Neppure al più distratto lettore dei giornali quotidiani o al più disattento spettatore delle trasmissioni d’informazione televisiva può essere sfuggito come il pubblico ministero sia divenuto in questi ultimi decenni uno dei protagonisti principali della cronaca: non soltanto di quella “nera” o propriamente giudiziaria, ma anche della cronaca politica. La lunga stagione del conflitto tra politica e magistratura – che non è un fenomeno soltanto italiano, anche se da noi ha conosciuto momenti assai caldi, e che costituisce ovunque un severo banco di prova del costituzionalismo democratico – ha visto il pubblico ministero assumere un ruolo di primo piano dando alla sua figura un risalto straordinario. Anche a prescindere dalle suggestioni dell’attualità, del resto, è innegabile che la funzione del magistrato cui si chiede di ergersi a rappresentante della legge nei conflitti tra la potestà punitiva dello Stato ed il diritto dell’individuo a non essere ingiustamente punito, e talvolta anche nei conflitti interindividuali privati, ha un’enorme rilevanza sociale e si radica nel cuore stesso dei meccanismi che fondano la democrazia. Il modo in cui quella funzione si rapporta all’esercizio della giurisdizione si riflette immediatamente sulla capacità della giurisdizione stessa di assicurare l’effettiva tutela dei diritti e, più in generale, sulla maggiore o minore corrispondenza al modello di Stato di diritto consegnatici dalla Costituzione.
È parso perciò opportuno svolgere sulla Rivista una riflessione a più voci sulla figura del pubblico ministero, intrecciando i punti di vista di magistrati che quella funzione quotidianamente esplicano, di magistrati giudicanti che con il pubblico ministero interagiscono, di avvocati difensori che vi si confrontano nell’arena giudiziaria e di studiosi che ne hanno approfondito le caratteristiche salienti.
Il magistrato che esercita nei diversi gradi le funzioni di pubblico ministero ha, nell’ordinamento giudiziario, la denominazione di «procuratore» (o di «procuratore generale»). Egli dunque agisce nell’agone processuale in base ad una procura, cioè in rappresentanza di un soggetto o di un’entità diversa. Nel corso della storia è stato procuratore del Re, e quindi rappresentante del sovrano monarca, poi più genericamente dell’Esecutivo, ora infine è il rappresentante della Repubblica la cui sovranità appartiene al popolo. Non è questo il luogo per farne la storia, ma è evidente che non si tratta di mere variazioni terminologiche o del solo passaggio dall’istituzione monarchica a quella repubblicana. Proprio in quanto non è rappresentante dell’esecutivo, bensì della Repubblica tutta, il pubblico ministero è inserito nell’ordine giudiziario e gode delle garanzie d’indipendenza (sia pure non del tutto equiparate in Costituzione a quelle del giudice) che da tale collocazione conseguono.
Rappresentare la Repubblica nel processo penale, in cui si esplica la potestà punitiva dello Stato, nei procedimenti disciplinari e talvolta anche nei giudizi civili, vuol dire farsi portatore di un interesse che non attiene ad un determinato bene della vita, né si identifica con un qualche specifico scopo perseguito dalla Pubblica amministrazione. L’interesse che l’azione processuale del pubblico ministero persegue è di carattere ben più generale: è l’interesse alla tenuta della legalità repubblicana, quale si desume dal dettato costituzionale e dalle disposizioni normative che vi si adeguano e la attuano. Si scioglie così – a me sembra – l’ambigua definizione di “parte imparziale” o di “giudice parziale”, come pure degli altri analoghi ossimori con cui spesso il pubblico ministero è designato. Se è vero che la struttura dialettica del processo lo consegna al ruolo formale di parte, è vero altresì che egli non sta in giudizio per salvaguardare la posizione di una parte che sia portatrice di uno specifico interesse contrapposto a quello della parte avversa. Il suo compito è di assicurare la corretta attuazione del diritto per garantire i valori di legalità che fanno capo all’intera comunità sociale.
Non sono un nostalgico del processo inquisitorio, ma ho l’impressione che il prevalere anche nel nostro ordinamento del contrapposto modello accusatorio abbia favorito, almeno nella percezione dell’opinione pubblica (ma temo non soltanto in quella), il formarsi di una visione per certi versi distorta del ruolo del pubblico ministero in ambito penale. Nella sua posizione formale di parte il pubblico ministero senza dubbio si colloca sul medesimo piano del difensore dell’imputato. Ma il principio di parità delle armi, oggi espressamente sancito anche dal secondo comma dell’articolo 111 della Costituzione, opera qui esclusivamente nella prospettiva processuale, ossia in termini eminentemente formali. Sotto altri profili la parità sarebbe difficile riscontrarla, non foss’altro perché il pubblico ministero si avvale di un apparato di Polizia giudiziaria che ovviamente sopravanza qualsiasi possibilità d’indagine difensiva privata. Anche indipendentemente da ciò, comunque, resta il fatto che, dal punto di vista sostanziale, le posizioni del difensore e del pubblico ministero, quanto alla funzione svolta ed agli obiettivi che la animano, non sono affatto speculari. Il difensore deve comunque difendere il proprio assistito, il pubblico ministero non deve necessariamente accusarlo, ma lo farà solo se si sarà persuaso della fondatezza dell’accusa. Se anche il difensore ritenesse di consigliare al cliente l’ammissione dell’addebito, lo farebbe non per astratto amore di verità ma perché convinto che nelle circostanze date quel comportamento meglio risponde all’interesse dell’imputato. Per il pubblico ministero il solo interesse da perseguire è quello all’accertamento della verità ed all’applicazione corretta della legge. La qualifica di pubblico accusatore che talvolta gli viene attribuita è impropria. Certo, il compito di condurre le indagini è affidato a lui, ma in funzione di garanzia di legalità, senza che per questo egli si trasformi in un organo di polizia, perché anche in questa fase è essenziale che il pubblico ministero conservi una posizione di assoluta neutralità rispetto a qualsiasi ipotesi accusatoria e che ne verifichi l’eventuale plausibilità con il medesimo distacco che anima il giudice, pur sempre muovendo dalla presunzione costituzionale di non colpevolezza dell’indagato.
Ciò non significa, ovviamente, che la funzione del difensore sia meno importante di quella del pubblico ministero. Semmai è vero il contrario, come dimostrano le speciali garanzie apprestate dalla Costituzione al diritto di difesa. Ma sarebbe errato considerarle funzioni omologhe, perché operano su piani diversi.
La funzione di tutela del diritto oggettivo affidata al pubblico ministero risalta ancor più evidentemente quando egli interviene nel processo civile. In una contesa che vede contrapposte due o più parti private, ciascuna portatrice di un proprio interesse individuale, la presenza del pubblico ministero è indice sicuro della rilevanza pubblicistica della vicenda. Ed il fatto che, oltre ai casi in cui la sua partecipazione al giudizio è prevista obbligatoriamente dalla legge, egli possa intervenire in qualsiasi causa civile in cui ravvisi un pubblico interesse (articolo 70, ultimo comma, codice procedura civile) testimonia di come l’esercizio della giurisdizione statale, anche quando è rivolta a soddisfare primariamente esigenze di carattere privato, abbia sempre una almeno potenziale rilevanza pubblicistica. In quest’ambito il pubblico ministero svolge il ruolo, al tempo stesso, di amicus curiae e di controllore della legalità del giudizio. Se il diritto – per dirla con Vincenzo De Cataldo (A che serve il diritto, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 19) – «è una serie di regole che … rendono possibile la cooperazione tra noi uomini in vista di obiettivi comuni, e consentono di risolvere i conflitti che la coesistenza inevitabilmente crea tra gruppi e tra individui all’interno del gruppo», il modo in cui queste regole vengono concretamente applicate e quei conflitti vengono risolti investe il fondamento stesso della convivenza sociale: interest rei publicae, e sta al pubblico ministero farsi carico di questo interesse. La funzione sociale del diritto definisce in ogni campo l’orizzonte del suo operare.
Di questo mi pare si dovrebbe riflettere – e credo che gli articoli ospitati nelle pagine di questo numero della Rivista aiuteranno a farlo – anche a proposito dell’ormai annoso dibattito, talvolta sin troppo acceso, sulla separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti. Senza poter entrare qui nei dettagli dei singoli argomenti spesi a favore dell’una o dell’altra tesi, mi sembra importante sottolineare come la natura stessa dell’interesse affidato alla cura del pubblico ministero, il suo doversi fare carico della funzione sociale del diritto vivente, il suo essere organo di legalità, siano perfettamente coerenti con la sua collocazione all’interno dell’ordine giudiziario. Per poter svolgere il suo ruolo il pubblico ministero dev’essere saldamente radicato nella cultura della giurisdizione e godere di quelle garanzie d’indipendenza che solo l’appartenenza al corpo della magistratura è in grado davvero di salvaguardare. Credo sia questo un ancoraggio fondamentale, in difetto del quale v’è il rischio di uno scivolamento verso una deformazione “poliziesca” del ruolo che rappresenterebbe, in definitiva, una grave perdita di garanzie per la tutela dei diritti di tutti.
Solo poche parole sul secondo dei due obiettivi ospitati da questo numero della Rivista, che è ampiamente illustrato nelle sue linee generali dalla lucida introduzione di Enrico Scoditti.
La responsabilità civile è un tema enorme, e dei più classici nell’ambito del diritto civile, a proposito del quale sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. È del tutto evidente che, per esplorarlo a fondo, occorrerebbero interi volumi e non bastano certo le poche pagine che qui gli si può dedicare. Abbiamo scelto tuttavia di occuparcene perché, pur avendo radici assai antiche, esso appare più che mai un tema in evoluzione, nel quale si rispecchiano molte delle inquietudini che percorrono la società moderna – basti pensare alle discussioni sulla responsabilità professionale del medico, chiamato a confrontarsi con i drammi del fine vita o con gli interrogativi nascenti dalle nuove tecniche di procreazione assistita – e che testimonia forse meglio di qualunque altro della moderna concezione del vivere in società.
Ciò dipende probabilmente dal fatto che la responsabilità civile si colloca su uno di quei sottili crinali in cui più manifestamente il diritto ambisce a svincolarsi dalla semplice funzione regolativa del comportamento dei consociati e ad oltrepassare i limiti della mera tecnica normativa per aprirsi alla nozione ideale di giustizia. Il danno che occorre risarcire è quello “ingiusto”, come perentoriamente afferma l’articolo 2043 codice civile, ma la distinzione tra il giusto e l’ingiusto chiama inevitabilmente in causa le nostre convinzioni morali e le concezioni filosofiche, o più generalmente culturali, da cui è permeata la civiltà in cui viviamo. Qui, più che mai, il giurista deve uscire dal suo guscio e deve saper ricercare le risposte che solo una più ampia consapevolezza sociale può consentirgli di trovare. Ma la sensibilità sociale sui temi della giustizia evolve nel corso della storia, ed allora – come ben sottolinea Scoditti, opportunamente evidenziando il legame col tema del rapporto tra giudice e legge più ampiamente trattato in un precedente numero della Rivista – si comprende facilmente la ragione per la quale, in questa materia, pur in difetto di grandi variazioni del quadro legislativo, il diritto vivente nell’ultimo mezzo secolo ha fatto registrare straordinari mutamenti, dovuti principalmente all’opera della giurisprudenza (e della dottrina che sovente quei mutamenti ha ispirato).
Si sente talvolta affermare che la nostra è l’epoca dei diritti. Forse c’è in questa affermazione un eccesso di retorica, ma è innegabile che l’ultimo secolo ha visto la fioritura di una moltitudine di nuovi diritti (diritto a poter realizzare le proprie chances, diritto alla privacy, diritto all’oblio, diritto alla ragionevole durata dei giudizi, ecc.) con una sempre maggiore consapevolezza delle proprie vere o presunte ragioni da parte dei titolari di nuovi ed antichi diritti. L’ampliamento dell’area dei diritti, naturalmente, ha comportato una corrispondente crescita delle aspettative di tutela, che si accompagna sovente ad una sempre più insistita ricerca di chi sia eventualmente il responsabile di aver frustato quelle aspettative. Il contesto storico sociale in cui siamo calati è saturo di risentimento, e forse ciò non è estraneo al fenomeno della progressiva estensione dell’area della responsabilità civile ad aspetti della vita cui prima difficilmente si sarebbe pensato. Tocca alla giurisprudenza il non facile compito di tracciarne i confini assicurando un’adeguata protezione agli interessi che appaiano meritevoli, entro i limiti del fondamentale principio di solidarietà richiamato dall’articolo 2 della Costituzione, senza dare spazio ad istanze pretestuose o strumentali.
In questo quadro così movimentato per tanti aspetti diversi, di cui si dà conto nelle pagine che seguono, vorrei fare qui brevemente cenno unicamente ad un profilo evolutivo che mi pare di notevole importanza sistematica. Mi riferisco al tendenziale, progressivo spostamento dell’asse della responsabilità civile da una funzione rigorosamente riparatoria ad una dimensione anche sanzionatoria (o punitiva) e quindi in qualche misura preventiva. È probabilmente vero che questi due aspetti sono da sempre almeno potenzialmente presenti in ogni forma di risarcimento del danno, ma è indubbio che in tempi recenti la finalità sanzionatorio-preventiva dell’istituto è andata viepiù emergendo, sicché ora anche nelle sentenze dei giudici si parla spesso della polifunzionalità della responsabilità civile; e si tratta allora di comprendere sino a qual punto la componente punitiva del risarcimento, da mero corollario del ripristino del patrimonio del danneggiato, possa assurgere a finalità prevalente sino a sopravanzare eventualmente la misura del danno patito. Una prospettiva, questa, che è andata innanzitutto sviluppandosi nel mondo giuridico nordamericano, anche sull’onda delle suggestioni fornite dall’analisi economica del diritto, alla ricerca di strumenti giuridici in grado di assicurare un migliore e più efficiente funzionamento del mercato coniugando public e private enforcement, ma che si sta espandendo anche negli ordinamenti europei, ivi compreso il nostro. Non senza problemi, tuttavia, giacché occorre trovare il modo di coniugare adeguatamente la tendenziale atipicità dell’illecito civile con i principi costituzionali che non consentono l’irrogazione di pene se non per fatti già ben definiti dal legislatore né ammettono l’imposizione di prestazioni pecuniarie oltre i casi tassativamente indicati dalla legge.
Non è ovviamente possibile soffermarsi qui su questioni di tale complessità, del resto ampiamente sviluppate negli scritti ospitati in questo numero della Rivista, ma mi è parso opportuno evocarle, sia perché sono indicative di quanto il classico tema della responsabilità civile sia attuale e presenti prospettive di sviluppo in nuove direzioni, sia perché anche esse, per certi aspetti, mettono in evidenza come sia estremamente delicato e difficile quel rapporto tra la tutela dei diritti soggettivi dell’individuo e la salvaguardia del diritto oggettivo, su cui si fondano i vincoli sociali dell’intera comunità, del quale già s’è avuto modo di parlare sopra ad altro proposito discorrendo della funzione del pubblico ministero.
Renato Rordorf
Aprile 2018