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L’analisi di genere passa la soglia sovranazionale e approda in Cassazione

di Fabrizio Filice
giudice del tribunale di Milano

Nota a Cassazione, Sesta sezione penale, sentenze n. 12066 del 22.3.2023 (ud. 24.11.2022) e n. 14247 del 4.4.2023 (ud. 26.1.2023)

Introduzione 

Con due sentenze della sesta sezione penale, la n. 12066 del 22.3.2023 (ud. 24.11.2022) e la n. 14247 del 4.4.2023 (ud. 26.1.2023), la Corte di cassazione affronta espressamente, per la prima volta, il tema della prospettiva di genere come ratio decidendi, focalizzando (e soprattutto attuando) l’obbligo ‒ di origine sovranazionale ma già recepito nel sistema legale interno ‒ di impedire i fenomeni della vittimizzazione secondaria e dell’uso di stereotipi sessisti e misogini nella risoluzione dei casi. 

Per comprendere l’assoluta novità delle due sentenze, e soprattutto l’importanza che esse rivestono per l’introduzione della prospettiva di genere tra i pattern dell’analisi del reato e del ragionamento processuale, è necessario partire da una retrospettiva storico-giuridica che evidenzi le diverse fasi del consolidamento, nella dimensione sociale così come in quella legale, di modelli di ragionamento pregiudiziali e stereotipati, funzionali al mantenimento di un ordine nazionale fondato sulla “normalità” del dominio maschile, razziale ed etero-normativo.

Quanto questa cultura del dominio sia incrostata nelle istituzioni, lo ha dimostrato il recente caso estivo del pamphlet pubblicato dal generale Roberto Vannacci, ex capo della Folgore, con ruoli di responsabilità nelle forze speciali. Le sue considerazioni sulla «anormalità Lgbt» e le prese di posizione contro i migranti, il femminismo e gli ambientalisti, hanno apparentemente suscitato il disappunto di una platea mediatica vastissima e trasversale, sino alla netta presa di distanza degli alti vertici militari. Ma bisogna fare attenzione a non farsi distrarre da quella che è solo un’illusione ottica e che potrebbe indurci a pensare che, in fondo, avesse ragione lui e che ormai il mondo, “al contrario” come lui lo ha definito, sia dominato da élites femministe, interculturali, Lgbt e queer, e che il “povero” maschio bianco eterosessuale sia ormai stato declassato da soggetto di dominio a soggetto ai margini. 

In realtà, per parafrasare il casus belli, è proprio rispetto a questa prospettiva ucronica che il mondo reale è, ancora e sempre, contrario: la cultura dominante è tuttora imperniata su un autoritarismo maschile, razziale ed etero-normativo che non solo è dominante ma è sempre più violento. Nel corso dell’estate appena trascorsa si sono susseguiti femminicidi con una frequenza impressionante, più di uno alla settimana nel cuore di agosto, e si trattava di donne uccise dai loro partner o ex partner uomini. Analogamente, sono continuanti i naufragi dei migranti alle nostre coste, con centinaia di morti e dispersi e, anche in quel caso, non si annoverano maschi occidentali tra le vittime. La comunità Lgbt e queer è sotto attacco e il messaggio che non possa contare sulla difesa delle istituzioni politiche correnti è stato lanciato in modo molto chiaro: quindici paesi dell’Unione si sono uniti alla Commissione nell’intentare una causa presso la Corte di giustizia europea contro la legge ungherese che vieta la “promozione dell’omosessualità” ma non l’Italia, il cui governo ha invece difeso quella legge e, nel mentre, è riuscito a far approvare alla Camera una controversa legge che rende operativa anche all’estero la fattispecie incriminatrice di realizzazione della gestazione per altri, prevista all’articolo 12 della Legge 40 del 2004, con il dichiarato fine di colpire e distruggere le famiglie omogenitoriali, stigmatizzandole socialmente come le prime fruitrici di questa tecnica procreativa, nonostante sia noto che le coppie eterosessuali ricorrono come, se non di più, alla stessa tecnica nei paesi in cui è consentita. 

La denuncia di una dittatura delle minoranze e del presunto impero di una “ideologia gender” rappresenta quindi una paradossale e deliberata inversione della realtà che si rivela funzionale a reprimere il dissenso e a togliere voce a quella “resistenza dei diritti umani” che invece deve poter contare sempre, in uno stato democratico laico, liberale e di diritto, sul presidio e sulle garanzie dei diritti costituzionali. 

È quindi intollerabile che gli organi amministrativi e giudiziari, prioritariamente vocati a rivestire quel presidio di garanzie per tuttƏ, si facciano invece motori di una ulteriore vittimizzazione, attuata per via istituzionale, delle persone che si rivolgono loro per avere protezione e tutela dei propri diritti.

Per capire cosa sia la “vittimizzazione secondaria”, come esperienza impattante sulla dimensione esistenziale prima ancora che come nozione sociologica, rileggiamo alcuni passi della toccante lettera che il padre di una giovane vittima di violenza sessuale di gruppo ha rivolto un’altra ragazza che si è trovata, quest’estate, nella stessa situazione. 

La lettera è stata pubblicata da La Repubblica il 28 agosto del 2023.

«Cara ragazza di Palermo, sono il padre della vittima del tristemente noto “stupro di Capodanno” di Roma, e ti scrivo per appoggiarti. Hai fatto bene a reagire contro chi, sui social, ha facilmente concluso che a “una come te” è “normale” che capiti; e di suicidio – purtroppo - non hai parlato a sproposito. Ma ti scrivo anche per avvertirti: sei sola, perché gli altri non capiscono.

Ci sono cose che pensiamo non ci toccheranno mai, come se potessero capitare solo ad altri, ma poi irrompono e devastano la vita; e ti fanno capire cosa vuol dire veramente essere violato in tutto il tuo essere.

I nostri legali sconsigliano questa testimonianza sulla stampa perché potrebbe non essere utile al processo: non importa; noi abbiamo scelto di denunciare per mettere in guardia, non per dei vantaggi - magari economici - che sappiamo benissimo che non ci saranno mai, specie quando gli imputati dello stupro non sono attori di Hollywood; e quando comunque tutti dovrebbero capire che il prezzo da pagare a esporsi in un processo come vittima di violenza è enormemente superiore a qualsiasi vantaggio personale che ne possa derivare.

Quando si denuncia, si fa a difesa di tutti, per le figlie e i figli di tutti gli altri, in un mondo che dà anzi tutto alla vittima l’obbligo di mantenere l’anonimato. Io e mia figlia – per quanto sia il segreto di pulcinella – dobbiamo firmarci con pseudonimi e iniziali perché è un marchio sociale indelebile essere vittime: e questa è una atroce umiliazione, il primo stupro collettivo da affrontare, e tu che ti sei esposta un po’ di più probabilmente già lo sai.

Pesa la verità, soprattutto perché mia figlia è assolutamente lucida e si rende conto. E la lucidità amplifica la sofferenza. La vita va avanti: c’è la scuola, in un altro paese, ci sono gli amici diversi di un luogo diverso. Ci si fa forza e all’inizio sembra che si ritrovi la serenità, che però dura un soffio.

Arrivano le crisi di panico e l’agorafobia: mia figlia, cara ragazza, era una ragazzina normale e capisce tutto, ma non riesce a entrare in un centro commerciale; scende in strada e corre a rinchiudersi di nuovo in casa perché si sente l’oggetto di tutti gli sguardi: una sé stessa che sa benissimo come tutto questo sia irrazionale è costretta a venire a patti con una sé stessa condizionata dal trauma atroce.

Comincia l’insonnia e, da padre, si va a tentoni: innumerevoli notti passate a portarla a camminare in montagna perché tanto non dorme e sotto la luna – non c’è nessuno che ti sembra intento solo a fissarti – riesce a stare fuori. È ovvio che serve un sostegno specialistico: cominciano le terapie psicanalitiche, comportamentali, farmacologiche, e le diagnosi mai certe che si alternano. “Stress post traumatico”, è ovvio, ma in quali patologie si trasformi, in quali fragilità intime e sociali si evolve questo stress non è per niente scontato. Ancora meno lo sono le soluzioni: e allora si tenta un tipo di terapia e poi un’altra; e allora una ragazzina, lucida e che sa di non meritarlo, deve sperimentare se è meglio l’Efexor, il Prozac o il litio e si intossica, e oltre a tutto deve far fronte agli effetti collaterali.

E ancora oggi, a tre anni di distanza, la terapia risolutiva per l’ansia di una persona consapevole non è stata trovata.

Non aiutano gli articoli di stampa: più o meno a favore, ma cerchi di non farglieli vedere per risparmiarle di rivivere ogni volta quei momenti; però non è stupida, li trova e ci piange sopra, lunghe lacrime. Quello che migliora è la capacità sua e di tutti noi di nascondere il dolore agli altri.

Respiriamo, c’è un po’ di motivazione, la speranza non è definitivamente spezzata. Ma poi arriva il processo: una dura deposizione che fa male. Ci vogliono settimane per ricomporre l’equilibrio, ma nulla in confronto alla crudeltà delle testimonianze degli “amici”.

Se la tua denuncia li espone – socialmente o legalmente – all’onta di un abbandono, alla scoperta di traffici di stupefacenti gestiti da giovani spacciatori di famiglie in vista, sei scomoda.

Meglio minimizzare il tutto, e farlo coralmente, ovvio. Così, le stesse persone che avevano calcolato come più prudente portarla – senza avvisarmi – dai Carabinieri in seguito a un’ovvia violenza, ora fanno un calcolo diverso: dichiarano che sembrava consenziente, quasi felice. Quelli accusati per gli stupefacenti da cui forse è venuta la “sigaretta bagnata” che ha privato mia figlia di consapevolezza, depongono che il suo sport abituale era avere rapporti multipli in un’unica sera. La ragazzina che aveva deciso di esporsi per proteggere tutti legge: ed è di nuovo spezzata dentro.

Mi chiede, ingenua, come possono averlo detto i suoi amici! Se non altro, come possono aver descritto i suoi presunti facili costumi, visto che non li vedeva da un anno e durante quell’anno c’era stato il lockdown, quello rigoroso del Paese in cui abitiamo? Mia figlia, purtroppo, non conosceva il verbo “calcolare” se non nel suo significato aritmetico. Questo l’ha condannata a vittima designata. La gente non capisce che gli stupratori – con la coerenza dei vigliacchi - non scelgono la ragazza più “provocante”, ma quella più indifesa.

Cara ragazza, spero che tu abbia intorno meno cinismo e solitudine. Noi, ora ritentiamo; che il 2023 ci porti bene! A settembre un’altra facoltà, un’altra città, con lo strappo – e le spese – di non poter studiare lì dove ci si sentiva a casa, a Roma; che onta essere vittime!

Però ora tutto dipende da un’unica cosa: quale responso restituirà la Giustizia italiana? Quanto vale una sentenza? Quale futuro avrà la ragazzina che ora vuol fare il Procuratore per difendere le altre vittime, quale fiducia, quale significato nella vita?

Quale messaggio riceverai tu, dopo esserti esposta sui social a nome di tutte, se invece di una decisione che riconosce il vostro coraggio di denunciare e che invia un messaggio educativo per tutti, avrete una formula che, in raffinato linguaggio giurisprudenziale, significa “facevi meglio a ingoiare tutto e stare zitta, rompicoglioni!».

 

1. La violenza epistemica 

Il genere, per dirla con Raewyn Connel, è una realtà sociale, precisamente è «la struttura delle pratiche sociali tramite le quali i corpi sessuati vengono delineati nella storia[1]».

Questa struttura si basa su una impostazione binaria divisa in due categorie, il maschile e il femminile. L’analisi di genere consiste nell’analisi storica, politica e giuridica delle differenze tra queste due categorie nel loro processo di delineazione attraverso la storia. 

«Essere una donna o un uomo ‒ riflette Connel ‒ ed essere un tipo particolare di donna o di uomo, influisce sul nostro lavoro, sul nostro reddito, sul nostro senso di noi stessi, sulle nostre amicizie, la nostra sessualità, le nostre relazioni con i figli e molto altro ancora[2]».

Queste differenze sociali non hanno nulla a che fare con la natura dei corpi, non sono biologicamente ma, appunto, socialmente determinate. 

E la violenza di genere è la prima modalità storica attraverso la quale queste differenze sono state imposte e organizzate scientificamente per strutturare un ordine di genere a traino patriarcale.

Gli studi post-coloniali, intimamente connessi e “amici” degli studi di genere, hanno ricostruito i processi di colonizzazione anzitutto come “atti di genere”. La forza lavoro imperiale era composta per la maggior parte da uomini: soldati, funzionari governativi e commercianti per lo più. 

La violenza brutale contro i colonizzati, e in particolare lo stupro delle donne, non solo erano “normali”, erano soprattutto “normativi” in quanto servivano alla strutturazione dell’ordine dei colonizzatori, una strutturazione che avveniva, quindi, prima di tutto attraverso la razza e il genere. Ovviamente questa strutturazione ha avuto importanti conseguenze sulla codificazione dei modelli di maschilità e di femminilità socialmente tramandati dalle potenze coloniali occidentali, al loro esterno come al loro interno. 

Il modello di uomo dominante è tuttora, in questo ordine, quello di un uomo violento, il che non significa un uomo istintivo e irrazionale. La violenza è infatti praticabile – e quella coloniale è stata in primis praticata – in modo estremamente lucido, razionale e programmatico. Nell’uso razionale della violenza sta ovviamente anche la capacità di dosarla esattamente in base all’obiettivo da raggiungere, come ci ricorda il magistrale dialogo sul potere del film Schindler’s list: «Ci temono perché abbiamo il potere di uccidere arbitrariamente. Un uomo commette un reato, doveva pensarci, lo facciamo uccidere e ci sentiamo in pace…o lo uccidiamo noi stessi, ci sentiamo ancora meglio. Questo non è il potere però: questa è giustizia, è una cosa diversa dal potere. Il potere è quando abbiamo ogni giustificazione per uccidere e non lo facciamo».

Il modello di uomo attivo, dominante, che si è tramandato sino a oggi nelle società occidentali è quindi rappresentato da un maschile con queste due caratteristiche primarie, la violenza e la razionalità, strettamente interconnesse. 

Il massiccio uso della violenza di genere nei processi di colonizzazione, vecchi e nuovi, e la sua scientifica funzionalità a strutturare un determinato ordine sociale, rendono inquadrabile la violenza di genere anzitutto come una forma di “violenza epistemica”, in quanto programmaticamente deputata a creare un processo collettivo di conoscenza e di acculturazione il quale, considerato l’importante ruolo che il corpo sessuato gioca in questo processo, è al tempo stesso anche un processo di “incorporazione sociale”. Rispettare l’ordine di genere significa stare “dentro” il corpo sessuato non solo biologicamente ma anche, e soprattutto, socialmente; non oltrepassare i confini, i ruoli e i limiti che la società, ordinata per genere, perimetra intorno a quel corpo sessuato.

Sappiamo tuttƏ che la storia non procede “al contrario”, come millantano le tante sgangherate teorie complottiste, ma procede in modo crono-logico, sì che la strutturazione di un ordine sociale avvenuta attraverso millenni e mai messa davvero in discussione ‒ in quanto il passaggio dalla colonizzazione alla neo-colonizzazione e poi alla globalizzazione, ha più che altro trasformato, “economicizzandolo”, l’uso della violenza, ma non lo ha dismesso ‒ non può dunque non ripercuotersi in maniera dirompente sulle società contemporanee che in quell’ordine mondiale, sperimentato come oppressori o come oppressi e in molti casi in entrambi i modi, sono cresciute e si sono plasmate. 

 

2. Il controlimite dei diritti umani 

«La logica della potenza, per quanto grande possa essere, non è ancora la descrizione di tutta la realtà, perché la giustizia è altrettanto reale quanto lo sono la forza e il potere[3]».

La rupture delle due guerre mondiali, dell’Olocausto e dell’atomica ha innescato nella Comunità internazionale un processo riformatore che ha tentato, con il passaggio alla dimensione dei diritti fondamentali, una parziale inversione di rotta. Un “tentativo impossibile” forse, perché stritolato tra le inconciliabili esigenze di mantenere e di iterare il dominio post-coloniale, trasformandolo, e quella di disinnescare quello stesso ordine sociale, in larga parte fondato sul genere e sulla razza, che quel dominio ha costruito e strutturato nel tempo rendendolo possibile, rendendolo Storia. 

Questa contraddizione in termini non ha causato solo una evidente e continua oscillazione dei decisori politici, ma ha anche tracciato una linea di demarcazione più netta tra i poteri dello Stato: il giudiziario, nei paesi nei quali le Costituzioni del dopo guerra gli hanno assicurato uno statuto di indipendenza effettiva, è stato chiamato a farsi carico in via prioritaria dell’attuazione dei diritti, e ha trovato nelle fonti sovranazionali e nell’instaurazione di canali di comunicazione giudiziaria transnazionali e dialogici, delle “finestre aperte” nei muri delle sovranità nazionali, dalle quali fare entrare i diritti anche al costo di destabilizzare quell’ordine millenario su cui la sovranità nazionale è fondata.

Un canale di dialogo certamente proficuo nell’affermazione dei diritti è quello instauratosi tra il Consiglio d’Europa, e soprattutto la Corte dei diritti, e l’Unione europea. Il Trattato di Lisbona del 2007, che ha reso la Carta dei diritti fondamentali, speculare alla Convenzione europea, un documento giuridicamente vincolante sul rispetto dei diritti umani, ha aperto una sorgente di fonti del diritto “derivate” e protese a uno slancio legislativo verso la tutela dell’uguaglianza e dei diritti, e ha consegnato alle magistrature europee indipendenti uno strumentario di interpretazioni conformi, disapplicazioni di norme interne, rinvii pregiudiziali e “dialoghi” tra Corti nazionali e sovranazionali, che, in molti casi, ha permesso l’ingresso dei diritti per via giudiziaria e la destrutturazione dall’interno delle onto-conformazioni razziali e di genere stratificate negli ordinamenti nazionali. 

 

3. La policy europea sulla violenza maschile contro le donne

Il settore della violenza maschile contro le donne è uno di quelli in cui maggiormente si manifesta la polarità storico-politica di questo processo che stiamo vivendo, di una difficilissima transizione da un ordine sociale patriarcale a un ordine post-patriarcale: un processo che si regge essenzialmente su tre pilastri di natura transizionale: la transizione di genere (cioè delle politiche riguardanti i ruoli di genere), la transizione migratoria e la transizione ambientale. Un work in progress continuamente schiacciato nella polarità tra prospettive evolutive, spesso veicolate dalla giurisdizione con l’importante apporto conoscitivo delle NGO operative in questi tre settori, e resistenze nazionali, veicolate da politiche, e da culture, sovraniste e nazionaliste. 

Successivamente all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, avvenuta nel 2009, sono state varate, in particolare, due fonti importantissime in materia di parità di genere e di contrasto alla violenza maschile sulle donne: la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011 e ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77, e la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce «norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato», anch’essa già recepita dall’Italia con decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212.

Non sono le prime fonti in materia, in quanto seguono la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW), adottata nel 1979 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite la quale, però, non è mai riuscita a conquistare una reale ed efficace forza precettiva, né a modificare in modo sostanziale gli assetti normativi e giurisprudenziali degli Stati aderenti, al contrario della Convenzione di Istanbul e della Direttiva vittime.

La Direttiva, in particolare, è stata attuata con un decreto legislativo che ha modificato sensibilmente il Codice di procedura penale ‒ tradizionalmente imperniato su un garantismo a senso unico, tutto incentrato sui diritti di difesa e sulle garanzie della persona imputata ‒ introducendo un primo nucleo “minimo” di garanzie e di diritti processuali, di tipo informativo e partecipativo, delle vittime di reato e, con particolare riferimento alle vittime di violenza di genere, di violenza sessuale e di violenza domestica, ha anche introdotto delle modalità speciali di assunzione della prova dichiarativa, modificando l’articolo 392, comma 1 bis, del codice, per proteggere la vittima dall’esposizione pubblica e dal contro-esame difensivo, che tante, troppe volte, nella storia dei processi italiani, ha assunto le forme di una colpevolizzazione morale della vittima sulla base di quegli stessi stereotipi di genere già fondativi dell’ordine sociale, secondo i quali le vittime vengono percepite e presentate come le prime devianti, prostitute per lo più, che raccontano fatti devianti i quali ineriscono ontologicamente a un contesto, e a una vittima, già in sé devianti: e ciò sul presupposto, implicito ma saldo, che la donna che non devia non subisce abusi.

 

4. Le sentenze “italiane” della Corte di Strasburgo

Con due recenti Sentenze ‒ Corte EDU 27 maggio 2021, J.L. c. Italia, e Corte EDU 20 gennaio 2022, D.M. e N. c. Italia ‒ la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in relazione all’operato della giurisdizione italiana e, in particolare, in relazione al percorso decisionale, e di riflesso anche motivazionale, che l’Autorità giudiziaria italiana aveva posto a base delle proprie decisioni. Nel primo caso (J.L) si trattava della assoluzione in via definitiva degli imputati dall’accusa di aver compiuto una violenza sessuale di gruppo. 

I Giudici avevano ritenuto la denunciante non credibile non solo in considerazione delle incoerenze interne del racconto, della mancanza di riscontri esterni e anzi della presenza di elementi di segno contrario alla versione dei fatti da lei resa, ma altresì sulla scorta di ripetuti riferimenti alla vita privata della denunciante, alla sua vita familiare e alle sue abitudini sessuali, e persino alle sue passate espressioni artistiche, nonché agli atteggiamenti tenuti in pubblico nei momenti precedenti l’episodio denunciato.

Nel secondo caso (D.M.) si trattava invece di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria minorile, che aveva dichiarato una bambina in stato di abbandono morale e materiale, interrompendo il suo rapporto con la madre, quando aveva solo tre anni. Anche in questo caso la Corte europea ha ravvisato nella decisione una intromissione non giustificata nella vita privata della famiglia in quanto, anziché ricorrere a ogni strumento processuale a disposizione per valutare il migliore interesse della minore, i Giudici si erano basati unicamente sulle relazioni dei servizi sociali, nelle quali erano tra l’altro presenti valutazioni che, anche in quel caso, prescindevano dalla capacità della donna di essere una buona madre e integravano veri e propri giudizi morali sul suo modo di vivere (la sua vita intima, la sua scelta in merito al concepimento di un altro figlio, la modalità con cui utilizzava i social network), ben lontani da poter essere posti a fondamento di una decisione così drastica come quella relativa alla adottabilità di una minore.

La ratio decidendi della Corte si fonda, in entrambi i casi, su tre passaggi fondamentali. 

Il primo consiste nel rilievo che quando sotto lo scrutinio processuale c’è la vita di una donna, i Giudici sembrano sentirsi autorizzati a utilizzare criteri decisionali ulteriori e “non scritti” rispetto a quelli legalmente previsti (i criteri della prova del fatto, nel primo caso, e i presupposti della dichiarazione di adottabilità nel secondo), i quali vengono sovrapposti senza alcuna necessità (come avvenuto nel primo caso) o vanno addirittura a sostituirsi (come avvenuto nel secondo) ai criteri evincibili dal sistema legale. 

Il secondo passaggio consiste nella presa d’atto che tali criteri decisori, ultra-legali e additivi, consistono quasi sempre in valutazioni, o meglio in svalutazioni morali della donna fondate su stereotipi sessisti relativi al ruolo che le donne dovrebbero avere nella società, e si traducono in una traslazione della colpevolizzazione morale della donna, per non avere rispettato tali stereotipi, sull’accertamento giuridico delle sue responsabilità legalmente rilevanti, venendo utilizzati per motivare la decisione sfavorevole alla donna: la valutazione di non credibilità della vittima nel primo caso e quella di inidoneità genitoriale nel secondo. 

Il terzo passaggio consiste nell’affermazione che tale adulterazione del ragionamento giudiziario in danno alle donne integra una forma di vittimizzazione secondaria di tipo processuale, secondo la definizione che ne dà la Raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d’Europa, cioè come «vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima», con particolare riferimento ai procedimenti giurisdizionali di separazione, di affidamento e di limitazione e decadenza dalla responsabilità genitoriale, ma anche ai procedimenti penali scaturiti dalla denuncia della vittima e nei quali essa è chiamata a deporre e le sue dichiarazioni devono poi essere valutate come principale, se non unico, elemento di prova. 

La vittimizzazione secondaria si realizza quando le stesse autorità chiamate a reprimere il fenomeno della violenza, non riconoscendolo o sottovalutandolo, non adottano nei confronti della vittima le necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti e dalla reiterazione della violenza e così deliberatamente situano la vittima, nel suo contatto qualificato con l’amministrazione della giustizia, in un contesto di “ingiustizia ermeneutica”. 

La realizzazione della vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni giudiziarie, mediante l’adozione di criteri decisori esorbitanti dalla dimensione del diritto e tratti da stereotipi di genere e sessisti che colpevolizzano le donne, integra quindi una violazione franca delle citate fonti sovranazionali le quali, sia la Convenzione di Istanbul che la Direttive Vittime, nei rispettivi preamboli e in più passi dell’articolato, impegnano gli Stati a evitare la vittimizzazione secondaria di tipo processuale e a proteggere la vittima dalla ri-vittimizzazione da parte dell’autore del reato, così come dall’intimidazione e dalle ritorsioni.

 

5. Le sentenze della Cassazione sull’analisi di genere 

In questo panorama, le due recenti Sentenze della Corte di cassazione, la n. 12066 del 22.3.2023 (ud. 24.11.2022) e la n. 14247 del 4.4.2023 (ud. 26.1.2023), rappresentano, come si è anticipato, una novità assoluta e importantissima. 

Il primo dei due casi ha ad oggetto l’annullamento di una “doppia conforme” di condanna di una donna, la ricorrente, per il reato di calunnia nei confronti dell’ex compagno e, in particolare, per averlo falsamente denunciato di avere commesso abusi sessuali sul figlio minorenne durante la convivenza. 

Il secondo caso, invece, riguarda la conferma di (rectius la dichiarazione di inammissibilità del ricorso avverso) un’ordinanza cautelare di applicazione, al ricorrente, della misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa, di cui all’art 282 bis del codice di procedura penale. 

In entrambi i casi, per la prima volta, la Cassazione ha sviluppato il controllo nomofilattico di compatibilità motivazionale del provvedimento impugnato facendosi carico, quale giudice di ultima istanza, di verificare se nel processo decisionale, quale risultante dalla motivazione, fosse rintracciabile l’uso di criteri decisionali ultra-legali, e in particolare di svalutazioni morali della donna fondate su stereotipi di genere relativi al ruolo che le donne dovrebbero avere nella società, arrivando a esiti opposti nei due procedimenti. 

 

5.1. La sentenza 12066 del 22.3.2023

Nel primo caso, la Corte ha constatato che l’imputazione di calunnia e la doppia conforme di condanna della ricorrente si erano basate su un unico elemento, consistente nel decreto di archiviazione emesso nei confronti dell’ex compagno della donna nell’ambito del procedimento scaturito dalla sua denuncia a carico dell’uomo. 

La Corte dà atto che tale decreto di archiviazione era, come frequentemente avviene nella prassi, sostanzialmente privo di autonoma motivazione, limitandosi a un rinvio “a stampo” alla, in quel caso altrettanto generica, richiesta del Pubblico ministero. 

Approfondendo ulteriormente lo studio degli atti, la Corte ha poi incidentalmente valutato che la denuncia della donna, poi archiviata, era in realtà basata su elementi fattuali di un certo spessore (come l’avere essa assistito direttamente a un comportamento equivoco del compagno nei confronti del bambino, all’interno in un bagno pubblico, e soprattutto le documentate reazioni di paura e di disagio maturate del bambino nei confronti del padre). 

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha quindi constatato che l’imputazione di calunnia, e le relative condanne, avevano del tutto prescisso da una ricostruzione quantomeno sufficiente del fatto oggetto dell’incolpazione, basandosi su un decreto di archiviazione emesso senza motivazione e, peraltro, senza confrontarsi con importanti elementi di segno contrario che pure risultavano chiaramente dagli atti. 

Ma vi è di più. Anche in questo caso, la Corte ha notato come i Giudici di merito di fossero lasciati andare a considerazioni del tutto personali e avulse dalla dimensione giuridica in danno alla ricorrente, accreditando la tesi che la ricorrente avesse denunciato falsamente l’ex compagno per “vendicarsi” del fatto che lui non aveva voluto sposarla dopo che era nato il loro bambino. 

Questo genere di valutazioni, che nel caso in questione andava peraltro a costituire di fatto l’unica motivazione espressa della condanna, difettando ogni accertamento sul fatto sottostante alla incolpazione, realizza esattamente, conclude la Corte, il vizio del ragionamento decisorio, e quindi anche della motivazione, focalizzato dalla Corte di Strasburgo in J.L. e D.M. c. Italia, cioè l’uso di stereotipi sessisti sulle donne (qual è quello della donna che ha come unico orizzonte nella vita il matrimonio ed è incattivita dal fatto che il suo compagno non l’abbia voluta sposare, soprattutto dopo avere fatto un figlio insieme) come criteri per la decisione. 

Al riguardo è decisivo il passaggio contenuto nel § 4.4. della sentenza, la 12066/23, nel quale la Corte osserva, a proposito dell’uso degli stereotipi di genere, che «Si tratta di un tipo di argomentazione, che si risolve in un soggettivo convincimento del tutto disancorato da dati oggettivi ed arbitrariamente selezionato dalla Corte territoriale per motivare la denuncia dell'imputata, già censurato dalla Corte EDU nella sentenza J.L. contro Italia 27 maggio 2021 che ammonisce l'Autorità giudiziaria italiana dall'utilizzo di motivazioni che esprimano “la persistenza di stereotipi sul ruolo delle donne” e le espongano “alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che potrebbero scoraggiare la fiducia della vittima nella giustizia” (cfr. par. 140 e ss.), in quanto “il potere discrezionale dei giudici ed il principio di indipendenza della magistratura sono limitati dall'obbligo di tutelare l'immagine e la riservatezza dei soggetti da qualsiasi interferenza ingiustificata” (cfr .par. 139), tale dovendosi ritenere l'utilizzo di congetture, disancorate da fatti, riferibili a condizionamenti e pregiudizi personali in cui matura la decisione».

Nel passaggio in esame, quindi, la Corte richiama espressamente la nozione di «stereotipi giudiziari», con la citazione delle relative fonti, come vizio della logicità della motivazione che deforma i fatti per applicare il punto di vista soggettivo del giudice.

 

5.2. La sentenza n. 14247 del 4.4.2023

Nel secondo caso, invece, la Corte ha al contrario protetto la motivazione giudiziaria ‒ posta a fondamento dell’emissione di una misura cautelare perdonale a tutela della vittima di violenza domestica, e del successivo provvedimento di rigetto della richiesta di revoca ‒ dalla contaminazione con tali valutazioni ultra-legali e stereotipate che il ricorrente ha tentato di far entrare nel compendio decisionale producendo una consulenza tecnica di parte, di psicologia forense, secondo la quale l’ordinanza cautelare impugnata si sarebbe basata sull’«ideologia gender-based della violenza tra partner e sul pregiudizio che l’aggressività sia sempre dell’uomo nei confronti della donna».

Dopo avere incidentalmente colto il quantomeno controvertibile valore scientifico dell’assunto, al di là del dato formale di essere veicolato in una consulenza tecnica, la Corte, snoda il seguente, davvero incisivo, passaggio motivazionale (§ 2.4.2, del Considerato in diritto): 

«Il Preambolo della Convenzione di Istanbul, a cui si è conformata non solo la normativa interna in materia di violenza contro le donne, ma soprattutto la giurisprudenza, anche a Sezioni unite, di questa Corte (a partire da Sez. U., n. 10959 del 29/01/2016, P.O., Rv. 265894), qualifica la violenza contro le donne come “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”; poi ne richiama “la natura strutturale”, riconoscendola come “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Attraverso il Preambolo, che delinea la radice teorica su cui si fonda l'intera Convenzione - ad oggi unico strumento normativo completo che disciplina la materia in esame -, il giudice è chiamato ad assumere, rispetto a queste fattispecie delittuose, la prospettiva di genere come metodo interpretativo riconoscendo che i reati di "violenza di genere", o per ragioni di genere, sono così definiti dallo stesso legislatore, oltre che da tutte le fonti sovranazionali, perché colpiscono quasi esclusivamente le donne e le bambine, proprio per essere tali, e sono commessi dagli uomini per affermare dominazione e controllo. Questo avviene quando l'appartenenza "di genere", intesa come costruzione culturale che assegna determinati attributi sociali alle persone in funzione del loro sesso biologico, ex art. 3 lett. c) della Convenzione di Istanbul, vista dal lato sia attivo che passivo, costituisce la ragione stessa del fatto-reato cosicché prescinderne, da parte dell'interprete, non ne consente il corretto inquadramento.

Quando la violenza si consuma nell'ambito di una coppia costituita da un uomo e da una donna, come nel caso in esame, o nell'ambito familiare (figlio verso madre, fratello verso sorella, padre verso figlia, ecc.) non c'è alcuna "ideologia di genere", come scritto dal ricorso, ma viene adottata la prospettiva di genere nei termini sopra indicati dalle fonti sovranazionali, ovverosia una categoria interpretativa, correttamente e doverosamente adottata dai giudici di merito, volta ad accertare e valutare la violenza: a) per inquadrare i fatti in modo integrale e non parziale, b) per collocare il delitto non come atto isolato mosso da ragioni naturali, biologiche, religiose, economiche o psicologiche, ma come riproduttivo di una quotidiana relazione di dominio di quell'uomo su quella donna proprio per motivi di genere; c) per riflettere la radice strutturale e discriminatoria del rapporto tra i sessi di cui al citato Preambolo della Convenzione di Istanbul».

La Corte afferma quindi, molto nettamente, che nei pattern decisionali non c’è alcuna “ideologia di genere” mentre c’è (o meglio, dovrebbe esserci) una “prospettiva di genere”, intesa come una categoria interpretativa, correttamente e doverosamente adottata dai giudici sulla base delle citate fonti prescrittive e vincolanti nell’ordinamento, funzionale a inquadrare i fatti in modo integrale, a collocare il delitto non come atto isolato ma come riproduttivo di una quotidiana relazione di dominio dell'uomo sulla donna per motivi di genere e, quindi, anche a riflettere la radice strutturale e discriminatoria del rapporto tra i sessi di cui parla il Preambolo della Convenzione di Istanbul. 

Questo perché, come si è detto all’inizio, il genere e la sua capacità onto-conformativa rappresentano una indiscussa realtà sociale e il diritto non può prescinderne. 

 

6. Il Case Law della Cassazione come precedente persuasivo 

Il dato di novità assoluta rappresentato da queste sentenze non sta solo nell’adeguamento ‒ a questo punto inevitabile, dopo le ripetute condanne dell’Italia ‒ agli standard motivazionali richiesti da Strasburgo, ma sta soprattutto nell’inedita tematizzazione dell’analisi di genere come strumento conoscitivo indispensabile per evitare la vittimizzazione secondaria di carattere processuale e per proteggere la vittima dalla rivittimizzazione da parte dell’autore del reato (giacché anche su questo versante vi è un filone piuttosto consistente di condanne italiane da parte di Strasburgo, inaugurato dalla nota Talpis c. Italia, del 2 marzo 2017, e proseguito sino all’attualità). 

Il portato istituzionale di questa affermazione va quindi al di là della stretta rilevanza giurisprudenziale. 

Promuovere l’analisi di genere significa anche investire in una formazione specifica e interdisciplinare degli operatori e delle operatrici del diritto (ma non solo, anche delle forze dell’ordine e della pubblica amministrazione) e investire in una maggiore specializzazione degli uffici giudiziari: temi, entrambi, già posti all’attenzione dalla precedente Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio, ma anche da diverse delibere del Consiglio superiore della magistratura, come la Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, del 9 maggio 2018, la successiva del 4 giugno 2020, avente a oggetto Linee guida in tema di trattazione di procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica nel periodo dell’emergenza pandemica, e, ancora, quella dell’8 novembre 2021. 

Un impegno che chiama in causa, quindi, il Ministero della giustizia, il Consiglio superiore e ovviamente anche la Scuola della magistratura e che richiede sinergie istituzionali per coinvolgere tutte le agenzie che affrontano i casi di violenza, dagli operatori di primo soccorso alla magistratura.

La forza persuasiva di questi due precedenti potrebbe, in conclusione, investire, partendo dalla correzione del ragionamento giuridico stereotipato, l’intero sistema legale, impegnandolo a creare le condizioni per la non ripetizione di fenomeni integranti vittimizzazione secondaria ‒ quali sono appunto il ragionamento giuridico inficiato da stereotipi di genere e la fallacia istituzionale nella protezione della vittima che abbia sporto denuncia ‒, e quindi a investire nella formazione sugli studi di genere e nell’organizzazione degli uffici giudiziari, in quanto condizioni indispensabili affinché l’analisi di genere possa essere compresa, sia con riferimento ai suoi contenuti che al carattere vincolante delle fonti che la prevedono, e possa essere sistematicamente applicata e attuata come categoria interpretativa e “in azione” del diritto antidiscriminatorio, anche sul versante penalistico. 

 


 
[1] R. Connel, Gender for real, edizione italiana, Il genere preso sul serio, Feltrinelli, Milano 2023.

[2] R. Connel, cit.

[3] T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino 2006.

04/10/2023
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