attenuanti, sino a forme di surrettizia “delega di giurisdizione ai periti” e più in generale al “sapere tecnico”, anche fuori dei casi che lo richiederebbero [92]. Senza contare il pèlago della sorveglianza, dove il margine di discrezionalità è ancor più marcato.
Cosicché chi giudica sarà stretto nella morsa tra efficienza e formalismo, libero convincimento e vox populi, ed esposto su ciascuno dei diversi versanti a possibili addebiti disciplinari [93].
Il tutto, con lo scenario distopico delle justice machines [94] ormai alle porte, bon gré mal gré, come dimostra il riemergere – non solo nel dibattito nordamericano – di paradigmi che anelano ad sorta di just desert model [95] affidato a una futuristica “macchina per sillogismi” (Subsumptionsautomat) che l’intelligenza artificiale e il dilagare degli algoritmi rendono sempre meno remota [96]: paradigmi che, oltre la “calcolabilità del diritto”, prospettano, in filigrana, l’ideale di una “giustizia esatta” che non lascerà più spazio ad arbitri o episodi di “breackfast sentencing”, né ad emozioni o aspettative deluse.
6.4 Anche a prescindere degli scenari di una possibile defensive jurisprudence ed a quelli, ulteriori, che prospettano di declinare le aspettative di giustizia verso una “giustizia esatta” al posto di una “giustizia giusta”, è in questa cornice che si tocca con mano, forse, il significato più intimo delle garanzie e dei diritti fondamentali, che – generati dalla sedimentazione secolare di “ingiustizie” (rights from wrongs) [97] – non sono solo un sistema di presidi a tutela dell’indagato o imputato rispetto all’errore giudiziario – come vuole la metafora liztiana della Magna Charta del reo – ma, prima e più in alto, recinto di protezione e riparo per il giudice e per la legittimazione della stessa giurisdizione rispetto alle aspettative connesse al bisogno emotivo di punire: quell’istinto primordiale che la storia del diritto e del processo penale – con le sue garanzie e le sue forme – da sempre cerca di addomesticare, e che è ormai divenuto, come si sa, una “passione contemporanea” [98].
7. Se è così, assecondare la deriva verso un diritto penale senza regole, nell’ingenua illusione che la predisposizione di una macchina punitiva totipotente e priva di limiti possa garantire maggior effettività al contrasto alla criminalità – e che debba, in questa prospettiva, attribuire ulteriore centralità all’istanza giurisdizionale –, significherebbe assecondare questa deresponsabilizzazione della politica e, simmetricamente, la sovraesposizione della magistratura rispetto a compiti impropri, e ad obiettivi che, prima o dopo, rappresenteranno l’orizzonte di valutazione dell’operato del magistrato, con le prevedibili conseguenze in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi prefigurati.
L’impressione, dunque, è che debba aprirsi una stagione analoga a quella inaugurata dal convegno di Gardone, ormai cinquant’anni or sono (1965), ma contrassegnata da una diversa direzione di senso [99]: una stagione dove diverrà urgente (non promuovere, bensì) difendere la Costituzione – da parte dell’intera comunità di giuristi – da una aggressione ai suoi contenuti minimi, e di preservare l’eredità giacente del diritto penale costituzionalmente orientato dagli sfregi inferti da questo nuovo trend di overdose punitiva (selettivamente) illimitata, proteggendo il prezioso sedìme frutto dell’impegno comune di magistratura e dottrina, e del dialogo tra Corte costituzionale, giudici comuni e avvocati.
Questa – a mio avviso – è la vera prova di resilienza che attende la nostra democrazia penale.
[*] È il testo della relazione, rivista e corredata di note, svolta al XXII congresso di Magistratura democratica, sul tema «Il giudice nell’Europa dei populismi», Roma, 1-3 marzo 2019.
[1] Si veda, al riguardo, D. Pulitanò, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, p. 73 ss.
[2] Quasi fosse un “bene di consumo”: v. già F. Sgubbi, Presentazione, in G. Insolera (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Padova, 2006, XI-XIII.
[3] Al riguardo, D. Salas, La volonté de punir. Essai sur le populisme pénal, Paris, 2005; J. Pratt, Penal populism, New York, 2007; J. Pratt-M. Miao, Penal populism: The End of Reason, in The Chinese University of Hong Kong Faculty of Law, Research Paper No. 2017-02; F. Nobis, Strafrecht in Zeiten des Populismus, in StV, 2018, p. 453 ss.; nel contesto italiano, fra gli altri, D. Pulitanò, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, p. 123 ss.; L. Violante, Populismo e plebeismo nelle politiche penali, ivi, 2014, p. 197 ss.; G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, ivi, 2013, p. 95 ss., ed ora Id., Prima lezione di diritto penale, Bari-Roma, 2017, p. 186 ss., segnalando, nell’esperienza recente, oltre alla «[…] l’enfatizzazione del bene-sicurezza quale riflesso del diffondersi di sentimenti di insicurezza e allarme collettivo […] il levarsi di rozze ventate “populiste” nell’ambito della stessa politica penale» che «hanno finito con l’alimentare, in alcuni settori dell’opinione pubblica, l’illusione che il ‘panpunitivismo’ sia il miglior rimedio a ogni male sociale»”; v. altresì i contributi raccolti in AA.VV., La società punitiva. Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista, in www.penalecontemporaneo.it, 21 dicembre 2016; e E. Scoditti, Populismo e diritto. Un’introduzione, in Quest. giust., 10 settembre 2018, http://www.questionegiustizia.it/articolo/populismo-e-diritto-un-introduzione_10-09-2018.php.
[4] Pur ammettendo che le sue categorie ne dovessero essere “funzionalizzate”: per tutti, C. Roxin, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem (2. Auflage, 1973), trad. it. Politica criminale e sistema del diritto penale, a cura di S. Moccia, Napoli, 3° ed., 1991; ma v. anche F. Bricola, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in RIDPP, 1988, P. 3 ss., e in Id., Scritti di diritto penale, vol. I, tomo II, Milano, 1997, P. 1585 ss.
[5] Lucidamente ripercorsi da F. Palazzo, Il volto del sistema penale e le riforme in atto, in Dir. pen. proc., n. 1/2019, P. 5 ss.
[6] Ad analoghe conclusioni giunge, ancora, F. Palazzo, Il volto del sistema penale e le riforme in atto, cit. 9, segnalando che «il volto che sta assumendo il nostro sistema penale comincia ad allontanarsi da quello delineato dalla Costituzione», ed una «distanza ancor più grave dei puntuali contrasti con i parametri costituzionali, che pur ci sono».
[7] Sulla l. n. 3 del 2019, con varietà di accenti critici, v. T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen. web, 2018, p. 1 ss.; sulle novità proposte nella riforma, v. altresì A. Manna, Il fumo della pipa (il cd. populismo politico e la reazione dell’Accademia e dell’Avvocatura), in Archivio penale, n. 2/2018, p. 1 ss.; A. Camon, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, ivi, n. 3/2018, p. 1 ss.; R. Cantone, Ddl Bonafede: rischi e opportunità per la lotta alla corruzione, in Giurisprudenza penale, 2018, 10; N. Pisani, Il disegno di legge “spazzacorrotti”: solo ombre, in Cass. pen., 2018, p. 3589 ss.; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, n. 1.5.
[8] Tematizzata nella sua forma più compiuta, ed alta, da L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1996; ma sulla continuità tra “garantismo” e tradizione classica del sistema penale liberale, v. altresì Id., Cos’è il garantismo, in Criminalia, 2014, p. 129 ss.
[9] Sul perché tale modello continui ad essere riferimento necessario, di recente, v. G. Insolera, Perché non possiamo non dirci liberali, in Ind. pen., 2017, p. 3 ss.
[10] V. ad es. T. Vorbaum, Saggi di storia del diritto penale moderno, Napoli, 2018, p. 27 ss., p. 29 ss. e passim.
[11] L’“irruption des victimes” di cui parlavano A. Garapon e D. Salas già vent’anni fa (A. Garapon-D. Salas, La République pénalisée, Paris, 1996, p. 16 ss.), divenuto poi propriamente “il tempo delle vittime” (C. Eliacheff-D. Soulez Larivière, “Il tempo delle vittime”. Come le vittime sono diventate i nuovi eroi della società contemporanea, Milano, 2008); al riguardo, v. altresì A. Pugiotto, Cortocircuiti da evitare. Dimensione costituzionale della pena e dolore privato delle vittime, in F. Corleone-A. Pugiotto (a cura di), Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Ediesse, Roma, 2012, p. 157 ss.; A. Manna, La vittima del reato: «À la recherce» di un difficile modello dialogico nel sistema penale, in E. Dolcini-C. E. Paliero (a cura di), Scritti in onore di Giorgio Marinucci, I, Giuffré, Milano, 2006, p. 957 ss.; V. Valentini, Le garanzie liberali e il protagonismo delle vittime. Uno schizzo sistemico dell’attuale giustizia penale europea, in Ius17@unibo.it, 2011, 1, p. 97 ss.
[12] Ma analoghe considerazioni possono farsi in relazione alla criminalizzazione di precedenti infrazioni amministrative come l’inottemperanza al divieto del questore di accesso a specifiche aree urbane (art. 21-ter, l. 1 dicembre 2018, n. 132, introdotto in sede di conversione del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113), ovvero nuovi reati come l’art. 669-bis cp. – ad opera dell’art. 21-quater della stessa legge – che sanziona l’esercizio molesto dell’accattonaggio, collocato tra le contravvenzioni a tutela di macro-oggettività giuridiche victimless come “ordine pubblico” e “tranquillità pubblica” (sul punto, v. G. Mentasti, Il decreto sicurezza diventa legge. Le modifiche introdotte in sede di conversione, in www.penalecontemporaneo.it, 21 dicembre 2018; F. Curi, Il reato di accattonaggio: “a volte ritornano”, ivi, 21 gennaio 2019).
[13] Secondo il modello tematizzato da G. Jakobs, Bürgerstrafrescht und Feindstrafrecht, in Höchstrichterliche Rechtsprechung Strafrecht (Hrrs), 2004, p. 88 ss., ed oggetto di un vastissimo dibattito dottrinale impossibile, qui, richiamare.
[14] Si vuole infatti un diritto penale truce e monologico non perché i destinatari siano “immotivabili dal diritto” – come il terrorista protagonista del Feindstrafrecht proposto da Jakobs – ma solo perché non vi è interesse per il dialogo che, semmai, è rivolto ad altri interlocutori.
[15] Sui diversi paradigmi, cfr. M. Donini, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non può limitarsi a esorcizzare, in Studi sulla questione criminale, n. 2/2007, 55 ss.; v. altresì Id., Diritto penale di lotta vs diritto penale del nemico, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, 2006, p. 19 ss.
[16] Ma tale finalità non sembra estranea, del resto, anche a taluni impulsi punitivi che – sulla scorta di un retroterra ideologico ben diverso – hanno trovato spazio nel cd. decreto-sicurezza, come il già menzionato reato di “Esercizio molesto dell’accattonaggio”, di cui al nuovo art. 669-bis cp.
[17] Cfr. anche il recente comunicato della Associazione Italiana dei Professori di diritto penale, evidenziando come il trait d’union delle recenti politiche criminali sia «l’esibizione di severità sempre maggiore: le leggi penali (e le proposte di legge) sono usate come messaggi volti a coagulare consensi, a soddisfare un sentimento di giustizia repressiva e vendicativa, e paure non sempre fondate su dati di realtà» (Due comunicati dell’Associazione Italiana dei Professori di diritto penale su recenti modifiche e progetti di riforma del sistema penale: pena carceraria e politiche criminali, in www.penalecontemporaneo.it, 23 novembre 2018).
[18] F. Palazzo, Il vólto del sistema penale e le riforme in atto, cit., 6.
[19] Sulla “end of reason” come cifra caratterizzante del “penal populism”, rappresentando questo “an attack on the long established link between reason and modern punishment”, v. ancora J. Pratt-M. Miao, Penal populism, cit., p. 2 ss.
[20] V. al riguardo ancora F. Palazzo, Il vólto del sistema penale e le riforme in atto, cit., p. 6 ss.
[21] V. al riguardo M. Donini, Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale. L’insegnamento dell’esperienza italiana, in Foro it., 2001, V, p. 29 ss.; più di recente, Id., L’eredità di Bricola e il costituzionalismo penale come metodo. Radici nazionali e sviluppi sovranazionali, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 2/2012.
[22] L. Violante, Democrazia senza memoria, Einaudi, Torino, 2017, p. 113.
[23] Secondo i dati riportati da F. Nobis, Strafrecht in Zeiten des Populismus, cit., p. 453 ss., la scorsa legislatura annovera 40 riforme penali nelle quali sono state modificate 250 disposizioni sostanziali e processuali.
[24] Così M. Jahn, recensione all’ultima edizione del Nomos Kommentar (a cura di U. Kindhäuser-U. Neumann-H.U. Paeffgen, Baden-Baden, 2017), in NJW, 2017, 3638.
[25] Cfr. ancora F. Nobis, Strafrecht in Zeiten des Populismus, cit., p. 455 ss., segnalando non solo il (non nuovo) “circolo vizioso” innescato – puntualmente – dalla mancata soddisfazione delle aspettative sociali di sicurezza (Sicherheitserwartungen), con conseguente richiesta di nuove “proposte di soluzione” che esitano, fatalmente, nel “sovradosaggio” della farmacopea sanzionatoria, ma alcune caratteristiche che si accompagnano alle attuali tendenze, e tra queste una contaminazione tra diritto penale repressivo (repressives Strafrecht) e diritto di polizia preventivo (präventives Polizeirecht), la costante estensione dei poteri invasivi e coercitivi degli organi inquirenti e della polizia giudiziaria, e, più in generale, l’accelerazione e la progressiva “deformalizzazione” del processo penale, trainata dall’obiettivo dell’efficienza e dalla necessità di calmierare le richieste di “processi più veloci, pene più severe e leggi più restrittive”, e perseguita mediante la rinuncia ai principi dello stato di diritto e lo “smantellamento” dei diritti della difesa (p. 459 ss.).
[26] Il progetto è volto a introdurre, come recita l’art. 1,[misure contro la corruzione, il crimine organizzato e i crimini commessi con grave violenza alla persona».
[27] V. in particolare la parte I del progetto, dedicata a introdurre “misure per assicurare la provvisoria esecutività della condanna penale dopo la pronuncia di seconda istanza”.
[28] Sul progetto, v. le critiche, tanto aspre quanto autorevoli, di M. Reale Jr., O pacote-punição de Moro, in Estadão, 23 febbraio 2019, segnalando che, con il pretesto di adeguare la legislazione e ridurre il senso di impunità, il “pacchetto Moro” “commette abusi, minimizza garanzie, acutizza vulnerabilità e premia mancanze del sistema di giustizia”, introducendo solo “misure per ampliare la punizione penale”.
[29] A tutto questo eravamo già abituati, non solo al cospetto di una espansione qualitativamente e quantitativamente abnorme del diritto penale, in Italia come altrove: v., al riguardo, le diverse denunce di C.E. Paliero, Minima non curat praetor, Milano, 1985; F. Sgubbi, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990; Institut für Kriminalswissenschaften Frankfurt a.M. (Hrsg.), Von unmöglischen Zustand des Strafrechts, Frankfurt, Berlin, Bern, New York, Paris, Wien, 1995; J.M. Silva Sanchez, La expansión del derecho penal. Aspectos del la politica criminal en las sociedades postindustriales, 1° ed., Madrid, 1999; ed ancora A. Garapon-D. Salas, La République pénalisée, cit., p. 5 ss., denunciando “la pénalisation de la vie colective”.
[30] Con picchi di irrazionalità registratisi, ad esempio quando abbiamo assistito all’omicidio stradale punito con pene irragionevolmente draconiane, o alla progressiva escalation delle cornici edittali nei reati contro la Pa, ovvero ancora all’esasperazione dell’uso delle presunzioni di adeguatezza della custodia cautelare in ragione di valutazioni di puro allarme sociale, etc.
[31] Per tutti, v. l’importante studio di A. Gargani, Dal corpus delicti al Tatbestand. Le origini della tipicità penale, Milano, 1997.
[32] In un panorama dottrinale vastissimo, che spesso intreccia il topos della crisi della legalità (per tutti, M. Vogliotti, voce Legalità, Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 371 ss.), v. di recente A. Gamberini, La crisi della tipicità. Appunti per una riflessione sulla trasformazione della giustizia penale, in www.penalecontemporaneo.it, 31 marzo 2016, e M. Papa, Fantastic voyage. Attraverso la specialità del penale, Torino, 2018, p. 91 ss.
[33] Al riguardo, v. in particolare lo studio “pionieristico” di A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale, Torino, 2 ed., Torino, 2014; cfr. ora anche Id., voce Giurisprudenza e diritto penale, in Digesto/pen., Aggiornamento, Torino, 2016, p. 407 ss.
[34] Per un istruttivo affresco, v. M. Donini, Il diritto giurisprudenziale penale, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, p. 77 ss.
[35] Il riferimento è – inter alia – alla sentenza n. 230 del 2012 ed alla sentenza n. 115 del 2018, ma anche alla recente sentenza n. 25 del 2019, la quale – sulla traccia di quanto già affermato nella sentenza n. 230 del 2012 – ha ribadito che «In un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato», precisando altresì che «L’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante. Ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo».
[36] M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., p. 87.
[37] Se ne hanno due esemplificazioni recenti, entrambi volti a porre riparo a – più o meno evidenti – illogicità del testo normativo (dunque decisioni che possono apparire politicamente ben motivate): SS.UU., 31 marzo-27 maggio 2016, n. 22474, in tema di falso in bilancio e valutazioni estimative [sulla quale, ad es., A. Manna, Il nuovo delitto di false comunicazioni sociali (tra law in the books and law in action): cronaca di una discutibile riforma (art. 2621-2622 cc), in AA.VV., Diritto penale dell’economia, Torino, 2017, p. 5 ss.]; e SS.UU., 21 dicembre 2017-22 febbraio 2018, n. 8770 (sulla quale, tra gli altri, C. Cupelli, L’art. 590-sexies cp nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 3/2018, p. 246 ss.; e M. L. Mattheudakis-G. M. Caletti, La fisionomia dell’art. 590-sexies cp dopo le Sezioni Unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, ivi, n. 4/2018, p. 25 ss.; M. Caputo, Le Sezioni Unite alle prese con la colpa medica: nomofilachia e nomopoiesi per il gran ritorno dell’imperizia lieve, RIML, 2018, p. 345 ss.).
[38] Al riguardo, è istruttivo rileggere le sintetiche riflessioni di F. Carnelutti, Giurisprudenza consolidata (ovvero della comodità del giudicare), in Riv. dir. proc., 1949, p. 41 ss.
[39] Sul punto, oltre a M. Donini, Il diritto giurisprudenziale penale, cit., si veda, volendo, V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: Appunti di “deontologia ermeneutica”, in www.penalecontemporaneo.it, 17 gennaio 2018.
[40] Tornano sul tema, ancora, M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018, p. 79 ss., http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-4_09.pdf, ed altresì C. Sotis, “Ragionevoli prevedibilità” e giurisprudenza della Corte Edu, ivi,n. 4/2018, p. 68 ss, http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-4_08.pdf.
[41] Si è cercato altrove di analizzare questa evoluzione: V. Manes, Corruzione senza tipicità, in RIDPP, 2018, p. 1126 ss.
[42] Alcuni eccessi evidenti sono emersi – ad esempio – nei procedimenti che hanno riguardato le moltissime ccdd. spese pazze dei consiglieri regionali, applicando spesso in modo rigoristico e indifferenziato, aperto a logiche di inversione probatoria, la fattispecie di peculato (art. 314 cp), sino a contestare come forma di “distrazione appropriativa” anche l’utilizzo di fondi consiliari per finanziare manifestazioni/incontri latamente politici, come tali non riconducibili – in tesi d’accusa – al versante istituzionale dell’operato del consigliere regionale (ma un tale impiego dello strumento penale è stato spesso smentito – e apertamente stigmatizzato - dagli organi giudicanti: cfr., ad es., Gup Bologna, 28.1.2016 - dep. 31.3.2016, n. 99, dott.ssa Zaccariello, che parla di «una sorta di demonizzazione delle spese di cui è stato chiesto il rimborso in occasione della partecipazione del capogruppo e del consigliere a iniziative politiche […], spese qualificate illegittime perché ritenute, a torto, non coerenti con il dettato della normativa in esame […]»).
[43] Sollevando notevoli critiche: cfr. P. D’Amico, Legge spazzacorrotti, prime proposte per salvare il no profit, in Corriere della sera, 18 marzo 2019, 22.
[44] Ormai, come noto, sempre più diffuso, anche in contesti giuridici di tradizione diversa: v. ad es. A. Ashwort-L. Zedner, Preventive Justice, Oxford University Press, 2014.
[45] F. Palazzo, Il vólto del sistema penale e le riforme in atto, cit., p. 5.
[46] F. Bricola, Forme di tutela «ante delictum» e profili costituzionali della prevenzione, in Pol. dir., 1974, p. 351 ss., e in Id., Scritti di diritto penale, cit., 1997, p. 871 ss.
[47] Anche quelle poste a fondamento di un quadro di pericolosità cd. qualificata: il protagonista non è infatti – ad esempio – il promotore o il partecipe dell’associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis, commi primo e secondo), e neppure il concorrente esterno (art. 416 bis/110 cp), ma è l’«indiziato di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416 bis cp» [art. 4, comma primo, lett. a), d.lgs n. 159 del 2011].
[48] Tra queste, SS.UU., 27 aprile-5 settembre 2017, n. 40076, Paternò; SS.UU., 30 novembre 2017-4 gennaio 2018, n. 111, Gattuso, alle quali hanno fatto seguito molte altre importanti pronunce “restrittive” delle sezioni semplici.
[49] Così M. Ceresa Gastaldo, Misure di prevenzione e pericolosità sociale: l’incolmabile deficit di legalità della giurisdizione senza fatto, in www.penalecontemporaneo.it, 3 dicembre 2015.
[50] Sul punto, v. le considerazioni di F. Mazzacuva, Le pene nascoste, Torino, 2017, p. 277 ss.
[51] Sul punto, volendo, V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la Pa: profili di illegittimità costituzionale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 2/2019, p. 105 ss.; va al riguardo menzionata la recente, coraggiosa decisione del Gip di Como, 8 marzo 2019, dott.ssa Luisa Lo Gatto, che – prendendo le distanze dal “diritto vivente” della Cassazione che vuole la normativa penitenziaria assoggettata al principio del tempus regit actum – ha affermato la irretroattività della nuova disciplina peggiorativa, per il tramite di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme (al riguardo, v. ora L. Masera, Le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella cd. legge spazzacorrotti, in www.penalecontemporaneo.it, 14 marzo 2019); i dubbi di costituzionalità, peraltro, sono stati già ritenuti non manifestamente infondati da Cass., sez. VI, 14 marzo 2019 (notizia di decisione n. 17/19).
[52] Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1774), in ptc. § VI e XXVII.
[53] V. il nuovo art. 317-bis cp, modificato dall’art. 1, comma 1, lett. m) della l. n. 3 del 2019, ai sensi del quale la condanna alla reclusione (superiore a due anni) «per i reati di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio», e quanto alla non operatività della riabilitazione, il comma aggiunto – dall’art. 1, comma 1, lett. i) della medesima legge – all’art. 179 cp, ai sensi del quale «La riabilitazione concessa a norma dei commi precedenti non produce effetti sulle pene accessorie perpetue. Decorso un termine non inferiore a sette anni dalla riabilitazione, la pena accessoria perpetua è dischiarata estinta, quando il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta».
[54] In questo senso, v. ad esempio l’intervista a E. Bruti Liberati, Questa legge è un inganno ed è anche incostituzionale, La Repubblica, 7 marzo 2019.
[55] Così le SS.UU., 24 ottobre 2013, Maldera, in ptc. § 22, con riferimento alla distinzione tra concussione e art. 319-quater cp (in Dir. pen. cont., 17 marzo 2014, con nota di G. L. Gatta, Dalle Sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e ‘induzione indebita’: minaccia di un danno ingiusto vs prospettazione di un vantaggio indebito).
[56] Art. 10, comma 1-bis, dl. n. 113 del 2018, cit., che ha modificato l’art. 32 del d.lgs n. 25 del 2008, modificando la disciplina del «Procedimento immediato innanzi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale»”: in tali casi, il questore, salvo che la domanda sia già stata rigettata dalla Commissione territoriale competente, ne dà tempestiva comunicazione alla stessa Commissione, che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato adottando contestuale decisione, valutando l’accoglimento della domanda, la sospensione del processo o il rigetto della domanda; esito quest’ultimo facilmente prevedibile, con la conseguenza che il richiedente dovrà lasciare immediatamente il territorio dello Stato, anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della Commissione (cfr. sul punto, le perplessità anche di M. Guglielmi, Relazione introduttiva al XXII congresso di Magistratura democratica, http://www.magistraturademocratica.it/congresso/2019/MD-CongressoXXII-Relazione-Guglielmi.pdf.
[57] Cfr. Corte cost., sentenza n. 49 del 2015 (e su quella traccia SS.UU. in materia di confisca); analogamente, ora, Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. s.r.l. e a. c. Italia (in Urbanistica e appalti, n. 6/2018, p. 759 ss., con nota di A. Scarcella).
[58] Cfr., al riguardo, la dissenting opinion del giudice P. Pinto de Albuquerque, nella citata sentenza della Corte Edu, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. s.r.l. e a. c. Italia.
[59] Cfr. G. Giostra, voce Processo mediatico, in Enc. dir., Annali, vol. X, 2017, § 5.
[60] V. al riguardo già A. Vallini, Agente infiltrato, agente provocatore e utilizzabilità delle prove: spunti dalla giurisprudenza della Corte Edu [nota a Cass., sez. III, 7.4.2011 (dep. 3.5.2011), n. 751], in www.penalecontemporaneo.it, 31 maggio 2011.
[61] Art. 1, comma 8, l. n. 3 del 2019.
[62] Cfr., specie in relazione alla condotte “consentite” al “simulato corrotto”, ossia al simulato pubblico agente che sollecita la “tangente”, B. Fragasso, L’estensione delle operazioni sotto copertura ai delitti contro la pubblica amministrazione: dalla giurisprudenza della Corte Edu, e dalle corti americane, un freno allo sdoganamento della provocazione poliziesca, in www.penalecontemporaneo.it, 5 marzo 2019, sottolineando, più in generale, che la vaghezza nel delineare le condotte scriminate «è ancora più preoccupante se si tiene conto del fatto che l’art. 9 comma 1, in chiusura, menziona anche le condotte “prodromiche e strumentali” tra quelle la cui punibilità è esclusa: vi è dunque il concreto pericolo che tale scriminante si trasformi in una causa di impunità indiscriminata per tutte le attività compiute “sotto copertura”, ivi comprese quelle preparatorie o provocatorie; e pur sottolineando il requisito secondo il quale le operazioni sotto copertura debbano essere disposte “al solo fine di acquisire elementi di prova”, cosicché esse “[…] non potrebbero, dunque, essere utilizzate a fini meramente preventivi e dovrebbero svolgersi soltanto successivamente all’acquisizione di una notitia criminis, nell’ambito di un procedimento penale già instaurato»; meno preoccupato sul punto, alla luce delle indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Cassazione e della Corte Edu, P. Ielo, L’agente sotto copertura per reati di corruzione nel quadro delle tecniche speciali di investigazioni attive e passive, ivi, 5 marzo 2019.
[63] Più in generale sul ruolo delle giurisdizioni (ordinarie, costituzionali ed europee) come “ultima difesa contro un attacco esiziale portato ai principi e allo spirito di umanitarizzazione del diritto penale, frutto di un plurisecolare processo di civilizzazione”, v. G. Insolera, Una discesa nel maelström, in www.discrimen.it, 20 settembre 2018, 14.
[64] Il riferimento è all’ordinanza n. 24 del 2017 e alla sentenza n. 115 del 2018.
[65] Così, in particolare, la sentenza n. 115 del 2018.
[66] Le sentenze nn. 24, 25 e 26 del 2019.
[67] Sentenza n. 282 del 2010.
[68] Sentenza n. 25 del 2019, sulla traccia di una palese interpretatio abrogans già operata dalla citata sentenza delle SS.UU., n. 40076 del 2017, Paternò.
[69] Come evidenzia la sentenza n. 24 del 2019, la «tassatività sostanziale, concernente il thema probandum», va distinta dalla tassatività processuale, «concernente il quomodo della prova»: «Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità al metro dei parametri già sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 Cedu – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità ora in esame», cosicché «Non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali “elementi di fatto”) suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosità generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate […]».
[70] Su queste basi, la citata sentenza n. 24 del 2019 – dopo un silenzio sostanzialmente protrattosi, sulle misure di prevenzione, per quasi quarant’anni (dalla sentenza n. 177 del 1980) – ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1, lett. a), del d.lgs n. 159 del 2011, concernente «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose», rilevando una «radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza De Tommaso», posto che «[a]lla giurisprudenza […] non è stato possibile riempire di significato certo, e ragionevolmente prevedibile ex ante per l’interessato, il disposto normativo in esame»; e ciò, a differenza di quanto ritenuto con riferimento alla diversa fattispecie “preventiva” di cui all’art. 1, lett. b), d.lgs n. 159 del 2011 (relativa a «coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»), al cospetto della quale si è rilevato che l’interpretazione giurisprudenziale della fattispecie «permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei “tipi di comportamento” («types of behaviour») assunti a presupposto della misura»”.
[71] Così la sentenza n. 236 del 2016, in Giur. cost., 2016, p. 2092 ss., con nota di V. Manes, Proporzione senza geometrie.
[72] Sentenza n. 222 del 2018 (in www.penalecontemporaneo.it, con nota di A. Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e ‘rime obbligate’: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta; ed in Giur. comm., 2019, con nota di P. Insolera, Oltre le “rime costituzionali obbligate”: la Corte ridisegna i limiti del sindacato sulla misura delle pene, in corso si pubblicazione), cui ha fatto seguito la sentenza n. 233 del 2018).
[73] Il riferimento è alla sentenza n. 40 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma primo, dPR n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di sei anni, ritenendo che «[l]a misura della pena individuata dal rimettente, benché non costituzionalmente obbligata, non è tuttavia arbitraria: essa si ricava da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e si colloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore», e pur rilevando che «[è] appena il caso di osservare che la misura sanzionatoria indicata, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore sempre nel rispetto del principio di proporzionalità […]» (sul tema, v. già R. Bartoli, La Corte costituzionale al bivio tra “rime obbligate” e discrezionalità? Prospettabile una terza via, in www.penalecontemporaneo.it).
[74] Posto che la “pur legittima” finalità general preventiva non può però «nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società»: così la sentenza n. 149 del 2018, punto 7, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della l. n. 354 del 1975, nella parte in cui esclude dai benefici indicati dall’art. 4-bis, comma 1, l. cit., i condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cp – e per il delitto di cui all’art. 289–bis cp – che abbiano cagionato la morte del sequestrato, ove non abbiano raggiunto la soglia dei ventisei anni di pena concretamente espiata; decisione che dunque – riconoscendo l’inderogabilità del finalismo rieducativo – si profonde in una affermazione «assai impegnativa, che colloca questa sentenza agli antipodi di quel filone giurisprudenziale e dottrinale che, in nome di una teoria polifunzionale eclettica della pena, riteneva che il fondamento giustificativo della pena potesse essere offerto, indifferentemente, da questa o quella funzione della pena, senza riconoscere alcuna preminenza all’unica finalità della pena enunciata nella costituzione» [in questi termini, E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in www.penalecontemporaneo.it, 18 luglio 2018, 3; al riguardo, v. anche M. Pelissero, Ergastolo e preclusioni: la fragilità di un automatismo dimenticato e la forza espansiva della funzione rieducativa, in RIDPP, 2018, 1359 ss., e F. Siracusano, Dalla Corte costituzionale un colpo “ben assestato” agli automatismi incompatibili con il finalismo rieducativo della pena, ivi, 1787 ss.; ed ancora A. Pugiotto, Il “blocco di costituzionalità” nel sindacato della pena in fase esecutiva (nota all’inequivocabile sentenza n. 149 /2018), in www.osservatorioaic.it, 19 novembre 2018, p. 405 ss.].
[75] Ne è un esempio la sentenza n. 49 del 2015, in tema di “confisca senza condanna”, che ha trovato il suo pendant in una “debole” e per molti versi ambigua sentenza della Grande Camera della Corte Edu, 28 giugno 2018, G.I.E.M.s.r.l. e a. c. Italia.
[76] R.A. Dahl, Decision-Making in a Democracy: The Supreme Court as a National Policy-Maker, in J. Pub. L., 1957, p. 279 ss., p. 281.
[77] Sulla dissociazione tra opzioni legislative (penali e amministrative) e indicazioni desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, v. ad es. M. Pelissero, Il vagabondo oltre confine. Lo statuto penale dell’immigrato irregolare nello stato di prevenzione, in C. Sotis-M. Meccarelli-P. Palchetti (a cura di), Ius peregrinandi: il fenomeno migratorio tra diritti fondamentali, esercizio della sovranità statale e regimi dell’esclusione, Macerata, 2011, p. 35 ss.
[78] N. Recchia, Ruolo e legittimazione delle Corti dei diritti in materia penale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2019 (in corso di pubblicazione).
[79] La finalità imposta dall’art. 27/3 Cost., che ha una corrispondenza biunivoca con il divieto di usare il singolo per finalità impersonali, è del resto chiaramente negletta al cospetto di misure come le citate pene interdittive “perpetue” o di meccanismi che implicano la neutralizzazione di percorsi di riabilitazione extramuraria sine necessitate.
[80] Cfr. G. D. Caiazza, Spazzacorrotti: un Dna segnato dal giustizialismo, in Guida al dir., n. 11 del 2019, p. 10 ss.: «[…] Una idea cioè schiettamente etica, neo-retributiva, che concepisce la incriminazione non come mera prescrizione di regole di comportamento sociale cui deve schiettamente conformarsi, ma come individuazione di uno standard morale la cui violazione esige, anche emotivamente, una compensazione prossima alla vendetta da parte della comunità sociale offesa e dunque alla umiliazione del reo piuttosto che al progetto della sua emenda».
[81] M. Foucault, La societé punitive. Cours au College de france 1972-1973, trad. it., La società punitiva. Corso al Collegio di Francia 1972-1973, Milano, 2016, p. 25.
[82] Parafrasando E. Durkheim (De la division du travail social, Paris, 1893, tr. it. La divisone del lavoro sociale, Milano, 1962, p. 106), secondo il quale le componenti emotive del punire sarebbero tanto più enfatizzate “quanto le società sono meno civilizzate”.
[83] F. Palazzo, Il vólto del sistema penale e le riforme in atto, cit., p. 8.
[84] E.W. Böckenförde, Staat, Gesellshaft, Freiheit, Frankfurt, 1976, p. 6.
[85] V. ad esempio il nuovo art. 316-ter, primo comma, seconda parte, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. l) della l. n. 3 del 2019 con chiara vocazione a rideterminare il perimetro applicativo dell’art. 314 cp.
[86] Cfr., al riguardo, anche le considerazioni di M. Guglielmi, Relazione introduttiva al XXII congresso di Md, cit., pp. 12 e 14, con riferimento sia alla proposta di riforma della legittima difesa sia al decreto Pillon.
[87] Si veda quanto ipotizzato, in relazione all’acuirsi dell’emergenza del terrorismo internazionale, da M. Donini, Lotta al terrorismo e ruolo della giurisdizione. Dal codice delle indagini preliminare a quello postdibattimentale, in Gli speciali di Questione Giustizia, e-book, Terrorismo internazionale, Politiche della sicurezza, Diritti fondamentali, 2016, p. 113 ss., p 120 ss, http://www.questionegiustizia.it/speciale/2016/1/lotta-al-terrorismo-e-ruolo-della-giurisdizione_da_11.php.
[88] Come emerso recentemente in relazione alla decisione della Corte d’appello di Bologna, I sez., 214 novembre 2018-8 febbraio 2019, sulla cd. “tempesta emotiva”, che ha ridotto la pena comminata in primo grado per un omicidio “passionale” da 30 anni a 16 anni di reclusione; e così pure in relazione alla analoga vicenda decisa, sempre in abbreviato, dal Gup di Genova, 6 dicembre 2018 (che ha riconosciuto la medesima pena riconoscendo il dolo d’impeto e, al contempo, le attenuanti generiche – si legge – avendo l’autore agito mosso «da un misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento; ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile», ed in particolare «non […] sotto la spinta della gelosia ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso allo stesso tempo […]»), sentenza pure accolta da un vasto coro di polemiche, anche da parte di opinionisti e intellettuali autorevoli.
[89] La accentuazione del ruolo del giudice rispetto alle aspettative sociali è stata da tempo evidenziata, ad es. nell’istruttivo saggio di A. Garapon, Les gardien des promesses. Justice et démocratie, Paris, 1996, ed. it. I custodi dei diritti. Giudici e democrazia, Milano, 1997, con prefazione di E. Bruti Liberati.
[90] Cfr. le lucide riflessioni del presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, nell’intervista rilasciata a Il Dubbio, 30 gennaio 2018 (I processi in tv rischiano di sostituire noi giudici, a cura di E. Novi), segnalando il rischio «di un paradossale slittamento della giustizia dal luogo propriamente assegnatole a quello improprio dei mass media», e che «la decisione del magistrato giudicante venga ridotta a opinione personale», alla stregua di «una delle tante opinioni espresse nel circuito mediatico […]»”.
[91] In relazione al menzionato “caso mediatico” della “tempesta emotiva”, deciso dalla Corte d’appello di Bologna, il Corriere della sera di sabato 16 marzo 2019 dà notizia della possibile apertura di un procedimento disciplinare, su impulso del procuratore generale della Cassazione.
[92] Così giungendo paradossalmente, per altra strada, a lambire comunque il crinale dell’illecito disciplinare: sul divieto della cd. delega della giurisdizione, cfr. P. Fimiani-M. Fresa, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, Torino, 2013, p. 193 ss.
[93] Al riguardo, ed in margine ad alcune oscillazioni della giurisprudenza di legittimità in sede di disciplinare, v. ad es. G. Altieri, Contro la “giurisprudenza difensiva”, in Questione giustizia on line, 3 maggio 2016, http://www.questionegiustizia.it/articolo/contro-la-giurisprudenza-difensiva_03-05-2016.php.
[94] Secondo il titolo del racconto di fantascienza giudiziaria di J. Charpentier, Justice Machines, a cura di G. Vitiello, Macerata, 2015.
[95] Cfr. G. Mannozzi, Razionalità e “Giustizia” nella commisurazione della pena. Il just desert model e la riforma del sentencing nordamericano, Cedam, Padova, 1996.
[96] Si veda, al riguardo, A. Garapon-J. Lassègue, Justice digitale. Révolution graphique et rupture anthropologique, Paris, 2018; ma v. al riguardo anche la preoccupata riflessione di uno dei due autori, A. Garapon, La tecnologia non potrà mai sostituire giudice e avvocato, intervista a cura di E. Novi, in Il Dubbio, 25 novembre 2018.
[97] Come recita il titolo di un istruttivo saggio di A. Dershowitz, Rights from wrongs. Una teoria laica dell’origine dei diritti, Codice, Bologna, 2005.
[98] D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, Milano, 2018.
[99] Lì si trattava infatti di far penetrare la Costituzione nel “diritto vivente”, garantendone una maggior attuazione, specie per il tramite dell’interpretazione conforme, promuovendone una attuazione “diretta” da parte del giudice comune (cfr. in ptc. G. Maranini, Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione, in A. Pizzorusso, a cura di, L’ordinamento giudiziario, Bologna, 1974, p. 279 ss., che proprio al convegno di Gardone molto insistette sul potere “creativo di diritto” degli organi investiti della funzione giurisdizionale, e sul compito spettante alla magistratura ordinaria di “sindacare la conformità del diritto vivente alla costituzione, e di dare concretamente vita alla stessa Costituzione nel contatto continuo con i fatti concreti”).