Per capire chi sia (preferisco il presente, l’identità non si perde mai) Francesco Saverio Borrelli è necessario fare qualche passo indietro rispetto al periodo di Mani Pulite. Saverio, tutti o quasi lo chiamavamo così, è entrato in magistratura nel 1955, e cioè sette anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Si era usciti da poco dal fascismo e i magistrati si erano formati nelle sue scuole per cui, salvo pochi illuminati, tendevano ad evitare accuratamente di guardare nei cassetti del potere, a consentire che altri lo facessero, ed anzi ad agevolare, del potere, i desiderata. Successe così che proprio a Milano il procuratore della Repubblica non impedisse, nel 1969, che si incolpassero gli anarchici della strage di Piazza Fontana. Nel 1981, quando si poteva aver ragione di ritenere che la lunga onda dell’indiscriminato ossequio al potere si fosse spenta, sempre a Milano capitò che il predecessore di Saverio Borrelli consigliasse caldamente e insistentemente a Giuliano Turone ed a me (non poteva ordinarcelo, perché eravamo giudici istruttori e non appartenevamo al suo ufficio) di restituire a Licio Gelli le carte più significative del potere ricattatorio della loggia P2 prima ancora di aprire le buste sigillate che le contenevano. E che tre anni più tardi, lo stesso predecessore, sollevasse dall’incarico il sostituto che aveva osato chiedere l’arresto di una persona intima di uno dei possibili candidati Dc in corsa per la presidenza della Repubblica che da qualche tempo gestiva i fondi neri di società del gruppo Iri (si trattava di 360 miliardi) utilizzandoli per le più svariate, illecite finalità, avocando il fascicolo e chiedendo di persona al sottoscritto (che ancora faceva il giudice istruttore ed andò di contrario avviso) di procedere con mandato di comparizione.
Ecco, la cosa più anticonformista di Saverio consisteva in questo: essere completamente indipendente dal potere politico, non assecondarlo, non subirlo e non adeguarvisi. È anche, per questo (oltre che per la caduta del muro di Berlino, ma questo è un altro discorso) che si è potuto indagare sulla corruzione e scoprirne il sistema. Perché c’era Borrelli.
Questo è il punto di partenza. Una persona curiosa non si limiterebbe a constatare la differenza tra il prima e il dopo ma si chiederebbe perché. Perché Saverio non era inquadrato come chi lo aveva preceduto? La risposta più semplice: non aveva paura del potere. Certo che non aveva paura. Ma non credo che gli altri, che tutti gli altri ne avessero. Certo capitano i don Abbondio anche nelle istituzioni, ma non mi pare ci sia solo quello. C’è, a mio parere, qualche cosa di molto più profondo, che riguarda il principio di base, il fondamento delle modalità di rapportarsi con gli altri. Il conflitto tra la ragion di Stato e i diritti della persona, il conflitto tra il principio di discriminazione e il principio della pari dignità. Insomma, Saverio Borrelli, anche per la sua profonda cultura umanistica, era profondamente dalla parte della Costituzione, dalla parte di quel «tutti uguali davanti alla legge» (che ha la sua inderogabile giustificazione nel «hanno pari dignità sociale») che non consente (o meglio, non dovrebbe consentire) una giustizia a più velocità, forte con i deboli ma sostanzialmente inesistente nei confronti dei forti, che si piega al pensiero verticale ritenendo la Costituzione un programma invece che una norma, che ricorre alla custodia cautelare senza particolari problemi per i furti d’auto e gli spacci del mezzino ma si guarda bene dall’applicarla alle corruzioni (in allora) milionarie. Saverio è stato il nuovo dirigente (che, proprio perché figlio della Costituzione non dovrebbe nemmeno più chiamarsi “capo”), che ha organizzato il suo ufficio perché potesse essere funzionale al principio della pari dignità. Credo ci si debba rendere conto che, al di là delle leggende e delle apparenze, il debole, durante Mani pulite, erano lui e il suo ufficio, non le persone coinvolte. È vero, c’è stato un periodo, nemmeno tanto breve, in cui sembrava (e forse era anche) il contrario. Ma si è trattato di un transito verso una riassetto delle situazioni che ha riaffermato la nenia che già da prima invertiva le definizioni: “indipendente” era il giudice ossequioso al potere, “politicizzato” quello che faceva la sua parte, istituzionalmente e per quanto poteva nell’ambito del sistema esistente, per realizzare il compito della Repubblica (e delle sue funzioni) di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…».
Nei confronti di Saverio, quindi, che faceva per davvero il dirigente dell’ufficio assumendosene tutte le responsabilità, si sono indirizzati gli strali di chi gli contestava, in effetti, di non fare il “capo” come la tradizione avrebbe imposto. Addirittura l’accusa (ribadita anche in questi giorni) di avere organizzato e compiuto un “colpo di Stato giudiziario”: per aver esercitato l’azione penale tutte le volte in cui gli elementi la rendevano obbligatoria; per aver curato che i criteri di cui all’art. 274 del codice penale venissero rispettati nel richiedere al giudice misure cautelari, con il paradosso è che ancor oggi molti sono convinti che la custodia sia stata strumentalizzata per “far parlare la gente”; per aver fatto distinzioni sulla base dell’appartenenza a questo o a quel gruppo politico, altro inspiegabile paradosso: avremmo coperto un partito rispetto al quale abbiamo chiesto e ottenuto la custodia cautelare del segretario cittadino, del “compagno G” e di membri dei consigli di amministrazione degli enti pubblici milanesi; abbiamo chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di un esponente di rilievo della corrente cd. dei miglioristi che fu, poi, assolto dal Tribunale: cosa che per assurdo dovrebbe portare alla conclusione che saremmo stati fin troppo zelanti nel portare davanti al giudice gli appartenenti di quel partito.
Si può, quindi, capire che quei pochi interventi pubblici che Saverio Borrelli fece a fronte di tentativi di normalizzare la situazione attraverso depenalizzazioni (come avvenne per il reato di finanziamento illecito ai partiti politici) erano a difesa della giurisdizione e della separazione dei poteri, e non attacchi al Parlamento o al Governo.
Peraltro quello che viene considerato il massimo sgarbo costituzionale da parte dei nostri critici, ovvero l’essere andati noi sostituti davanti alle telecamere in occasione del decreto del Ministro della giustizia che riduceva l’applicabilità della custodia cautelare in particolare per i crimini dei colletti bianchi, fu una nostra iniziativa di cui Saverio non era stato preventivamente informato.
Se si conosce il punto di partenza, l’interiorizzazione dello spirito della Costituzione, viene facile comprendere tutto il resto: la strenua difesa dell’indipendenza dell’ufficio e di ogni suo sostituto dagli attacchi strumentali; l’impegno versato per seguire ogni caso, da quelli clamorosi agli sconosciuti; il rispetto di tutti. E si capisce perché tanti suoi sostituti gli hanno voluto dedicare le parole che seguono (che – purtroppo – non abbiamo scritto né Davigo né io, come invece potrebbe sembrare dalla presentazione che ne ha fatto la stampa).
«Era il nostro Capo. Non che facesse niente per mostrarsi tale, perché quando si annunciava diceva solo “sono Borrelli”, senza anteporre titoli o onori, di cui non aveva bisogno. La sua porta era aperta a tutti, dai procuratori aggiunti, ai giovani sostituti appena arrivati, ma anche a segretari e cancellieri, a poliziotti e carabinieri, a finanzieri e vigili. E ovviamente agli avvocati e persino alla gente “comune”. Perché il “vero capo” non ha bisogno di apparire. Lo è. E lui lo era. Quando entravi nel suo ufficio con un problema, ne uscivi con una soluzione. E quando magari dopo mesi e mesi tornavi sull’argomento, si ricordava tutto, come se alla Procura di Milano ci fossero solo tu, lui e un paio di altri colleghi. Quando avevi sbagliato qualcosa, te ne parlava con quel modo garbato per cui alla fine eri tu stesso a riconoscere la “cappellata”. Salvo poi, davanti al mondo, metterci lui la faccia. La solitudine del magistrato, una condizione frequente e forse per certi versi fisiologica, con lui era uno stato transitorio. Bastava parlargli del problema, riferirgli gli attacchi ricevuti e le critiche da cui si veniva subissati ed ecco pronta la risposta: “La Procura ha fatto, la Procura ha detto; firmato Francesco Saverio Borrelli”. Appartenere alla Procura di Milano era come stare in una grande orchestra, ognuno col suo strumento, diverso dagli altri, ma essenziale. E ovviamente con un direttore che ti faceva sentire utile, anche se non eri il primo violino. Del resto il Capo la musica la conosceva bene, sia quella che si suonava alla Scala, sia a Palazzo di Giustizia.
Ciao Saverio, i tuoi sostituti non ti dimenticheranno mai».