Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Inquinamento mafioso della politica e legge penale

di Piergiorgio Morosini
giudice delle indagini preliminari, Tribunale di Palermo
L’inquinamento mafioso della politica rappresenta un serio pericolo per economia, diritti e democrazia. Ma le recentissime innovazioni introdotte dal legislatore in tema di “scambio elettorale politico mafioso” − e cioè l’estensione dell’area dei “patti” penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 416-ter e l’aumento consistente dei carichi sanzionatori − meritano una attenta riflessione critica

1. Ce lo siamo detti a sazietà, nel nostro Paese l’inquinamento mafioso della politica rappresenta un serio pericolo per economia, diritti e democrazia. Mentre la letteratura delle scienze sociali e l’esperienza giudiziaria ormai da anni ne monitorano costantemente evoluzioni e forme di manifestazione; partiti, uomini di legge e intellettuali si interrogano ciclicamente sulla idoneità delle attuali risorse normative e istituzionali a contrastarlo. Quando inchieste clamorose su esponenti politici di spicco balzano agli onori delle cronache, la questione non resta confinata nelle aule giudiziarie, nei partiti o nelle assemblee parlamentari, ma finisce per alimentare un aspro dibattito nella stessa opinione pubblica.

È noto che tra le principali vocazioni delle «mafie storiche» vi sia quella di procurare voti a sé o ad altri in occasione delle consultazioni elettorali. La «mobilitazione» a volte avviene per promuovere candidati provenienti dall’«interno» della organizzazione criminale; altre per agevolare quelli che, pur mantenendosi autonomi, hanno promesso futuri favori al clan; altre ancora all’insaputa del diretto interessato, al solo fine di accreditarsi nei suoi confronti per iniziative future o per lanciare un segnale ad altri politici. Tuttavia, recenti vicende giudiziarie sul crimine mafioso nel nord Italia [1], ci dicono come il politico non venga necessariamente «agganciato» sulla base di un patto elettorale, ma sempre più spesso nell’ambito di «reti relazionali» volte a costruire «alleanze» che mettono in comune risorse politiche, economiche e professionali con vantaggi di varia natura per ogni protagonista.

Eppure il “nuovo” parlamento, sin dalle prime battute, ha interpretato l’esigenza di contrastare certe «alleanze» concentrando tutti i suoi sforzi nell’intervento penale sui metodi di raccolta del consenso elettorale. Il traguardo finale di quell’impegno, la “maggioranza” lo ha identificato nel «drastico intervento correttivo» sulla «norma simbolo» che reprime il voto di scambio politico-mafioso [2]. La vibrante contestazione delle norme prodotte in questa materia nella scorsa legislatura (n. 62 del 2014 e n.103 del 2017), ha costituito il presupposto per la riformulazione dell’articolo 416-ter del codice penale. Ma, dall’esame dei lavori preparatori al nuovo testo, pare che la soluzione normativa trascuri volutamente la effettiva resa giudiziaria delle disposizioni da superare, in nome della necessità di segnare ad ogni costo una «discontinuità con il passato».

Suggestioni sociologiche e semplificazioni linguistiche sono alla base dei nuovi precetti. Solo la prassi applicativa ci dirà se la normativa sia idonea a garantire un equilibrio tra corretto esercizio dei diritti politici di rango costituzionale e repressione dell’inquinamento mafioso del voto; così come se sia in grado di distinguere, nella ampia costellazione delle forme di collateralismo ai clan, tra condotte penalmente rilevanti e comportamenti penalmente indifferenti, sia pure sintomatici di un malcostume. Ci dirà, insomma, se le comprensibili aspirazioni di «bonifica» delle competizioni elettorali si siano tradotte in misure efficaci per stroncare certe relazioni pericolose o se non fosse opportuno destinare l’indubbio investimento istituzionale anche verso altre soluzioni.

2. Le novità di rilievo, introdotte con l’approvazione definitiva del disegno di legge n. 510 B nella seduta del 15 maggio 2019 al Senato, sono sostanzialmente due: l’estensione dell’area dei «patti» penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 416-ter e l’aumento consistente dei carichi sanzionatori.

Sul primo versante, si prevede innanzitutto che il conseguimento, diretto o a mezzo di intermediari, della promessa del sostegno elettorale da parte di soggetti appartenenti ai clan mafiosi sia punito non solo in cambio di danaro o di «qualunque altra utilità» (come già stabilito dalla legge n. 62 del 2014), ma anche della «disponibilità a soddisfare interessi o esigenze della associazione criminale».

Proprio in questa ultima clausola, ossia nel concetto di «disponibilità», si annidano le insidie. Già proposta nella scorsa legislatura, quella formula era stata bocciata dopo un aspro confronto. In quei giorni del 2014, finanche alcuni magistrati impegnati nelle procure “calde” del meridione d’Italia (Napoli, Reggio Calabria, Palermo) manifestarono dubbi e perplessità. In una intervista al Corriere della sera [3], l’avevano bollata come «labile», «indeterminata» e «foriera di processi alle intenzioni», prevedendo pure inevitabili difficoltà sul piano della ricostruzione probatoria. Quelle censure, in buona parte, erano state riprese in una nota della componente di Area al Csm del tempo, che metteva in guardia dall’«alta probabilità» che, con una norma siffatta, la magistratura fosse chiamata a interloquire su conflitti squisitamente politici, «con evidenti possibilità di accentuazione del tasso di conflittualità istituzionale» [4].

D’altronde, nella storia del nostro sistema penale positivo, non vi è traccia del termine «disponibilità», prima di questa riforma. Nei codici pre-unitari e post-unitari, con quella espressione letterale mai è stata descritta una condotta censurabile: da quello del Regno delle due Sicilie del 1819, passando per il Sabaudo del 1859, sino al codice Zanardelli del 1889 e ovviamente al codice Rocco del 1930. Quella «lacuna» non è dipesa da un incidente della storia. Il concetto di «disponibilità» appare vago, inafferrabile, non compatibile con la necessaria determinatezza dell’illecito penale, peraltro imposta anche dalla Costituzione. E tale impostazione è stata ribadita anche dalle Sezioni unite della suprema Corte con la sentenza del 12 luglio del 2005 [5], nell’ambito di un processo a carico di un noto esponente politico della cosiddetta prima Repubblica. Allora, i giudici di legittimità sottolinearono come l’ancorare il precetto penale a concetti quali la «disponibilità ad assecondare interessi mafiosi» o la «vicinanza al clan» significhi veicolare nel processo intuizioni, precomprensioni, giudizi etici, suscettibili di variare a seconda del singolo interprete.

In altri termini, l’opzione adottata dall’attuale parlamento finisce per dare una amplissima «delega» all’interprete sui contorni della promessa di rilievo penale, mettendo in crisi il monopolio e la funzione orientativa della legge scritta. Di conseguenza della effettiva fisionomia della nuova fattispecie diviene pienamente responsabile la magistratura, con il rischio di una eccessiva esposizione ad accuse di uso politico dell’azione penale data la delicatezza della materia.

D’altra parte, l’enfasi repressiva del recente confronto parlamentare sui patti scellerati tra politici e boss, pare non conoscere il lavoro dei giudici tanto di merito quanto di Cassazione degli ultimi venticinque anni. Le loro pronunce, da tempo, valorizzano penalmente la «disponibilità del politico a soddisfare interessi mafiosi» attraverso le fattispecie di «partecipazione alla associazione» o «concorso esterno», a condizione, ben inteso, che si dimostrino in concreto condotte idonee a realizzare i programmi dei sodalizi criminali o a rafforzare la struttura organizzativa dei clan.

3. In sede di presentazione parlamentare del disegno di legge recentemente approvato, il relatore si è spinto a sostenere che la riforma del 2014 aveva a tal punto indebolito il reato di cui all’art. 416-ter tanto da «favorire e incentivare» la penetrazione del crimine organizzato nel tessuto politico-istituzionale [6].

Simili affermazioni sono smentite dai dati giudiziari. In essi possono riscontrarsi i notevoli “passi avanti” nella protezione della libertà degli elettori esposti alla mobilitazione della macchina elettorale mafiosa, prodotti dalla legge n. 62 del 2014. Quella novità ha inciso fortemente sul precedente testo dell’art 416-ter (introdotto nel 1992 dal decreto Scotti-Martelli), che puniva il solo scambio di promesse voti/denaro; e che, per questo, risultava sterile rispetto agli accordi più praticati e insidiosi aventi ad oggetto promesse di ben «altre utilità».

L’intervento della legge n. 62, nel valorizzare anche le promesse di «altre utilità», ha aperto la strada ad una applicazione processuale dell’art 416-ter più ampia ed equilibrata. Ciò ha consentito di assicurare alla giustizia candidati (a livello nazionale e locale) per la sola promessa ai mafiosi di appalti, autorizzazioni amministrative, protezione giudiziaria, agevolazioni bancarie o favori di altro genere. E in questo modo si sono stroncate sul nascere forme embrionali di interazione tra politici e cosche suscettibili di svilupparsi in «alleanze» ben più penetranti e invasive.

Ciò nonostante, nel corso dei lavori preparatori alla recente riforma, si è pure sostenuto che il testo dell’art 416-ter introdotto nel 2014 era sul piano repressivo persino un passo indietro rispetto a quello del 1992. E questo per via del riferimento, tra gli elementi costitutivi della fattispecie, al necessario ricorso all’intimidazione mafiosa nella mobilitazione per il procacciamento dei voti da parte degli «uomini delle cosche». Insomma, secondo i proponenti della riforma, quel riferimento avrebbe finito per restringere ingiustificatamente il campo di applicazione della norma penale, per via delle difficoltà a reperire in concreto elementi da cui evincere l’intimidazione degli elettori. E per questo motivo andava eliminato legislativamente.

Anche tale censura suona pretestuosa alla luce della interpretazione giurisprudenziale più accreditata, formatasi dopo l’entrata in vigore della legge n. 62 del 2014. In effetti, ad eccezione di un caso rimasto isolato [7], la suprema Corte in questi anni non ha ritenuto necessario che il patto di scambio punibile contempli l’attuazione, o l’esplicita programmazione, di una campagna da svolgersi mediante intimidazioni e prevaricazioni se il soggetto che si impegna a reclutare i suffragi è persona intranea a una consorteria di tipo mafioso ed agisce per conto o nell’interesse di quest’ultima [8]. D’altronde, in questi casi, il ricorso alle modalità di acquisizione del consenso tramite i metodi di cui all’art. 416-bis terzo comma, può dirsi immanente alla illecita pattuizione. Semmai, nella prassi giudiziaria la raccolta di elementi relativi ad esempio alla presenza di affiliati ai seggi, ai comizi o nei luoghi di diffusione dei fac-simili elettorali, nel dimostrare la effettività della «mobilitazione», ha evitato in radice gli eccessi di «attenzione» verso generiche promesse di sostegno che come tali risulterebbero penalmente irrilevanti.

Peraltro i contenuti della recente modifica dell’art. 416-ter, se da una parte appaiono superflui per le ragioni testé illustrate, dall’altra trascurano le modalità concrete con cui i boss concludono certi accordi elettorali. La nuova formulazione, infatti, sottolinea come la soglia di punibilità per entrambi i contraenti debba coincidere con il conseguimento della promessa di suffragi da parte di soggetti effettivamente appartenenti alle associazioni mafiose. Così sembrerebbe escludere la sanzione quando la promessa venga posta in essere da un estraneo alla consorteria criminale che pure agisce in nome e per conto di questa. In altri termini, la nuova norma parrebbe richiedere per la configurabilità del reato la necessaria condanna per il reato di associazione di stampo mafioso del promittente. Il che, paradossalmente finirebbe per restringere in modo ingiustificato l’applicazione del 416-ter. Infatti, come emerso in numerosi processi, sovente le cosche promettono il loro appoggio elettorale attraverso lo schermo di personaggi considerati «affidabili» dai capi-cosca, che ne rappresentano il «capitale sociale», ma che non sono inseriti stabilmente con un ruolo specifico nella struttura criminale.

4. Nella nuova opzione politico-criminale un peso indiscutibile va riconosciuto ai carichi sanzionatori. Anche su questo versante si coglie la volontà di assecondare a tutti i costi le spinte emotive che avevano bollato la riforma del 2014 come un «regalo ai collusi» anche per via della previsione di pene considerate troppo miti.

Nella illusione di attribuire una autentica efficacia dissuasiva al precetto penale, si è così ridefinita la cornice edittale del reato di cui all’art 416-ter. Si è passati, per entrambi i contraenti del patto illecito, dalla sanzione della reclusione dai 6 ai 12 anni a quella dai 10 ai 15 anni; sanzione che l’ordinamento fissa nella stessa misura anche per l’appartenente all’associazione di tipo mafioso (art. 416-bis, comma 1). Inoltre si è prevista una aggravante in caso di elezione, che può portare il massimo della pena addirittura sino a ventidue anni e sei mesi.

Minacciare una pena molto alta viene considerato un forte deterrente ai «patti scellerati». Ma forse su quella opzione hanno inciso pure motivi contingenti, dato che la votazione finale sul testo della riforma è avvenuta a pochi giorni dalle imminenti scadenze elettorali, europee e amministrative. In ogni caso quell’approccio iper-repressivo, peraltro registratosi anche in altre legislature e con diverse maggioranze politiche, sembra trascurare aspetti altrettanto meritevoli di attenzione. In particolare, ci si riferisce alle esigenze di razionalità del sistema delle pene, che impone di tenere conto delle varie forme di manifestazione e delle diverse potenzialità offensive della condotta del politico che stringe rapporti coi clan.

Insomma, la novità legislativa pare destinata ad uno scrutinio di compatibilità ai parametri costituzionali laddove le sue opzioni sanzionatorie in sostanza parificano il reato di cui all’art. 416-ter a illeciti quali il «concorso esterno» e la «partecipazione» in associazione mafiosa. Sul piano della potenzialità offensiva che deve riflettersi sulle scelte sanzionatorie, appare irragionevole assimilare la semplice «promessa di un favore» alla stabile collaborazione del politico con l’associazione per la realizzazione dei suoi programmi illeciti o all’effettiva esecuzione di prestazioni idonee ad esempio ad assicurare l’impunità a un capo-mafia o un importante operazione di riciclaggio, pur provenienti da un estraneo all’organizzazione mafiosa.

Di conseguenza, per il «patto di scambio», appariva più equilibrato e rispettoso del principio di offensività il trattamento sanzionatorio precedente (reclusione dai 6 ai 12 anni). Laddove la “forchetta” più ampia tra il minimo e il massimo edittale si giustificava con la circostanza secondo cui il reato può essere contestato all’amministratore del piccolo centro così come ad una alta carica dello Stato.

5. Il modello di intervento penale su cui, finora, si è concentrato tutto l’impegno di questo parlamento parrebbe condizionato da una visione tradizionale delle mafie e del relativo sistema di contrasto. Forse si immaginano ancora potenti strutture d’ordine radicate sul territorio che, grazie al predominio ambientale fondato sulla intimidazione, offrono ai politici sostegno elettorale in cambio di una compartecipazione nella spartizione del denaro pubblico e di una protezione per i rischi giudiziari. Ma gli stessi dati giudiziari degli ultimi anni ci raccontano altro.

Se ancora in diverse realtà del sud Italia, a Ostia o in enclavi calabresi dell’Emilia certi fenomeni assumono le stigmate della tradizione, per le élites mafiose certe analisi meritano di essere aggiornate. I clan più attivi hanno cambiato strategia. Ciò è avvenuto anche per l’impoverimento delle aree di provenienza e la contrazione della spesa pubblica. Coi patrimoni accumulati nel passato le mafie ormai fanno affari senza intimidazioni, de-localizzando le loro attività. Secondo recenti indagini nel nord Italia, sono le imprese «indigene» a «chiedere» beni e servizi ai clan per abbattere i costi di un mercato sempre più competitivo. Ad esempio nello smaltimento di rifiuti o nella produzione manifatturiera. I boss, in questi casi, aderiscono a cricche in cui operano anche imprenditori, liberi professionisti e disinvolti uomini delle istituzioni. Si tratta di alleanze di interessi. Non c’è bisogno di esteriorizzare il metodo intimidatorio della «casa madre», dato essenziale del reato di 416-bis. Tanto che la Cassazione si è rivelata oscillante nell’applicarlo alla cosiddetta «mafia silente» del nord. Per i clan in trasferta c’è, dunque, un problema di obsolescenza dell’attuale 416-bis che coinvolge pure i rapporti con la politica.

A lanciare l’allarme non sono solo magistrati e poliziotti, ma anche professori di diritto e criminologi. In effetti il 416-bis è la norma che, se contestata, attiva un sistema di misure speciali: regole ad hoc sulle intercettazioni, agenti sotto copertura, premi di collaborazione, strutture investigativo-giudiziarie dedicate, tecniche peculiari di aggressione dei patrimoni illeciti. Ora quel «doppio binario» rischia la sostanziale inutilizzabilità con riguardo a significativi segmenti di interazione criminale tra mafia, politica e imprenditoria. Sarebbe opportuna una rimodulazione del 416-bis, in grado di valorizzare oltre al metodo violento anche la capacità dei clan di fare network, combinare l’uso spregiudicato delle potestà politico-amministrative con disinvolte iniziative imprenditoriali, attraverso la corruzione, il riciclaggio o l’evasione fiscale. Ma la politica non si sta occupando di tali aspetti.

E d’altronde, a legislazione invariata, diventerebbe una priorità distribuire le eccellenze investigative su criminalità economica e nelle pubbliche amministrazioni anche in aree di non tradizionale radicamento mafioso. Oggi si è più vulnerabili ai clan laddove mancano poliziotti e magistrati esperti. E, in certe materie, non sono tantissimi in circolazione. Ma questi temi non paiono nella agenda delle priorità di un parlamento che pure si dichiara molto sensibile alle commistioni tra mafia e politica.

Considerazioni analoghe possono farsi per la dimensione internazionale delle mafie italiane. Un rapporto Europol del 2017 parla di boss italiani che ormai investono nell’economia legale dei Paesi europei, soprattutto nei settori finanziario e immobiliare. Anche per queste operazioni possono essere decisivi i rapporti con la politica. Eppure si avverte uno scarso interesse sulla adesione dell’Italia alla Procura europea (EPPO), che sarà operativa dal 2021. Non è un buon segnale dato che quella novità è destinata a rafforzare la cooperazione giudiziaria tra diversi Paesi, per colpire meglio i reati utili alla mafia mercatista e ai suoi complici, non di rado provenienti dal mondo politico.

In conclusione, per impedire che la nostra società, la nostra economia e le nostre istituzioni siano inquinate da logiche criminali, non bastano le illusioni degli slogan e neppure gli inasprimenti di pena per qualche reato (peraltro già molto rigorose sul versante antimafia). Vanno piuttosto aggiornate alleanze internazionali, analisi dei fenomeni e pensiero giuridico. Una nuova frontiera, quindi, che richiede investimenti nelle migliori risorse istituzionali, professionali e culturali del Paese.



[1] Per una ricostruzione dei procedimenti più significativi con valutazioni socio-criminologiche sul tema cfr. Mafie al nord. Strategie criminali, a cura di R. Sciarrone, Donzelli, Roma, 2014.

[2] Per una conoscenza dei principali temi di discussione sulla proposta di legge n.1302-A cfr Resoconto stenografico seduta della Camera del 25 febbraio 2019, in particolare gli interventi del rel. Aiello, e dei deputati Cantalamessa, Saitta, Ferro, Ascari, in www.parlamento.it; sulla proposta n. 510-B cfr. Resoconto stenografico seduta del Senato del 23 ottobre 2018, in particolare rel. Giarrusso e sen.ri Taverna, Damiani, Stancanelli, Mantovani in www.parlamento.it.

[3] Vds. G. Bianconi, Voto di scambio, sul reato dubbi dei pm antimafia, in Corriere della sera, 27 marzo 2014

[4] Vds. G. Bianconi, Al Csm il caso del voto di scambio, in Corriere della sera, 29 marzo 2014.

[5] La sentenza è pubblicata anche in Foro it., 2006, II, p. 90 e ss. con nota di G. Fiandaca e C. Visconti.

[6] Vds. intervento on.le Aiello in Resoconto stenografico seduta della Camera del 25 febbraio 2019, cit.

[7] Vds. Cass. 28 agosto 2014 n. 36382.

[8] Vds. Cass. 16 giugno 2015, n. 25302; 17 luglio 2015, n. 31348; 20 aprile 2016 n. 16397.

05/06/2019
Altri articoli di Piergiorgio Morosini
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.
"La difficile giustizia"

La presentazione di Gherardo Colombo al volume di Mario Vaudano, edito da Manni (2023)

09/12/2023
Se i diritti diventano doveri

Le conseguenze di un’inattesa interpretazione delle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro

02/12/2023
La proporzionalità della pena: tra scelte del legislatore e discrezionalità giudiziale. Note a margine della sentenza Corte costituzionale n. 197 del 2023

Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, comma 3, c.p., nella parte in cui condizionava – con previsione generale e astratta – l’esito del giudizio di bilanciamento tra alcune aggravanti e alcune attenuanti, la Corte costituzionale ha sviluppato interessanti notazioni sul tema della discrezionalità giudiziale e sul suo responsabile esercizio.

29/11/2023