Magistratura democratica
Magistratura e società

Interrogativi di un giovane magistrato

Daniele Mercadante, giovane magistrato, alla luce delle inchieste che hanno travolto il Csm, pone domande sull’associazionismo, su ordinamento giudiziario e indipendenza della magistratura al più anziano collega Mario Ardigò

Essere un giovane magistrato. Un magistrato agli esordi della carriera, Daniele Mercadante, e uno meno giovane, Mario Ardigò, scrivono di questo alla mailing list di MD . E le loro lettere si intrecciano…

 

Email 
di Daniele Mercadante

Vi scrive un ingenuo e giovane collega (giovane quanto meno per anzianità di servizio), il quale ha cercato di leggere quanto è stato scritto sui gruppi di corrispondenza ai quali è destinata la presente.

In quanto giovane ed ingenuo non ho potuto fare a meno di essere stupito ed amareggiato da quanto (e considero che non sia il caso di sintetizzarlo per l’ennesima volta, in quanto tutti sanno a cosa mi riferisco) è trapelato in merito alle note vicende di cronaca.

Pongo una domanda, e spero di non apparire fuori di luogo: quale insegnamento dovrebbero trarre i giovani magistrati da quanto accaduto, e – mi sia permesso – dalla reazione che ne è seguita, e dalle azioni che (non) l’hanno preceduto?

Perché le prospettive sembrano farsi meno promettenti di quando siamo (da relativamente poco tempo) entrati a far parte di quello che adesso appare insidiato nel suo essere (come ci è stato riferito numerose volte, e la ripetizione diviene sospetta) il “lavoro più bello del mondo”.

Ricordo che gli insegnamenti tradizionali di ordinamento giudiziario e diritto costituzionale tramandavano l’importanza di esaminare l’indipendenza interna così come quella esterna del magistrato. E quanto un giovane magistrato senta l’urgenza della tutela di entrambi (ripeterei: entrambi) i generi di indipendenza, essendo – o avvertendosi – più debole ed inesperto dei colleghi maggiormente anziani (per servizio prestato), dovrebbe apparire autoevidente.

Provo allora a riferire alcune riflessioni, sperando di non offendere nessuno, ma di contribuire al dibattito in corso.

  1. La riforma del sistema elettorale del Csm non è – nella fase decisionale, beninteso – affare dei magistrati, che la riceveranno bella e fatta dal legislatore, col quale potranno, al più, dialogare – in questo momento, in posizione di comprensibile debolezza –. A questo proposito, posso solo riprendere altri e sottolineare come il sorteggio, anche quale fase non interamente assorbente della procedura, sia incostituzionale (a costituzione vigente, ci mancherebbe). Aggiungo, in quanto giovane magistrato, che, a costituzione vigente, sarebbe parimenti incostituzionale qualsiasi sistema elettorale che restringesse l’elettorato attivo e/o passivo dei magistrati più giovani (un sistema del genere esiste in Francia, laddove Calamandrei non ha partecipato alla stesura dei rilevanti articoli della costituzione, e la cosa si avverte, sotto più profili).

  2. Il giovane magistrato può sentirsi (almeno, dovrò confessare che io personalmente mi sento) laissé(e)-pour-compte, in quanto appare che la gran parte delle attenzioni di chi partecipa alla vita associativa sia rivolta a cariche che per lui/lei sono (quasi) precluse: presidenze, vice presidenze, procure, aggiuntati, consiliature, direttorati, massimariati. Qualcuno potrebbe sentirsi indotto a perdonare il giovane magistrato se cominciasse a pensare che le prime valutazioni di professionalità gli servano (principalmente) per iniziare a pensare a smettere di fare il proprio lavoro “normale” ed aspirare a tali cariche.

  3. Tale pensiero faticherebbe molto a manifestarsi, laddove si ponessero alcuni garde-feux, per esempio: un obbligo di (poniamo) sei-sette anni di giurisdizione ‘ordinaria’ per ogni quattro anni di incarichi ‘speciali’ (elettivi, in distaccamento, dirigenziali) – senza eccezione alcuna.

  4. Il giovane magistrato è particolarmente turbato dall’abbassamento dell’età pensionabile. Cinque anni, laddove egli è entrato in magistratura più anziano (di età) dei colleghi anziani (per nomina), a causa di norme che hanno trasformato il concorso in una prova di secondo grado senza apparenti vantaggi per la magistratura nel suo complesso. Il giovane magistrato nota che il repentino e notevole abbassamento dell’età pensionabile, oltre ad essere una misura che in altri paesi ha sollevato forti preoccupazioni costituzionali, in Italia non è oggetto di un gran dibattito teso a porre un rimedio a tale dannosissima ‘ghigliottina’, anche pensionistica (almeno, a leggere le email si potrebbe ricavare l’impressione che vi si pensi pochissimo, e chissà quanto meno vi si penserebbe laddove il Csm fosse eletto – o sorteggiato-eletto – tra magistrati ‘anziani’).

  5. Il Giovane magistrato comincia a guardare con preoccupazione alla sua destinazione a Tribunali e Procure ‘di provincia’, iniziando a sospettare che i grandi dibattiti si concentrino in poche, fortunate, sedi e che i costituzionalmente non distinguibili magistrati periferici abbiano una voce, di fatto, più flebile.

  6. Il giovane magistrato vorrebbe avere informazioni chiare su questioni che lo lasciano quanto meno perplesso: perché il tasso di impugnazione (con esito finale favorevole al ricorrente) delle delibere del Csm non è più contenuto? non sarebbe possibile porre un vincolo di esperienza specifica per la destinazione e per le nomine in Cassazione (per esempio: per essere nominati alle sezioni civili, la necessità di almeno 15 anni di servizio nel relativo settore, di cui almeno 7 nei dieci anni precedenti la nomina)?

  7. Il giovane magistrato si chiede: non sarebbe il caso di prendere in considerazione la possibilità che la rappresentanza dei magistrati più giovani (così come delle donne magistrato), sia questione di primaria importanza, perché, hélas, gli interessi delle donne magistrato e dei giovani magistrati non sempre coincidono con gli interessi dei magistrati ‘anziani‘ (uomini)?

  8. Il giovane magistrato si chiede, infine: interessa tutto questo a molti? A qualcuno? E, se così non è, quali giovani magistrati si pensa che si appassionino all’associazionismo, e con quale spirito?

 

Email
di Mario Ardigò

Quando e come decisi di diventare un giovane magistrato?

Mio padre mi indirizzava verso quella professione perché, diceva, “non si prendevano più calci nel sedere”. E vedeva certi suoi amici magistrati che avevano il tempo di giocare a tennis la mattina.

A me quella motivazione non bastava e seguivo svogliatamente le lezioni a Legge, qui a Roma. Avevo iniziato a frequentare gli universitari cattolici della Fuci e, un po’ come tutti quei maschi, ero rimasto colpito dalla vita austera dei Benedettini di Camaldoli, che ha un suo fascino che può capire chi l’accosta da vicino.

Intorno la società sembrava crollare e molti dicevano che era un bene, perché erano le ideologie a crollare, così ognuno avrebbe potuto farsi gli affari propri e il mercato avrebbe selezionato chi “meritava” di emergere.

Avevo quasi finito Legge quando ammazzarono un professore di scienze politiche, sulle scale che spesso anch’io salivo e scendevo. Ne avevo sentito parlare in Fuci, perché era stato uno importante in Azione Cattolica. A quei tempi c’era molta gente che finiva in quel modo, ci si era un po’ fatta l’abitudine. Oggi, a dirlo pare strano, ma era così. Così un giorno di un triste febbraio mi trovai alla Sapienza, all’Università di Roma, in piazza, con un gruppetto di amici miei di allora, perché lo commemoravano. Eravamo in mezzo ad un oceano di bandiere rosse, e noi, in una decina, avevamo uno striscione bianco con scritto “FUCI”. In altri giorni non ci sarebbe stato consentito di esporlo. Si andava per le spicce verso i “democristiani”, quali venivamo considerati, anche se non tutti tra noi si consideravano tali. Ad un certo punto, stando lì, pensai che tutto fosse finito. Me ne andai con quel pensiero. Avevo sbagliato tutto, avevo scelto la parte sbagliata, avevo creduto a certi maestri; ora invece era l’ora di chi si faceva gli affari propri. E quei rossi con le loro bandiere spiegate sarebbero stati travolti, come poi, di lì a una decina d’anni effettivamente avvenne. Poi scoprii che l’ucciso aveva a che fare con il Csm, capite?: il Csm. Qualcosa che riguardava i magistrati, lessi sui giornali. L’ucciso era stato una grande anima, lessi anche, e non era entrato al Csm per farsi gli affari propri o quelli del partito, la Dc, che l’aveva indicato per quel posto. Per lui i magistrati erano importanti proprio perché non era gente che si faceva gli affari propri (!). Avevo studiato Legge, ma i magistrati mi erano rimasti estranei. Uno, che teneva lezioni di procedura civile, era tanto noioso. I nostri professori li criticavano nelle note a piè pagine e a volte con più risalto proprio nel testo, e ironizzavano sugli strafalcioni dei loro decreti. ordinanze, sentenze . Ma quell’ucciso no, ci si era ficcato in mezzo e, per questo, ci aveva anche rimesso la vita. Sapeva, di quei tempi, che poteva accadergli. Lo sapeva e glielo avevano confermato. Che ci trovava nei magistrati?

In famiglia se ne parlò, perché un mio parente lo conosceva bene. Bachelet stimava molto i magistrati, si può anche dire che volesse loro bene. Fu allora che accettai il consiglio di mio padre di tentare magistratura. La società di allora, il mondo di allora, erano quelli che erano, ma, come anni fa intitolò il suo bel libro il collega Spataro, tutto sommato “ne valeva la pena”, a credere a quel professore morto. Uno che, come scoprirono i giornalisti girando per casa sua, faceva una vita austera.

Tempo dopo, Paolo Giuntella ed altri scrissero un libretto in ricordo dell’ucciso, in cui leggo quello che trascrivo di seguito. Si intitolava Aldo Moro e Vittorio Bachelet. Memoria per il futuro. Ecco, quel futuro a cui a quell’epoca ci si voleva rivolgere è ora, il nostro tremendo presente. Così sento l’impegno di fare da passaparola.

“Io mi ricordo che la sera prima che Bachelet fosse ucciso [...] ci trovammo a casa di amici, tutte persone molto addentro alle cose della vita pubblica.

E c’era un saggista molto noto, nostro amico, che andava teorizzando un po’ sconsolato, un po’ con ironia, un po’, per certi aspetti, con cinismo – ma in fondo questo è anche un aspetto dell’intelligenza che si rivela – il tema “senza interessi da difendere non si può fare politica”. Intendendo interessi nel senso brutale del termine, cioè praticamente dare ed avere nei confronti delle casse dello Stato.

Ci fu una discussione, perché l’argomentazione era molto ben sviluppata e in fin dei conti perché si cominciava a profilare quel cambiamento nella scena politica che noi oggi in parte vediamo. Ebbene, ci fu qualche sollevazione contro questa per così dire ‘teoria realistica’, di realpolitik, o di realtà effettuale come diceva Guicciardini.

Dopo, Bachelet, che aveva la macchina di servizio con la protezione di scorta perché era vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, mi accompagnò a casa come faceva sempre, e ci fermammo a un certo punto di fronte a piazza Navona a continuare questa discussione dicendo che noi non potevamo accettare questo tipo di concezione. E lui sviluppò con molta serietà l’affermazione che ‘non si può accettare l’efficacia se questa efficacia significa l’accettazione del machiavellismo’.

Il senso della politica per Bachelet stava qui: pur nella complessità delle situazioni, nelle difficoltà che vedono sempre un chiaro e uno scuro, un bianco e un nero, la politica non può essere ricondotta al gioco degli interessi.

E nella gioia di questa prospettiva, che è in fondo quella dell’ottimismo cristiano, sta anche il senso del nostro commemorare ”.

Poi ho letto che nella consiliatura di Bachelet si manifestarono tensioni che lo fecero soffrire, non dissimili da quelle di questi tempi, anche se oggi, come si è scritto oggi, pare di essere, non sull’orlo, ma proprio nell’abisso. Eppure per lui aveva avuto un senso l’impegno in quel Csm, non in un Csm ideale e anche di fronte ad una magistratura ideale, no, proprio con quella magistratura lì, con i suoi chiari e scuri, con i suoi eletti al Csm che battagliavano.

Per me, cercare di entrare in magistratura fu un rimedio all’insensatezza crescente in cui mi sembrava di stare impatanandomi, in mezzo ad una società che cominciava ad esprimere la religione del mercato. Fui fortunato, imbroccai i temi, che non erano difficili come quelli di oggi. Mi pare che la lunga vita che ormai ho trascorso in magistratura mi abbia dato ciò che cercavo. Molta angoscia, certo, il senso di impotenza e talvolta di insufficienza, soprattutto di fronte ai tanti più bravi di me. L’assillo dei numeri che incombevano e la sensazione di svuotare il mare con il bicchiere. Ma anche il senso della vita che cercavo. E la libertà da certi incubi che mio padre aveva vissuto al Ministero, quelli delle cordata verso l’alto, verso lo stato maggiore, la lotta per bande, di tutti contro tutti, che ancora c’è in qualsiasi pubblica amministrazione, ma che a noi è risparmiata solo che lo vogliamo. Quegli incubi ("se non sono aggiunto cinquant’anni sono un fallito!") che poi fatalmente spingono verso l’azzardo morale, una tentazione che coglie tutti per quella via. In questo ho condiviso il modo di vedere dei Benedettini. In magistratura, almeno finora, si è fatto assillare dalla carriera chi lo ha voluto: non è indispensabile, non è fatale.

 

30/10/2019
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