Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

La gestione delle risorse dell’ufficio giudiziario e i rapporti tra Capo dell’ufficio giudiziario e dirigente amministrativo

di Massimo Orlando
Presidente del Tribunale di Livorno
Una prima lettura della norma introdotta dalla Legge di stabilità che ha mutato profondamente i compiti del dirigente amministrativo in materia di gestione delle risorse materiali destinate all’ufficio

1. La recentissima novità normativa

L’art. 1, comma 435, della Legge di Stabilità 2020 (legge 27 dicembre 2019, n. 160) ha modificato le disposizioni del d.lgs 240/2006 relative, mutando profondamente i ai compiti del Dirigente amministrativo.

In particolare, l’art. 6, comma 1, del d.lgs 240/2006 (così come riformulato dalla legge di Stabilità 2020) dispone:

Il Ministero della giustizia, nell’ambito della dotazione organica come rideterminata ai sensi dell’articolo 7, esercita, con organi periferici di livello dirigenziale non generale, sulla base di programmi, indirizzi e direttive disposti dall’amministrazione centrale, le funzioni e i compiti in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia anche derivanti dal trasferimento delle competenze di cui all’articolo 1, comma 526, della legge 23 dicembre 2014, n. 190.”.

In pratica, al Dirigente amministrativo sono state attribuite tutte le funzioni in materia di gestione delle risorse materiali. Pertanto, a titolo esemplificativo:

  1. acquisti di beni e servizi per l’amministrazione periferica e gli uffici giudiziari; gestione delle risorse materiali, dei beni e servizi dell’amministrazione periferica e degli uffici giudiziari;
  2. attività connesse all’onere delle spese per la gestione degli uffici giudiziari a norma dell’articolo 1, secondo comma, della legge 24 aprile 1941, n. 352;
  3. predisposizione e attuazione dei programmi per l’acquisto, la costruzione, la permuta, la vendita, la ristrutturazione di beni immobili adibiti ad uffici giudiziari.

2. Excursus “storico”

L’intervento legislativo prende le mosse da un documento, sottoscritto da molti presidenti di Tribunale e inviato al Csm, al Ministero della Giustizia e alla Anm a febbraio/marzo 2019, in cui (in sintesi) si chiedeva:

  1. di attuare compiutamente l’art. 3, comma 2, d.lgs 240/2006 (che prevede la competenza del dirigente amministrativo ad adottare atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno);
  2. di specificare che il capo dell’ufficio giudiziario non è il sostituto del dirigente amministrativo, ad esempio per il caso di mancata copertura del posto o di mancata previsione in pianta organica;
  3. di provvedere alla dotazione, anche provvisoria, di tutti gli uffici giudiziari di un vertice gestionale amministrativo;
  4. di prendere atto che il capo dell’ufficio giudiziario non può essere ritenuto datore di lavoro, perché non ha i poteri di gestione (che spettano invece al dirigente amministrativo)
  5. analogamente, di stabilire che il presidente del Tribunale non è datore di lavoro né con riferimento all’Ufficio del giudice di pace né per quanto riguarda gli uffici Nep, non avendo neanche in questo caso alcun potere decisionale e di spesa.

 Nella parte finale del documento, inoltre, i presidenti di Tribunale lamentavano la inefficienza del Provveditorato delle Opere Pubbliche, anche per opere essenziali per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro e finanziate con estrema tempestività dal Ministero della Giustizia.

In particolare, è stata denunciata la esasperante lentezza con cui il Provveditorato svolge i suoi compiti (nomina del progettista, affidamento dell’incarico, approvazione del progetto, svolgimento della gara per individuare l’impresa a cui affidare l’esecuzione dei lavori, collaudo, ecc.), con grave rischio per l’incolumità di lavoratori e utenti degli uffici giudiziari.

La parte del documento relativa ai rapporti col Provveditorato si concludeva con l’individuazione di alcune ipotesi di soluzione (dalla mera individuazione di opere da trattare con priorità, all’espletamento diretto di tutte le procedure da parte del Ministero della Giustizia).

Con riferimento ai rapporti tra presidente del Tribunale e dirigente amministrativo, la Anm, nel comunicato del 18 maggio 2019 redatto a seguito dell’audizione di alcuni presidenti che avevano firmato il documento, ha affermato di ritenere necessaria una pronta soluzione alle “incertezze interpretative … nel rapporto tra le due dirigenze, rapporto che va improntato, pur in difetto di vincolo di gerarchia, al prevalente rilievo delle esigenze dell’attività giudiziaria rispetto alle quali quella amministrativa è di supporto”.

3. Cenni sulla genesi della norma

La norma citata, contenuta nella Legge di Stabilità 2020 appena approvata, prevede che il Ministero della giustizia “esercita, con organi periferici di livello dirigenziale non generale, sulla base di programmi, indirizzi e direttive disposti dall’amministrazione centrale, le funzioni e i compiti in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi”.

La disposizione è diretta ad attuare l’art. 110 Cost., tant’è che ne riporta il tenore testuale.

Temo, tuttavia, che le modalità con cui è stata elaborata e approvata possa comprometterne l’efficacia e, soprattutto, che sia fonte di problemi organizzativi di non poco conto.

La genesi della norma, introdotta con un emendamento alla Legge di Stabilità, ha impedito di chiedere un parere al Csm, a norma dell’art. 10, terzo comma, legge 195/1958.

Va tuttavia rammentato che, prima di formulare la norma oggetto di questo commento, il Ministero ha promosso nel 2019 un tavolo di confronto, al quale hanno partecipato alcuni Presidenti di Corte, alcuni Procuratori generali e alcuni dirigenti amministrativi.

Nel corso di questo confronto era stato posto, da alcuni partecipanti, il problema dei rapporti tra capo dell’ufficio giudiziario e dirigente amministrativo.

Ebbene, questo problema è stato semplicemente accantonato dal legislatore, che ha scelto di non occuparsene affatto. 

4. Verifica della effettiva portata innovativa della norma

Non è affatto sicuro che la norma legislativa introdotta con la Legge di Stabilità 2020 abbia una effettiva portata innovativa.

Posto che essa stabilisce che il Ministero svolge “le funzioni e i compiti in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi” medianteorgani periferici di livello dirigenziale non generale”, va osservato che il dpr 133/2015 già prevede (all’art. 3, comma 5) che i dirigenti amministrativi:

“a) svolgono le attività necessarie all’esecuzione delle delibere della Conferenza permanente;
b) vigilano, per conto della Conferenza permanente, sulla corretta esecuzione delle prestazioni conseguenti alla stipula dei contratti relativi alle attività di cui all’articolo 4.”.

Tuttavia, lo stesso dpr 133/2015 prevede che il Ministero può “delegare ai capi degli uffici giudiziari le competenze relative alla formazione dei contratti necessari all’attuazione dei compiti di cui all’articolo 4, comma 1”.

Pertanto, posto che già la norma regolamentare del 2015 prevedeva da un lato che il dirigente amministrativo era tenuto ad eseguire le decisioni della Conferenza permanente e, dall’altro, che il Ministero aveva la possibilità (ma non certo l’obbligo) di delegare il Presidente del Tribunale (o il Procuratore della Repubblica o il Presidente della Corte o il Procuratore generale) a stipulare i contratti, è evidente che sarebbe bastato che la Direzione generale delle risorse non delegasse più la formazione dei contratti al Capo dell’ufficio.

Se ciò fosse stato fatto, ne sarebbe derivata la possibilità di delegare ai dirigenti amministrativi la stipula dei contratti, a norma dell’art.16, comma 1, lettera d), del d.lgs 165/2001, che dispone che il direttore generale “adotta gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri di spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti”.

Questa innovazione, che avrebbe potuto essere attuata in via meramente amministrativa, senza necessità di modificare nessuna norma (né regolamentare né tantomeno legislativa) avrebbe consentito di conseguire lo stesso effetto e cioè di attribuire al Ministero della giustizia e segnatamente alla Direzione generale delle risorse, la competenza ad adottare tutti gli atti amministrativi necessari per eseguire le decisioni della Conferenza permanente, sino all’atto finale (la stipula del contratto di fornitura dei beni e servizi).

Tanto premesso, occorre interrogarsi sulla effettiva portata innovativa della disposizione introdotta dalla legge di stabilità del 2020.

In particolare, indipendentemente dal fatto che la delega al dirigente amministrativo della competenza a stipulare i contratti avrebbe potuto essere adottata anche senza alcuna modifica legislativa, per capire se il reale obiettivo del Ministero è quello di estromettere del tutto il Capo dell’ufficio giudiziario dall’attività di gestione delle risorse strumentali, occorre attendere l’emissione di eventuali circolari esplicative.

È evidente che, se il Ministero continuerà a delegare la stipula dei contratti al Capo dell’ufficio, la situazione attuale rimarrà sostanzialmente immutata, perché l’obbligo di eseguire la delega attribuitagli dal Direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie gli imporrà di esercitare, nei confronti del personale amministrativo e quindi anche del dirigente amministrativo, una stringente attività di controllo e di impulso.

Se, invece, il Ministero intenderà delegare i dirigenti amministrativi anche per la stipula dei contratti, emergeranno in breve tempo alcune problematiche tipiche di ogni caso in cui il vertice non è unico, ma duplice.

Di seguito esporrò alcune riflessioni su questo tema. 

5. Necessità di alcuni chiarimenti e modifiche

5.1 Datore di lavoro

Il DM 12 febbraio 2002, all’art. 1, comma 1, lettera g), attribuisce al Capo dell’ufficio la qualifica di datore di lavoro.

Con regolamento ministeriale (decreto del Ministro della Giustizia n. 201 del 18 novembre 2014) sono state adottate specifiche disposizioni per disciplinare l’organizzazione e le attività dirette ad assicurare la tutela della salute e sicurezza del personale operante negli ambienti di lavoro dell’Amministrazione della giustizia, “tenuto conto delle particolari esigenze connesse ai servizi istituzionali espletati e alle specifiche peculiarità organizzative e strutturali delle strutture giudiziarie e penitenziarie”.

Ci si deve chiedere se siano ancora attuali le disposizioni (amministrative: DM 12.02.2002; e regolamentari: DM 18.11.2014) che prevedono che il datore di lavoro sia il capo dell’ufficio giudiziario.

L’art. 2 d.lgs 81/2008 così definisce il datore di lavoro:

il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”.

Pertanto, nel caso degli uffici giudiziari, che appartengono all’amministrazione centrale del Ministero della Giustizia e quindi rientra nelle amministrazioni pubbliche definite dall’art. 1, comma 2, d.lgs 165/2001, il datore di lavoro è “il dirigente al quale spettano i poteri di gestione”.

Nel documento sottoscritto da numerosi presidenti di Tribunale ed inviato nella primavera del 2019 al Ministero, al Csm e alla Anm, è stata affermata la tesi per cui la qualifica di datore di lavoro non può essere attribuita al capo dell’ufficio bensì al dirigente amministrativo, “al quale spettano i poteri di gestione (dei servizi amministrativi e delle risorse finanziarie e strumentali, con competenza ad adottare atti di spesa che impegnano l’amministrazione verso l’esterno).”.

In realtà, fino al 31 dicembre 2019 (cioè, prima che intervenisse la legge di stabilità del 2020, che ha introdotto le norme oggetto di questo commento) il dirigente amministrativo aveva certamente solo l’obbligo di eseguire le decisioni assunte dalla Conferenza permanente.

Come si è visto al § 4, anche dopo la novità legislativa introdotta dalla suddetta legge di stabilità, il dirigente amministrativo non ha un potere autonomo di decidere gli interventi da svolgere, ma deve pur sempre eseguire le attività stabilite dalla Conferenza permanente.

È quindi necessario un atto amministrativo o regolamentare che stabilisca chi ha la qualifica di datore di lavoro, con tutte le conseguenti responsabilità civili e penali di cui al d.lgs 81/2008 e i poteri necessari per individuare gli interventi necessari per assicurare la sicurezza dei luoghi di lavoro.

A tal proposito, è opportuno rammentare che a norma dell’art. 16, comma 1, d.lgs 81/2008

La delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:

a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;

b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;

c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;

d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;

e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.”.

Per quanto riguarda il potere di spesa, va evidenziato che l’art. 34 quater legge 196/2009 dispone:

Le Amministrazioni centrali provvedono a ripartire, in tutto o in parte, le somme stanziate sui singoli capitoli di spesa tra i propri Uffici periferici per l’esercizio delle funzioni attribuite agli stessi da specifiche disposizioni di legge o regolamento, nonché per l’espletamento delle attività ad essi decentrate dagli Uffici centrali. Le somme assegnate con le predette ripartizioni sono equiparate agli stanziamenti di bilancio a tutti gli effetti.”.

Pertanto, il decreto ministeriale o il regolamento che dovrà auspicabilmente intervenire, dovrebbe chiarire:

  1. a chi spetta la qualifica di datore di lavoro (capo dell’ufficio giudiziario o dirigente amministrativo);
  2. se gli interventi diretti ad assicurare la sicurezza e la salubrità dei luoghi di lavoro, nei limiti delle somme stanziate dal Ministero all’inizio dell’anno (e, segnatamente, dell’importo di € 5.000,00 per ciascuna opera), devono necessariamente e preventivamente essere deliberati dalla Conferenza permanente o, invece, possono essere decisi dal datore di lavoro;
  3. se, invece, per gli interventi diretti ad assicurare la sicurezza e la salubrità dei luoghi di lavoro ma per i quali occorre uno specifico stanziamento di fondi (perchè superiori a € 5.000,00), la qualifica di datore di lavoro spetta al ministero, fino a quando la somma occorrente non è stata stanziata.

5.2  Ufficio del Giudice di pace e Unep

È opportuno che il Ministero chiarisca se il Capo dell’ufficio giudiziario la qualifica di datore di lavoro per l’Ufficio del Giudice di Pace e per l’Unep, atteso che il dirigente amministrativo non ha mai svolto alcun compito per questi uffici.

Inoltre, va chiarito se i compiti di manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, attribuiti (con le precisazioni sviluppate al § 4 che precede) al dirigente amministrativo, riguardano anche i predetti Uffici. 

6. Spunti di riflessione e suggerimenti operativi

Ipotizzando che la novità legislativa privi il Capo dell’ufficio giudiziario da qualsiasi possibilità di “ingerenza” nell’attività di gestione delle risorse strumentali, ho cercato di prefigurarmi alcune difficoltà operative che l’attribuzione di ogni potere gestorio al dirigente amministrativo potrà creare.

Credo che si possa tutti convenire sul fatto che il servizio giustizia è reso dai magistrati, che la cancelleria è una parte essenziale di tale servizio e che tutte le attività devono essere funzionali a fornire una risposta efficiente alla domanda di giustizia.

Ciò posto, espongo di seguito alcuni spunti di riflessione e alcuni suggerimenti operativi, nella speranza che possano risultare di qualche utilità.

6.1 Programmazione delle attività necessarie per la minuta manutenzione e per la minuta gestione

Il DPR 133/2015, che disciplina i compiti della Conferenza permanente, prevede che essa “individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici.” (art. 4, comma 1, dpr 133/2015).

Pertanto, quando (all’inizio di febbraio) il Presidente della Corte invierà la richiesta di indicare il fabbisogno per l’anno corrente per la gestione degli immobili, è opportuno convocare la Conferenza permanente perché individui gli interventi da realizzare, nel modo più dettagliato possibile.

Il dirigente amministrativo sarà tenuto ad eseguire quanto deliberato dalla Conferenza permanente.

Anche prima della modifica legislativa oggetto del presente commento, quest’obbligo era già previsto dall’art. 3, comma 5, lettera a), del DPR 133/2015 norma che, a sua volta, deriva direttamente dalla disposizione di rango legislativo di cui all’art. 3, comma 2, d.lgs 240/2006, che attribuisce al dirigente amministrativo la competenza ad “adottare atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, anche nel caso in cui comportino oneri di spesa”.

Pertanto, da questo punto di vista nulla è cambiato.

Il dirigente amministrativo era già l’organo tenuto ad eseguire le decisioni della Conferenza permanente.

L’unica vera novità, che è stata introdotta dalla legge di stabilità 2020 all’art. 6, comma 2, d.lgs 2407206 consiste nel fatto che il dirigente amministrativo svolge altresì “attività di raccordo con le amministrazioni competenti per la realizzazione di interventi in materia di edilizia giudiziaria.”.

In pratica, egli deve – principalmente – curare i rapporti con il Provveditorato alle Opere Pubbliche e con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio (oltre che, ovviamente, col Ministero della Giustizia).

6.2 Indicazioni sulle modalità di esecuzione degli interventi deliberati dalla Conferenza permanente

In taluni uffici, può essere necessario fornire indicazioni su come il dirigente amministrativo deve eseguire quanto deliberato dalla Conferenza permanente.

È indubbio che una parte dell’attività di minuta manutenzione ordinaria e, soprattutto, di amministrazione straordinaria degli immobili, richiede un’importante cooperazione con altre istituzioni.

In particolare (elencazione non certo esaustiva):

  • il Ministero della Giustizia, Direzione generale delle risorse, per quanto riguarda i finanziamenti;
  • il Provveditorato per le Opere Pubbliche, per quel che concerne la realizzazione dei progetti e l’espletamento delle gare per l’individuazione delle imprese a cui affidare i progetti;
  • la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio, quando gli edifici sono sottoposti a vincolo storico.

Ciò che è assolutamente necessario evitare è che, come diretta conseguenza dell’elevazione a rango legislativo di compiti che già erano previsti da disposizioni di natura regolamentare, in alcuni casi specifici o, più in generale, che alcuni dirigenti amministrativi, assumano un approccio meramente burocratico ai propri compiti.

In altri termini: ci si potrà accontentare, anche ai fini della valutazione annuale del dirigente amministrativo (che spetta al presidente del tribunale), che il primo dimostri di aver semplicemente inoltrato richieste ai vari enti?

Ad esempio, richieste di finanziamento, di nomina del progettista o di espletamento delle gare; o di formulazione della prescritta autorizzazione ad eseguire interventi sugli immobili vincolati)?

Oppure: ci si potrà accontentare che il dirigente amministrativo dimostri di aver reiterato, anche più volte, le dette istanze?

Secondo me, no. Pur non potendo addossare al dirigente amministrativo una sorta di responsabilità per inerzia altrui e sebbene non possa, analogamente, configurarsi una obbligazione di risultato, occorre però prevenire il rischio di un approccio meramente burocratico.

Pertanto, occorre valutare la possibilità di prevedere ex ante, in modo che il dirigente amministrativo sia adeguatamente preavvertito, che – affinchè i deliberati della Conferenza permanente possano essere considerati eseguiti – il dirigente deve ottenere una risposta da parte dell’istituzione interpellata, sia essa positiva o negativa.

Analogamente, per evitare il rischio che risposte meramente interlocutorie possano riverberarsi in danno del dirigente amministrativo, al momento della sua valutazione, va evidenziata l’opportunità che tutte le iniziative siano compiute il più sollecitamente possibile, al fine di consentire alle istituzioni pubbliche di fornire una risposta definitiva (auspicabilmente positiva o comunque negativa) prima del 31 dicembre dell’anno in corso.

Dove inserire queste indicazioni al dirigente amministrativo, al fine di orientare la sua azione in un’ottica di risultato e non vacuamente burocratica?

Tre sono gli atti che possono essere a tal fine utilizzati.

 1. Conferenza permanente

In primo luogo, credo che la stessa Conferenza permanente, quando individua gli interventi che devono essere eseguiti da parte del dirigente amministrativo, ben può indicare le modalità di esecuzione e, quindi, in particolare, la stringente esortazione ad adottare un approccio finalizzato a conseguire il risultato e non meramente burocratico.

La segnalazione da parte della Conferenza di questa necessità sarà ovviamente un importante criterio per il presidente del Tribunale, quando dovrà valutare l’operato del dirigente amministrativo.

2. Programma delle attività annuali:

L’art. 4 d.lgs 240/2006 dispone che “non oltre il 15 febbraio di ciascun anno, il magistrato capo dell’ufficio giudiziario ed il dirigente amministrativo ad esso preposto redigono, tenendo conto delle risorse disponibili ed indicando le priorità, il programma delle attività da svolgersi nel corso dell’anno. Il programma può essere modificato, durante l’anno, su concorde iniziativa del magistrato capo e del dirigente, per sopravvenute esigenze dell’ufficio giudiziario.”.

Pertanto, il programma delle attività annuali può servire a stabilire le modalità di esecuzione degli interventi di manutenzione (minuta e straordinaria) e di minuta gestione, individuati dalla Conferenza permanente.

 3. Atto di indirizzo:

In alternativa al programma delle attività annuali, si può utilizzare l’atto di indirizzo.

È noto che l’art. 2 d.lgs 240/2006 prevede che il dirigente amministrativo deve gestire le risorse umane “in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell’ufficio e con il programma annuale delle attività di cui all’articolo 4.”.

Questa disposizione, che consente al presidente del Tribunale di impartire al dirigente le linee generali sulla base delle quali questi dovrà gestire le risorse umane, potrebbe (forse) essere utilizzata anche per la gestione delle risorse strumentali.

6.3 Modalità di controllo

Si pone poi il problema della possibilità di esercitare sul dirigente amministrativo una forma di controllo costante, cioè nel corso dell’anno e non solo a valle, al momento della valutazione dei risultati conseguiti dal dirigente amministrativo.

L’esigenza ovviamente è quella di evitare che eventuali inefficienze del dirigente amministrativo si possano riverberare sulla funzionalità dell’ufficio giudiziario o, ancora peggio, sull’immagine dello stesso.

Immaginiamo le polemiche che potrebbero derivare se, d’estate, l’impianto di condizionamento dà forfait e il dirigente amministrativo si dovesse dimostrare incapace di risolvere la situazione, con la necessaria tempestività ed efficacia.

Questo esempio scaturisce da numerose, concrete e quotidiane esperienze, che insegnano che per risolvere i problemi gestionali è necessario un mix di fantasia organizzativa e di capacità di individuare le persone con cui è necessario interloquire, al fine di redigere le istanze in modo tale che possano essere accolte senza intoppi.

Se in un ufficio giudiziario si dovessero verificare simili, gravi problemi alla salubrità e alla sicurezza dei luoghi di lavoro, cosa può fare il presidente del Tribunale, qualora gli atti posti in essere dal dirigente amministrativo dovessero sembrare già ex ante inidonei a risolverli?

In altri termini: se il dirigente amministrativo si dovesse limitare a inoltrare una semplice richiesta di stanziamento delle risorse finanziarie, senza attivarsi efficacemente per sollecitarne l’accoglimento, il presidente del Tribunale ha il potere e/o il dovere per intervenire tempestivamente, senza cioè attendere il momento della formulazione della valutazione del dirigente amministrativo stesso?

La gravità delle conseguenze che possono avere eventuali inerzie o inefficienze del dirigente amministrativo è indubbia.

Non solo sul piano oggettivo della sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro, ma anche sulla efficienza del servizio giustizia, sull’immagine dell’ufficio giudiziario, sulla fiducia dei cittadini e, non ultimo, sulla autonomia e indipendenza della magistratura, perché è elevato il rischio che, in sede di conferma del singolo capo dell’ufficio, siano considerati in negativo anche inefficienze che hanno origine da carenze del dirigente amministrativo.

Va inoltre considerato che già a norma del dpr 133/2015 il dirigente amministrativo ha l’obbligo di riferire al presidente della Conferenza permanente (quindi, al presidente della Corte o al presidente del Tribunale) l’attività svolta per eseguire i compiti assegnati dalla Conferenza stessa (art. 3, comma 5, lettera c), dpr 133/2015).

Questo rapporto funzionale tra presidente della Conferenza permanente si spiega proprio con il potere/dovere del presidente di esercitare una costante attività di vigilanza sul dirigente amministrativo.

Pertanto, dando per scontato che tra i poteri/doveri del capo dell’ufficio rientra anche il compito di prevenire gravi problemi organizzativi che possano riverberarsi o sull’efficienza della risposta giurisdizionale dell’ufficio o sulla sua immagine, cosa può fare il presidente del Tribunale?

Ha la possibilità di agire egli stesso in via sostitutiva?

È noto che il Csm, nella delibera del 14 giugno 2017, ha affermato che il capo dell’ufficio e il dirigente amministrativo costituiscono “due centri di responsabilità all’interno dello stesso ufficio” e che pertanto si deve escludere “che i poteri di indirizzo riconosciuti al magistrato capo dell’ufficio si traducano in un rapporto di gerarchia verticale tra le due figure dirigenziali”.

Da questa (condivisibile) ricostruzione del Consiglio dell’attuale assetto normativo deriva che non si può riconoscere alcun potere sostitutivo del presidente del Tribunale.

Può il presidente del Tribunale chiedere al Ministero di agire in via sostitutiva?

A questa seconda domanda può, secondo me, fornirsi risposta affermativa.

Infatti, l’art. 16, comma 1, lettera e), d.lgs 165/2001 attribuisce al direttore generale il potere di dirigere, coordinare e controllare “l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con potere sostitutivo in caso di inerzia”.

Inoltre, ai sensi dell’art. 21 d.lgs 165/2001, il Direttore generale del personale può anche revocare l’incarico.

Pertanto, è auspicabile un intervento del Consiglio superiore della magistratura che individui i casi in cui il Capo dell’ufficio giudiziario ha il potere/dovere di intervenire, chiedendo al Direttore generale del personale e della formazione del Ministero della Giustizia di intervenire in via sostitutiva e/o di revocare l’incarico al dirigente amministrativo.

Se la norma introdotta con la Legge di Stabilità 2020 fosse stata adeguatamente soppesata, previo confronto con il Consiglio (a norma dell’art. 10, terzo comma, legge 195/1958), questa sarebbe stata l’occasione per risolvere il problema che il Csm aveva evidenziato nella già citata delibera del 14 giugno 2017 e, cioè, l’assenza di strumenti di natura gerarchica che consentano al presidente del Tribunale di annullare gli atti del dirigente amministrativo o di provvedere in sua sostituzione.

L’iniziativa del Consiglio per individuare le fattispecie in cui il presidente del Tribunale può/deve chiedere l’intervento in via sostitutiva del Direttore generale del personale o, nei casi più gravi, la revoca del dirigente amministrativo è essenziale, se si considera il grave rischio di delegittimazione che dovesse derivare dal rigetto, da parte del Ministero, della richiesta formulata dal presidente del Tribunale.

È pertanto necessario:

  1. che si stabilisca che il presidente del Tribunale ha l’obbligo di esercitare un controllo costante e preventivo dell’attività del dirigente amministrativo; va cioè affermato che non è sufficiente il solo momento della valutazione della performance (d.lgs 15/2009), perché essa interviene quando eventuali danni all’efficienza e all’immagine si sono già, irreparabilmente, verificati;
  2. che si individuino, con ragionevolezza ma anche con chiarezza, le fattispecie in cui il presidente del Tribunale può chiedere al Ministero l’intervento in via sostitutiva e, nei casi più gravi, la revoca del dirigente amministrativo inadempiente.

7. Superamento di eventuali situazioni di stallo

Occorre inoltre chiedersi come si possa superare la situazione di stallo che dovesse crearsi tra Capo dell’ufficio e dirigente amministrativo.

In realtà, per quanto riguarda gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di gestione degli immobili, ogni problema troverà una idonea composizione nell’ambito della Conferenza permanente, sia con riferimento ai lavori da svolgere, che con riguardo ai criteri di priorità. 

La necessità di trovare una soluzione a eventuali situazioni di contrasto insanabile tra capo dell’ufficio e dirigente amministrativo riguarda invece la gestione del personale.

Tuttavia, anche in questo caso la situazione può essere rinvenuta nelle norme già esistenti.

Infatti, l’art. 2 d.lgs 240/2006, proprio su questo tema, attribuisce al presidente del Tribunale lo strumento dell’atto di indirizzo.

Pertanto, se il presidente del Tribunale vuole perseguire un determinato obiettivo nella direzione del suo ufficio giudiziario, può adottare un atto di indirizzo in cui, ad esempio, stabilire che un settore giurisdizionale deve essere potenziato.

Qual è il livello di specificità dell’atto di indirizzo?

È chiaro che l’atto di indirizzo non può essere talmente specifico da configurare un vero e proprio ordine di servizio, che rimane di competenza del dirigente amministrativo.

Ma, d’altra parte, non può neanche essere talmente generico da consentirne la sostanziale elusione.

Pertanto, in via esemplificativa, se il presidente del tribunale richiede il potenziamento del settore penale, il presidente del tribunale può certamente indicare il numero di dipendenti amministrativi da spostare dal settore civile a quello penale e può, inoltre, stabilire che si deve trattare di persone di comprovata esperienza e serietà professionale.

14/01/2020
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07/12/2024
Il caso della consigliera Rosanna Natoli. E’ venuto il momento del diritto?

Se nella vicenda della consigliera Rosanna Natoli l’etica, almeno sino ad ora, si è rivelata imbelle e se gran parte della stampa e della politica hanno scelto il disinteresse e l’indifferenza preferendo voltarsi dall’altra parte di fronte allo scandalo cha ha coinvolto un membro laico del Consiglio, è al diritto che occorre guardare per dare una dignitosa soluzione istituzionale al caso, clamoroso e senza precedenti, dell’inquinamento della giustizia disciplinare. L’organo di governo autonomo della magistratura può infatti decidere di agire in autotutela, sospendendo il consigliere sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo, come previsto dall’art. 37 della legge n. 195 del 1958, contenente norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. Questa peculiare forma di sospensione “facoltativa” può essere adottata con garanzie procedurali particolarmente forti per il singolo consigliere - la votazione a scrutinio segreto e un quorum deliberativo di due terzi dei componenti del Consiglio – ed è regolata da una normativa speciale, non abrogata né in alcun modo incisa dalle recenti disposizioni della riforma Cartabia che mirano a garantire il cittadino da effetti civili o amministrativi pregiudizievoli riconducibili al solo dato della iscrizione nel registro degli indagati. Le questioni poste dal caso Natoli sono troppo gravi e serie per farne materia di cavilli e di vuote suggestioni e per tutti i membri del Consiglio Superiore è venuto il momento dell’assunzione di responsabilità. Essi sono chiamati a decidere se tutelare l’immagine e la funzionalità dell’organo di governo autonomo o se scegliere di rimanere inerti, accettando che i fatti già noti sul caso Natoli e quelli che potranno emergere nel prossimo futuro pongano una pesantissima ipoteca sulla credibilità e sull’efficienza dell’attività del Consiglio Superiore. 

02/09/2024
L’imparzialità dei giudici e della giustizia in Francia…in un mondo dove gravitano i diritti fondamentali

Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.
Pubblichiamo il contributo nella versione italiana e nella versione originale francese. 

16/05/2024
L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista

Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono  sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se  l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni  l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità. 

04/05/2024
I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati

Certamente il lavoro del magistrato è molto impegnativo sul piano fisico, mentale e affettivo e vi sono situazioni - presenti, del resto, in tutte le professioni - in cui una certa vulnerabilità psichica può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività. Esse si risolvono con istituti già presenti nell’ordinamento come la “dispensa dal servizio” o il “collocamento in aspettativa d’ufficio per debolezza di mente o infermità”. Invece il progetto di introdurre test di valutazione psicoattitudinali per l’accesso alla funzione di magistrato è inopportuno sul piano del funzionamento democratico delle Istituzioni e inappropriato sul piano psicologico perché, da un lato, sposta l’attenzione dal funzionamento complessivo della Magistratura come istituzione all’“idoneità” del singolo soggetto e, dall’altra, non prende in considerazione il senso di responsabilità , la principale qualità che deve avere un magistrato e la sola che valorizza appieno la sua competenza e cultura giuridica. 

03/04/2024