1. Una questione di metodo: la reazione in chiave democratica all’emergenza sanitaria in atto
L’emergenza sanitaria che coinvolge da qualche tempo il nostro Paese, adesso non più di altri Stati, è ovviamente un evento drammatico per le caratteristiche dell’amplissima e banale diffusione del virus – per cui non sussistono allo stato cure specifiche – e per la tipologia di assistenza sanitaria che si rende necessaria in molti casi di sviluppo della malattia che interviene a causa del contagio (utilizzazione per un certo numero di pazienti di macchinari per la respirazione assistita e ricoveri in reparti di rianimazione). Tale infezione che certo intacca la salute pubblica in modo evidente e, appunto, rilevante può tuttavia, secondo voci scientifiche accreditate e concordi, essere meglio contrastata impedendo il più possibile i contatti tra le persone. Vi sono infatti soggetti che pur essendo portatori–diffusori del virus non ne sono consapevoli (perché asintomatici o con lievi disturbi che non incidono sulla loro possibilità di svolgimento della vita ordinaria), cosicché il contatto ravvicinato e casuale tra costoro e altri individui può perciò condurre alle complicanze di cui si è fatto cenno, in particolare per le persone considerate più esposte all’aggravarsi del quadro clinico per ragioni legate a condizioni di salute almeno parzialmente già compromesse o perché in età avanzata e dunque più fragili. Il che, come è noto, è stato dimostrato da numeri impietosi, specie in alcune Regioni del nord, che danno conto di una vertiginosa progressione dei contagiati, di continue richieste di ricoveri ospedalieri (si pensi oltretutto alle polemiche in merito alla difficoltà di effettuare controlli per accertare la positività al virus) e purtroppo di tanti decessi.
Se, in assenza del vaccino i cui tempi di individuazione restano incerti, questi sommariamente evocati sono i dati che descrivono le insidie “gestionali” dell’epidemia e la potente capacità diffusiva del virus riscontrata nel Paese (sia pure, al momento, con effetti diseguali tra i territori della Repubblica) ci si può effettivamente chiedere in primis se sono adeguati e sufficienti gli strumenti messi a disposizione delle autorità politiche e amministrative dalla vigente Costituzione democratica per contrastare, possibilmente ridurre gli effetti maggiormente deleteri e naturalmente provare a risolvere l’emergenza sanitaria. Detto in altro modo, si potrebbe considerare indispensabile, partendo proprio da quanto è stato fatto (sembra con buoni esiti) in Cina per venire a capo dell’epidemia partita da quel Paese, “sospendere” sostanzialmente anche da noi la legalità costituzionale affinché il legittimo Governo in carica (non necessariamente questo ma qualsiasi altro Esecutivo, ci piaccia o meno) possa spingersi sino a mettere in atto, sia pure nel nome dello “stato di eccezione”, forme di “costrizione” delle condotte individuali perseguendo il c.d. distanziamento sociale tra le persone e disciplinando rigidamente, con divieti e controlli di polizia, sanzioni penali e amministrative, la tipologia dei pochi rapporti interpersonali consentiti (siano essi affettivi o di lavoro).
Questa insidiosa pandemia che al momento pare contrastabile essenzialmente con una forte contrazione delle libertà democratiche così come le abbiamo sino ad ora conosciute, apre davvero le porte ad un’azione delle autorità pubbliche in grado di spingersi oltre i limiti costituzionali sospendendo, sia pure temporaneamente, forme giuridiche, procedure e competenze di organi diversi, diritti e garanzie individuali? Solo questa sarebbe la via di uscita a disposizione degli stessi ordinamenti democratici per preservare, nella situazione nella quale si è sciaguratamente incorsi, la salute pubblica e le condizioni di benessere fisico, se non psichico, degli individui?
La risposta da costituzionalista (che, sia detto per inciso, disciplinatamente e senza avvertire il sentore di una privazione arbitraria della sua libertà di movimento resta, come richiesto, “a casa”, lavora “a casa” nonostante arretratezze tecnologiche affrontate costruttivamente, soffre le conseguenze del divieto di lasciare il domicilio nel quale si trova con rilevanti sofferenze affettive) ai quesiti posti mi pare dover essere rivolta, prima ancora che alla valutazione delle specifiche restrizioni imposte (il tema resta in tal caso sempre quello della ragionevolezza del divieto indirizzato a tutti ovvero a qualcuno in particolare, dunque dell’eguaglianza, così come pure quello della precisa individuazione della condotta vietata nel caso si prevedano sanzioni penali), alle modalità decisionali utilizzate nell’ordinamento per reagire alla pericolosità del contagio, certo con inevitabili e indispensabili misure afflittive, partendo in ogni caso da quanto stabilito dai precetti costituzionali. Pertanto, se si vuole restare entro la cornice costituzionale, attraverso l’attivazione di quali organi costituzionali e ricorrendo a quali strumenti normativi si dovrebbe fronteggiare lo “stato di necessità” o anche, volendo, lo “stato di eccezione”, quale è quello determinato, almeno in prima battuta, dalla pandemia in atto? E incidendo particolarmente su quali libertà individuali?
2. Il contrasto per via governativa alla pandemia (inclusa la previsione delle restrizioni alle libertà individuali)
Dello stato di eccezione la Costituzione si limita a dire espressamente a proposito dello “stato di guerra” che va deliberato dalle Camere, le quali in tale circostanza conferirebbero al Governo (nella sua collegialità) i poteri necessari per fronteggiare quella evenienza (art. 78), che rappresenta un tradizionale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, peraltro “ripudiato” dal nostro Paese (art.11). Più in generale, delle situazioni di fatto che connotano necessità ed urgenza di provvedere con immediatezza a immettere nuove norme nell’ordinamento, si fa carico il Governo (nella sua collegialità) attraverso l’adozione di decreti legge, vale a dire di atti normativi provvisori aventi valore di legge per sessanta giorni, assunti sotto la sua responsabilità istituzionale nei confronti dell’organo titolare della funzione legislativa, il Parlamento, a cui è legato, quando agisce nella pienezza dei suoi poteri, dal rapporto fiduciario. In tal caso la forma dell’atto – il decreto legge emanato dal Capo dello Stato – non consente naturalmente di disattendere, quanto all’oggetto della regolamentazione, i principi costituzionali ai quali tanto il decreto quanto la corrispondente legge di conversione sono pacificamente sottoposti. Sicché seppure venga contemplata da autorevole dottrina la possibilità per l’Esecutivo di intervenire nel campo riservato alla legge parlamentare per limitare i diritti di libertà (da quella personale, alla libertà di circolazione e soggiorno, alla libertà di intrapresa e, in generale, alla libertà di autodeterminarsi nell’assumere condotte non vietate dalle legge penale), al fine di salvaguardare “interessi generali”, ciò può avvenire per fronteggiare l’eccezionalità dell’evento che imprevedibilmente si verifica. Peraltro nell’ordinamento italiano il recente decreto legislativo n. 1/2018, che ha introdotto il Codice della protezione civile (in un campo nel quale la Costituzione prevede la concorrenza normativa primaria tra principi generali della legge statale e regolamentazione legislativa regionale), stabilisce i modi di gestione delle emergenze di rilievo nazionale “connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbano con immediatezza d’intervento essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’art. 24” (art. 7, lett.c). Nella evenienza che stiamo esaminando, tuttavia, questo modello d’intervento, incentrato sulle ordinanze della protezione civile da assumere d’intesa con le Regioni coinvolte, una volta deliberato dal Consiglio dei ministri, sempre in raccordo con le Regioni interessate, lo “stato di emergenza di rilievo nazionale”, è stato se non formalmente (già il 31 gennaio 2020 si era ritenuto di deliberare quanto previsto dalla norma prima citata), sostanzialmente superato dalla estemporanea emersione di “altro schema normativo” incentrato su alcuni consecutivi decreti legge (tra gli altri il d.l.23 febbraio 2020 n.6 , convertito nella legge 5 marzo 2020 n.13 e il successivo d.l. 25 marzo 2020 n. 19), sempre seguiti e sviluppati da altri decreti ministeriali tra i quali spiccano per numerosità e sostanza normativa i DPCM, i decreti riconducibili alla Presidenza del Consiglio.
A me non pare che possa dirsi legittimata una generalizzata facoltà di decretazione d’urgenza riconosciuta in capo al Governo (nella sua collegialità) per contrastare una drammatica calamità che oramai da svariati mesi (e almeno dal 31 gennaio 2020 con riguardo all’ordinamento italiano) minaccia la salute pubblica tanto più ove questa comporti una compressione di diritti di libertà di vario genere (sia pure con l’individuazione di un limite temporale sempre indicato ma egualmente sempre prorogato da provvedimenti successivi), così scambiando la “drammaticità” dell’evento con “l’eccezionalità” delle misure da adottare e in tal modo disattendendo l’assetto delle fonti stabilito nell’ordinamento costituzionale, incentrato per buone ragioni sulla “preferenza” della legge parlamentare. Si può certo incidere sulla libertà di circolazione e soggiorno al fine di fronteggiare l’esplodere improvviso di una grave emergenza sanitaria, conformemente a quanto stabilito dall’art.16 Cost., ma non si potrebbe altrettanto legittimamente sostituire, nel permanere della diffusione epidemica, una fluida sequenza di decreti legge e di atti sub-secondari richiamati da tali provvedimenti fisiologicamente provvisori, alla regolamentazione legislativa ordinaria sul presupposto che la cronicità dell’evento epidemiologico da fronteggiare si acutizzi a tal punto da imporre addirittura implicitamente (senza cioè delibere camerali pure richieste in occasione della guerra-evento bellico) una “delega permanente” al Governo e, ancor meglio, al solo Presidente del Consiglio. Per quanto l’impegno e i sacrifici richiesti per “debellare” il virus che sta affliggendo il mondo non possano essere considerate operazioni di trascurabile momento per la Comunità e per quanto le “risposte” per organizzare il contrasto da parte degli organi politici debbano essere assunte con prontezza e adattandosi rapidamente alle modalità di penetrazione dell’epidemia tra la popolazione (ma chissà perchè le contemplate ordinanze di protezione civile da assumere con il doveroso coinvolgimento delle Regioni interessate non sono state ritenute adeguate) non mi pare possibile non cogliere la sostanziale distinzione tra un conflitto che produce lacerazioni tra Stati sovrani e il conseguente ancorché deprecabile ricorso a mezzi violenti per prevalere rispetto a interessi più o meno rilevanti sul piano internazionale, ed una pandemia che rappresenta una drammatica emergenza planetaria. In tal caso le energie dei governanti, degli scienziati, delle popolazioni ovunque collocati nel globo terrestre sembrano piuttosto convogliare in uno sforzo comune (a partire dallo studio e dalla ricerca per individuare le cure necessarie per debellarla), a prescindere, in linea di massima, dalla natura delle relazioni effettive tra gli Stati (altro è semmai l’uso interno che anche di questa emergenza sanitaria può essere fatto e viene fatto dai detentori del potere governativo in questa o in quella realtà statuale). Non è dunque giustificata alcuna possibilità di richiamare neppure implicitamente l’art. 78 Cost. cui pure talvolta si accenna per gusto del paradosso!
In realtà e purtoppo da tempo nell’ordinamento italiano si sconta una inversione patologica della relazione fiduciaria che costituisce la base su cui regge la forma di governo parlamentare quale è quella prescelta dalla Costituzione repubblicana e che, almeno a parole, neppure i riformatori “spinti” degli ultimi quindici anni si sono dichiarati favorevoli ad abbandonare. In effetti nell’operare in concreto verso la realizzazione dell’indirizzo governativo, l’Esecutivo, quale che sia, più che proporre alla maggioranza i suoi programmi e venire da questa stimolato e sostenuto ma anche controllato nella sua azione, ritiene di poter disporre a prescindere della componente parlamentare che ne ha consentito la formazione, in tal guisa il Governo diventa organo che proprio sul terreno della normazione finisce nei fatti per marginalizzare clamorosamente il ruolo degli organi parlamentari e ciò, va riconosciuto, anche per una dilagante passività degli sbiaditi gruppi di maggioranza. È storia “vecchia”, fatta non solo di abuso della decretazione d’urgenza ma anche di deleghe legislative pasticciate, di frequenti ricorsi a voti di fiducia richiesti in tutta fretta dal Presidente del Consiglio “suo malgrado”, di compressione dei dibattiti parlamentari (con l’assoluta connivenza degli stessi Presidenti di Assemblea “proni” a soddisfare richieste sempre emergenziali della contingente maggioranza), di deroghe procedurali allorché siano in corso di approvazione leggi urgenti e indefettibili (si pensi a quelle in materia economica e finanziaria). In sostanza è la storia del declino della centralità del Parlamento e, per quel che ci riguarda, del progressivo arretramento della legge ordinaria dal centro della scena riservata alle norme primarie sub-costituzionali nel sistema delle fonti.
3. La perdurante perniciosa sottovalutazione della legge quale mezzo più appropriato anche per reagire all’emergenza del coronavirus
Cosa c’è di nuovo dunque nell’adozione di atti normativi di origine governativa destinati a contrastare la diffusione del contagio da coronavirus attraverso le restrizioni della libertà individuale - a partire ovviamente da quella di muoversi liberamente – così da favorire il c.d. distanziamento sociale imposto dallo “stare in casa” (e cioè nel luogo ove si è di fatto domiciliati e senza avere la possibilità di scegliere con chi stare e dove trascorre la eventuale quarantena obbligatoria)? Lasciando, almeno in questa occasione, sullo sfondo la pur rilevante questione del rapporto, di certo allo stato di evidente e poco produttiva contrapposizione, tra Stato e Regioni in particolare quelle che possono essere considerate a tutti gli effetti “zone rosse” (che ha investito in pieno l’esercizio concorrenziale dell’attività normativa secondaria per riempire i “vuoti” lasciati volutamente e sciattamente dai decreti legge: sono in effetti balzati all’onore della cronaca le ordinanze dei Presidenti di Regione, eletti direttamente nei rispettivi territori e perciò oltremodo stimolati a far da sé, prescindendo dall’adozione di atti collegiali tanto della Giunta quanto dello stesso Consiglio, secondo le ordinarie norme statutarie), mi pare che, restando a livello statuale, si possa guardare in effetti con una certa apprensione al “metodo” seguito per introdurre nell’ordinamento le note restrizioni di merito alle libertà personali. Per restare al merito, mi limito a sostenere che francamente non appare “compromessa” la sola libertà di circolazione e soggiorno ai sensi dell’art.16 Cost., ancorché nessuno possa evidentemente dirsi di trovarsi in uno stato di detenzione nel domicilio dove soggiorna: la misura afflittiva tuttavia incide più incisivamente nei confronti di alcuni soggetti rispetto ad altri a seconda delle caratteristiche dell’abitazione nella quale si è collocati, della stessa numerosità del nucleo familiare nel quale si è ricompresi nonchè delle condizioni ambientali che possono decisamente variare da caso a caso. Considero in ogni caso davvero deprecabile sotto il profilo istituzionale, a prescindere dalla volontà governativa, l’autoesclusione delle Camere dal pieno esercizio della loro decisiva funzione di produzione normativa che l’emergenza sanitaria ha reso ulteriormente evidente: il Parlamento non credo possa ridursi in circostanze come queste a convertire scarni decreti legge, lasciando alla sola Corte costituzionale (e, in verità, anche al Capo dello Stato) il compito di valutare la legittimità dei presupposti costituzionali di atti che, in ogni caso, una volta emanati divengono produttivi di effetti giuridici vincolanti almeno sino a che non vengono annullati (certo anche dal giudice amministrativo nel caso si tratti dei richiamati, consequenziali DPCM) o comunque superati da nuove disposizioni che oltretutto si susseguono giorno dopo giorno, francamente non si sa quanto sensatamente. Né si dica, almeno spero, che il silenzio degli organi parlamentari si spiega con l’opportunità di assicurare distanziamento sociale ai deputati e ai senatori, i quali ben potrebbero frequentare con continuità e le cautele del caso le sedi dove svolgere la loro (sembrerebbe) essenziale attività di rappresentanza del corpo elettorale sovrano!
La deliberazione legislativa non è solo richiesta negli ordinamenti democratici, quale che sia la loro forma di governo, perché consente un confronto dialettico alla luce del sole tra contrapposti gruppi e personalità politiche ma perché avviene seguendo per solito un metodo che conduce, passo dopo passo, disposizione dopo disposizione, ad un testo normativo che giovandosi della ricchezza del confronto politico aperto e degli apporti che in virtù di questo ne scaturiscono, dovrebbe rappresentare una risposta meditata e meglio articolata rispetto alle questioni da affrontate inclusa, a mio avviso, l’epidemia che da qualche mese occupa la nostra esistenza e a maggior ragione quella di chi riveste ruoli istituzionali. Si può ancora ragionare in questi termini parlando dello spazio da riconoscere alla legge e al confronto politico-parlamentare nell’ordinamento italiano? O si è arrivati al punto da considerare salvifico e opportuno, ancor prima che legittimo, il compito che viene assolto dal Presidente del Consiglio cui si delega buona parte della normativa emergenziale da adottare per fronteggiare la pandemia? A me non pare possibile che l’emergenza sanitaria (che pure suggerisce senz’altro l’adozione di misure afflittive di non poco momento per la Comunità) induca a passare senza troppi impicci (che non siano quelli di attivare “consulenze tecniche “ a iosa cui riferirsi per spiegare e giustificare il senso delle misure adottate e da adottare), dalla anomala decretazione di principio ad un’alluvionale produzione di tipo integrativo-attuativo, di atti del Presidente del Consiglio, annunciati (neppure spiegati una volta assunti), con toni forbiti che però difficilmente inducono all’ottimismo e alla fiducia per il tempo che verrà, nella forma di “discorso alla Nazione” che, a dirla tutta, sarebbe più evocativo lasciare, qualora propria si debba, al Capo dello Stato che resta l’unico simbolo dell’unità nazionale alla quale si vorrebbe inneggiare per rinsaldare il vincolo comunitario nella difficoltà del presente. Trovo perciò sorprendente come non si sia neppure ritenuto opportuno, per dare attuazione alle scarne disposizione dei decreti legge, ricorrere alla fonte normativa secondaria per eccellenza sicuramente contemplata nell’ordinamento costituzionale, vale a dire i regolamenti governativi deliberati, come è noto, dal Consiglio dei ministri previo parere del Consiglio di Stato ed emanati dal Presidente della Repubblica, così da attenuare, entro certi limiti, con misure formalmente più appropriate la sovraesposizione normativa cui si presta non si sa bene perchè il Presidente del Consiglio. Quel che temo, in conclusione, è che se la “gestione” dell’emergenza sanitaria in atto con le richiamate modalità fosse considerata l’unica strada possibile a disposizione nell’ordinamento per salvaguardare, con possibilità di riuscita, la salute pubblica e per poter confidare di ritornare ad una nuova espansione delle nostre libertà e ad una vita di relazioni sociali accettabile, avremo ancora una volta offerto più di qualche argomento a chi da tempo e ancora adesso considera inadeguata la parte organizzativa della nostra Costituzione e in particolare a chi guarda alla funzione parlamentare come ad un’attività da ripensare in chiave ancillare rispetto alle altre funzioni sovrane (si pensi alla stessa implementazione delle forme di decisioni direttamente affidate al corpo elettorale), superando una volta per tutte quanto stabilito dalle vigenti disposizioni, già “travolte” dai fatti. Sarebbe, almeno per quel mi riguarda, l’ulteriore indesiderabile effetto collaterale conseguente al virus inopinatamente penetrato nella nostra vita e inevitabilmente nel nostro ordinamento costituzionale.